Place des Vosges

Perfino oggi, dopo tanti anni, ci sono momenti in cui vi sembrerà di non credere ai vostri occhi, quando, pur vagando all’infinito nell’immenso quadrilatero chiamato place des Vosges, penserete di non trovare più l’uscita. Ovunque guardiate, questa Parigi in miniatura nel cuore della Parigi vecchia, forse lo scorcio di città più bello del pianeta, sembra voltare le spalle non solo al resto del mondo ma anche al resto della capitale. Entrate, e il tempo si ferma.

Di notte, quando place des Vosges si fa taciturna e il traffico si blocca, le arcate ai due ingressi sotto il Pavillion du Roi e quello de la Reine si fondono con l’oscurità, e altrettanto fanno le due anguste stradine laterali nascoste a nordest e a nordovest della piazza, cioè rue des Francs-Bourgeois e rue du Pas-de-la-Mule. Priva di vie d’uscita, o almeno così sembra, è impossibile non avere la sensazione di essere tornati nell’enclave secentesca autosufficiente e autonoma, proprio come quattrocento anni prima i fondatori della piazza avrebbero voluto essere rinchiusi in una Parigi ideata da loro, che avesse tutto il meglio di Parigi, che non era ancora stata inventata e di cui questo luogo era la promessa. Di recente è stata realizzata un’opera di ristrutturazione così favolosa che la piazza non è mai apparsa tanto bella negli ultimi tre secoli, e dà un’idea eloquente della Parigi immaginata dai suoi fondatori dell’Ancien Régime.

In place des Vosges quasi si può toccare con mano la Parigi che fu. A mezzanotte, uscendo dall’Ambroisie (al civico 9), uno dei ristoranti migliori e più cari della città, ospitato nel palazzo in cui soggiornò Luigi XIII per l’inaugurazione della piazza nel 1612, si entra non solo nella Parigi del Seicento, ma anche in una Parigi in cui Settecento e Ottocento sono sovrapposti a epoche precedenti e posteriori, con un effetto non meno ingannevole delle foto della Paris Vieux in cui Atget getta albuminosi toni seppia sulla Parigi del Ventunesimo secolo. Chissà, magari i passi che si sentono sotto i portici bui non appartengono a una persona in carne e ossa ma a un’ombra del passato, diciamo a Victor Hugo, che abitò al numero 6 tra il 1832 e il 1848, o al cardinale Richelieu, che due secoli prima viveva nel palazzo diametralmente opposto (al numero 21), o al farabutto di turno, che fa capolino in questa ricca enclave per terrorizzare le signore. Se vi voltate, potrebbe capitarvi di vedere di sfuggita il profilo della nota cortigiana Marion Delorme (al numero 11), diretta verso casa protetta dai portici; o del predicatore più illustre di Francia, Bossuet (al numero 17); o di Madame de Rambouillet (al numero 15), il cui salotto era il gotha della Francia del Seicento. Un tempo l’amante del cardinale Richelieu, adesso La Delorme era accompagnata dal cardinale de Retz, uno dei gigolò più devoti di Francia. Un altro habitué di place des Vosges, il turbolento antimonarca Retz, era stato l’amante sia di Marie-Charlotte de Balzac d’Entragues (al numero 23), sia della principessa di Guéméné (al numero 6).

Molte delle aristocratiche signore che abitavano nella piazza e nei suoi dintorni, al Marais, venivano definite précieuses, cioè donne che parlavano in modo eccessivamente ricercato e vanitoso, alla cui raffinata delicatezza di atteggiamenti e gusto non corrispondeva un senso della morale altrettanto raffinato. Spesso avevano diversi amanti, e la principessa di Guéméné non faceva eccezione. Era innamorata del riottoso conte di Montmorency-Boutteville, che era stato anche l’amante di Madame de Sablé (al numero 5) e che, a seguito di un terribile duel à six nel 1627 davanti al numero 21, residenza del cardinale Richelieu – era stato lui a trasformare il duello in un’offesa capitale in Francia –, venne catturato e decapitato. Stesso destino sarebbe toccato ad altri due amanti della principessa.

