20.

SENSO

La vita non è una narrazione

Chi sono io? Che cosa dovrei fare nella vita? Qual è il senso della vita? Gli uomini si pongono queste domande dalla notte dei tempi. Ogni generazione necessita di una nuova risposta, poiché quello che sappiamo e che ignoriamo è in costante cambiamento. Considerato tutto quello che sappiamo e che ignoriamo sulla scienza, su Dio, sulla politica e sulla religione – qual è la risposta migliore che possiamo dare oggi?

Quale genere di risposta la gente si aspetta? Quasi sempre, quando la gente si interroga sul senso della vita, si aspetta che le venga raccontata una storia. Homo sapiens è un animale narratore, che elabora pensieri grazie a storie piuttosto che per mezzo di numeri e grafici, e crede che lo stesso universo funzioni come una storia, completa di eroi buoni e cattivi antagonisti, conflitti e riconciliazioni, momenti drammatici e lieto fine. Quando ricerchiamo il senso della vita, vogliamo una narrazione che ci spieghi che cosa è la realtà e qual è il mio particolare ruolo nel dramma cosmico. Questo ruolo mi fa partecipare a qualcosa di più grande di me stesso, e dà un significato a tutte le mie esperienze e a tutte le mie scelte.

Una storia ben nota, tramandata per migliaia di anni a miliardi di esseri umani ansiosi, racconta che facciamo tutti parte del ciclo eterno che abbraccia e connette tutti gli esseri. Ogni essere svolge una funzione distinta affinché il ciclo sia completo. Comprendere il senso della vita vuol dire comprendere la vostra peculiare funzione, e vivere una buona vita vuol dire realizzare tale funzione.

Il poema epico indù Bhagavadgītā narra di come, nel bel mezzo di una sanguinosa guerra civile, il valoroso principe guerriero Arjuna sia tormentato dai dubbi. Vedendo che i suoi amici e parenti combattono per l’esercito rivale, esita a combattere e a ucciderli. Arjuna si interroga su ciò che è bene e ciò che è male, chi lo decide e qual è lo scopo della nostra vita. Il dio Krishna spiega allora ad Arjuna che all’interno del grande ciclo cosmico ogni essere possiede uno specifico “dharma”, il sentiero che deve seguire e gli obblighi a cui deve adempiere. Se realizzate il vostro dharma, non importa quanto dura sarà la vostra strada, godrete della pace della mente e sarete liberati da tutti i dubbi. Se vi rifiutate di seguire il vostro dharma, e cercate di seguire la strada di qualcun altro – o di vagare senza scegliere una strada qualsiasi – disturberete l’equilibrio cosmico, e non troverete mai né pace né gioia. Non fa differenza quale sia la vostra strada particolare, fintanto che la seguite. Una lavandaia che segue con devozione la strada della lavandaia è di gran lunga superiore a un principe che smarrisce la strada del principe. Dopo aver compreso il senso della vita Arjuna si impegna a seguire rigorosamente il suo dharma di guerriero. Uccide amici e parenti, conduce il suo esercito alla vittoria e diventa uno degli eroi più stimati e amati del mondo indù.

Nel 1994 con il lungometraggio Il re leone la Disney rielaborò questa antica storia per il pubblico moderno, con il giovane leone Simba nel ruolo di Arjuna. Quando Simba vuole conoscere il senso dell’esistenza, suo padre – il re leone Mufasa – gli parla del grande Cerchio della Vita. Mufasa gli spiega che le antilopi mangiano l’erba, i leoni mangiano le antilopi, e quando i leoni muoiono i loro corpi si decompongono e nutrono l’erba. Questo è il modo in cui la vita continua da una generazione all’altra, stabilendo la parte di ogni animale nel dramma. Ogni cosa è connessa, e ciascuno dipende da tutti gli altri, quindi se anche un solo filo d’erba non riesce ad adempiere alla sua vocazione, l’intero Cerchio della Vita potrebbe risentirne. La vocazione di Simba, dice Mufasa, è governare il regno dei leoni dopo la morte di Mufasa e mantenere l’ordine tra gli altri animali.

A ogni modo, quando Mufasa muore prematuramente, ucciso dal suo malvagio fratello Scar, il giovane Simba rimprovera se stesso per l’evento nefasto e, tormentato dal senso di colpa, lascia il regno dei leoni, fuggendo dal suo destino regale, e vaga nella natura deserta. Qui incontra altri due emarginati, un suricato e un facocero, e insieme trascorrono alcuni anni spensierati lontano dai sentieri battuti. La loro filosofia antisociale implica che a ogni problema si risponda cantando Hakuna matata – “nessuna preoccupazione”.

Ma Simba non può sfuggire al suo dharma. Diventando adulto, cresce il suo tormento interiore, perché non sa chi è e che cosa dovrebbe fare nella vita. Nel momento culminante del film, lo spirito di Mufasa appare a Simba in una visione, e ricorda a Simba il Cerchio della Vita e la sua identità regale. Simba apprende pure che, durante la sua assenza, il malvagio Scar si è insediato sul trono e ha governato male il regno, che ora versa in grave sofferenza a causa della disarmonia e delle carestie. Alla fine Simba comprende chi è e che cosa dovrebbe fare. Ritorna nel regno dei leoni, uccide suo zio, diventa re e restaura l’armonia e la prosperità. Il film termina con un orgoglioso Simba che mostra il suo erede appena nato all’assemblea di tutti gli animali, assicurando così la continuazione del grande Cerchio della Vita.

