New York, abbagliante

A volte non mi va di tornare a casa. Esco dall’ufficio o da una festa o dal posto in cui mi ero fermato a bere un caffè nel pomeriggio e, d’impulso, mi ritrovo a fare una lunga passeggiata. Non mi va di fare nulla di preciso durante queste camminate, anche se potrei inventarmi commissioni da sbrigare lungo il percorso, e non spero di incontrare qualcuno in particolare, anche se mi piacerebbe imbattermi in un amico ed essere invitato a prendere una birra o un altro caffè. È la città che mi interessa, non le persone, la città che bramo di incontrare e su cui voglio soffermarmi un po’ prima di congedarmi, oppure prima che lei si stanchi di me e mi lasci proseguire per la mia strada. La città dopo una giornata piena. La città nei pomeriggi di pioggia. La città quando ti prendi un giorno libero, ti alzi all’ora sbagliata, o scendi a una fermata non tua e vaghi per strade poco familiari e all’improvviso ti ritrovi in un cinema di cui non avevi mai immaginato l’esistenza e non vedi l’ora di entrare. Una città da scrittori; una città da cinefili; una città da notti bianche; una metropoli ordinata, fredda, moderna, in cui svettano edifici di vetro e che, nel giro di pochi secondi, può trasformarsi in un minuscolo quartiere con le sue pietanze etniche invasive e gustose, il cui aroma profuma le vie in acciottolato vecchie di centinaia d’anni, testimoni di epoche che nessuno ricorda e, dunque, perlopiù inventa.

In effetti un uomo che comprese il linguaggio segreto delle città – e il fatto che perfino i marciapiedi, come sirene, possono blandirci e parlarci – è esistito: Walter Benjamin, l’ebreo tedesco che si suicidò quando fuggire sembrava ormai impossibile. Aveva amato Parigi e Berlino, non solo per il loro aspetto, ma per le ombre che aleggiavano sopra di esse, l’ombra del tempo, l’ombra dell’esperienza, dei desideri e dei sogni, un’ombra che lo toccava sotto forma di strani indizi da ponti e costruzioni in muratura, un’ombra che forse però emanava dai suoi meandri più profondi e, come una pellicola, lasciava la propria impronta sugli angusti passaggi e cortili interni che aveva imparato ad amare così tanto. Tutto ciò che toccava e a cui faceva ritorno pareva perseguitato da quella pellicola interiore, da quella versione interiore di una città che sembrava sempre ansiosa di confidarsi con lui, di andargli incontro, di ricambiare il suo amore, e che alla fine lo aiutò a sognare una patria ovunque andasse. Senza questa pellicola illusoria che lui stesso proiettava intorno a sé non poteva connettersi a essa, tanto meno toccare o amare alcunché.

Al crepuscolo, risalirò la Broadway partendo dall’imponente Time Warner Center affacciato su Central Park. Come tutti, anch’io ho i miei angoli preferiti, i miei centri nevralgici privati e incandescenti in città. Torno da quegli altari votivi in miniatura con una certa apprensione, perché da un lato so che negozi e edifici svaniscono senza preavviso in maniera inquietante, ciononostante la cosa che temo di più è stare a guardare i miei vecchi luoghi di ritrovo che mi voltano le spalle o i miei sentimenti per loro che si raffreddano all’improvviso.

Oggi, passando davanti a tante case di produzione fantasma ormai svanite lungo la Broadway – Regency, Cinema Studio, Embassy, il vecchio Beacon, Loews sulla Ottantatreesima, il «New Yorker», Symphony, Thalia, Riviera, Riverside, Midtown, Olympia – so che mi ritaglierò un momento per piangere la loro dipartita. Ma la memoria è instabile, e la mente punta tutto su nuove emozioni. Ecco ciò che voglio dalla passeggiata di oggi: nuovi brividi, nuovi panorami, nuovi luoghi. Voglio estrapolare qualcosa di inedito dalla città, benché ancora non sappia definire cosa.