Non c’è nulla che illustri queste passioni incrociate, sovrapposte e a tratti simultanee meglio degli amori di un’altra précieuse, Marguerite de Béthune (al numero 18). Era la figlia del duca di Sully, il sovrintendente delle finanze di re Enrico IV, che diede un contributo decisivo alla progettazione di place des Vosges (il suo Hôtel de Sully è tuttora collegato alla piazza per mezzo di una minuscola porticina quasi invisibile al numero 7). Marguerite era stata l’amante sia del duca di Candrale (al numero 12) sia del marchese d’Aumont (al numero 13). Poiché i numeri pari sono posizionati a est rispetto al Pavillon du Roi, e i dispari a ovest, è lecito supporre che quando stava con uno riusciva comunque a pensare all’altro, se non addirittura a spiarlo.

Fin dalla sua costruzione, il solo pensiero di place des Vosges evoca all’istante immagini di grandi passioni e grandi intrighi. L’importanza che riveste la piazza nell’immaginario nazionale, al pari di Versailles, forse spiega perché la letteratura francese dal Seicento in avanti non è mai riuscita a scindere l’amore dal suo surrogato, il doppio gioco, né il corteggiamento dalla diplomazia, il tutto sottolineato dalle più crude e crudeli forme di interesse personale. Una simile ironia non sfuggiva a nessuno, e di certo non ai disillusi cortigiani della società précieuse.

Pochi di loro avevano qualcosa di gentile da dire sull’amore o sulle donne che amavano. A tale proposito le audaci e tempestose Mémoires del cardinale di Retz risultavano squisitamente viziose. (Della sua ex amante, Madame de Montbazon, scrisse: «Non ho mai conosciuto nessuno che, nei propri vizi, tenesse la virtù in così poco conto».) E tuttavia la sua opera è dedicata a una delle scrittrici più impegnate del mondo précieux, la sua cara amica Madame de Sévigné, nata al numero 1 di place des Vosges. La stessa Sévigné era intima amica della duchessa di Longueville, Madame de Sablé, del duca de La Rochefoucauld e di Madame de La Fayette, l’autrice del primo romanzo moderno, La principessa di Clèves. Per mostrare quanto fossero complessi e stretti i legami all’interno di questo mondo, basta ricordare che La Rochefoucauld aveva avuto una relazione, a quanto pare platonica, con Madame de La Fayette, ma di sicuro non con la duchessa di Longueville, da cui ebbe un figlio e per cui il disilluso e amareggiato duca probabilmente continuò a struggersi fino alla fine dei suoi giorni. Ritenuta una delle donne più belle dell’epoca, la duchessa dalla chioma dorata condusse una vita turbolenta quanto il cardinale di Retz: prima amante, poi guerriera e infine religiosa. Fu a causa dell’aspra contesa con la rivale, Madame de Montbazon, che nella piazza si tenne un altro duello, stavolta tra i discendenti delle famiglie Guise e Coligny. Forse gli uomini si erano cavallerescamente schierati ciascuno per una delle due donne, ma dopo circa un secolo di contese i Guise cattolici e i Coligny protestanti avevano accumulato abbastanza fiele per un altro duello. Coligny ci impiegò quasi cinque mesi a morire a seguito delle ferite riportate. Si dice che la duchessa di Longueville abbia osservato lo scontro dalle finestre dell’abitazione collocata al numero 18, residenza di Marguerite de Béthune, quella che aveva gli amanti dirimpettai. Il litigio tra le due ha il sapore di un romanzo infarcito di calunnie, cattiveria, gelosia e sdegno.

Diffondere calunnie era l’occupazione preferita dell’epoca, e l’arma prescelta era non tanto la spada quanto la scrittura: così si assisteva a un andirivieni di lettere depositate, intercettate, ricopiate, rubate e falsamente attribuite, in seguito alle quali, com’è inevitabile, si perdeva la reputazione e, con altrettanta frequenza, la vita – si veda il caso di Coligny – oppure si arrivava a una sommossa. A costo di un’eccessiva semplificazione, le tensioni si accumularono fino a raggiungere un livello tale che molti di quanti gravitavano attorno a place des Vosges nella prima metà del Seicento finirono per unirsi alla Fronda, la campagna aristocratica antimonarchica del 1648-1653. Fu l’ultima rivolta aristocratica contro il re, e Luigi XIV di certo non se la dimenticò. Per assicurarsi che l’aristocrazia non si sollevasse mai più contro di lui, fece in modo di trasferire quasi tutti i suoi membri a Versailles.

