Riflessioni di un ebreo indeciso

L’uomo sulla fotografia che sto guardando, scattata nel 1921, ha sessantacinque anni, calvo, la barba bianca ben regolata, o almeno così sembra, la mano sinistra appoggiata non all’altezza della vita ma più in basso, sul fianco, si notano il lato della giacca, la postura decisa, forse un tantino minacciosa, eppure nonostante la posa volutamente sicura un po’ apprensiva. Come tutti gli uomini più anziani nell’album di famiglia di mio padre, regge nella mano appena sollevata una cosa che assomiglia a un sigaretto, anche se leggermente più grosso, ma non abbastanza per essere un sigaro vero e proprio; sulla punta pare esserci della cenere. Si potrebbe dire (fosse anche solo per parodiare una famosa analisi di come il Mosè di Michelangelo tenga le tavole dei comandamenti) che il fotografo non abbia avvisato in tempo il soggetto che, dunque, pensando ci fosse una pausa tra uno scatto e l’altro, ha dato un veloce tiro e non è riuscito a disfarsi del sigaretto incriminato, così che dall’essere un oggetto che andava tenuto fuori dalla foto, una volta catturato dall’obbiettivo, finisce per occupare il centro della scena.

Qualcosa mi dice, però, che invece potrebbe trattarsi di una piccola penna. Eppure uno non tiene una penna tra l’indice e il medio, soprattutto con la mano rivolta all’infuori in maniera così rilassata. No, una penna no. Inoltre, cosa ci azzeccherebbe con un soggetto in piedi senza l’ombra di scrivanie sullo sfondo? Dev’essere per forza un sigaretto.

Esaminando la foto più da vicino, in quella postura apparentemente rilassata si coglie qualcosa di studiato: una mano sul fianco, l’altra che quasi mette in mostra il sigaretto, non come effetto di un ripensamento, non con diffidenza, ma in modo assertivo. Anche la cenere la dice lunga: non sta per cadere, come mi era sembrato all’inizio; al contrario, è appuntita, quasi con un temperamatite, ecco perché pensavo fosse una penna, magari a sfera, ben sapendo che all’epoca non esistevano. Ancora più strano, però, dal sigaretto non si leva fumo, e ciò suggerisce che lo studio fotografico l’abbia ritoccato ed eliminato, oppure che fosse spento.

Allora vuol dire che la sua presenza nella foto è intenzionale.

Perché questo gentiluomo – e non c’è dubbio che lo sia, lo dimostra la postura – esibisce il sigaretto a quel modo? Si tratta di un semplice sigaretto, o è molto di più, addirittura molto più di una penna, l’Ur-Simbolo di tutti i simboli, non solo di sfida, di minaccia, di sicurezza o di ira, ma semplicemente di potere? Quest’uomo sa il fatto suo; nonostante l’età, è forte e può dimostrarlo; guardate il sigaretto: la cenere non cade.

Un’altra fotografia dello stesso soggetto ma più giovane, scattata attorno al 1905, dà più o meno la stessa impressione. I capelli sono pettinati con cura – ne ha molti di più – la barba, benché ingrigita, è più folta. Dietro il soggetto, stavolta seduto, c’è la riproduzione di una statua di Michelangelo con uno schiavo morente, in piedi, nudo, che si contorce agonizzante. L’uomo fissa l’obbiettivo e appare lievemente curvo, le spalle meno dritte, a disagio, quasi contratte. Appare stanco, oberato di lavoro, sfinito; nella mano sinistra regge un sigaretto che sembra avere fumato tutto; ne tiene i minuscoli resti un paio di centimetri sopra il punto di incontro delle cosce, quasi – e sottolineo il quasi – riecheggiando l’esibita nudità dello schiavo morente alle spalle.

Magari ho esagerato con il simbolismo. Dico subito che in segno di rispetto ritirerei ogni parola, non fosse perché il soggetto di queste due fotografie, all’apparenza cariche di simboli freudiani, altri non è che Sigmund Freud in persona. Come si fa a guardare il sigaretto di Freud senza formulare pensieri freudiani?