Da ogni passeggiata si ricava una città nuova. E ognuna di queste minuscole città ha la sua piazza principale, il suo centro, il suo memoriale, i suoi luoghi di interesse, le lavanderie automatiche, la stazione degli autobus... In breve il suo punto focale (dal latino focus, cioè fuoco, focolare, foyer, casa), un luogo intimo, un luogo dolce, un luogo soffice, un luogo caldo.

A volte, noncurante di cosa penseranno i passanti, mi piace fermarmi in uno di quei luoghi e restare fermo a osservare. A osservare, cioè, gli edifici dell’anteguerra con le loro file e colonne di finestre che mi ricordano una gigantesca tavola periodica. A osservare la massa di gente che corre a casa dopo il lavoro. A osservare chi invece esce di casa e si fionda a teatro, in viso l’aspettativa per la vita notturna che li attende. A osservare i negozi che resteranno aperti ancora per ore. A osservare il matto di turno che dispensa alleluia intorno alla sede dell’American Bible Society, o i fattorini in bicicletta che consegnano il cibo a domicilio scendere dal marciapiede, o la massa che esce dalla metropolitana, e come sempre intorno a Lincoln Square osservare il bagliore delle luci carnevalesche in quella clamorosa e abbagliante Via Lattea che, meno di quarant’anni fa, era una noiosa terra di nessuno, scaraventata come per effetto di un ripensamento tra il quartiere residenziale dell’Upper West Side e il famoso Hell’s Kitchen di West Side Story.

L’edificio in arenaria al numero 51 della Sessantasettesima Ovest non esiste più, ma lì hanno girato L’appartamento, che nel 1960 vinse l’Oscar come miglior film. La vecchia West Side era all’epoca ancora a conduzione familiare, marginalmente decorosa, benché il minimo indispensabile, e parlava con un accento inglese dell’interno del paese ormai sparito. Lì C.C. Baxter (Jack Lemmon) trova un appartamento accessibile per la sua padrona di casa, Mrs Lieberman, e si ritrova il vecchio dottor Dreyfuss come vicino. Un giorno poi la sua gentile moglie pettegola corre a salvare Miss Kubelik (Shirley MacLeine), che ha ingoiato troppe pillole. «Io abito nella Sessantasettesima Ovest» dice Jack Lemmon nel film, «a cento metri dal Central Park, pago ottantacinque dollari di affitto al mese.»

Qualche isolato più a nord si trova invece il regno di Woody Allen, dove ogni anno Hannah e le sue sorelle vanno a trovare i genitori per il giorno del Ringraziamento. Non lontano da lì, sulla West End Avenue, ci sono le case di Sergei Rachmaninoff e di Edgar Allan Poe. Poi, dopo Pomander Walk, dove viveva Bogie, si trova la casa di Gershwin, e tre isolati più in là quella di Duke Ellington. A volte i miei luoghi preferiti corrispondono ai centri ufficiali della città: Columbus Circle, Dante Square, Richard Tucker Square, Sherman Square, Verdi Square, Straus Park, ognuno di essi un puntino luminoso nella notte, quando si vola sopra New York, come grumi screziati che segnano le misteriose e magnetiche zone erogene della città.

Ma New York ha anche i suoi centri decentrati – clandestini, instabili, rivali –, miei e soltanto miei. Come un guardiamarina con un sestante, o un rabdomante con un bastone, o un esperto agopunturista con i suoi aghi, mi piace indicare le coordinate esatte di questi centri immaginari, sapendo che sono nomadi, capricciosi e mutevoli come un’instabile stella polare che continua a cambiare rotta per confondere l’asse della Terra. E forse è di questi luoghi privati e decentrati che vado alla ricerca durante le mie passeggiate. Non delle facce o della folla, nemmeno della città. È così che la nostra terrificante megalopoli draconiana disseminata di guglie che si chiama New York comincia ad attirarci a sé in segreto; quando nevica, all’improvviso si rimpicciolisce fino ad assumere proporzioni a misura d’uomo e diventa come un paesino della Westfalia; nei cocenti giorni d’estate acquisisce un profumo, una faccia giallognola e avvampata da vecchio mondo, la si può misurare su una scala umana, un villaggio di pescatori.