Come i celebrati residenti di place des Vosges, questa piazza rimane un esempio dei più capricciosi cambi d’idea di cittadina memoria. Chiamata inizialmente place Royale nel 1605, dopo la Rivoluzione nel 1792 diventò place des Fédérés; place de l’Indivisibilité nel 1793 e infine place des Vosges nel 1800, sotto Napoleone. Nel 1814, dopo la restaurazione della monarchia, riprese il proprio nome originario, ma poi lo riperse a favore di place des Vosges nel 1831. Dopo l’ennesima rivoluzione, tornò a essere place Royale nel 1852 e infine di nuovo place des Vosges nel 1870. La piazza traboccava di intellettuali, scrittori, aristocratici, salotti e cortigiane. Vide il passaggio di generazioni di complotti, rivalità e duelli, il più famoso dei quali fu quello del 1614, conosciuto come «la notte delle torce», tra il marchese di Rouillac e Philippe Hurault, entrambi spalleggiati dal proprio secondo, tutti con una spada in una mano e una torcia accesa nell’altra. Rimasero uccisi in tre; sopravvisse solo Rouillac, che da allora visse al civico numero 2.

Vengo in place des Vosges per convincermi che le appartengo, che questa potrebbe diventare casa mia. Parigi è una città troppo grande, e io ho troppo poco tempo per diventare suo cittadino a tutti gli effetti, ma questa piazza è l’ideale. Basta qualche giorno e mi sento subito a casa. Conosco ogni angolo, ogni ristorante, ogni fruttivendolo e libreria nei paraggi. Perfino le facce mi risultano familiari, e pure il repertorio degli intrattenitori di strada e dei talentuosi cantanti che si esibiscono sotto i portici al sabato: la coppia che canta duetti di Mozart, i ballerini di tango e foxtrot, l’ensemble barocco, il chitarrista jazz simile a Django e il cantante controtenore-finto castrato più lugubre che abbia mai sentito, ognuno dietro pile dei propri cd.

Per pranzo, ho finito per affezionarmi alla Mule du Pape in rue du Pas-de-la-Mule, a pochi passi dalla piazza: prezzi modici, insalate fresche, dessert eccellenti. E la mattina presto mi piace andare da Ma Bourgogne, nell’angolo nordovest della piazza, e fare colazione all’aperto, sotto i portici. Ci sono già stato tre volte, sono sempre tra i primi a sedersi. Anzi, forse mi daranno il mio solito tavolo, il cameriere sa già che mi piace il café crème con la baguette imburrata e la marmellata del giorno. Arrivo addirittura prima del fornaio. Mi siedo in quell’angolo della piazza vuota e guardo gli studenti attraversare lentamente il parco in diagonale, uno dopo l’altro, a volte a coppie o in gruppetti, ognuno con la pesante cartella o una valigetta in spalla. Me li vedo i miei figli a fare lo stesso. Sì, ci sta. Poi, proprio mentre inizio ad abituarmi alla piazza trasformandola nella mia casa – torte, insalate, prodotti freschi, baguette, marmellata, caffè – alzo gli occhi, scorgo l’imponente fila di padiglioni in mattoni rossi, con le grosse portefinestre e il tetto d’ardesia, e mi rendo conto che è il posto più bello di tutto il mondo civilizzato, come ho sempre saputo ma ero riuscito a dimenticare.

I parigini, naturalmente, lo sanno da sempre, e nel Seicento e Settecento sbaragliavano i dignitari stranieri scortandoli nella piazza prima di lasciarli al motivo della loro visita. Di sicuro restavano colpiti da qualcosa di addirittura più abbagliante e attraente della magnificenza o dell’architettura francesi. Perché place des Vosges non è magnifica come lo sono Versailles o il Louvre o il Palais-Royal. E i trentasei padiglioni identici, con il tetto di ardesia, i muri di mattoni rossi e le facciate di calcare una in fila all’altra, e i portici, o promenoirs, uniti tra loro che corrono lungo tutta la lunghezza dei quattro lati di una piazza non più grande di un qualsiasi isolato di Manhattan non si potrebbero chiamare un miracolo dell’architettura secentesca nemmeno compiendo un immane sforzo di immaginazione. Come per qualsiasi cour carrée, a colpire non è la singola unità, ma la sua ripetizione per ben trentasei volte, molte delle quali vantano un loro piccolo chiostro interno. È la simmetria della piazza ad ammaliare, non i segmenti presi di per sé, solo che qui la simmetria è proiettata su una scala così ampia che finisce per essere disorientante e umiliante quanto la funzione quadratica in Cartesio o il contrappunto in Bach. Se i francesi nutrono da sempre una particolare predilezione per i modelli cartesiani non è perché pensavano che la natura fosse suddivisa in quadranti, ma perché il loro desiderio di comprenderla, di contenerla e infine di spiegarla il meglio possibile li spingeva a suddividere tutto in coppie o unità di due. Tirare linee e dividere in quattro parti sarà anche una delle peggiori forme di esecuzione, ma la mania dei francesi per la simmetria ci ha regalato anche palazzi, giardini e la più spettacolare pianificazione urbanistica mai vista, oltre a una cosa che questo popolo custodisce da ben prima dell’Illuminismo e a cui ancora non riesce a rinunciare pur fingendo di provarci: la passione per la chiarezza.