Il Cerchio della Vita presenta il dramma cosmico come una storia circolare. Poiché tutti i Simba e tutti gli Arjuna sanno che i leoni mangiano le antilopi e i guerrieri combattono in battaglia da miliardi di anni e continueranno a farlo per sempre. L’eterna ripetizione del ciclo conferisce potere alla storia, con l’assunto che questo sia il naturale corso delle cose e che, se Arjuna non combatte o Simba si rifiuta di diventare re, queste scelte si porranno come una ribellione contro le leggi stesse della natura.

Se credo in una qualche versione della storia del Cerchio della Vita, significa che ho una identità chiara e vera che determina i miei doveri esistenziali. Per molti anni posso nutrire dubbi o ignorare questa identità, ma un giorno, in un qualche eccezionale momento topico, mi sarà rivelata, comprenderò il mio ruolo nel dramma universale, e sarò liberato dai dubbi e dalla disperazione anche se dovrò affrontare numerose prove e difficoltà.

Altre religioni e ideologie credono in un dramma cosmico lineare, che ha un inizio ben preciso, una fase intermedia non troppo lunga e un esito definitivo. Per esempio, la narrazione musulmana dice che all’inizio Allah ha creato l’intero universo e ha stabilito le sue leggi. Egli ha poi rivelato queste leggi agli uomini nel Corano. Sfortunatamente, gente ignorante e malvagia si ribellò ad Allah e cercò di infrangere o occultare le sue disposizioni, ed è grazie ai musulmani virtuosi e leali che esse si sono conservate e la loro conoscenza è stata diffusa. Alla fine, nel Giorno del Giudizio, Allah valuterà la condotta di ciascun individuo. Ricompenserà i giusti con la benedizione eterna in paradiso e scaglierà i malvagi nelle roventi profondità dell’inferno.

Questa narrazione grandiosa implica che il mio piccolo ma importante ruolo nella vita sia seguire i dettami di Allah, diffondere la conoscenza delle Sue leggi, e assicurare l’obbedienza ai Suoi desideri. Se credo alla narrazione musulmana, per me avrà senso pregare cinque volte al giorno, fare una donazione per la costruzione di una nuova moschea, e combattere contro gli apostati e gli infedeli. Persino le attività più prosaiche – come lavarsi le mani, bere vino, fare sesso – sono impregnate di un significato cosmico.

Anche il nazionalismo propone una storia lineare. La narrazione sionista comincia con le avventure e i traguardi biblici del popolo ebraico, ripercorre duemila anni di esilio e persecuzione, raggiunge un punto culminante con l’Olocausto e la fondazione dello stato di Israele, e aspetta impazientemente il giorno in cui Israele godrà pace e prosperità e diventerà il faro morale e spirituale del mondo intero. Se credo alla narrazione sionista, saprò che la mia missione esistenziale è far progredire gli interessi della nazione ebraica proteggendo la purezza della lingua ebraica, combattendo per riottenere i territori ebraici perduti, oppure crescendo una nuova generazione di bambini israeliani.

Anche in questo caso, perfino le attività più noiose riverberano un senso profondo. Il giorno dell’Indipendenza, gli scolari israeliani cantano insieme una popolare canzone ebraica che elogia ogni azione fatta per il bene della madrepatria. Il bambino canta “Ho costruito una casa nella terra di Israele”, un altro bambino canta “Ho piantato un albero nella terra di Israele”, un terzo canta “Ho scritto una poesia nella terra di Israele”, e così si va avanti finché alla fine tutti cantano insieme in coro “Perciò abbiamo una casa, un albero e una poesia [e qualsiasi altra cosa vi piaccia aggiungere] nella terra di Israele”.

Il comunismo racconta una storia analoga, ma si concentra sulle classi anziché sull’etnia.

Il manifesto del partito comunista inizia asserendo che:

La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.1

Il Manifesto prosegue spiegando che nei tempi moderni “La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato”.2 La loro lotta terminerà con la vittoria del proletariato che contrassegnerà la fine della storia e la fondazione del paradiso comunista sulla terra, in cui nessuno possederà alcunché e ciascuno sarà completamente libero e felice.

Se credo a questa narrazione comunista, ne concluderò che la missione della mia vita è accelerare l’insorgere della rivoluzione scrivendo infuocati pamphlet, organizzando scioperi e dimostrazioni o forse assassinando avidi capitalisti e combattendo contro i loro lacchè. La narrazione conferisce significato persino al più piccolo dei gesti, come il boicottaggio di un marchio che sfrutta gli operai tessili in Bangladesh o la discussione con il suocero sporco capitalista alla cena di Natale.

