7.

NAZIONALISMO

Problemi globali necessitano di soluzioni globali

Dal momento che l’intero genere umano costituisce oggi un’unica civiltà, dove tutti condividono problemi e opportunità, perché britannici, americani, russi e numerosi altri gruppi tendono verso l’isolamento nazionalistico? Un ritorno al nazionalismo offre soluzioni concrete ai nuovi problemi del nostro mondo globale, o si tratta di una tendenza a evadere dalla realtà che può condannare gli uomini e l’intera biosfera al disastro?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima sfatare un mito. Contrariamente a quanto in genere si pensa, il nazionalismo non è una componente naturale ed eterna della psiche umana e non ha radici nella biologia. È vero, gli esseri umani sono animali sociali in tutto e per tutto, con la lealtà di gruppo impressa nei loro geni. Però, per centinaia di migliaia di anni, Homo sapiens e i suoi antenati ominidi hanno vissuto in comunità ristrette, che contavano non più di qualche dozzina di individui. Gli uomini sono naturalmente portati alla lealtà verso piccoli gruppi come una tribù, una compagnia di fanteria o un’azienda familiare, ma non è affatto naturale per loro provare lealtà per milioni di perfetti estranei. Queste forme di lealtà di massa si sono manifestate solo nelle ultime migliaia di anni – in termini evoluzionistici ieri l’altro – e richiedono immensi sforzi per la loro affermazione nelle società.

La gente si è presa il disturbo di costruire ideali collettivi nazionali, perché le difficoltà e i problemi non potevano essere affrontati dalla singola tribù. Consideriamo, per esempio, le antiche popolazioni che vivevano lungo il Nilo migliaia di anni fa. Il fiume per loro era la vita. Irrigava e fertilizzava i campi e consentiva il trasporto delle merci. Ma era anche un alleato imprevedibile. Se le piogge erano scarse, la gente moriva di fame; se invece erano abbondanti, il fiume allagava e distruggeva interi villaggi. Nessuna tribù poteva risolvere il problema con le sue forze, perché ognuna si limitava a controllare un breve tratto di fiume e non poteva mobilitare più di qualche centinaio di lavoratori. Solo con uno sforzo comune per costruire dighe giganti e per scavare centinaia di chilometri di canali si poteva sperare di controllare e sfruttare il fiume. Questo fu uno dei motivi per cui le tribù a poco a poco si coalizzarono in una singola nazione, con il potere di costruire dighe e canali, regolare il flusso dell’acqua, ammassare riserve di grano per gli anni di magra, e istituire su tutto il territorio un sistema di trasporto e comunicazione.

Nonostante questi vantaggi, trasformare le tribù e i clan in nazioni unitarie non è mai stato semplice, né in tempi antichi né ai tempi odierni. Per rendersi conto di quanto sia difficile identificarsi in una nazione, basta chiedersi: “Conosco tutta questa gente?” Io conosco per nome le mie due sorelle e i miei undici cugini, e posso passare una giornata a parlare delle loro personalità, stranezze e relazioni. Non sono in grado di nominare gli otto milioni di individui che condividono con me la cittadinanza israeliana, non ho mai incontrato la maggioranza di loro ed è poco verosimile che li possa mai incontrare in futuro. La capacità di sentire comunque un vincolo di lealtà verso questa massa sconosciuta non è un’eredità dei miei antenati cacciatori-raccoglitori, ma un miracolo della storia recente. Un biologo marziano che conoscesse solo l’anatomia e l’evoluzione di Homo sapiens non potrebbe mai immaginare che queste scimmie siano in grado di sviluppare legami di comunione ideale con milioni di sconosciuti. Per convincermi a essere leale verso “Israele” e i suoi otto milioni di abitanti, il movimento sionista e lo stato di Israele hanno dovuto creare un gigantesco apparato educativo, propagandistico e promotore dell’orgoglio locale, associato a un sistema nazionale di sicurezza, sanità e welfare.

Questo non significa che ci sia qualcosa di sbagliato nei sentimenti di lealtà nazionali. Sistemi giganteschi non possono funzionare senza lealtà di massa, e l’espansione del cerchio dell’empatia umana ha certamente i suoi meriti. Le forme moderate di patriottismo sono una delle più affettuose espressioni dell’umanità. Credere che la mia nazione sia unica, che meriti il mio sostegno, e che io abbia speciali obblighi verso i suoi membri mi induce a prendermi cura degli altri e ad affrontare sacrifici per loro. È un errore pericoloso credere che senza nazionalismo vivremmo in un paradiso liberale. Più probabilmente vivremmo in un caos tribale. Paesi pacifici, prosperi e liberali come la Svezia, la Germania e la Svizzera godono tutti di un forte sentimento nazionalista. L’elenco di paesi che soffrono la mancanza di forti legami nazionali include l’Afghanistan, la Somalia, il Congo e altri stati cosiddetti “falliti”.1

