Alessandria: la capitale della memoria
A chi me lo domandava, rispondevo che ci ero andato per toccare e respirare di nuovo il passato, per camminare dentro scarpe che non portavo da anni. In fondo era quello che dicevano tutti tornando da Alessandria. Fare un tuffo nel passato, visitare la casa di un tempo, bussare a porte che la storia aveva chiuso a doppia mandata ma che magari si sarebbero riaperte almeno un poco. La visita al tempio, a casa dello zio Tal dei tali, alla vecchia scuola, ai luoghi di ritrovo abituali, l’odore della ringhiera di legno sporca su cui scivolavi fino al pianterreno prima di uscire e andare al cinema. E poi, naturalmente, le lacrime, le somme da tirare, i grandi temi: il ritorno del nativo, il romanticismo del passato, la redenzione del tempo. Il tutto seguito da prevedibili delusioni: le strade sempre più strette di quanto ti ricordassi, gli edifici che con il tempo si erano rimpiccioliti, incuria ovunque, la città sporca, in rovina. Di europei non ce ne sono più, e gli ebrei se ne sono andati tutti. Adesso Alessandria è egiziana.
Uscendo sul balconcino della mia stanza all’Hotel Cecil, mentre cerco di abbracciare l’infinita striscia di luci che punteggiano la baia a oriente, penso a Lawrence Durrell e a cosa avrebbe provato lui lì, in quello stesso albergo, più di cinquant’anni prima, esaminando una città magica, ammaliante – la «capitale della memoria», come la chiamava lui, con «cinque razze, cinque lingue... ma i sessi sono più di cinque».
Quella città non esiste più; forse non è mai esistita. E nemmeno l’Alessandria che conoscevo io: il finto reliquiario di antico splendore e opulenza coloniale dove mia nonna poteva camminare con il parasole senza rendersi conto di apparire ridicola, come dovevano sembrare ridicoli tutti i miei familiari, essendo rimasti gli ultimi ebrei europei in una città in cui nel 1960 il nazionalismo antioccidentale e l’antisemitismo avevano ridotto la popolazione da almeno cinquantamila a duemilacinquecento persone e ci avevano relegato all’ultimo posto tra quelli che la storia butta via quando cambia idea.
L’Alessandria che conoscevo io, il centro nevralgico pseudovittoriano e mezzo decaduto, ultimo vestigio dell’Impero britannico, esiste solo nella memoria, al pari di Cartagine, Roma e Costantinopoli, ormai solo città scomparse, un centro in cui le lingue dominanti erano l’inglese e il francese, anche se tutti parlavano un miscuglio di molte altre, perché le lingue principali erano in realtà il greco e l’italiano, e nel mio mondo anche il ladino (lo spagnolo degli ebrei scampati all’Inquisizione nel Cinquecento), un arabo smozzicato a fare da collante di fortuna. Non necessariamente l’arroganza del banchiere in pensione, l’aria saccente del piccolo negoziante, i modi dei greci e degli ebrei erano compatibili fra loro, ciononostante tutti conoscevano tutti, e la domenica, nei teatri, al ristorante, in spiaggia o in qualche locale, capitava spesso di sedersi l’uno accanto all’altro e fare una bella chiacchierata. Mia nonna parlava il greco abbastanza bene da correggere i madrelingua, sapeva tutte le preghiere in latino e il suo francese scritto, quand’era contrariata, avrebbe messo in imbarazzo perfino il duca di Saint-Simon.
Questa è l’Alessandria con cui vivo ogni giorno, che ho portato con me, su cui ho scritto e che alla fine ho sovrapposto ad altre città, come in origine altri centri urbani furono proiettati sul paesaggio alessandrino quando, a metà Ottocento, arrivarono i primi costruttori europei e idearono una nuova città modellata su quelle che amavano loro. E proprio quell’Alessandria ero venuto a cercare, ben sapendo che non l’avrei mai trovata. Ma non mi importava. Perché non ero venuto per ritrovare ricordi, e nemmeno per riconoscere quelli che avevo trasfigurato, né per trastullarmi con il pensiero che non avrei mai più abitato qui: ero venuto per seppellire ogni cosa, per estirparla dal mio corpo, per dimenticare, per arrivare addirittura a provare odio, così come si impara a odiare chi non ci vuole.
Infine mi rendo conto che sto facendo una cosa tipica degli ebrei. Sono venuto in Egitto con il classico atteggiamento da ebreo, cioè spinto dal desiderio di tornare nei luoghi da cui non avevi visto l’ora di fuggire. Il rito di passaggio ebraico, anche se la Pasqua non lo ricorda, non è solo la fuga dall’Egitto, ma anche il ritorno.