In quel momento incantato in cui all’improvviso siamo ben disposti a definirla l’unica casa che abbiamo mai voluto sulla terra, New York ci rende partecipi di un segreto ancora più grande: che ci «prende», che non dobbiamo preoccuparci di quei pensieri cupi e contorti, spettrali, che siamo fin troppo riluttanti a condividere con altri... perché lei stessa li ha, da sempre.

E all’improvviso capisco cosa conta davvero – da Melville, Whitman, Crane a Lorca, De Chirico, Cummings, Camus –, ovvero il miracolo dell’intimità con una città che forse è più dentro di noi di quanto non sia fuori sui marciapiedi, perché è vera anche un’altra cosa: forse su ciascuna delle sue strade sono proiettati più elementi di noi stessi che non di New York. Per questo non riusciamo mai a capire se il nostro amore sia genuino o semplicemente il prodotto dei nostri desideri sovreccitati scaraventati sul primo vicolo che si incontra.

Magari alla fin fine New York non è altro che un canovaccio, una spettrale pellicola che in realtà corrisponde alla nostra brama d’amore, amore per la vita, per gli edifici in muratura, per la memoria, a volte per nessuna cosa in particolare. Questo desiderio si riversa sulla città e poi dalla città torna a noi. Chiamatelo narcisismo. Oppure passione. Ha le sue vampate, le sue notti gelide, i suoi sbandamenti improvvisi e i suoi consensi entusiasti. È la nostra vita, finalmente rivelataci negli oggetti più duri e inanimati su cui potremmo mai posare lo sguardo: cemento, acciaio, pietra. Il nostro bisogno di amore e intimità è così potente che li cercheremo e li troveremo nell’asfalto e nella fuliggine.

Non è l’acciaio o il cemento che amiamo. L’acciaio e il cemento sono il mordente, la prima mano di vernice su cui poi applichiamo la nostra pellicola dei desideri. Senza di essa, la città non esisterebbe. La pellicola che depositiamo durante le nostre passeggiate luccica sulle dure superfici cittadine come la luminosa impronta che le scaglie dei pesci lasciano sul banco di un macellaio ore dopo che gli animali sono stati sbattuti, sfilettati e cotti – fuori dal tempo, cioè. Luccica ancora, pulsa ancora, raggiunge gli sconosciuti, li chiama, a volte molto dopo che ce ne siamo andati. La rimanenza di noi, la nostra immagine residua che resiste su questa città.

Ecco le mie pellicole dei desideri:

La città che avvizzisce a mezzogiorno. La città degli autobus che diventano scintillanti vaporetti8 nelle mattine nebbiose. La città degli after-hour alle due del mattino, quando si ferma un taxi e scende una schiera di ragazze seminude e agitate che si affrettano sul selciato con i loro rumorosi tacchi fuori misura e si infilano subito dentro una discoteca. La città nelle umide serate d’estate durante il weekend, quando il ronzio dei condizionatori vigila su silenziose strade secondarie che sono sgattaiolate tutte verso gli Hamptons. La città nelle gelide e terse mattinate d’inverno. La città vecchia degli spruzzi degli idranti – quando il tempo si ferma e il caldo aumenta e non desideri altro che un breve acquazzone per spezzare l’incantesimo, i bambini giocano ancora nell’acqua? La città che trattiene il fiato, che misura l’estensione delle nubi. La città quando poi finalmente piove. La città delle lunghe ombre. La città dei ponti che illuminano la notte. La città noir di Richard Widmark e Dana Andrews. La città quando fa un salto a NoLIta, TriBeCa, NoHo, NoHar, SoHo, SoHar – la città che non ha tempo per dormire, la città che non saprebbe dove trovare il sonno. Il fresco fasullo delle sere di giugno che tutti sanno si trasformerà ben presto in una calura insopportabile. L’estate fasulla in febbraio, quando siamo tutti in giro in maglietta a mezze maniche. La rilassante ambiguità dell’estate di san Martino – quest’anno meglio avere l’illusione dell’estate che dovere affrontare ottobre. L’autunno in città: come ce la dimentichiamo in fretta la nostra passione per l’estate. Il temuto inverno che sappiamo tutti di amare.