È difficile immaginarsi qualcuno che abbia abitato a place des Vosges o nei paraggi durante la prima metà del Seicento e non abbia coltivato tale passione più delle altre. Perfino quando scrivevano dei loro amori, quasi sempre sventurati, burrascosi e profondamente tragici, i francesi dimostravano un grande buonsenso. Sentivano il bisogno di dissezionare ciò che provavano o ciò che si ricordavano di provare o ciò che temevano pensassero gli altri sui loro sentimenti. Erano intellettuali nel senso più puro, e forse volgare, del termine. Non che quanto vedessero fosse chiaro; di rado le passioni umane lo sono. Era il modo in cui esprimevano quanto vedevano a essere risoluto e lucido. Alla fine preferivano dissezionare fissazioni umane che non fare qualcosa per risolverle. Si spostavano da un salotto all’altro chiacchierando, e a place des Vosges era la cosa più naturale al mondo. In quasi ogni padiglione della piazza c’era una précieuse ansiosa di allestire il suo piccolo salotto, o rouelle, in camera da letto. È difficile dire se in quelle intime rouelles si parlasse o si agisse di più. Ciò che, invece, si sa con certezza è che fossero tutti maestri nel trovare ovunque occasioni per discutere. Insomma, intellettualizzavano ogni cosa.

Come già aveva fatto Cartesio nelle Passioni dell’anima, i francesi tracciavano il progresso dell’amore su un piano geometrico così terribilmente in equilibrio da sospettare che avessero bisogno di quei modelli per riuscire a contenere il loro caos interiore. Di mappe dell’amore come la carte de Tendre di Mademoiselle de Scudéry se ne trovano ancora in molti corniciai di Parigi che vendono poster. Non tardarono ad arrivare versioni ironiche e oscene della mappa della Scudéry, per certi versi giustificate. In una di esse, place Royale diventa la capitale indiscussa dell’amore civettuolo. Un’altra fu disegnata da Bussy-Rabutin, il cugino di Madame de Sévigné. Nulla spiega la differenza tra francesi e britannici meglio del fatto che mentre i primi erano impegnati a comporre la loro personale fiera delle vanità, al di là della Manica un puritano, tale John Bunyan, si apprestava ad affrontare un viaggio di natura totalmente diversa. Il viaggio del pellegrino di Bunyan uscì nello stesso anno della Principessa di Clèves di Madame de La Fayette: il primo vedeva il mondo in termini di bene e male, l’altro come una serie di capovolgimenti psicologici che riportano alla mente la mania dell’analisi analitica allora tanto di moda negli innumerevoli salotti di place des Vosges.

Questo stato di cose i francesi lo chiamavano préciosité. Era un modo per attribuire un appellativo negativo alla loro qualità migliore. Alla fine svilupparono un’opinione più elevata di se stessi e coniarono il termine classicismo. Comunque sia, per loro era diventata una fissazione, e non avrebbero mai più resistito alla tentazione di elencare i dubbi e chiamarli ognuno con il proprio nome: je ne sais quoi – letteralmente: e io che ne so. La cosa che amavano di più era proprio smascherare la verità con un bel je ne sais quoi. La fusione tra Cartesio e manierismo diede risultati incredibili.