Il problema nasce quando il patriottismo benevolo si trasforma in sciovinistico ultra-nazionalismo. Invece di credere che la mia nazione sia unica – che è vero per tutte le nazioni – potrei scivolare nella presunzione che la mia nazione sia superiore, che le debba lealtà assoluta, e che io non abbia obblighi significativi verso nessun altro. Questo è terreno fertile per l’innesco di conflitti violenti. Per generazioni la principale critica che veniva mossa contro il nazionalismo era che conduceva alla guerra. Tuttavia questa correlazione tra nazionalismo e violenza non è bastata ad arginare gli eccessi nazionalisti, in particolar modo perché ogni nazione ha giustificato la propria espansione militare con la necessità di proteggersi dalle macchinazioni dei propri vicini. Se la nazione garantiva alla maggior parte dei cittadini livelli di sicurezza e prosperità mai visti prima, questi erano felici di pagarne il prezzo col sangue. Nel XIX secolo e agli inizi del XX il patto nazionalista appariva ancora molto allettante. Anche se il nazionalismo conduceva verso conflitti terrificanti di portata sconosciuta, gli stati-nazione moderni hanno pure costruito sistemi sanitari, di istruzione e di welfare di massa. I sistemi sanitari nazionali hanno fatto sì che le battaglie di Passchendaele e di Verdun sembrassero accettabili.

Tutto è cambiato nel 1945. L’invenzione delle armi nucleari ha sbilanciato l’equilibrio dell’accordo nazionalista. Dopo Hiroshima la gente non temeva più che il nazionalismo portasse a una semplice guerra – iniziò a temere una guerra nucleare. La distruzione totale ha il potere di affinare le menti e, grazie in larga misura alla bomba atomica, l’impossibile accadde e il genio del nazionalismo fu fatto rientrare almeno in parte nella sua lampada. Proprio come gli antichi abitanti del bacino del Nilo hanno spostato un po’ della loro lealtà dai clan locali verso un regno decisamente più vasto, che era in grado di controllare il fiume pericoloso, così nell’era nucleare si è sviluppata una comunità globale oltre e sopra le diverse nazioni, perché solo una comunità del genere poteva controllare il demone nucleare.

Nella campagna presidenziale americana del 1964, Lyndon B. Johnson mandò in onda il famoso Daisy advertisement, una delle più riuscite comunicazioni di propaganda negli annali della televisione. L’annuncio inizia con una bambina che stacca i petali da una margherita mentre conta, ma quando raggiunge il dieci, una voce maschile metallica prende il sopravvento contando da dieci a zero: il conto alla rovescia per il lancio di un missile. Raggiunto lo zero, il flash luminoso di un’esplosione nucleare riempie lo schermo, e il candidato Johnson si rivolge al pubblico americano dicendo: “Questa è la posta in gioco. Creare un mondo in cui possono vivere tutti i figli di Dio, o il buio. Dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.”2 Tendiamo ad associare lo slogan “Fate l’amore, non fate la guerra” alla controcultura della fine degli anni sessanta, ma in realtà già nel 1964 era opinione accettata persino tra politici incalliti come Johnson.

Di conseguenza, durante la guerra fredda il nazionalismo è rimasto nelle retrovie, lasciando spazio a un approccio più globale nella politica internazionale, e quando la guerra fredda è finita, la globalizzazione è sembrata un’irresistibile onda verso il futuro. Ci si aspettava che l’umanità si sarebbe lasciata completamente alle spalle le politiche nazionalistiche, come una reliquia di tempi più primitivi, che può allettare al massimo gli abitanti disinformati di qualche paese sottosviluppato. Ma i fatti degli ultimi anni, invece, hanno dimostrato che il nazionalismo ha ancora una forte presa persino sui cittadini dell’Europa e degli Stati Uniti, per non parlare della Russia, dell’India e della Cina. Alienata dalle forze impersonali del capitalismo globale e preoccupata per le sorti dei sistemi sanitari, di istruzione e di welfare nazionali, la gente in tutto il mondo cerca sicurezze e valori nell’abbraccio della nazione.

Quindi la questione sottolineata da Johnson nel Daisy advertisement è ancora più attuale oggi di quanto non lo fosse nel 1964. Vogliamo creare un mondo in cui tutti gli esseri umani possano vivere insieme o vogliamo andare verso il buio? Donald Trump, Theresa May, Vladimir Putin, Narendra Modi e i loro colleghi salvano il mondo fomentando i nostri sentimenti nazionali, o l’attuale ventata nazionalista è una forma di irresponsabile evasione dagli insolubili problemi globali che dobbiamo affrontare?