A volte cerco la città che so New York non potrà mai tornare a essere. Una città derivata che si ritrova più nei romanzi e nei film che non sui marciapiedi. La mia città. Una città sconfinata, le cui luci solitarie occhieggiano dai piani alti e si scambiano racconti con le stelle, parlano della notte quando si erano spente le luci e la città aveva perso l’orientamento, o di quel giorno in cui il mondo si era fermato e noi pensavamo di avere perso il senno. La città che si reinventa di minuto in minuto ma non sa mai dov’è diretta, la città amata dai suoi nemici più di quanto lei stessa non ami odiarsi. La città che viene sempre paragonata a Roma, perché prima o poi Roma doveva cadere, ma non sarà mai Atene, perché è ancora troppo giovane per avere un passato.

Nelle mie passeggiate è questa città che vado a cercare. La New York che non ha data. Atemporale, irreale, spettrale, e abbagliante.

La città come avrebbe potuto vederla Walter Benjamin se si fosse sbrigato e avesse attraversato i Pirenei prima che i nazisti gli fossero con il fiato sul collo. La città ipotetica della vita ipotetica di Benjamin. Il suo spirito aleggia tutt’intorno proprio perché non ce l’ha fatta. Permangono fantasmi mai appartenuti a gente che è stata qui da viva.

Troverò una panchina da qualche parte, mi siederò, starò con lui. Benjamin Square. Benjamin Place. Forse è questo il suo altare invisibile, il suo posto, il ganglio che di notte brilla sempre prima che le sue luci si smorzino. Da qui si irradia ogni cosa, e qui ogni cosa fa ritorno. La place de l’Ètoile immaginaria di New York. La Grand Army Plaza di Parigi.

A un certo punto potrei anche prendere l’autobus. Ho trovato qualcosa oggi? Non sempre so darmi una risposta. Sono arrivato in un punto focale iridescente dove il tempo si è fermato e mi sono sentito tutt’uno con me stesso e con questa città? Nemmeno questo so. Del resto, come si fa a saperlo? Ti fermi e ti guardi in giro, fissi prima questo edificio poi quell’altro, quella strada angusta che compie una strana curva ed evoca qualcosa di non più bizzarro di una fantasia, un probabile sudario dietro il quale è in agguato l’impronta di una vita non vissuta che ci attende. Perfino l’autobus potrebbe rivelarsi un posto interessante sotto mentite spoglie, diretto verso destinazioni e panorami mai visti. Ogni cosa sussurra nel pressante linguaggio segreto delle città, ma io non sempre sono in ascolto, non sempre sento, e a volte non comprendo le parole.

Mi guardo in giro di nuovo, ma all’improvviso l’angusta strada che compie quella strana curva si ferma, gli edifici tacciono e l’autobus torna a essere un semplice autobus.

Questo è il mio mondo, questa la mia vita. Un’ultima occhiata prima di rincasare. Disperatamente, insisto, chissà perché, un ultimo tentativo, finché lentamente qualcosa prende consapevolezza sotto forma di domanda: Che cosa c’è in me che vuole qualcosa qui fuori? Che poi è un altro modo per chiedere: Che cosa c’è là fuori che chiama qualcosa dentro di me?

Sono arrivato con questa domanda e me ne vado con la stessa domanda. Risposte non ce ne sono. Rimane, invece, la sensazione che la vera questione non sia nemmeno una domanda, ma una richiesta a doppio taglio che recita così: Non portatela via. Soprattutto, non portate via me.