Charles Le Brun, un ardente discepolo di Cartesio, rimane uno dei principali decoratori di place des Vosges. Spesso il suo stile viene considerato barocco; tuttavia pochi troverebbero da discutere sul fatto che, se esiste qualcosa di estraneo alla sensibilità barocca, è proprio il pensiero cartesiano. In place des Vosges il predominio dell’intelletto sull’eccesso si coglie alla prima occhiata. Restano ancora, tuttavia, segni evidenti di problemi sublimati. Forse il pianterreno e il primo e secondo piano di ogni padiglione erano un simbolo di armonia architettonica, costruiti in base a rigide direttive: non dovevano esserci deviazioni rispetto al modello preparato dai progettisti di re Enrico IV (probabilmente Androuet du Cerceau e Claude Chastillon), ma i lucernari ai piani alti non sono tutti uguali: costituiscono infatti una sorta di piccola insurrezione che ogni muratore cercò di muovere contro il progetto primario.

Enrico IV, che insisté molto per far costruire la piazza, rimane il re francese più amato: le bon roi o le vert galant (il galantuomo), com’è chiamato tradizionalmente, famoso per il suo ingegno, il buonumore, la rettitudine e un vigoroso appetito (in tutti i sensi). Ogni contadino francese dovrà avere un pollo in pentola tutte le domeniche, così diceva. Quando gli comunicarono che sarebbe diventato re di Francia a patto che si convertisse dal protestantesimo al cattolicesimo, non batté ciglio. Parigi, dichiarò, val bene una messa. Come per place Dauphine, la piazza cugina a Île-de-la-Cité, lo stile di place des Vosges è facilmente riconducibile al re buono: facciate di pietra e mattoni il cui stile, come la personalità di Enrico IV, è semplice, pratico, basilare, insomma ideale per tutti i tempi e le stagioni. Benché place des Vosges sia elegante e raffinata, tutt’altro che spoglia, non emana alcun senso di splendore eccessivo. E poi riflette lo spirito degli ufficiali, imprenditori e finanzieri d’alto rango a cui il re e il ministro delle Finanze, Sully, vendettero lotti di terra nel 1605 a condizione che ognuno di essi si costruisse una casa a proprie spese, seguendo un progetto predeterminato. Alcuni di loro erano ricchi fin dalla nascita; altri avevano accumulato vaste fortune e, senza dubbio, intendevano conservarle e ostentarle. Ma nemmeno loro, proprio come il re, desideravano essere troppo agghindati o appariscenti: la ricchezza non aveva dato loro alla testa. Queste forme di intossicazione, naturalmente, avrebbero colpito un’altra generazione e un altro monarca, a cominciare dal nipote di Enrico, Luigi XIV.

Il terreno su cui Enrico IV decise di far costruire la nuova piazza un tempo ospitava l’Hôtel des Tournelles, famoso per le sue torrette, dove re Enrico II era morto nel 1559 a seguito di una ferita rimediata durante un’amichevole giostra con un tizio dal nome all’apparenza straniero, un tale Gabriel de Montgomery. Dopo la morte del marito, Caterina de’ Medici decise di far abbattere l’albergo. A tutt’oggi Caterina viene considerata una regina malvagia, astuta e vendicativa, la cui azione più turpe fu il massacro di san Bartolomeo del 1572, quando centinaia di protestanti francesi vennero passati a fil di spada. Per una delle tante ironie della storia, proprio il protestante Enrico IV, che aveva sperato di placare i cattolici francesi sposando la figlia di Caterina e di Enrico II, la regina Margot, non solo fu incapace di prevedere il massacro che scoppiò subito dopo le nozze, ma quarant’anni dopo venne ucciso lui stesso da un fanatico religioso a pochi isolati di distanza dal luogo dove era morto il suocero. Non vivendo abbastanza, quindi, per vedere completata la sua piazza.

Enrico IV e Sully erano di gran lunga troppo pragmatici perché fossero accusati di essere due visionari, ma di sicuro erano entrambi un po’ sognatori. All’inizio volevano che i portici ospitassero negozianti, tessitori e operai specializzati stranieri, con ogni probabilità sussidiati dal governo. L’idea era buona, poiché Sully, come gli altri ministri delle Finanze francesi, si era dimostrato abbastanza saggio da assoldare manodopera straniera per aiutare la nazione a produrre entro i confini nazionali per poi esportare ciò che, altrimenti, avrebbe dovuto comprare all’estero. In questo caso, però, la scelta si rivelò troppo impraticabile. Questa, dopo tutto, era una proprietà immobiliare di pregio. Si trattava di un’area così esclusiva che, invece di disegnare una piazza in cui le facciate degli edifici si sarebbero affacciate sul resto di Parigi, i progettisti rivolsero le eleganti vetrine all’interno, come se ammirarle fosse un lusso riservato non ai passanti, che magari nemmeno sospettavano l’esistenza di questa piazza appartata, ma a una ristretta cerchia di privilegiati.