Ed è qui che subentra un altro simbolo. In effetti, riguardando le immagini, mi rendo conto che doveva essere accaduto qualcosa tra l’uomo più anziano in piedi nel 1922 e quello un po’ più giovane seduto nel 1905. Sto parlando del successo, naturalmente.

L’uomo nella seconda fotografia è un uomo affermato. Con un patrimonio, e di sostanza. La sua è la tipica posa che adottavano tutti gli uomini davanti all’obbiettivo: trasmetteva compostezza, mondanità, fiducia, appagamento, sicurezza, forse anche un po’ di malizia e arroganza, ma senza dubbio si trattava di un uomo di mondo, un individuo che aveva viaggiato in lungo e in largo ed era molto richiesto, che aveva visto e vissuto tanto. Anzi, era più di un uomo affermato, lui ce l’aveva fatta, era arrivato, come dicono i francesi. Un arriviste è chi si affanna per arrivare; un parvenu, invece, indica chi è già arrivato. Ci si metteva in posa con una sigaretta, un sigaro o un sigaretto, non solo perché suggerivano sicurezza, come se chi ne era privo fosse meno meritevole, ma anche perché il sigaretto era uno strumento, un attrezzo, una protesi che serviva per radicarsi nella fotografia e, per estensione, nel mondo. Fumare non si limita a sussurrare l’idea di successo, la grida. La fissa per sempre. Un ebreo di successo che fuma dimostra di aver raggiunto un certo grado di prominenza.

Consentitemi di ricorrere a un’altra parola, che è molto usata oggi e trasmette un incubo neoebreo: quest’uomo si era assimilato. Assimilarsi è uno strano verbo, usato senza complemento diretto o indiretto a indicare l’essere inglobati, assorbiti e incorporati nella società di massa gentile. Il verbo, però, ha anche un altro significato, strettamente legato alla sua etimologia: assimilarsi significa diventare simile a, simulare.

L’ironia sta nel fatto che questa era la posa per simulare il successo. Venivi fotografato mentre fumavi proprio per far vedere che in realtà non ti eri messo in posa, per far vedere che avevi raggiunto una posizione sufficientemente elevata per cui non dovevi ostentare nulla. Insomma, ti mettevi in posa con un sigaro per suggerire che non ti eri messo in posa con un sigaro: appartenevi alla società, dunque non dovevi più preoccuparti di appartenerle. Forse gli italiani questa posa la chiamavano sprezzatura:3 basta aggiungere una pipa, e le complicazioni raggiungono proporzioni magrittiane. Un ebreo si mette in posa con un sigaro per simboleggiare due cose: la prima, che ha raggiunto il successo in campo sociale e professionale; la seconda, che si è anche assimilato con successo.

Di ebrei con il sigaro ce n’erano a bizzeffe.

Per esempio c’è una fotografia di un giovane gentiluomo paffuto, molto azzimato e compiaciuto, che indossa abiti chiaramente di alta sartoria. Sta seduto con un braccio appoggiato su una coscia, mentre con l’altra mano regge un sigaretto più o meno come Freud; tiene il viso sollevato con aria di sufficienza, un piglio disinvolto nel sorriso. Si chiama Artur Schnabel.

Un altro viene ritratto mentre cammina per strada con la pipa in mano. Indossa un cappello a falda larga del tutto fuori luogo. Non potrebbe apparire più goffo e sicuro di sé. Finge di passeggiare spensierato per la città, invece regge la pipa con la stessa cautela di chi sta portando un campione di urine al laboratorio di analisi. Si chiama Albert Einstein.

Un altro non guarda nemmeno verso l’obbiettivo, la mano che gli sorregge il mento mentre afferra una sigaretta. Sembra un intellettuale molto affermato, invece se esiste un uomo-simbolo dell’intellettuale non affermato del secolo scorso è proprio lui, Walter Benjamin, morto nell’indigenza.

E poi c’è la fotografia di una giovane donna, forse una delle intellettuali più coraggiose della sua epoca, che appare totalmente intimidita e scoraggiata, è ricorsa alla sigaretta soltanto per lo scatto, la tiene a distanza, quasi la spinge fuori dall’immagine (come fanno alcuni tassisti di New York quando fumano con la mano fuori dal finestrino), pur aggrappandosi disperatamente a essa tutto il tempo, sperando possa darle quell’aria sicura senza la quale risulterebbe una semplice studentessa universitaria. Si chiama Hannah Arendt.