La sfida nucleare

Iniziamo con la familiare nemesi dell’umanità: la guerra nucleare. Quando il Daisy advertisement è stato trasmesso nel 1964, due anni dopo la crisi dei missili di Cuba, l’annientamento nucleare era una minaccia palpabile. Sia gli esperti che i profani temevano che il genere umano non avesse la saggezza per evitare la distruzione e che fosse solo una questione di tempo, che prima o poi la guerra fredda sarebbe diventata rovente. In realtà, l’umanità è uscita vittoriosa dalla sfida nucleare. Americani, sovietici, europei e cinesi cambiarono il modo in cui la geopolitica era stata condotta per millenni, e così la guerra fredda finì con poco spargimento di sangue, e un nuovo ordine internazionalista del mondo ha garantito un periodo di pace mai visto in precedenza. Non solo fu evitata la guerra nucleare, ma diminuirono le guerre di qualsiasi tipo. Dal 1945 un numero sorprendentemente basso di confini è stato ritracciato per mezzo di aggressioni violente, e la maggior parte dei paesi ha smesso di usare la guerra come uno strumento politico corrente. Nel 2016, nonostante le guerre in Siria, Ucraina e in molti altri punti caldi, sono morte meno persone per violenza umana che per obesità, incidenti stradali o suicidio.3 Un dato che può essere considerato a ragion veduta il massimo risultato politico e morale dei nostri tempi.

Sfortunatamente, oggi siamo così abituati a questo risultato, che lo diamo per scontato. Questo è in parte il motivo per cui la gente si permette di giocare con il fuoco. La Russia e gli Stati Uniti hanno di recente dato il via a una nuova gara di armamento nucleare, sviluppando nuovi marchingegni apocalittici che minacciano di rovinare le faticose conquiste degli ultimi decenni e di riportarci sull’orlo dell’annientamento nucleare.4 Nel frattempo il grande pubblico ha imparato a smettere di preoccuparsi e ad amare la bomba (come suggerito da Il dottor Stranamore) o a scordarsi della sua esistenza.

Così il dibattito per la Brexit in Gran Bretagna – una grande potenza nucleare – si è concentrato su questioni economiche e di immigrazione, mentre il contributo vitale dell’Unione Europea alla pace europea e globale è stato largamente ignorato. Dopo secoli di terribili spargimenti di sangue, francesi, tedeschi, italiani e britannici alla fine hanno costruito un meccanismo che assicura l’armonia continentale – solo per vedere la popolazione del Regno Unito buttare una chiave inglese tra gli ingranaggi della macchina miracolosa.

È stato molto difficile costruire il regime internazionalista che ha prevenuto la guerra nucleare e salvaguardato la pace globale. Senza dubbio dobbiamo adattare tale sistema geopolitico alle mutate condizioni del mondo, per esempio contando meno sugli Stati Uniti e assegnando un ruolo maggiore a potenze non occidentali come Cina e India.5 Tuttavia abbandonare del tutto il regime internazionalista e tornare a una politica di potenza delle nazioni sarebbe una scommessa da irresponsabili. È vero, nel XIX secolo i paesi hanno preso parte al gioco nazionalista senza distruggere la civiltà del pianeta. Ma questo accadeva nell’era pre-Hiroshima. Da allora, le armi nucleari hanno alzato la posta e cambiato la natura fondamentale della guerra e della politica. Da quando gli esseri umani hanno imparato ad arricchire l’uranio e il plutonio, la loro sopravvivenza dipende dal fatto di saper privilegiare la prevenzione di una guerra nucleare rispetto agli interessi di ogni singola nazione. Zelanti nazionalisti che gridano “Prima il nostro paese!” dovrebbero chiedersi se il loro paese da solo, senza un robusto sistema di cooperazione internazionale, sia in grado di proteggere il mondo – e anche se stesso – dalla catastrofe nucleare.

La sfida ecologica

Oltre alla guerra nucleare, nei prossimi decenni l’umanità dovrà affrontare una nuova minaccia esistenziale, che non era stata avvistata dai radar della classe politica nel 1964: il collasso ecologico. Gli esseri umani stanno distruggendo gli equilibri della biosfera globale su molteplici fronti. Estraiamo sempre maggiori risorse dall’ambiente, e le restituiamo come spazzatura e inquinamento, provocando cambiamenti incontrollati nella composizione del terreno, dell’acqua e dell’atmosfera.

Siamo a malapena consapevoli della miriade di modi in cui disturbiamo il delicato equilibrio ecologico che è stato raggiunto in milioni di anni. Consideriamo, ad esempio, l’uso del fosforo come fertilizzante. In piccole quantità è un nutriente essenziale per la crescita delle piante. Ma in quantità eccessive diventa tossico. La moderna industria agricola si fonda sulla fertilizzazione artificiale dei campi per mezzo di enormi quantità di fosforo. D’altro canto il fosforo in eccesso che esce dalle aziende agricole avvelena fiumi, laghi e oceani, con un impatto devastante sulla vita marina. Un agricoltore che coltiva mais in Iowa potrebbe quindi uccidere senza saperlo i pesci nel Golfo del Messico.