Place des Vosges ha tutte le caratteristiche di un lussuoso cortile, esattamente come lo rappresentò Corneille nella sua commedia La piazza reale o l’innamorato stravagante. Tutti abitano vicini, tutti si muovono in tondo e tutti sanno gli affari di tutti. Se guardi dalla finestra, vedrai i panni sporchi dei vicini. Non farti ingannare, però: come diceva madame de La Fayette sulla vita a corte, nulla è mai come sembra. Place des Vosges, aveva ragione Corneille, non era solo una zona residenziale, ma anche un palcoscenico ideale.

Ciononostante, nessuno tra i residenti dubitava di trovarsi al centro dell’universo. Erano suscettibili, caustici, arroganti, queruli, sprezzanti, frivoli, sofisticati e centrati su se stessi, e allo stesso modo si detestavano. Al pari della piazza, anche questo mondo era ripiegato su se stesso, al punto da essere consumato dalla finzione e regolato dalle medesime corrosive e inquietanti forme di introspezione. Nessuna società, nemmeno l’antica Grecia, si era mai aperta con tanta generosità e chiarezza per sbirciare dal cratere del vulcano e poi era rimasta lì pietrificata, a bocca spalancata davanti alle proprie peggiori chimere. Per quanto in pubblico si dessero alla bella vita, la maggior parte di loro era pessimista fino al midollo. L’ironia che elargivano al mondo non era nulla in confronto a quella che si tenevano per sé.

La Rochefoucauld, che scrisse le frasi più cesellate della storia, lo spiegò meglio di qualsiasi altro suo contemporaneo. Con massime brevi, argute e schiaccianti.

Il più delle volte le nostre virtù sono soltanto vizi mascherati.

Noi amiamo sempre quelli che ci ammirano, ma non sempre amiamo quelli che ammiriamo.

Se non avessimo difetti, non proveremmo tanto piacere a notare quelli degli altri. Confessiamo i piccoli difetti solo per convincerci che non ne abbiamo di grandi.

Nelle avversità dei nostri migliori amici scopriamo sempre qualcosa che non ci dispiace.

Oggi è difficile sentire riecheggiare nella piazza le stesse dosi di pessimismo o intrighi. Lungo i portici sfilano gallerie d’arte, negozi, ristoranti, perfino una minuscola sinagoga e un asilo. L’accesso a place des Vosges non è più limitato a chi possiede la chiave, come accadeva in passato. Adesso, in un caldo pomeriggio d’estate, uno dei quattro prati ben curati – i giardini francesi sono sempre divisi in quattro parti – è a disposizione del pubblico, e qui amanti e genitori con il passeggino possono gironzolare nell’erba, un’abitudine molto poco parigina. La piazza si trova nel cuore del Marais. A due isolati di distanza c’è l’Opéra Bastille; a più o meno la stessa distanza, verso ovest, c’è il Musée Carnavalet; a nord, il museo ebraico e il Museo Picasso. Rue Vieille-du-Temple, una delle vie più pittoresche della zona, attraversa quello che è rimasto, di fatto, un quartiere ebraico.

Di sera la piazza brulica di gente in un modo che mi ricorda come l’atmosfera di SoHo in realtà sia originaria di Parigi o sia stata esportata qui di recente da New York. Comunque sia, mi fa pensare che nel mondo di oggi tutto viene globalizzato all’istante. E tuttavia, grattando in superficie... si ritrova ogni cosa.

Ed è questo il motivo per cui aspetto la notte. Perché allora, seduto a un tavolo del ristorante Coconnas, sotto i silenziosi portici del Pavillon du Roi, si può osservare la piazza tornare indietro di qualche secolo. I grandi uomini e le grandi donne che camminavano sugli stessi marciapiedi riprendono vita: Marion Delorme, il cardinale di Retz, la duchessa di Longueville e soprattutto La Rochefoucauld, che arrivava a place des Vosges la sera, arrancando guardingo con il suo gottoso corpo sotto i portici diretto al numero 5 per andare a far visita a Madame de Sablé. Senza alcun dubbio il suo sguardo vagava fino al numero 18, dove più di un decennio prima la sua amante di allora, la duchessa di Longueville, aveva osservato dalla finestra Coligny che perorava la sua causa e moriva per lei. Lui, il cardinale di Retz e la duchessa si erano uniti alla Fronda in gioventù, per poi finire a scrivere laceranti campagne diffamatorie l’uno contro l’altro. Adesso La Rochefoucauld, l’uomo più sconfitto e disincantato al mondo – fingeva coraggio, chiamava la sua maschera una maschera, ovvero il modo in cui nascondeva i propri dolori in pubblico, in politica e in ogni altro contesto –, sarebbe rispuntato a place de Vosges per cercare di dare un piglio più sinistro alla sua visione tragica della vita, cesellando una massima dopo l’altra in compagnia di amici.