Fino a metà degli anni Cinquanta gli ebrei se l’erano passata molto bene laggiù. Occupavano un ruolo prominente e dominavano quasi tutte le attività commerciali, inoltre erano tra i maggiori finanziatori della trasformazione dell’economia del paese da europea a nazionale, fungendo da importanti intermediari per gli investitori stranieri; l’Egitto vantava il maggior numero di multimilionari ebrei di tutto il Medio Oriente. Per quanto pochi, c’erano ebrei anche in Parlamento.
Perlopiù si trattava di ebrei osservanti, ma in una città cosmopolita come Alessandria, dove la pietà troppo zelante veniva derisa e dove l’amicizia non si basava quasi mai sulla fede, molti avevano una concezione della religione alquanto all’acqua di rose, soprattutto perché in tanti, avendo studiato in scuole cattoliche, tendevano a conoscere meglio le religioni altrui che non la propria. I seder, mi ricordo, duravano pochissimo; nessuno voleva infliggere la Pasqua ebraica a eventuali ospiti cristiani di passaggio che poi inevitabilmente venivano convinti a fermarsi a cena.
Dopo la sconfitta degli israeliani a opera degli arabi nel 1948, all’improvviso in Egitto iniziò a diffondersi l’antisemitismo, tanto che si verificarono alcuni incidenti mortali. Le cose peggiorarono dopo il 1956, quando Israele si alleò con Francia e Inghilterra e insieme, dopo la nazionalizzazione del canale di Suez voluta da Nasser, sferrarono contro l’Egitto un attacco tripartito. Gli inglesi e i francesi che risiedevano ad Alessandria vennero espulsi in maniera sistematica, e con loro molti ebrei; a tutti lo stato requisì beni, attività, proprietà. Zie e zii, amici, nonni, alcuni dei quali ancora non erano stati espulsi, capirono l’antifona e nel giro di qualche anno se ne andarono, abbandonando ciò che possedevano. I più si sistemarono in Europa, gli altri in America.
Qualcuno, come noi, si limitò ad aspettare, come avevano già fatto altrove gli ebrei in altri frangenti in cui era ormai troppo tardi per sperare nei miracoli. Osservavamo la città cambiare, e ogni anno vedevamo insegne di negozi europei sostituite da nomi egiziani, poi sentivamo di vie ribattezzate, tanto che alla fine non ne riconobbi più nemmeno una, proprio come adesso.
L’unica che ha mantenuto il proprio nome è il lungomare, la Corniche, al-Corniche, uno stretto collo di bottiglia intasato da una marea di rumorosi e traballanti veicoli che emettono soffocanti gas di scarico.
Cerco di rilassare entrambe le braccia sulla ringhiera fuori dalla stanza, come mi ero immaginato di fare quando avevo ricevuto la brochure patinata con la fotografia del Cecil. Ma il balconcino in stile veneziano-marocchino è occupato da un compressore: impossibile aggirarlo. Escrementi d’uccello lordano il pavimento.
Sotto, due uomini parlano in arabo. Uno sta raccontando all’altro che di notte il piede malato gli fa malissimo. Vedrai che passa, gli risponde l’altro. Non sanno quanto suonino surreali certe chiacchiere di poco conto a chi manca in città da trent’anni.
Sulla piazza principale davanti all’hotel c’è la sgraziata statua del patriota Sa’d Zaghlul, una gamba davanti all’altra come un’antica effigie egiziana, solo che questa ha un fez in testa. Ci passavo tutte le mattine in autobus per andare a scuola.
Alle sue spalle c’è una villa che ospita il consolato italiano, dietro di essa la stazione dei tram più grande della città e alla sua destra il cinema Strand, identico a prima, anche se usurato dal tempo. Alla mia destra ecco Délices, una delle migliori pasticcerie della città. Anche loro sono rimasti dov’erano. Mi risulta tutto piuttosto familiare, penso. Non ho dimenticato abbastanza.
Dall’altra parte della baia campeggia la fortezza di Qaitbay, il cui fioco e minaccioso cerchio di luce sorveglia il Porto Grande, a oriente. Pare che sorga al posto dell’antico Faro, una delle sette meraviglie dell’antichità. Anzi, qualcuno sostiene che il forte sia stato costruito utilizzando proprio quelle vecchie pietre. Una compagnia francese ha ricevuto l’incarico di eseguire scavi archeologici. La zona è stata transennata e considerata top secret.
Non lontano dagli scavi si trova il porto occidentale, che gli antichi chiamavano Porto del buon ritorno, portus eunostos, dal greco antico eu, che significa «buono», «sicuro», e nóstos, «ritorno». La parola nostalgia, infatti, indica il pungente desiderio di tornare, di andare a casa; nostofobia, la paura di tornare; nostomania, l’ossessione di tornare; nostografia, il bisogno di scrivere sul tema del ritorno.