Come risultato di queste attività, gli habitat vengono degradati, gli animali e le piante si estinguono, e interi ecosistemi come la grande barriera corallina australiana e la foresta pluviale amazzonica potrebbero essere distrutti. Per migliaia di anni Homo sapiens si è comportato come un serial killer ambientale, e ora si sta trasformando in un assassino di massa. Se continuiamo in questo modo, non solo provocheremo l’annientamento di una larga percentuale di tutte le forme di vita, ma mineremo anche le basi della sopravvivenza della nostra specie.6

L’aspetto più minaccioso di tutto ciò è la prospettiva di un cambiamento climatico. Gli esseri umani sono sul pianeta da centinaia di migliaia di anni, e sono sopravvissuti a ere glaciali e ondate di caldo. Però l’agricoltura, le città e le società complesse esistono da meno di diecimila anni. Durante questo periodo, noto come Olocene, il clima della Terra è stato relativamente stabile. Qualsiasi allontanamento dallo standard dell’Olocene porrà alle società umane sfide enormi che non hanno mai dovuto affrontare prima. Sarà come condurre una sperimentazione dagli esiti sconosciuti su milioni di cavie umane. Anche se la nostra specie alla fine si adatterà alle nuove condizioni, non abbiamo idea di quante saranno le vittime durante il processo di adattamento.

Il terribile esperimento è già iniziato. Diversamente dalla guerra nucleare – che è una possibilità ipotetica futura – il cambiamento climatico è una realtà attuale. C’è consenso nella comunità scientifica sul fatto che le attività umane, in particolare le emissioni di gas serra come l’anidride carbonica, stanno causando un cambiamento nel clima terrestre a una velocità allarmante.7 Nessuno sa con precisione quanta anidride carbonica possiamo continuare a scaricare nell’atmosfera senza innescare un cataclisma irreversibile. Ma secondo le più serie stime scientifiche a meno di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra nei prossimi vent’anni, le temperature globali medie aumenteranno di oltre 2 °C,8 con conseguente espansione dei deserti, scioglimento delle calotte polari, innalzamento del livello degli oceani e più frequenti fenomeni meteorologici estremi, come uragani e tifoni. Questi cambiamenti a loro volta avranno effetti negativi sulla produzione agricola, provocheranno inondazioni di città, renderanno la maggior parte del mondo inabitabile e spediranno centinaia di milioni di rifugiati in cerca di nuove case.9

Inoltre, ci stiamo avvicinando rapidamente a un gran numero di punti critici, oltre i quali anche un calo notevole delle emissioni di gas serra non sarebbe più sufficiente a invertire l’andamento catastrofico e a evitare una tragedia mondiale. Per esempio, per effetto del riscaldamento globale e dello scioglimento delle calotte polari, diminuisce l’energia radiante riemessa dal pianeta Terra verso lo spazio. Questo significa che il pianeta smaltisce meno calore, le temperature aumentano ulteriormente e il ghiaccio si scioglie in modo ancora più rapido. Una volta che questo circolo vizioso supera la soglia critica, la dinamica diventa inarrestabile e tutto il ghiaccio delle regioni polari si scioglierà anche se gli esseri umani smetteranno di bruciare carbone, petrolio e gas. Quindi non è sufficiente riconoscere il pericolo che corriamo. È cruciale che si faccia concretamente qualcosa a riguardo adesso.

Sfortunatamente, nel 2018, invece di una riduzione delle emissioni di gas serra, si è registrato un incremento del tasso di emissioni. All’umanità rimane molto poco tempo per astenersi dal consumo di combustibili fossili. Dobbiamo iniziare oggi la fase di riabilitazione. Non l’anno prossimo o il mese prossimo, oggi. “Salve, mi chiamo Homo sapiens, e ho una dipendenza da combustibili fossili.”

Dove si colloca il nazionalismo in questo quadro allarmante? Esiste una risposta nazionalista alla minaccia ecologica? È in grado una qualsiasi nazione, per quanto potente, di fermare il riscaldamento globale da sola? È vero che i singoli paesi possono adottare una quantità di politiche verdi, molte delle quali risultano sensate sia dal punto di vista economico che ambientale. I governi possono tassare le emissioni di carbone, aggiungere il costo delle esternalità al prezzo del petrolio e del gas naturale, adottare regole ambientali più severe, tagliare i sussidi alle industrie inquinanti e incentivare il passaggio alle energie rinnovabili. Possono anche investire maggiori risorse nella ricerca e sviluppo di rivoluzionarie tecnologie a basso impatto ambientale, in una sorta di Progetto Manhattan ecologico. Alla combustione interna del motore si devono molti dei progressi degli ultimi centocinquanta anni, ma se vogliamo mantenere un ambiente fisico ed economico stabile, questa deve ora essere messa in pensione e sostituita da nuove tecnologie di sistema che non brucino combustibili fossili direttamente o indirettamente.10