Infine c’è la fotografia del più grande romanziere italiano del Novecento, l’uomo che portò Freud in Italia, lo tradusse e scelse un nome di per sé piuttosto interessante: Italo Svevo, conosciuto anche come colui che ha reso il vizio del fumo compulsivo un argomento degno della letteratura moderna. Sta seduto a gambe accavallate tenendo un sigaro sopra una coscia in un gesto che si potrebbe definire freudiano.

Freud, Schnabel, Einstein, Benjamin, Arendt, Svevo... non lo sapevano?

Non sapevano che fumare, oltre a far venire il cancro, non conferisce potere, né compostezza o sicurezza?

Ma non è questa la domanda che volevo porre. Era solo il mio modo di dissimulare quella vera, come se anch’io avessi qualcosa da dissimulare e volessi fuorviare il lettore prima di rivelarlo, come se sollevando la cortina fumogena del simbolismo freudiano potessi azzardare un’altra domanda più inquietante, che riflette le mie vere preoccupazioni e angosce personali, non quelle di Freud o di Einstein.

Non lo sapevano che erano ebrei?

O, per dirla in altri termini: non lo sapevano che, anche se tutta l’Europa si fosse messa in posa allo stesso modo, le cose non sarebbero cambiate, non avrebbero mai ottenuto l’approvazione altrui, non lo sapevano che parte di ciò che li rendeva così odiosi agli occhi degli antisemiti era proprio la loro presunzione di poterla ottenere? Non sapevano che, mentre gli altri si mettevano in posa con il sigaro a suggerire che non si stavano mettendo in posa con il sigaro, tale postura, se assunta da un ebreo, era ambigua e, come tale, rimandava a una sorta di inganno che scatenava l’assassino nascosto in ogni antisemita?

Per un tedesco, un austriaco, un francese o un inglese la cosa più minacciosa in quella posa con il sigaro non era solo che gli ebrei si fossero insinuati nella loro società di massa, quanto piuttosto che fossero anche i primi ad avere avuto accesso alla cultura paneuropea. Anzi, non solo l’avevano conosciuta: erano stati loro a crearla.

Erano innamorati della civiltà europea cosmopolita non solo perché, a differenza dei luoghi di ritrovo nazionali, spalancava loro porte di gran lunga più grandi, ma anche perché di fatto, anche se non apertamente, apparteneva più a loro che non ad altre nazioni. La passione per la cultura cristiana o pagana era irresistibile proprio perché consentiva agli ebrei di arrivare più vicino che mai a quelle culture che solo poche generazioni prima risultavano proibite. Inoltre, consentiva loro di realizzare che essere ebrei non significava non poter raggiungere il centro dell’universo cristiano e capirlo, forse, anche meglio degli stessi cristiani. La tesi di dottorato di Benjamin, mai terminata, trattava del teatro della Controriforma; era uno dei pochissimi pensatori moderni ad apprezzare il genio di Paolo Sarpi, il frate veneziano a cavallo tra il Seicento e il Settecento che rimane ancora oggi lo storico più illuminante del Concilio di Trento. Hannah Arendt scrisse la sua tesi su sant’Agostino sotto Karl Jaspers, il filosofo esistenzialista cristiano. Freud, una fonte di conoscenza enciclopedica, era affascinato dall’antichità classica. Ed Ettore Schmitz, che per l’appunto cambiò il suo nome in Italo Svevo perché riflettesse le proprie origini italiane e sveve, più o meno di proposito aveva evitato di inventarsi un terzo nome che riflettesse anche quelle ebraiche.

La lista continua all’infinito. Per gli ebrei cosmopoliti, il giudaismo tradizionale e le sue tradizionali ricompense non potevano competere con i vantaggi e le ricompense di questa profonda e ricchissima cultura europea – non potevano competere, cioè, con Berlino, Vienna, Parigi, Roma, Milano, Trieste e Londra.