E dunque questa è Alessandria, penso, prima di chiudere la finestra, e mi sento proprio come Freud quando, quarantenne, finalmente aveva realizzato il sogno di una vita, cioè visitare Atene, ma giunto in cima all’Acropoli si era sentito deluso e aveva definito quella totale mancanza di emozioni «derealizzazione».
Guardo l’orologio. A New York è l’una. Alzo la cornetta per chiamare in America. Dopo una breve attesa sento la voce di mio padre. In sottofondo distinguo un coro di bambini, probabilmente i miei – o è il baccano della scuola del quartiere all’intervallo?
«Com’è?» chiede. Gli descrivo cosa vedo dalla finestra.
«Sì, ma com’è?» mi incalza. In realtà quello che vuole sapere è se è cambiata, se io sono commosso. Non trovo le parole giuste.
«È sempre uguale» rispondo. «È l’Egitto» concludo, non mi esce altro.
Ogni anno la città vede il ritorno di molti ex alessandrini che vagano per le sue vie. Come viaggiatori del tempo o redivivi, alcuni tornano dal futuro, da decenni e continenti di distanza, individui avanti Cristo che irrompono in questioni dopo Cristo, anacronoidi alla deriva in giro per la città senza un vero scopo a parte assaporare un passato che, ancor prima di arrivare, sanno di non poter né ritrovare né gettarsi alle spalle, ma il cui incantesimo continua a blandirli durante quelle missioni nel tempo. I portoghesi hanno una parola per descriverli: retornados, i discendenti dei coloni portoghesi che tornano nella loro madrepatria in Europa secoli dopo avere colonizzato l’Africa – solo che loro sono europei nati in Africa che tornano in Africa da turisti, e ignorano perché ci vanno, perché avvertono il bisogno di tornarci o perché quella città che sentono casa loro e possono quasi toccare a ogni curva possa risultare sconosciuta quanto un luogo mai visto prima ma solo studiato sui libri di viaggio.
La prima cosa che voglio fare stasera è vagare da solo per la città. I negozi giù in centro sono ancora aperti, e la gente si riversa letteralmente nelle strade, una processione infinita di macchine che risalgono lungo rue Missallah (obelisco), ribattezzata rue Saffeyah Zaghlul in onore della moglie del patriota. Gli stessi negozi di allora, le stesse farmacie, le stesse librerie, gli stessi ristoranti; e ovunque la stessa sfilza di negozi di scarpe e sartorie alla buona con la merce appesa sopra i marciapiedi, e sempre quegli sprazzi di luce fioca che mi ricordano le notti di Kavafis e la Parigi di Baudelaire. Riconosco il profilo gotico-veneziano delle vetrine di un vecchio ristorante. Quando entro da Flückiger, la pasticceria, e dico alla cassiera che voglio solo dare un’occhiata, lei sorride e dice, come avrà fatto altre centinaia di volte: «Ah, vous êtes de nos temps», come se il tempo appartenesse a qualcuno. Voglio comprare dei dolci? Faccio segno di no con la testa. «Non sono cambiati. Siamo sempre Flückiger» aggiunge. Annuisco. È come se andassi lì tutti i giorni e mi fossi fermato dopo il lavoro, ma poi avessi cambiato idea all’ultimo secondo. Il pensiero di mangiare un dolce per rievocare il mio passato mi pare troppo inquietante e ridicolo. Sorrido tra me e me ed esco dalla tenda di perline. Non è cambiata nemmeno quella. Né gli edifici. Sono di gran lunga più belli di quanto mi ricordassi, una sintesi tra architettura francese di fine secolo e stile italiano floreale. Sono anche più sporchi, però, alcuni così malconci che è impossibile stabilirne l’età. Lo stesso discorso vale per le macchine. Molte sono veicoli sgangherati vecchi più di trent’anni, rattoppati, pezzi di ruggine, metallo e latta saldati insieme e riverniciati con la tipica ingenuità egiziana che sa come conservare le cose vecchie e spremere l’ultimo residuo di vita da oggetti che sarebbero dovuti morire da un pezzo ma i cui pezzi di ricambio non arrivano dall’estero, né vengono prodotti in patria. Non sono vere macchine, piuttosto un elaborato collage di protesi.
Svolto a destra e imbocco una via buia che una volta si chiamava rue Fuad. Accanto al cinema Amir si profila una struttura strana, enorme. Non l’ho mai vista. È l’anfiteatro romano riportato alla luce di recente di cui avevo letto. Lo ignoro e giro a sinistra, scorgo la pasticceria Durrell, poi prendo una stradina angusta, dove trovo il cinema Royale e, di fronte, il vecchio Mohammed Ali, che adesso si chiama Sayyed Darwish, l’orgoglio dell’élite teatrale di Alessandria.