Scoperte tecnologiche decisive possono essere utili in molti campi oltre a quello energetico. Pensate per esempio al potenziale che potrebbe avere la produzione di “carne pulita”. Al momento, l’industria della carne non è solo responsabile di sofferenze indicibili di miliardi di esseri senzienti, ma è anche una delle principali cause del riscaldamento globale, una delle principali consumatrici di antibiotici e veleni, e uno dei maggiori inquinatori di aria, terra e acqua. Secondo un rapporto del 2013 dell’Institution of Mechanical Engineers ci vogliono circa 15.000 litri di acqua dolce per produrre un chilogrammo di carne di manzo, invece dei 287 litri necessari per produrre un chilo di patate.11

È verosimile che la pressione sull’ambiente aumenti perché la maggiore ricchezza in paesi come Cina e Brasile permette a centinaia di milioni di individui di passare dal regolare consumo di patate al regolare consumo di carne. Sarebbe difficile convincere i cinesi o i brasiliani – per non parlare di americani e tedeschi – a non mangiare più bistecche, hamburger e salsicce. Ma se invece gli ingegneri trovassero un modo per produrre carne dalle cellule? Se vuoi un hamburger, fai crescere un hamburger, invece di allevare e macellare una mucca intera (e trasportarne la carcassa per migliaia di chilometri).

Può sembrare fantascienza, ma il primo hamburger pulito del mondo è stato prodotto da cellule – e poi mangiato – nel 2013. È costato trecentotrentamila dollari. Quattro anni di ricerca e sviluppo hanno abbassato il costo a undici dollari il pezzo, ed entro un altro decennio si pensa che la carne pulita prodotta industrialmente sarà più economica della carne da macello. Questo sviluppo tecnologico potrebbe salvare miliardi di animali da una vita di ignobile sofferenza, dare cibo a miliardi di persone malnutrite e allo stesso tempo aiutare a prevenire il collasso ecologico.12

Ci sono quindi molte cose che governi, aziende e individui possono fare per evitare il cambiamento climatico. Ma per essere efficaci, devono essere compiute a livello globale. Quando si tratta del clima, i paesi non sono sovrani. Sono alla mercé delle azioni intraprese da coloro che vivono dall’altra parte del pianeta. La repubblica di Kiribati – una nazione-isola nell’oceano Pacifico – potrebbe ridurre le sue emissioni di gas serra a zero ed essere comunque sommersa dall’aumento del livello degli oceani se gli altri paesi non seguono il suo esempio. Il Ciad potrebbe installare pannelli solari su ogni tetto del paese, e diventare comunque un arido deserto a causa delle politiche ambientali irresponsabili di lontani paesi stranieri. Persino nazioni potenti come la Cina e il Giappone non sono ecologicamente sovrane. Per proteggere Shanghai, Hong Kong e Tokyo da inondazioni distruttive e tifoni, i cinesi e i giapponesi dovranno convincere i governi russi e americani ad abbandonare le loro vecchie abitudini.

L’isolazionismo nazionalista è persino più pericoloso della guerra nucleare nel contesto del cambiamento climatico. Una guerra nucleare totale minaccia di distruggere tutte le nazioni, così ognuna di esse corre gli stessi rischi e ha uguali responsabilità nel prevenirla. Il riscaldamento globale, al contrario, avrà verosimilmente un impatto diverso su nazioni diverse. Molti paesi potrebbero esserne avvantaggiati, in particolare la Russia. La Russia ha relativamente poche attività costiere, per cui è molto meno preoccupata della Cina o di Kiribati riguardo all’innalzamento dei mari. E mentre temperature superiori ridurrebbero, secondo le previsioni, il Ciad in un deserto, potrebbero invece trasformare la Siberia nel granaio del mondo. Inoltre, con lo scioglimento dei ghiacci nell’estremo Nord, le rotte nautiche artiche controllate dalla Russia potrebbero diventare arterie del commercio globale, e la Kamčatka potrebbe rimpiazzare Singapore come crocevia del mondo.13

Allo stesso modo sostituire i combustibili fossili con fonti di energia rinnovabile può essere più appetibile per alcuni paesi rispetto ad altri. La Cina, il Giappone e la Corea del Sud devono importare grandi quantità di petrolio e gas. Sarebbero felici di liberarsi di quella spesa. La Russia, l’Iran e l’Arabia Saudita dipendono dall’esportazione di petrolio e gas. Le loro economie collasserebbero se il petrolio e il gas improvvisamente lasciassero spazio all’energia solare ed eolica.

