21.
MEDITAZIONE
Osservate soltanto
Dopo tutte le critiche alle narrazioni, alle religioni e alle ideologie, è un semplice gesto di onestà intellettuale esporre me stesso in prima linea e spiegare come mai con tutto il mio scetticismo io riesca ancora a svegliarmi al mattino ben disposto verso il mondo. Non vorrei peccare di autoindulgenza nel farlo e non vorrei dare l’impressione, che sarebbe sbagliata, di presumere che quello che funziona per me possa funzionare per tutti. Sono ben consapevole che le bizzarrie dei miei geni, neuroni, storia personale e dharma non sono condivise da ciascuno di voi. Ma credo sia giusto per i lettori sapere quali lenti colorate sono montate sugli occhiali con i quali vedo la realtà, e di conseguenza in che modo viene deformata l’immagine che ne ho e influenzato quello che scrivo.
Da adolescente ero un ragazzo tormentato e irrequieto. Il mondo non aveva senso per me, e non trovavo risposte alle grandi domande che mi ponevo sulla vita. In particolare, non capivo perché ci fosse così tanta sofferenza nel mondo e nella mia vita, e che cosa avrei potuto fare al riguardo. Tutto quello che ottenevo dalle persone intorno a me e dai libri che leggevo erano elaborate finzioni: miti religiosi su dèi e paradisi, miti nazionalisti sulla madrepatria e sulla sua missione storica, miti romantici sull’amore e sull’avventura, o miti capitalistici sulla crescita economica e su come l’acquisto e il consumo di merci mi avrebbero reso felice. Avevo abbastanza buonsenso per comprendere che queste erano probabilmente tutte finzioni, ma non avevo idea di come trovare la verità.
Quando cominciai a studiare all’università, pensai che sarebbe stato il posto ideale per trovare le risposte che cercavo. Ma rimasi deluso. Il mondo accademico mi forniva poderosi strumenti per decostruire tutti i miti che gli uomini si erano creati, ma nessuna risposta ai grandi interrogativi della vita. Al contrario, mi incoraggiò a concentrarmi su questioni sempre più stringenti. Poi trovai la mia strada scrivendo una tesi di dottorato all’Università di Oxford sui testi autobiografici dei soldati medievali. Come passatempo continuai a leggere una gran quantità di libri filosofici e ad impegnarmi in molte discussioni filosofiche ma, benché questo mi procurasse un infinito piacere intellettuale, non provocava alcuna vera intuizione. Era molto frustrante.
Alla fine il mio buon amico Ron mi suggerì che almeno per qualche giorno avrei dovuto lasciar perdere tutti i libri e le discussioni intellettuali, e provare un corso di meditazione Vipassana (Vipassana significa “introspezione” nella lingua pali dell’antica India). Pensai che si trattasse di qualche sciocchezza new age, e poiché non avevo alcun interesse ad ascoltare l’ennesima mitologia, decisi di non andare. Ma dopo un anno di paziente incoraggiamento, nell’aprile del 2000 mi risolsi a iscrivermi a un ritiro di dieci giorni Vipassana.1
In precedenza le mie conoscenze sulla meditazione erano ben scarse, e pensavo fosse necessario documentarmi su tutte quelle complesse teorie mistiche. Mi sorprese invece la gestione assolutamente pragmatica del corso. L’insegnante, S.N. Goenka, ci chiese di stare seduti con le gambe incrociate e gli occhi chiusi, e concentrò tutta la nostra attenzione sull’attività di inspirare ed espirare l’aria dalle nostre narici. “Non fate niente,” ripeteva, “non cercate di controllare il respiro o di respirare in un modo particolare. Osservate soltanto la realtà del momento presente, qualunque essa sia. Quando state inspirando, siete solo consapevoli di questo: adesso il respiro sta entrando. Quando state espirando, siete solo consapevoli di questo: adesso il respiro sta uscendo. E quando perdete la concentrazione e la vostra mente comincia a vagare tra i ricordi e le fantasie, siete solo consapevoli di questo: adesso la mia mente ha vagato lontano dal respiro.” Fu la cosa più importante che mi avessero mai detto.
Quando ci poniamo le grandi domande della vita, di solito non abbiamo alcun interesse nel sapere quando il nostro respiro entra attraverso le narici e quando esce. Ci chiediamo invece cosa succede dopo la morte. Ma l’enigma reale della vita non è ciò che accade dopo la morte, ma ciò che accade prima della morte. Se volete comprendere la morte, dovete prima capire la vita.