Poi mi viene in mente una cosa. Il Mohammed Ali è la mia ultima fermata stasera; non mi resta altro che tornare all’Hotel Cecil. Con mio sommo stupore, ho rivisto la maggior parte dei luoghi a me più cari nel giro di otto minuti scarsi!
Tornato sulle strade affollate, ripercorro a ritroso il tragitto dell’andata cammminando sul bordo del marciapiede, evito di incrociare lo sguardo di chiunque, il passo affrettato e deciso, cerco di scoraggiare con tutto me stesso qualsivoglia contatto con una città che, in fondo, è l’unica che credo di amare. Come i personaggi di Omero, voglio essere avvolto da una nube e restare invisibile, inconsapevole del fatto che, come tutti i redivivi, forse sono già un fantasma, uno spettro.
L’indomani mattina mi lancio in un altro giro di ricognizione. Ma in un quarto d’ora sono già arrivato a Chatby, il posto che mi ero prefissato di rivedere per ultimo. La maggior parte dei cimiteri si trova qui. Forse adesso dovrei rendere omaggio alla tomba di mio nonno.
Cerco di trovare il cimitero ebraico, ma invano. Allora mi dirigo in tutt’altra direzione e decido di andare a casa della mia bisnonna. Non appena mi avvicino al quartiere mi ritrovo quasi scaraventato nel vecchio mercato. Anche qui non è cambiato nulla rispetto a quando ero bambino. I carretti a mano e i negozi all’aperto ci sono ancora, come anche l’indimenticabile olezzo di pesce e carne, le grida e la stessa folla accalcata tra mucchi di cibo e casse di polli vivi.
Potrei anche salire, penso una volta raggiunto l’edificio in rue Thèbes, ma c’è qualcuno che mi osserva mentre armeggio con la macchina fotografica, poi un’altra persona fa capolino da dietro la finestra e mi fissa. Decido di andarmene. Arrivato al palazzo dopo, però, cambio idea e torno indietro, cercando di fare in modo che l’edificio compaia a poco a poco, così da conservare il magico momento in cui il ricordo diventa recupero. Stavolta non mi lascerò intimidire, e con passo deciso mi dirigo verso l’ingresso.
Compare una donna con un bambino in braccio; è la moglie del portinaio, che è morto qualche anno fa: lei ha preso il suo posto. Arriva anche un uomo. Abita al primo piano, mi dice in inglese, vive lì dai primi anni Cinquanta. Gli dico che anch’io abitavo lì, al numero 15. Ci pensa su un momento, poi dice che non ricorda chi ci sta adesso. Dico alla portinaia che voglio bussare. Lei sorride e mi guarda con sospetto. Sta pensando. «Sit Vivi» dice, Madame Vivi. Per poco non rabbrividisco. Vivi era la mia prozia. «Se ne sono andati» aggiunge. E certo che se ne sono andati! vorrei gridare. Ce ne siamo andati tutti trent’anni fa! «Posso bussare alla porta?» le chiedo. «Sì» replica lei, con lo stesso sorriso di prima, «ma non c’è nessuno.» «Quando tornano?» Mi fissa con sguardo vacuo. L’appartamento è rimasto vuoto da allora.
So che se insisto e le lascio una lauta mancia potrei anche persuaderla a farmelo vedere. Ma il pensiero di un appartamento buio, vuoto da decenni, mi spaventa. Chissà cosa ci potrei trovare che striscia sul pavimento o sulle pareti. Passi pure che un tedesco si metta a scavare in cerca dei resti di Troia o a rovistare tra i gioielli di Elena, ma nessun troiano è mai tornato nella sua città.
Quando indico l’ascensore e le chiedo se funziona ancora, ride. È rotto da un pezzo. E aggiunge, con l’inimitabile senso dell’umorismo tipicamente egiziano: «Allah yerhamu». Che Dio abbia misericordia della sua anima.
Entro nel cortile principale, alzo la testa e guardo la nostra entrata di servizio: quasi mi sembra di sentire il cuoco che urlava alla domestica, mia madre che urlava al cuoco e la povera domestica che emetteva un guaito straziante quando il tumore al fegato le comprimeva la spina dorsale. Sto cercando di decidere se insistere e chiedere alla portinaia di accompagnarmi di sopra, forse potrebbe mostrarmi qualche altro appartamento. Vedo un gatto giocare nell’atrio; accanto c’è un topo morto. La portinaia non se ne accorge. Nemmeno al tizio del primo piano pare interessare granché.
So che se non insisto poi me ne pentirò, e so anche che è il tipico atteggiamento dei miei deboli e sommari tentativi di lanciarmi all’avventura. Ma sono stanco di queste rovine, e l’odore dei vecchi pannelli di legno nell’atrio è soffocante. Inoltre, sono abituato a viaggiare così: non tanto per accumulare esperienze, quanto piuttosto per abbozzare l’itinerario di un possibile ritorno. Allo stesso modo, in fondo, vivo anche la mia vita.