Il vero amore è come un fantasma, tutti ne parlano, ma pochi l’hanno visto.

Se si giudica l’amore dalla maggior parte dei suoi effetti, somiglia più all’odio che all’amicizia.

Non esiste travestimento che possa nascondere l’amore a lungo dove c’è, o inventarselo dove manca.

Mi pare di sentire lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli che tirano le carrozze con gli invitati a questo o a quel salotto, le baruffe e i fischi dei manigoldi per la piazza, il guaire dei cani randagi, il cigolio di porte che si aprono a metà e poi si chiudono altrettanto velocemente. Vedo delle luci dietro le portefinestre. Poi si spengono, una dopo l’altra, seguite dal rumore di porte, passi e ruote di carrozza sul selciato, di nuovo, non tutti sono ansiosi di incontrarsi sotto i portici, eppure sono costretti a scambiarsi cortesie di circostanza, mentre qualcuno si dirige verso casa due o tre portoni più in là o finge di farlo per poi svicolare altrove.

Un’ora dopo, la piazza tace.

La mia ultima sera a Parigi, passo all’Ambroisie. Stanno per chiudere. Sono venuto a chiedere il nome del whisky da dessert che ci avevano offerto dopo cena l’ultima volta. Il cameriere non se lo ricorda.

Chiama il sommelier, che spunta da dietro una pesante tenda, come un attore. La domanda pare compiacerlo. Il whisky si chiama Poit Dhubh, ventun anni di invecchiamento. In men che non si dica prende due bottiglie, ne versa una quantità generosa da una e poi mi chiede di assaggiare l’altra. Queste, mi sovviene, sono le cose migliori che ho bevuto durante la mia settimana di permanenza in Francia. Trovo strano finire la mia visita scoprendo una specialità scozzese e non francese, commento. Uno dei camerieri in piedi lì vicino viene avanti e dice che non è poi così sorprendente. E perché?, gli chiedo. «Non fosse stato per lo scozzese Montgomery, che inavvertitamente uccise Enrico II durante una giostra, l’Hôtel des Tournelles non sarebbe mai stato demolito, e place des Vosges non sarebbe mai stata costruita!»

Esco dal ristorante. Fuori c’è gente che aspetta il taxi. Parlano tutti inglese. All’improvviso, dal nulla, appaiono quattro ragazzini sullo skateboard, che sfrecciano lungo la galleria, gridando l’uno con l’altro tra il rimbombo delle ruote, noncuranti dei presenti e di quello che trovano sul proprio cammino mentre corrono per i portici. Quasi si fossero messi d’accordo, piegano le ginocchia all’unisono e, con i palmi aperti come surfisti pronti ad affrontare un pericoloso cavallone, inclinano lo skateboard, saltano dall’altra parte del marciapiede atterrando sulla strada, superano la casa del crudele Rouillac, girano attorno a quella di Victor Hugo e finalmente spariscono nella notte.

Solo allora riesco a immaginare il suono di un altro gruppo di giovani. Gridano; qualcuno impreca, altri si incitano a vicenda, altri ancora si radunano velocemente per l’omicidio. Sento il tintinnio degli stocchi, gli strilli terrorizzati dei presenti, nella piazza tutti all’improvviso sono in allerta, sbirciano dalle finestre, pietrificati. Mi concentro e cerco di figurarmi le torce dei quattro spadaccini che roteano nel buio pesto in quella gelida notte di gennaio del 1614. Pare lontanissimo, eppure... eppure mentre guardo le luci al di là del parco mi sembra ieri. E come tutti quelli che vanno a visitare place des Vosges, mi chiedo se sia un esempio di come il presente si intrufola nel passato o di come il passato si ripeta eternamente nel presente. Ma poi penso che questo è anche il motivo per cui si sta qui una settimana: non per dimenticare il presente o per ripristinare il passato, ma per dimenticare che sono così profondamente diversi.