Le persone chiedono: “Quando muoio, mi limiterò a scomparire? Andrò in paradiso? Rinascerò in un nuovo corpo?” Tutte domande basate sull’assunto che esista un “io” che resti uguale dalla nascita alla morte, e che la domanda sia: “Che cosa accadrà a questo io al momento della morte?” Ma che cos’è che si mantiene intatto dalla nascita alla morte? Il corpo muta di continuo in ogni istante. Più vi osservate da vicino, e più sarà evidente che niente si mantiene intatto anche da un istante a quello successivo. Allora che cosa è che tiene insieme una vita intera? Se non conoscete la risposta a questa domanda, non potete comprendere la vita, e di certo non avete alcuna possibilità di comprendere la morte. Se e quando mai scoprirete che cosa tiene insieme la vita, allora anche la risposta al grande interrogativo sulla morte vi apparirà chiara.
Si dice: “L’anima si mantiene intatta dalla nascita alla morte e pertanto tiene insieme la vita” – ma questa è solo una storia. Avete mai osservato un’anima? Potete pensarci in ogni istante, non solo in punto di morte. Se riuscite a comprendere ciò che vi accade quando un istante finisce e un altro comincia – allora avrete anche compreso quello che vi accadrà quando sopraggiungerà la morte. Se riuscite davvero a osservare voi stessi per la durata di un singolo respiro – allora comprenderete tutto.
La prima cosa che imparai dall’osservazione del mio respiro era che, nonostante tutti i libri che avevo letto e tutte le lezioni che avevo frequentato all’università, non sapevo quasi niente sulla mia mente, e ne avevo uno scarso controllo. Malgrado i miei sforzi più tenaci, non riuscivo a osservare la realtà del mio respiro che entrava e che usciva dalle mie narici per più di dieci secondi prima che la mente iniziasse a vagare lontano. Per anni avevo vissuto con l’impressione di essere il padrone della mia vita, e l’amministratore delegato del mio marchio. Ma poche ore di meditazione furono sufficienti a mostrarmi che non avevo affatto alcun controllo di me stesso, che non ero io l’amministratore delegato – ero appena l’usciere. Mi era stato chiesto di stare all’ingresso del mio corpo – le narici – e di osservare soltanto qualsiasi cosa vi entrasse o vi uscisse. Eppure, dopo pochi istanti, perdevo la concentrazione e abbandonavo il mio posto. Fu un’esperienza che mi aprì gli occhi.
In seguito, nel corso ci insegnarono a osservare non solo il respiro, ma anche le sensazioni nel corpo. Non speciali sensazioni di benedizione o di estasi, bensì le sensazioni più mondane e prosaiche: calore, pressione, dolore e così via. La tecnica Vipassana è basata sull’intuizione che il flusso della mente è strettamente collegato con le sensazioni del corpo. Fra me e il mondo ci sono sempre le sensazioni fisiche. Non reagisco mai agli eventi del mondo esteriore; reagisco sempre alle sensazioni che si sviluppano all’interno del mio corpo. Quando la sensazione è sgradevole, reagisco con avversione. Quando la sensazione è piacevole, reagisco con il desiderio di averne ancora. Anche quando crediamo di reagire a ciò che un’altra persona ha fatto, all’ultimo tweet del presidente Trump o a un lontano ricordo d’infanzia, la verità è che reagiamo sempre alle nostre sensazioni fisiche immediate. Se siamo indignati per il fatto che qualcuno ha insultato la nostra nazione o il nostro dio, ciò che rende l’insulto intollerabile sono le sensazioni di bruciore alla bocca dello stomaco e la fitta di dolore al cuore. La nostra nazione non sente niente, ma il nostro corpo soffre per davvero.
Volete sapere che cos’è la rabbia? Bene, osservate soltanto le sensazioni che attraversano e lasciano il vostro corpo mentre siete arrabbiati. Avevo ventiquattro anni quando presi parte a questo ritiro, e prima avrò sperimentato la rabbia almeno diecimila volte, ma mi sono sempre concentrato sull’oggetto della mia rabbia – qualcosa che qualcuno aveva fatto o detto – piuttosto che sulla realtà sensoriale della rabbia.
Penso di aver imparato di più su me stesso e sugli uomini in generale osservando le mie sensazioni in quei dieci giorni che nella mia intera vita fino a quel momento. E nel fare questo non avevo dovuto accettare alcuna storia, teoria o mitologia. Avevo dovuto soltanto osservare la realtà per quello che era. La cosa più importante che compresi era che la sorgente più profonda della mia sofferenza risiede nei miei schemi mentali. Quando voglio qualcosa e questo non accade, la mia mente reagisce generando sofferenza. La sofferenza non è una condizione oggettiva del mondo esteriore. È una reazione mentale stimolata dalla mia mente. Imparare questo è il primo passo per cessare di provocare ulteriore sofferenza.