Fuori, scorgo un’anziana donna con un cestino della spesa; dall’aspetto mi pare europea. Le chiedo se parla francese. Sì. È greca. Sono quasi pronto a raccontarle tutta la mia storia, dei miei nonni, di mia madre, del nostro appartamento rimasto vuoto dal giorno in cui ce ne siamo andati tanti anni fa, e poi di tutte queste rovine sparse ovunque, invece mi blocco a metà frase, chiamo un taxi e chiedo al conducente di portarmi al museo – passando per la Corniche, perché voglio vedere il mare.
La Corniche spezza sempre l’incantesimo della monotona vita cittadina, è la prima e l’ultima cosa che ci si ricorda di Alessandria. Lo penso ogni volta che ovunque nel mondo vedo un’invitante chiazza blu in fondo a un incrocio. Il cielo è terso e il mare stupendo, e il mio tassista, che parla inglese, mi dice che lui la adora questa città.
Al museo greco-romano ci andavo sempre da solo la domenica mattina del 1965, il mio ultimo anno ad Alessandria.
Pago il biglietto e, come di consueto, percorro in fretta i corridoi e il giardino silenzioso, dove un gruppo di turisti ungheresi sta mangiando patatine. Supero di corsa le statuette di terracotta dipinte, i busti di Giove e di Alessandro e la statua reclinata di una Cleopatra morente. C’è solo una cosa che mi interessa vedere, il ritratto di un cristiano mummificato proveniente da Fayoum. Mi trattengo nella vecchia sala stantia. Il dipinto è davvero delizioso, più di quanto mi ricordassi. Ma sono sbalordito da come sembri giovane quell’uomo barbuto. C’è stato un tempo in cui era più vecchio di me. Adesso potrei quasi essere suo padre. Per il resto, non è cambiato nulla: io sono qui in piedi e lui lì disteso, sembra non sia accaduto nulla tra una domenica e l’altra.
Voglio comprarne una copia nel negozio del museo. Non ci sono cartoline dei ritratti di Fayoum. Voglio comprare la guida della città di E.M. Forster, ma non ce l’hanno più da tempo. Chiedo se perlomeno hanno i libri di Durrell, ma anche quelli non li vendono più da tempo. In effetti non c’è molto da comprare. E nemmeno da vedere. Ho visto tutto quello che volevo vedere ad Alessandria. Adesso me ne posso pure andare.
Tutta un’infanzia ripercorsa in un baleno. Sono un nostografo terribile. Invece di godermi il ritorno con calma, lo vivo di corsa come un turista durante un’escursione giornaliera in autobus. Domani voglio cercare di nuovo il cimitero.
Fuori dal museo mi torna in mente la mia vecchia scuola elementare, lì vicino. Mi ricordo di esserci venuto alle superiori sperando di farci una capatina, invece mi ero perso. Ora sono finito nel quartiere greco, lo so, un tempo una zona benestante. So anche di essermi perso esattamente dove mi ero smarrito trent’anni prima. Il pensiero mi diverte. Ci venivo due volte la settimana per prendere ripetizioni di inglese. Mi torna in mente l’insegnante, la sua casa sontuosa, la lussuosa porcellana in cui, all’età di sette anni, dovevo bere il tè. Mi ricordo una poesia di Wordsworth, il salotto poco illuminato pieno di fiori e profumi, e mio padre che mi veniva a prendere dopo la lezione e discuteva di libri insieme a lei. Io restavo seduto e ascoltavo, li guardavo parlare, e nel frattempo arrivavano altri ospiti.