La città dove i miei prozii si misero in posa con sigari e sigarette tra le dita era lontanissima da quelle capitali culturali europee. E tuttavia, se il mondo di Alessandria aveva un desiderio, che durò per settantacinque anni, era proprio quello di essere come Berlino, Vienna, Parigi, Roma, Milano e Londra, essere contemporaneamente Berlino, Vienna, Parigi, Roma, Milano e Londra. Non ripeterò i cliché, tanto li conoscono tutti: Alessandria era una città dove venivano rappresentate tutte le religioni e le nazionalità del mondo, e dove ogni credo viveva fianco a fianco con gli altri in perfetta armonia. Forse parlare di perfetta armonia è esagerato, certo, ma lo dico in tono scherzoso, come lo si dice delle coppie sposate. Tale cosmopolitismo può darsi in due modi: come a New York o come ad Alessandria, cioè in una democrazia o in un impero.

A New York vige un sistema di valori sociali e idee che prescrive la reciproca tolleranza e le pari opportunità. Che siano prescritte non vuol dire poi che vengano anche applicate, ma almeno quella è la legge, e perlopiù la gente si sforza di credere che funzioni al punto da combattere per esse se qualcuno volesse cancellarle.

Ad Alessandria non c’erano né valori né idee condivise. Essa era il prodotto di due o addirittura tre imperi: ottomano, francese e inglese. Gli imperi generano ciascuno la propria capitale: centri nevralgici presso cui le popolazioni più distanti inviano emissari ed emigrati, dove si va a sfruttare la molteplicità, non per perdere la propria identità, dove si rispetta l’altro quanto è necessario per fare affari. Abbracci la molteplicità perché ratifica la tua identità. Si impara la lingua di tutti; non perdi la tua per quella dominante, ciononostante ne adotti una franca che alla fine ti conferisce un’identità tutta sua.

Molte delle persone con cui sono cresciuto provenivano da comunità colonialiste di poveri e immigrati: immigrati italiani, siriani, libanesi e francesi. Molti di loro mantenevano contatti con il loro paese o la loro comunità d’origine come le antiche colonie greche: la colonia della colonia di una colonia spesso continuava a reclamare legami con la comunità madre, per esempio Atene, Tebe o Corinto.

E poi c’era un altro tipo di popolazione, di cui ricordo tre ceppi: gli armeni, alcuni dei quali si erano stabiliti in città dopo il primo massacro; i greci dell’Asia Minore, che erano arrivati anche prima ma sicuramente avevano invaso Alessandria a seguito dell’esodo dalla Turchia e l’incendio di Smirne; e poi gli ebrei, molti dei quali erano in Egitto da migliaia di anni, mentre alcuni provenivano da altri luoghi – nel caso della mia famiglia, dalla Turchia – nel tentativo di fondare una nuova patria. Armeni, greci ed ebrei fecero meglio di francesi e italiani non solo perché erano più numerosi, ma anche perché erano più disperati: loro non avevano davvero alcun paese a cui fare ritorno.

Così in questa oasi ad interim diedero avvio alle loro peculiari dinamiche, e acquisirono cittadinanze di carta che erano nazionalità vere quanto veri sono i profitti indicati sulla carta. Prosperarono in questa panopoli ideale sebbene, come succede a tutti gli immigranti del mondo, nessuno si aspettasse di restarci per sempre. Nessuno si identificava con Alessandria, ed erano tutti troppo occupati a identificarsi con le varie culture europee per capire cosa significasse avere la propria.

Più gli ebrei di Alessandria si occidentalizzavano, più sviluppavano la stessa sensibilità delle loro controparti ebree tedesche, francesi e italiane: anch’essi permettevano che la loro identità ebraica venisse rimpiazzata, non da un’identità nazionale, quasi interamente immaginaria, ma da una paneuropea, ugualmente immaginaria. Ci immaginavamo qualsiasi altra città al mondo per non vedere quella di cui ormai eravamo parte integrante, come ci immaginavamo altre culture per evitare di accettare che in sostanza eravamo ebrei, nient’altro che ebrei. Qualcuno di noi poteva permettersi di compiere simili bizzarrie perché sapevamo, e temevamo, che tutto sommato l’unica cosa che non ci avrebbero mai portato via era proprio la nostra «ebreità». E tuttavia la nostra ebreità era qualcosa di radicato nel profondo, nascosto in modo sicuro, o era stato rimosso e adesso vagava per sempre fuori dalla propria orbita?