Dopo il primo corso nel 2000, cominciai a meditare per due ore al giorno, e ogni anno mi prendo un lungo periodo di ritiro meditativo della durata di un mese o due. Non si tratta di una fuga dalla realtà. Anzi, è entrare in contatto con la realtà. Almeno per due ore al giorno in effetti osservo la realtà per quello che è, mentre per le restanti ventidue ore sono sopraffatto dalle e-mail, dai tweet e dai video di teneri cuccioli. Senza la concentrazione e la lucidità fornite da questa pratica, non avrei potuto scrivere Sapiens o Homo Deus. Nel mio caso, la meditazione non è mai entrata in conflitto con la ricerca scientifica. Piuttosto, è stato un altro valido strumento nella cassetta degli attrezzi scientifica, specialmente quando cercavo di comprendere la mente umana.
Scavare da entrambi i lati
La scienza trova complicato decifrare i misteri della mente in gran parte perché non disponiamo di strumenti efficienti. In molti, compresi parecchi scienziati, tendono a confondere la mente con il cervello, ma sono cose assai differenti. Il cervello è una rete materiale di neuroni, sinapsi e sostanze biochimiche. La mente è un flusso di esperienze soggettive, come il dolore, il piacere, la rabbia e l’amore. I biologi pensano che il cervello in qualche modo produca la mente, e che le reazioni biochimiche di miliardi di neuroni in qualche modo producano esperienze come il dolore e l’amore. Non abbiamo ancora alcuna spiegazione di come la mente emerga dal cervello. Come si spiega che quando miliardi di neuroni inviano segnali elettrici secondo un particolare schema io provo dolore, e quando i neuroni inviano segnali in uno schema differente io provo amore? Non ne abbiamo la più pallida idea. Di conseguenza, anche se la mente in effetti è un prodotto del cervello, almeno per adesso lo studio della mente è un’impresa diversa dallo studio del cervello.
La ricerca sul funzionamento del cervello sta facendo passi da gigante grazie all’aiuto di microscopi, scanner cerebrali e potenti computer. Ma non possiamo vedere la mente attraverso un microscopio o uno scanner cerebrale. Questi strumenti ci mettono nelle condizioni di rilevare le attività biochimiche ed elettriche nel cervello, ma non ci danno alcun accesso alle esperienze soggettive associate a queste attività. Nel 2018, l’unica mente a cui posso accedere direttamente è la mia. Se voglio conoscere quello di cui altri esseri senzienti stanno facendo esperienza, posso farlo solo sulla base di testimonianze di seconda mano, che ovviamente sono viziate da numerose distorsioni e limiti.
Senza dubbio potremmo raccogliere molte testimonianze di seconda mano da varie fonti, e utilizzare le statistiche per identificare gli schemi ricorrenti. Questi metodi hanno permesso a psicologi e neuroscienziati non solo di capire meglio la mente, ma anche di migliorare e persino di salvare milioni di vite. A ogni modo, è difficile riuscire ad andare oltre un certo punto ricorrendo soltanto alle testimonianze indirette. Quando si indaga in modo scientifico su un fenomeno, la cosa migliore è l’osservazione diretta. Gli antropologi, per esempio, fanno un ampio uso delle fonti secondarie, ma se davvero volete comprendere la cultura samoana, prima o poi dovrete fare le valigie e andare a Samoa.
Ma andare a Samoa non basta. Un blog scritto da un saccopelista che visita Samoa non può essere considerato uno studio antropologico scientifico, perché la maggior parte dei saccopelisti è priva dei necessari strumenti concettuali e dell’indispensabile preparazione. Inoltre le loro osservazioni sono casuali e soggette a pregiudizio. Per diventare antropologi degni di questo nome, dovete imparare come si osservano le culture umane con metodo obiettivo, libero da preconcetti e pregiudizi. Che è esattamente quello che si studia al dipartimento di antropologia, ed è quello che ha permesso agli antropologi di svolgere un ruolo essenziale nel costruire ponti tra culture differenti.
Lo studio scientifico della mente di rado segue il modello antropologico. Mentre gli antropologi spesso riferiscono delle loro trasferte presso isole remote e paesi misteriosi, gli studiosi della coscienza quasi mai intraprendono viaggi personali nei reami della mente. Poiché l’unica mente che io possa osservare in modo diretto è la mia, e non importa quanto sia difficile osservare la cultura samoana senza preconcetti e pregiudizi, è ancora più complesso osservare la mia mente con obiettività. Dopo oltre un secolo di duro lavoro, gli antropologi oggi dispongono di procedure efficaci per l’osservazione obiettiva. Al contrario, mentre gli studiosi della mente hanno messo a punto molti strumenti per raccogliere e analizzare le testimonianze indirette, nel campo dell’osservazione delle nostre menti abbiamo appena iniziato a sfiorare la superficie del problema.