Credendo di avere riconosciuto il suo palazzo ho pensato perché no, forse Mademoiselle Nader abita ancora lì. Guardo i nomi sulle cassette della posta ma non c’è nessuna Nader. Vedo MONSIEUR ET MADAME E. NAHAS, immagino siano siriani-libanesi. Forse loro sapranno dirmi dove abita la mia ex insegnante adesso. Salendo le scale, mi cade l’occhio su una targhetta di ottone; è il nome di un mio vecchio compagno di scuola! Suono il campanello. La domestica filippina parla bene l’inglese; le spiego che conosco il suo datore di lavoro. È in Europa adesso, replica. Mi fa accomodare in un salotto inondato di luce. Mi siedo sul divano e gli scrivo due righe, appoggiandomi al tavolino. Poi le do il messaggio e le chiedo se per caso non conosce una certa Mademoiselle Nader. Mai sentita. La saluto e continuo a salire le scale finché non raggiungo la residenza dei Nahas. Nemmeno loro sono in casa, e neanche la loro domestica ha mai sentito parlare dei Nader. In quel mentre sale un fattorino, che sembra ricordare qualcosa e mi suggerisce di bussare in un altro appartamento. Un’anziana donna, che parla un francese impeccabile, mi dice sì, certo, se la ricorda eccome Mademoiselle Nader, che lei chiama Lola. Lola è morta due anni fa, in totale solitudine, povera e depressa. La sua famiglia aveva perso tutto durante le nazionalizzazioni di massa del 1961. Lei e sua sorella subaffittavano stanze nella loro casa enorme, ma perfino all’epoca non ne ricavavano molto. Quando sua sorella se ne andò in Svizzera, Lola fu costretta a dare lezioni private a uomini d’affari che, a quanto pare, avevano ben altro in mente, ma con il passare degli anni si accontentavano dell’inglese. Alla fine aveva venduto l’appartamento proprio al mio ex compagno di scuola al piano di sotto, pensa un po’. Non l’avevo riconosciuto prima. Forse avevo studiato l’inglese proprio su quel divano e a quel tavolino in cui mi ero seduto poco prima.
Turb’al Yahud, il cimitero ebraico di Alessandria, si trova all’estremità opposta di quello armeno, non distante dal greco-ortodosso. Poco oltre, lungo la placida e polverosa strada alberata, c’è il cimitero cattolico. Magdi, un alessandrino impiegato presso la scuola americana che frequentavo da bambino, giura che Turb’al Yahud dev’essere lì vicino, ma non ricorda dove. «Io vengo qui solo una volta l’anno, per mia madre» spiega, indicando il cimitero copto poco distante.
Parcheggia in doppia fila e dice che andrà a chiedere al custode del cimitero armeno. Sono più di due ore che giriamo in macchina alla ricerca della casa al mare dei miei genitori, ma niente da fare. O è stata demolita, oppure giace sepolta in un caos di palazzoni di cemento e viali costruiti su ciò che un tempo erano vaste distese di sabbia del deserto. Scopriamo che in quella zona ci sono ben due cimiteri ebraici, non uno.
«Quale dei due ha un cancello sulla sinistra?» chiedo, ricordandomi di quella volta in cui ci ero andato da bambino a trovare la tomba di mio nonno, quarant’anni fa.
«Il problema è proprio questo» risponde Magdi, facendo un tiro di sigaretta. «Ce l’hanno entrambi sulla destra.»
Sono costernato. Riesco a localizzare la tomba solo in relazione al cancello sulla sinistra. Decidiamo di provare al cimitero più vicino.
Magdi mette in moto, aspetta un istante, poi parte a razzo, sollevando una nuvola di polvere alle nostre spalle. Nel giro di qualche minuto abbiamo parcheggiato su un marciapiede e ci stiamo avviando verso un cancello di metallo che sembra chiuso. Magdi non bussa; picchia forte. Sento un cane abbaiare e, dopo una serie di cigolii, compare un uomo sulla cinquantina. Cerco di spiegargli il motivo della visita nel mio arabo stentato, ma Magdi mi interrompe e interviene, gli dice che sono venuto per trovare la tomba di mio nonno. Il custode è perplesso. Sa dove si trova la tomba? mi chiede. No. Sa il nome, allora?
Glielo dico, ma a lui non dice nulla. Cerco di spiegargli del cancello sulla sinistra, però mi impappino. A quanto pare, ricordo solo un vialetto di ghiaia che cominciava dal cancello sulla sinistra e attraversava il cimitero.
Il custode ha un figlio di tre anni, che porta una felpa rossa scolorita con scritto CCCP, nulla di insolito in un posto che abbonda di anticaglie. Il cane, pieno di pulci dal collo in giù, ha una grossa ulcera sanguinante sulla schiena.
«Ah, quel cancello» risponde il custode quando gliene indico un altro molto più piccolo all’estremità opposta del cimitero. «È chiuso, mai usato.» In effetti il cancello in fondo al vialetto sembra saldato. Sono quasi troppo nervoso per nutrire qualche speranza. Tuttavia, mi dirigo con cautela verso la fine del vialetto e, giunto nei pressi del cancello sulla sinistra, scavalco un cespuglio selvatico le cui foglie secche mi si attaccano ai pantaloni, voltandomi con una sensazione di certezza che cerco di scoraggiare, temendo il peggio.
«È questo?» chiede Magdi.
Esito a rispondere, dubito ancora che possa essere il posto giusto o la lastra di marmo giusta, che sento calda e liscia al tatto come sapevo sarebbe stata ogni volta che mi sono immaginato questo momento nel corso degli anni. Anche il nome non mi convince.
«Sì» rispondo, indicando le lettere, che Magdi, mi accorgo, non è capace di leggere.