Anche se la maggior parte degli ebrei praticava il giudaismo in Egitto ed era orgogliosa di essere ebrea, io restavo diviso. Ero orgoglioso di essere ebreo, ma al contempo a volte mi mortificava. Volevo essere cristiano. Ma non volevo essere nient’altro che ebreo. Io sono un ebreo provvisorio, incerto. Sono un ebreo che ama il giudaismo a patto che lo pratichino altri e mi lascino libero di manifestare la mia passione per l’assimilazione, che corteggio con l’assiduità di un pretendente determinato a rimanere scapolo a vita. Sono un ebreo che vorrebbe vivere in un mondo dove tutti sono ebrei, dove si possa finalmente abbassare la guardia; ma sono anche un ebreo che ormai ha passato così tanto tempo a definire se stesso in relazione ai non ebrei che in un mondo di soli ebrei non saprei più come vivere, ancor meno chi essere.

Ancora non so se la Paneuropa che sognavo esistesse davvero o se, dopo tutto, fosse un’invenzione degli ebrei, una nostra fantasia. Ma forse essa spiega la mia devozione accanita per la letteratura europea cristiana e pagana. Furono le prime opere letterarie che lessi da ragazzo, ed era a quei libri che mi rivolgevo quando cercavo di localizzare quell’Europa immaginaria che avevo perso totalmente una volta approdato in Europa dopo l’Egitto.

Perché quando ci arrivai se c’era una cosa che sembrava limitata, provinciale e ottusa era proprio l’Europa. E ancor più provinciali erano gli Stati Uniti. Tuttavia, lì realizzai finalmente che il luogo più provinciale del mondo era Alessandria, e che forse la capacità di cogliere il provincialismo nelle persone e nei luoghi era il segnale più inequivocabile che tu stesso eri una persona provinciale, ovvero qualcuno che brama grandi e minuscoli indizi di cosmopolitismo per paura di essere risucchiato nei bui viali di cittadine buie nel vecchio paese buio che ogni ebreo si porta dentro. Avevamo bisogno dei nostri libri, delle nostre tante lingue, della nostra ampiezza di vedute, della nostra capacità di disconoscere chi eravamo nell’interesse dell’assimilazione, delle nostre macchine veloci e dei nostri minuscoli sigari, perfino della nostra disponibilità a dimostrare che potevamo convivere tranquillamente con i paradossi più inquietanti. Sì, ne avevamo bisogno perché erano una copertura per ciò che non riuscivamo più a essere: ebrei.

Mentre scrivo di tutti questi paradossi mi viene in mente che mi sto comportando da tipico cosmopolita alessandrino, come è tipicamente alessandrino il libro dell’Ecclesiaste. All’inizio quanto alla fine, infatti, essere cosmopolita ad Alessandria significava convivere con ogni contraddizione possibile e immaginabile. Ma quando si tratta dell’io più profondo, dell’io pensante, non ci vuole chissà quale sforzo per vedere che senza paradossi mi sento fuori luogo, sono uno straniero, e che proprio in questo paradosso un ebreo cosmopolita residente ad Alessandria si sente a casa.

Suvvia, adesso non esageriamo con il romanticismo. Quando diventa uno stile di vita, il paradosso aliena le persone, le rende straniere in mezzo al proprio popolo, alla propria patria, alla propria seconda e terza patria, e da ultimo a ciò che sono.

Diventi il nulla, nessuno, come Ulisse.

E Ulisse in posa con il sigaro è come un mangiatore di loto che pensa di avere trovato una nuova casa.

Torniamo, dunque, al sigaro di Freud. Azzardo – e lo faccio con tutti i tentennamenti del caso perché detesto questo genere di cose – che il sigaro con cui mi sto trastullando dall’inizio sia un simbolo fallico.

Ma, come diceva Nietzsche, vi sto spiegando la morale prima di raccontarvi la storia.