Di conseguenza, mentre è probabile che alcune nazioni come Cina e Kiribati spingano per ridurre le emissioni globali di carbonio, altre nazioni come Russia e Iran potrebbero essere molto meno entusiaste dell’iniziativa. Persino in paesi che avrebbero da perdere molto dal riscaldamento globale, come gli Stati Uniti, i nazionalisti potrebbero essere troppo miopi e concentrati su se stessi per valutare il pericolo. Un piccolo ma significativo esempio risale a gennaio 2018, quando gli Stati Uniti hanno imposto una tassa del 30% sugli impianti a pannelli solari di fabbricazione straniera, preferendo sostenere i produttori americani del solare persino a costo di rallentare il passaggio all’energia rinnovabile.14

Una bomba atomica è una minaccia così ovvia e immediata che nessuno la può ignorare. Il riscaldamento globale, al contrario, è una minaccia più vaga e lontana nel tempo. Quindi ogni volta che considerazioni ambientali a lungo termine richiedono qualche doloroso sacrificio a breve termine, i nazionalisti potrebbero essere tentati di mettere al primo posto l’immediato interesse nazionale, e consolarsi dicendo che potranno preoccuparsi dell’ambiente più avanti, o lasciare il problema a qualcuno da qualche altra parte del pianeta. Oppure possono semplicemente negare il problema. Non è un caso che lo scetticismo sul cambiamento climatico sia dominio della destra nazionalista. Di rado si vedono socialisti di sinistra twittare che “il cambiamento climatico è una bufala cinese”. Non esiste una risposta nazionale al problema del riscaldamento globale, per questo qualche politico nazionalista preferisce credere che il problema non esista.15

La sfida tecnologica

È probabile che le stesse dinamiche contrastino qualsiasi antidoto nazionalista alla terza minaccia vitale del XXI secolo: la rivoluzione tecnologica. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la sinergia di tecnologie informatiche e biotecnologie apre una moltitudine di scenari apocalittici, che vanno dalla dittatura digitale alla creazione di una classe inutile a livello globale. Qual è la risposta nazionalista a queste minacce?

Non c’è alcuna risposta nazionalista. Come nel caso del cambiamento climatico, anche per la rivoluzione tecnologica lo stato-nazione è semplicemente la cornice sbagliata nella quale inquadrare la minaccia. Poiché ricerca e sviluppo non sono monopolio di nessun paese, anche una superpotenza come gli Stati Uniti non può bloccarli da sola. Se il governo statunitense vietasse l’ingegneria genetica sugli embrioni umani, questo non impedirebbe agli scienziati cinesi di portarla avanti. E se gli sviluppi che ne derivano forniscono alla Cina qualche cruciale vantaggio economico o militare, gli Stati Uniti saranno tentati di violare il loro stesso divieto. In particolare in un mondo xenofobico altamente competitivo, se anche un singolo paese sceglie di seguire un percorso tecnologico alto rischio/alto rendimento, gli altri paesi saranno obbligati a fare lo stesso, perché nessuno può permettersi di rimanere indietro. Per evitare questa corsa verso l’abisso, l’umanità avrà probabilmente bisogno di qualche forma di identità e lealtà globali.

Inoltre, mentre la guerra nucleare e il cambiamento climatico minacciano solo la sopravvivenza fisica dell’umanità, le tecnologie dirompenti potrebbero cambiare la natura stessa dell’umanità, e sono pertanto collegate alle nostre più profonde convinzioni etiche e religiose.

Mentre tutti sono d’accordo sul fatto che dovremmo evitare la guerra nucleare e il collasso ecologico, la gente ha idee molto strane sulle applicazioni delle biotecnologie e dell’IA per migliorare gli esseri umani e creare nuove forme di vita. Se l’umanità fallisce nell’ideare e amministrare globalmente linee guida etiche condivise, si aprirà la caccia agli emuli del dottor Frankenstein.

Quando si tratta di formulare queste linee guida etiche, il nazionalismo soffre soprattutto di mancanza di immaginazione. I nazionalisti pensano in termini di conflitti territoriali che durano secoli, mentre le rivoluzioni tecnologiche del XXI secolo dovrebbero essere davvero intese in termini cosmici. Dopo quattro miliardi di anni di vita organica che si è evoluta per selezione naturale, la scienza ci sta portando nell’era della vita inorganica che prende forma da un disegno intelligente.

In questo processo, è probabile che Homo sapiens stesso scompaia. Oggi siamo ancora scimmie della famiglia degli ominidi. Condividiamo gran parte delle nostre strutture corporee, abilità fisiche e facoltà mentali con i Neanderthal e gli scimpanzé. Non solo mani, occhi e cervello sono chiaramente ominidi, ma lo sono anche la libidine, l’amore, la rabbia e i legami sociali. Entro un secolo o due, la combinazione di biotecnologia e IA potrebbe portare ad avere tratti corporei, fisici e mentali che si discostano completamente dallo stampo ominide. Alcuni credono che la coscienza possa essere disgiunta da qualsiasi struttura organica e che potrebbe muoversi nel cyberspazio senza alcun vincolo fisico o biologico. D’altro canto, potremmo essere testimoni di una scissione tra intelligenza e coscienza, e lo sviluppo dell’IA potrebbe portare a un mondo dominato da entità super-intelligenti, ma del tutto irresponsabili.