Il custode sa che sono contento. Suo figlio lo segue a ruota. Una mosca gli cammina intorno al naso. Sono entrambi scalzi, anche la moglie del custode, alla beduina.
Tiro fuori la macchina fotografica. Mi fissano tutti, compresa la figlia del custode, che ha dieci anni ed è venuta a vedere anche lei. Scopro che gli ebrei non ci vanno mai. «Nessuno?» chiedo. «Walla wahid» ripete con enfasi la bambina. Nessuno.
Mi accorgo che in questa città ci sono più ebrei morti di quanti non ce ne saranno mai più vivi. Ciò mi ricorda cos’avevo visto in una scatola nel tempio principale la mattina presto: più kippar degli ebrei che avrebbero potuto indossarli in tutto l’Egitto.
Il custode mi chiede se voglio lavare la tomba. So che Magdi deve tornare al lavoro; guida il pullmino della scuola e le lezioni stanno per finire. Scuoto la testa.
«Perché?» mi domanda il custode. «Lazem.» Deve.
Ho vissuto tutta la vita tenendomi alla larga dai rituali. Adesso mi viene chiesto di osservarne uno così esagerato e sconosciuto che mi scappa quasi da ridere, soprattutto perché so di farlo per loro, non per me. Perfino Magdi si schiera con il custode. «Lazem» gli fa eco.
Mi torna in mente un altro rituale, che risale ai giorni in cui io e mio padre andavamo al cimitero in silenzio la mattina presto. Era un rituale semplice. Ci mettevamo davanti alla tomba di mio nonno e parlavamo; poi lui mi diceva di voler restare da solo un momento e, quando aveva finito, mi prendeva in braccio e mi aiutava a baciare il marmo. Un giorno, senza motivo, mi rifiutai. Lui non insisté, ma sapevo di averlo ferito.
Noncurante della famiglia del custode, continuo a scattare fotografie, non perché lo voglia davvero, ma perché guardando nel mirino e fingendo di impiegarci un secolo a mettere a fuoco posso dimenticarmi del trambusto intorno a me, rimanere immobile, fermare il tempo, fissare un punto in lontananza e pensare alla mia infanzia e al fatto che sono qui e a mio nonno, che conoscevo poco, me lo ricordo a malapena e ci penso di rado.
Sto per dimenticarmi dei presenti quando arriva il custode, stringendo al petto un enorme bidone di latta colmo d’acqua. Se lo carica su una spalla e poi annaffia la lastra secca, inondando tutt’intorno, bagnando i miei vestiti, quelli di Magdi e i piedi del bambino; la pietra scintilla per la prima volta da chissà quanti decenni. Con palmi ansiosi, ci mettiamo tutti a lustrare il marmo. Mi piace quel rituale. Magdi aiuta in silenzio, ma voglio occuparmene io. Non voglio che finisca. Sono addirittura felice di avere i vestiti umidi e sporchi.
Ancora non riesco a credere di essere riuscito a trovare la tomba di mio nonno così in fretta. Dicono che i ricordi distorcano le cose, mentano. Sono al contempo confortato e perplesso.
In lontananza sento l’instancabile ronzio del traffico di Alessandria, e ancora più in là il fragoroso clangore delle ruote di metallo del tram lungo i binari – suoni non fastidiosi, perché danno ancor più enfasi al silenzio – e realizzo quant’è distante il nonno da tutto ciò: da quei motori; dal Ventesimo secolo; dalla storia; dall’esilio, dall’esodo e adesso anche dal ritorno; dalle notti che abbiamo trascorso tutti insieme stipati in salotto, sapendo che la fine era vicina; dagli anni vissuti in città che lui non aveva mai visitato, figuriamoci se poteva pensare che qualcuno di noi un giorno l’avrebbe chiamata casa. Per lui il tempo si era fermato nei primi anni Cinquanta in questo fazzoletto di polvere arido, silenzioso e raccolto, che in un baleno avrebbe potuto trasformarsi in un deserto.
Mi guardo intorno e riconosco nomi ebrei famosi su tombe e mausolei. Anche loro, come mio nonno, sono stati fortunati a non avere visto la fine. L’hanno pagata a caro prezzo, però: qui non ci viene più nessuno. Gli opulenti mausolei, costruiti in stile rococò veneziano, avrebbero dovuto ospitare generazioni non ancora nate, che da allora sono cresciute altrove e dell’Egitto non sanno nulla.