Senza metodi moderni per l’osservazione diretta della mente, potremmo provare alcuni degli strumenti messi a punto dalle culture premoderne. Numerose culture antiche hanno dedicato grande attenzione allo studio della mente, e non si sono basate sulla raccolta di testimonianze indirette, ma sull’esperienza di persone che osservano la propria mente in modo sistematico. I metodi che hanno sviluppato sono catalogati sotto il termine generico “meditazione”. Oggi questo termine è spesso associato alla religione e al misticismo, ma la meditazione è, nella sua essenza, qualsiasi metodo per l’osservazione diretta della propria mente. Molti culti in effetti hanno fatto largo uso di varie tecniche di meditazione, ma questo non significa che la pratica meditativa sia per forza religiosa. La gran parte delle religioni ha anche fatto un abbondante uso di libri, ma questo non significa che leggere libri sia una pratica religiosa.
Nel corso dei millenni gli uomini hanno sviluppato centinaia di tecniche di meditazione, che si distinguono nei loro principi e per la loro efficacia. Personalmente ho fatto esperienza di una sola tecnica – Vipassana – perciò è l’unica di cui io possa parlare con qualche competenza. Proprio come parecchie altre tecniche meditative, si dice che Vipassana sia stata scoperta nell’antica India dal Buddha. Nel corso dei secoli numerose teorie e storie sono state attribuite al Buddha, spesso senza alcuna prova circostanziata. Ma non c’è bisogno di credere a nessuna di queste per meditare. L’insegnante da cui ho imparato Vipassana, Goenka, era una guida molto pratica. Raccomandava sempre agli allievi che, quando osservano la mente, devono mettere da parte tutte le descrizioni di seconda mano, i dogmi religiosi e le congetture filosofiche, e concentrarsi sulla loro esperienza e su qualsiasi realtà in cui s’imbattono effettivamente. Ogni giorno numerosi studenti giungevano nella sua stanza in cerca di un orientamento e per fare domande. All’ingresso della stanza un cartello diceva: “Evitate per favore discussioni teoretiche e filosofiche, e concentrate le vostre domande su questioni relative alla vostra pratica contingente.”
La pratica effettiva consiste nell’osservare le sensazioni corporee e le reazioni mentali ad esse in una maniera metodica, continua e obiettiva, per scoprire così gli schemi fondamentali della mente. Spesso si confonde la meditazione con la ricerca di speciali esperienze di benedizione ed estasi. Ma la coscienza è il più grande mistero nell’universo, e le prosaiche sensazioni di caldo e prurito sono tanto misteriose quanto le sensazioni di rapimento o di unione cosmica. La raccomandazione costante a coloro che praticano la meditazione Vipassana è di non lasciarsi mai tentare dalla ricerca di sensazioni speciali, ma di concentrarsi per comprendere la realtà fattuale della loro mente, qualsiasi questa possa essere.
Da qualche anno studiosi della mente e del cervello hanno mostrato un interesse crescente verso queste tecniche meditative, ma la maggior parte dei ricercatori ha utilizzato tale strumento solo in modo indiretto.2 Lo scienziato tipo non pratica la meditazione in prima persona. Piuttosto invita esperti di meditazione nel suo laboratorio, affolla le loro teste di elettrodi, chiede loro di meditare, e osserva i risultati delle attività cerebrali su un monitor. Questo può insegnarci molte cose interessanti sul cervello, ma se lo scopo è comprendere la mente, perdiamo alcune delle intuizioni più interessanti. Procedere in questo modo è come tentare di comprendere la struttura della materia osservando una pietra attraverso una lente d’ingrandimento. Potete andare da chi segue questo metodo, porgergli un microscopio e dirgli: “Prova con questo. Potresti vederci molto meglio.” Lui o lei prenderanno il microscopio, afferreranno la loro fidata lente d’ingrandimento e osserveranno con attenzione attraverso la lente d’ingrandimento la materia di cui è composto il microscopio… La meditazione è uno strumento per osservare la mente in modo diretto. La maggior parte del potenziale conoscitivo va perso se, invece di meditare voi stessi, controllate le attività elettriche cerebrali di qualcun altro che medita.