Che cos’hanno da dire a questo proposito i nazionalisti israeliani, russi o francesi? Per compiere scelte sagge sul futuro della vita, abbiamo bisogno di superare il punto di vista nazionalista e dobbiamo collocarci in una prospettiva globale, o persino cosmica.

Astronave Terra

Ognuno di questi tre problemi – guerra nucleare, collasso ecologico e rivoluzione tecnologica – è sufficiente a minacciare il futuro della civiltà umana. Ma presi insieme, strutturano una crisi vitale dalle caratteristiche sconosciute, anche perché è verosimile che si rafforzino e completino a vicenda. Per esempio, anche se la crisi ecologica minaccia la sopravvivenza della civiltà umana come la conosciamo, è improbabile che fermi lo sviluppo dell’IA e delle biotecnologie. Se contate sull’innalzamento del livello dei mari, sulla diminuzione delle riserve di cibo e sulle migrazioni per distogliere la nostra attenzione dagli algoritmi, ripensateci. Con l’aggravarsi della crisi ecologica, lo sviluppo delle tecnologie ad alto rischio/alto rendimento vedrà una quasi sicura impennata.

Il cambiamento climatico potrebbe svolgere un ruolo analogo alle due guerre mondiali. Tra il 1914 e il 1918, e ancora tra il 1939 e il 1945, il tasso di sviluppo tecnologico andò alle stelle, perché le nazioni coinvolte nella guerra totale buttarono alle ortiche prudenza ed economia e investirono enormi risorse in ogni tipo di progetto audace e fantastico. Molti di questi progetti fallirono, ma alcuni produssero carri armati, radar, gas velenosi, jet supersonici, missili intercontinentali e bombe nucleari. In modo analogo, le nazioni che dovranno misurarsi con una catastrofe climatica potrebbero essere tentate di investire le loro risorse in scommesse tecnologiche disperate. L’umanità ha un sacco di dubbi giustificati riguardo all’IA e alla bioingegneria, ma in tempi di crisi la gente è disposta a esplorare l’ignoto. Qualunque cosa pensiate sulla regolamentazione delle tecnologie ad alto rischio, chiedetevi qual è la probabilità che queste regolamentazioni resistano anche nel caso estremo in cui il cambiamento climatico causasse scarsità di cibo, città inondate in tutto il mondo, e inducesse centinaia di migliaia di rifugiati a oltrepassare i confini.

A sua volta, la rivoluzione tecnologica potrebbe aumentare il pericolo di guerre apocalittiche, non solo per un intensificarsi delle tensioni globali, ma anche per il fatto di destabilizzare l’equilibrio nucleare del potere. Dagli anni cinquanta le superpotenze hanno evitato i conflitti l’una con l’altra perché sapevano che guerra avrebbe significato sicura distruzione reciproca. Ma con l’apparire di nuove armi di attacco e difesa, una nascente superpotenza tecnologica potrebbe concludere di poter distruggere i suoi nemici senza il rischio di una rappresaglia letale. A sua volta una potenza in declino potrebbe temere che le sue armi nucleari tradizionali diventino presto obsolete e che sarebbe meglio usarle prima che diventino inutilizzabili. Tradizionalmente, i confronti nucleari ricordano una partita a scacchi iper-razionale. Cosa accadrà quando i giocatori potranno usare attacchi cibernetici per strappare il controllo delle pedine di un rivale, quando terze parti anonime potranno muovere un pedone senza che nessuno sappia chi stia compiendo la mossa – o quando l’algoritmo AlphaZero passerà dagli scacchi ordinari agli scacchi nucleari?

Così com’è probabile che le diverse sfide si rafforzino l’una con l’altra, allo stesso modo la buona volontà necessaria per affrontare una sfida può essere compromessa da problemi che si manifestano su un altro fronte. È verosimile che i paesi impegnati nella gara agli armamenti non siano d’accordo sulle restrizioni allo sviluppo dell’IA, mentre i paesi che stanno compiendo notevoli sforzi per superare i traguardi tecnologici dei rivali avranno difficoltà a trovare un accordo per un progetto comune per controllare il cambiamento climatico. Fino a quando il mondo rimarrà diviso in nazioni rivali sarà molto difficile superare in modo coordinato le tre sfide – e il fallimento anche su un solo fronte potrebbe rivelarsi catastrofico.