«Sei felice adesso?» vorrei chiedere a mio nonno mentre continuo a strofinare la pietra e ripenso alla tradizione musulmana di tamburellare delicatamente le dita su una lapide per dire ai defunti che i loro cari sono lì, presenti, che sentono la loro mancanza e che li pensano. Vorrei parlargli, dirgli qualcosa, fosse anche solo un sussurro. Ma sono troppo imbarazzato. Forse è per questo che le persone pregano. Io, però, di preghiere non ne conosco nemmeno una. So solo che non posso portarlo con me, ma non voglio neanche lasciarlo qui. Che ci sta a fare qui, dopo tutto? Fra cent’anni nessuno saprà che mio nonno è nato e poi morto, né qui né altrove. È questa la differenza tra la morte e l’estinzione.
Fingo di voler scattare un’altra foto e chiedo a Magdi, al custode e alla sua famiglia di mettersi in posa davanti a una palma, sperando si fermino lì dopo lo scatto e mi lascino da solo un istante. Sento un groppo in gola, voglio nascondere le lacrime che mi montano dentro, e di nuovo sono felice di poter nascondere la faccia dietro il mirino. La figlia del custode si avvicina. Vuole una foto da sola. Sorrido, e le dico qualcosa sui suoi begli occhi. Lascio al padre una lauta mancia.
Tutti credono che sia stata una visita proficua. Forse, in fondo, ogni visita al cimitero lo è.
La mia ultima sera ad Alessandria io e un gruppo di giovani insegnanti della scuola americana ci siamo ritrovati in una pizzeria per festeggiare un compleanno. Abbiamo lasciato le macchine in una viuzza angusta, per metà sul marciapiede, esattamente dove mio padre parcheggiava la sua. Alla festa ordinano tutti pizza, insalata e birra. Mi accorgo che saremmo potuti essere a Cambridge o a New Haven.
Alle undici finisce tutto. Prima di salire in macchina facciamo una passeggiata verso la chiesa di San Saba. Le strade sono molto buie e dopo una puntatina all’American Bar all’improvviso mi viene un pensiero inquietante: dopo tutto, siamo ancora in Egitto. Sarà l’alcol, ma non so più se sono tornato o se in realtà non me ne sono mai andato, se si tratta di uno scherzo crudele e siamo approdati in qualche vecchio quartiere di Manhattan. Ecco cosa succede quando finalmente si torna a casa: a malapena te ne accorgi, non ci trovi nulla di strano.
Più tardi, dal balcone, penso al giovane di Fayoum e al ragazzo di quattordici anni che ero allora e a come sono adesso e alla persona che sarei potuto diventare se fossi rimasto qui trent’anni fa. Penso alla strana vita che avrei condotto, alla moglie che avrei avuto e ai miei altri figli. Dove avrei abitato? Nell’appartamento della mia bisnonna, suppongo, sarebbe toccato a me. E penso a questo me stesso immaginario che non era mai uscito dal seminato né aveva fatto le cose che probabilmente mi rammarico di avere fatto ma che avrei fatto comunque e non voglio rinnegare; a questo me stesso che non lasciò mai l’Egitto né perse terreno e che, in notti come queste, sogna ancora il mondo oltre confine e la lontana America, proprio come io, nel corso degli anni, bramo di vivere qui ogni volta che scopro di non riuscire ad adattarmi in nessun altro posto.
Chissà se questo altro me stesso capirebbe me e lui, e il fatto che siamo qui adesso e anche dall’altra parte – l’altra vita, quella che non viviamo ma evochiamo quando quella che abbiamo forse non è quella che vogliamo.
Questo, almeno, non è cambiato, penso, e allora la mia mente torna a mio padre, anni fa, quando fermavamo la macchina e camminavamo lungo la Corniche di sera, pensando che di sicuro il peggio doveva ancora venire, cercando entrambi di liberarci di questa città e della vita che si accompagnava a essa, come lui sapeva bene. Ed è quello che sto facendo anche adesso, pensare agli anni a venire, a quando con il pensiero sarei tornato a questa sera e avrei ricordato che, sul balcone ingombro dell’Hotel Cecil, avevo sperato di liberarmi finalmente di questa città, ben sapendo che il desiderio sarebbe tornato presto, che non si può lavare via nulla e che questa città spettrale e naufragata, che non è più casa mia e che Durrell una volta chiamò «un miserabile piccolo porto di mare costruito sopra un banco di sabbia», alla fine avrebbe trovato modi più nuovi e accattivanti per ricordarmi che qui torna sempre la mia mente, che qui, per citare il più famoso poeta alessandrino contemporaneo, Costantino Kavafis, finirò sempre, anche se non ci tornerò mai più:
Non troverai posti nuovi,
non troverai altri mari.
La città ti seguirà. [...]
Non ci sono navi, non ci sono vie per te.
E poi me ne sono ricordato. Con tutta la tensione accumulata al cimitero nel pomeriggio, mi sono dimenticato di chiedere a Magdi di farmi vedere la casa di Kavafis. Peggio ancora, mi sono dimenticato di baciare la tomba di mio nonno. Magari la prossima volta.