Di certo non sto suggerendo di abbandonare gli strumenti attuali e le pratiche in uso per la ricerca sul cervello. La meditazione non li sostituisce, ma potrebbe integrarli. È un po’ quello che accade quando gli ingegneri scavano un tunnel attraverso una montagna enorme. Perché scavare solo da un lato? Molto meglio scavare contemporaneamente da entrambi i lati. Se il cervello e la mente sono in effetti una cosa sola, i due tunnel sono destinati a incontrarsi. E se il cervello e la mente non sono la stessa cosa? Allora è ancora più importante scavare nella mente, e non solo nel cervello.
Alcune università e alcuni laboratori hanno in effetti cominciato a usare la meditazione come uno strumento di ricerca piuttosto che come un mero oggetto per studi sul cervello. Ma questo processo sta muovendo ancora i primi passi, in parte perché richiede un investimento eccezionale da parte dei ricercatori. Una pratica meditativa seria esige una disciplina molto rigorosa. Se cercate di osservare in maniera oggettiva le vostre sensazioni, la prima cosa che noterete è quanto sia selvaggia e impaziente la mente. Anche se vi concentrate sull’osservazione di una sensazione relativamente definita come il respiro che entra ed esce dalle vostre narici, la vostra mente di solito lo farà per non più di qualche secondo prima di perdere la sua concentrazione e cominciare a vagare tra pensieri, ricordi e sogni.
Quando un microscopio va fuori fuoco, è sufficiente che giriamo una manopola. Se la manopola è rotta, possiamo chiamare un tecnico per farla riparare. Ma quando la mente perde la concentrazione non possiamo ripararla con altrettanta facilità. Di solito occorre un lungo addestramento per calmare e concentrare la mente così che possa ricominciare a osservare se stessa con metodo e obiettività. Forse in futuro potremo inghiottire una pillola e ottenere una concentrazione istantanea. Ma la meditazione mira a esplorare la mente piuttosto che limitarsi a farla concentrare, e una simile scorciatoia potrebbe rivelarsi controproducente. La pillola potrebbe renderci molto vigili e concentrati, ma allo stesso tempo potrebbe anche impedirci di esplorare l’intero spettro della mente. In fondo, anche oggi siamo in grado di concentrare la mente con facilità guardando un buon thriller in televisione – ma la mente è così concentrata sul film che non può osservare le proprie dinamiche.
Anche se non possiamo fare affidamento su simili gadget tecnologici, non dovremmo rinunciare al tentativo. Possiamo trovare ispirazione nell’esperienza di antropologi, zoologi e astronauti. Antropologi e zoologi trascorrono parecchi anni su isole remote, esposti a una grande varietà di disagi e pericoli. Gli astronauti dedicano molti anni a difficili regimi di addestramento, preparandosi per le loro rischiose escursioni nello spazio. Se siamo disposti a fare questi sforzi per capire culture straniere, specie sconosciute di animali e lontani pianeti, potrebbe valere la pena di impegnarsi con serietà per comprendere le nostre menti. E potremmo comprendere meglio le nostre menti prima che siano gli algoritmi a prendere decisioni per noi.
L’osservazione di se stessi non è mai stata facile, ma potrebbe diventare più difficile con il passare del tempo. Nel corso della storia gli uomini hanno creato storie su loro stessi sempre più elaborate, che hanno reso sempre più difficile sapere chi siamo davvero. Queste storie avevano lo scopo di unire vasti gruppi di persone, accumulare potere e mantenere l’armonia sociale. Sono state vitali per nutrire miliardi di persone affamate e assicurare che non si tagliassero la gola a vicenda. Quando la gente ha tentato di osservare se stessa, quello che di solito ha scoperto è che queste storie sono narrazioni preconfezionate. Del resto esplorare la realtà con mente aperta era anche pericoloso. Era una minaccia per l’ordine sociale.
Quando la tecnologia è migliorata, sono accadute due cose. Primo, quando i coltelli fatti di selce si sono evoluti in missili nucleari, è divenuto più rischioso destabilizzare l’ordine sociale. Secondo, quando le pitture rupestri si sono evolute nei programmi televisivi, è divenuto più facile illudere la gente. In un prossimo futuro, gli algoritmi potrebbero portare questo processo a compimento, rendendo quasi impossibile alle persone osservare la realtà che le riguarda e le costituisce. Saranno gli algoritmi a decidere per noi chi siamo e che cosa dovremmo sapere di noi stessi.
Ancora per pochi anni o decenni, avremo facoltà di scegliere. Se ci impegniamo, potremo ancora indagare chi siamo davvero. Ma per cogliere questa opportunità, dobbiamo farlo subito.