Per concludere, l’ondata nazionalista che sta investendo tutto il mondo non può far tornare le lancette dell’orologio al 1939 o al 1914. La tecnologia ha cambiato tutto creando una serie di minacce globali letali che nessuna nazione può gestire da sola. Un nemico comune è il miglior catalizzatore per forgiare un’identità comune, e l’umanità al momento ha almeno tre di questi nemici: la guerra nucleare, il cambiamento climatico e la rivoluzione tecnologica. Se, nonostante queste minacce comuni, la nostra specie deciderà di privilegiare sopra ogni altra cosa specifiche lealtà nazionali, il risultato potrà essere peggiore di quello del 1914 e del 1939.

Un percorso di gran lunga migliore è quello delineato nella Costituzione dell’Unione Europea, che recita “che i popoli d’Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, sono decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino”.16 Questo non significa abolire le identità nazionali, abbandonare le tradizioni locali e trasformare l’umanità in una grigia poltiglia omogenea. Né significa demonizzare qualsiasi espressione di patriottismo. Infatti, fornendo uno scudo protettivo continentale militare ed economico, si può sostenere che l’Unione Europea ha nutrito il patriottismo locale in luoghi come le Fiandre, la Lombardia, la Catalogna e la Scozia. L’idea di istituire una Scozia o una Catalogna indipendenti risulta più attraente quando non si deve temere un’invasione da parte della Germania e quando si può fare affidamento su un fronte comune europeo contro il riscaldamento globale e le aziende globali.

I nazionalisti europei sono tranquilli. Per quanto si parli di ritorno della nazione, pochi europei sono davvero disposti a uccidere e a farsi uccidere per quell’idea. Quando gli scozzesi cercarono di sottrarsi al dominio di Londra ai tempi di William Wallace e Robert Bruce, dovettero raccogliere un esercito per farlo. Invece, neanche una persona è stata uccisa durante il referendum scozzese del 2014, e se la prossima volta gli scozzesi voteranno per l’indipendenza è poco probabile che dovranno rivivere la battaglia di Bannockburn. Il tentativo catalano di separarsi dalla Spagna ha avuto come conseguenza molta più violenza, ma anche in questo caso si è ben lungi dal massacro che Barcellona ha vissuto nel 1939 o nel 1714.

Si spera che il resto del mondo possa imparare dall’esempio europeo. Anche su un pianeta unito, ci sarebbe ampio spazio per il tipo di patriottismo che celebra l’unicum della mia nazione e sottolinea i miei speciali obblighi nei suoi confronti. Quindi se vogliamo sopravvivere e prosperare, il genere umano ha poca scelta se non supportare queste lealtà locali mantenendo validi gli obblighi sostanziali verso la comunità globale. Un individuo può e deve comprendere nella sua lealtà la famiglia, il vicinato, la professione e la nazione – perché non aggiungere alla lista l’umanità e il pianeta Terra? È vero che quando si è leali verso cose diverse, i conflitti sono a volte inevitabili. Ma dove sta scritto che la vita è semplice? Affrontiamola.

Nei secoli passati le identità nazionali si formarono per consentire di governare problemi e cogliere opportunità che erano ben al di là della portata delle singole tribù locali, e che solo quella più ampia collaborazione poteva sperare di gestire. Nel XXI secolo le nazioni si trovano nella stessa situazione delle antiche tribù: hanno cessato di essere la giusta struttura per gestire le sfide più impegnative di questa epoca. Abbiamo bisogno di una nuova identità globale, perché le istituzioni nazionali non sono in grado di affrontare e risolvere una serie di situazioni difficili mai verificatesi prima. Ora abbiamo un’ecologia globale, un’economia globale e una scienza globale – ma siamo ancora bloccati con le sole politiche nazionali. Questa disparità impedisce al sistema politico di contrastare con efficacia i nostri problemi principali. Per avere politiche adeguate dobbiamo o de-globalizzare l’ecologia, l’economia e il progresso della scienza – oppure dobbiamo globalizzare la politica. Poiché è impossibile de-globalizzare economia e progresso scientifico, e poiché il costo di una de-globalizzazione dell’economia sarebbe verosimilmente proibitivo, l’unica reale soluzione è una politica globale. Con ciò non s’intende l’istituzione di un “governo globale” – un progetto dubbio e irrealistico. Piuttosto, globalizzare la politica significa che le dinamiche politiche all’interno dei paesi e anche delle città dovrebbero assegnare molte più risorse e investire molte più energie per i problemi e gli interessi globali. I sentimenti nazionalisti difficilmente saranno di qualche utilità per questa impresa. È possibile che si debba contare sulle tradizioni religiose universali dell’umanità perché ci aiutino a unire il mondo? Centinaia di anni fa religioni come il cristianesimo e l’islam pensavano già in termini globali piuttosto che locali e hanno sempre nutrito profondo interesse per le grandi domande della vita e non solo per le lotte politiche di questa o quella nazione. Ma le religioni tradizionali hanno ancora una qualche rilevanza? Possiedono il potere di plasmare il mondo, o sono solo inutili reliquie del passato, sballottate a destra e a sinistra dalle potenti forze degli stati, delle economie e delle tecnologie moderne?