Vi propongo, dunque, due racconti.

Il primo è preso dalla mia esperienza di unico ragazzino ebreo in una scuola egiziana frequentata per il 97 per cento da musulmani (il restante 3 per cento circa erano cristiani). Stiamo per andare a lezione di nuoto e io mi lamento con l’insegnante che mi viene da vomitare – e per quanto ne so, in quel momento dev’essere vero, perché la paura fa novanta. Il motivo non è difficile da immaginare. Non mi voglio spogliare davanti agli altri compagni perché altrimenti rivelerei ai cattolici, che pensavano lo fossi anch’io, ai greci ortodossi, che avevano sempre sospettato fossi uno di loro, o ai musulmani, convinti che fossi a un passo dal convertirmi alla loro religione, essendo l’unico europeo che seguiva la lezione di Islam ogni settimana, che ero – per tutti loro – un impostore. Magari non ti senti ebreo, ma il giudaismo, e perdonatemi la metafora, ce l’hai inciso dentro, quasi a ricordarti che, per quanto cavilli sulla tua identità ebrea, ce l’hai marchiata a fuoco per la vita. Tu, e tutti gli altri, non avrete mai nessun dubbio. Ma come ben sapevano i commediografi elisabettiani e giacobini, è proprio questa la tragedia degli impostori. Anche quando sono completamente soli, non sanno più dove sta la verità. Ed essere consapevoli di tale paradosso non aiuta affatto.

Quando, però, spiegai a qualche mio parente perché odiavo le ore di nuoto – proprio io che adoravo il mare e la spiaggia al punto da desiderare di trascorrere tutta la vita nell’acqua, perché, se già sono ambivalente su tutto, di sicuro sono l’uomo più anfibio che esista – mi risposero con un altro racconto. Durante il massacro degli armeni, se un ebreo veniva scambiato per armeno dai turchi, non doveva fare altro che abbassarsi i pantaloni ed era salvo.

Consentitemi ora di non avere remore e di porre domande il cui scopo reale non è tanto arrivare alle risposte, ma darvi un’idea di quanto io, lo scrittore dalla cosmopolita Alessandria, mi senta confuso su questa faccenda dell’identità ebraica nel nostro mondo cosmopolita. A tal fine, immaginiamo per una frazione di secondo che Freud stia effettivamente reggendo in mano un simbolo fallico.

Cosa ci sta dicendo su quel fallo? Forse, mentre regge in mano un membro ebreo, sta affermando: «Guardate, signore e signori, sarò anche cosmopolita, ma non potrò mai dimenticare di essere ebreo, e nemmeno voglio farlo»?

O forse sta dicendo l’esatto opposto? «Guardate, ammirate e osservate: ecco la prova che non sono ebreo, e non lo sono mai stato.»

Oppure: «Se avessi saputo cosa avevate in mente, vi avrei forse permesso di sollevare la questione?»

O sta dicendo una cosa del tutto diversa? Cioè: «Non è altro che un semplice sigaro, punto. E solo un ebreo che viene da Alessandria e non ha mai compreso Freud né affrontato le proprie angosce sull’essere ebreo potrebbe pensarla altrimenti. Questo, signori, la dice lunga più su di voi che su di me».

E io, senza esitare nemmeno un secondo, direi che aveva ragione, che si tratta di me e del mio giudaismo riluttante, che desidera disperatamente trovare altri ebrei riluttanti in tutto il mondo. Fosse anche solo per nutrire l’illusione che esistano altri ebrei come me, che gli ebrei come me non sono soli, che forse tutti gli ebrei sono come me, nel senso che tutti gli ebrei sono altro da sé, sono ebrei soli. E che nessun ebreo può essere un ebreo autentico una volta uscito dal ghetto, che tutti gli ebrei si portano addosso il marchio della diaspora, così in profondità che fingere di non essere ebrei è forse la maniera più sicura per scoprire di esserlo e che, in questo strano nuovo mondo che ricorda loro che sono finalmente liberi, una parte di essi se ne starà sempre nascosta al buio e morirà dalla voglia di gridare a un altro ebreo: Ceci n’est pas un sigare.