Quando osserviamo l’intera gamma delle narrazioni che cercano di definire la mia autentica identità e dare senso alle mie azioni, si nota con stupore come la scala importi davvero poco. Alcune narrazioni, come quella del Cerchio della Vita di Simba, sembrano alludere all’eternità. Soltanto se mi confronto con lo scenario dell’intero universo posso sapere chi sono. Altre narrazioni, come la maggior parte dei miti nazionalisti e tribali, sono minuscole in confronto. Il sionismo ritiene sacre le avventure di circa lo 0,2% del genere umano e dello 0,005% della superficie terrestre, analizzate per un tempo brevissimo. La narrazione sionista non considera di alcuna importanza gli imperi cinesi, le tribù della Nuova Guinea, o la galassia di Andromeda, come pure i miliardi di anni trascorsi prima dell’esistenza di Mosè, Abramo e dell’evoluzione delle scimmie.

Una tale miopia può avere serie ripercussioni. Per esempio, uno dei maggiori ostacoli per qualsiasi trattato di pace tra israeliani e palestinesi è che gli israeliani non sono disposti a dividere la città di Gerusalemme. Sostengono che questa città è “la capitale eterna del popolo ebraico” – e certamente non potete scendere a compromessi su qualcosa di eterno.3 Che cosa sono un po’ di persone morte in confronto all’eternità? È evidente che si tratta di un’argomentazione del tutto priva di senso. L’eternità ha almeno 13,8 miliardi di anni – l’attuale età dell’universo. Il pianeta Terra si è formato circa 4,5 miliardi di anni fa, e gli uomini esistono da almeno 2 milioni di anni. Al contrario, la città di Gerusalemme fu fondata appena 5000 anni fa e il popolo ebraico risale al massimo a 3000 anni fa. A numeri del genere difficilmente può essere attribuita la qualifica di eternità.

Per quanto riguarda il futuro, i fisici ci dicono che il pianeta Terra sarà assorbito da un Sole in espansione tra circa 7,5 miliardi di anni da adesso,4 e che il nostro universo continuerà a esistere per almeno altri 13 miliardi di anni. Davvero c’è qualcuno che crede seriamente che il popolo ebraico, lo stato di Israele o la città di Gerusalemme esisteranno ancora fra 13.000 anni, per non parlare di 13 miliardi di anni? Guardando al futuro, il sionismo ha un orizzonte che non va oltre qualche secolo, eppure questo basta a soddisfare le fantasie geopolitiche della maggior parte degli israeliani e ad essere in qualche modo definito come “eternità”. E la gente è disposta a fare sacrifici per il bene della “città eterna”, sacrifici che probabilmente si rifiuterebbe di fare per un insieme effimero di abitazioni.

Quando ero un adolescente in Israele, anche io all’inizio ero catturato dalla promessa nazionalista di diventare parte di qualcosa di più grande di me. Volevo credere che se avessi offerto la mia vita alla nazione avrei vissuto per sempre nella sua gloria. Ma non potevo immaginare che cosa significa “vivere per sempre nella gloria della nazione”. La frase suonava molto profonda, ma qual era il suo significato concreto? Mi sovviene una particolare cerimonia per il Yom HaZikaron (“Giorno del ricordo”) quando avevo tredici o quattordici anni. Mentre il Memorial Day statunitense si festeggia andando a fare shopping, in Israele il Giorno del ricordo è un evento estremamente solenne e importante. Durante questa festività nelle scuole si tengono cerimonie per ricordare i soldati caduti nelle numerose guerre di Israele. I bambini sono vestiti di bianco, recitano poesie, cantano, depositano corone di fiori e sventolano bandiere. Così io ero lì, vestito di bianco, durante la cerimonia della nostra scuola, e tra lo sventolio delle bandiere e la recita delle poesie mi venne naturale pensare che quando sarei diventato grande anche a me sarebbe piaciuto essere un soldato morto per la patria. Se fossi stato un eroico soldato caduto che aveva sacrificato la sua vita per Israele, tutti questi bambini avrebbero recitato poesie e sventolato bandiere in mio onore.

Ma poi ho pensato: “Aspetta un momento. Se sono morto come faccio a sapere se questi bambini stanno realmente recitando poesie in mio onore?” Così ho cercato di immaginare me stesso morto. E mi sono visto giacere sotto qualche pietra tombale bianca in un curatissimo cimitero militare, ascoltando le poesie provenienti da sopra la terra. Ma poi ho pensato: “Se sono morto allora non posso sentire alcuna poesia, perché non ho orecchie e non ho un cervello, non sono perciò in grado di udire o sentire un bel nulla. Quindi a che pro?”

Peggio ancora, al tempo in cui avevo tredici anni sapevo che l’universo aveva un paio di miliardi di anni di vita, e che con ogni probabilità sarebbe esistito ancora per altri miliardi di anni. Potevo realisticamente aspettarmi che Israele sarebbe esistito per un periodo di tempo così lungo? I bambini Homo sapiens vestiti di bianco reciteranno ancora poesie in mio onore dopo duecento milioni di anni? C’era qualcosa di sospetto in tutta la faccenda.

Se per caso siete palestinesi, non vi dovete rallegrare. È altrettanto improbabile che ci sarà un qualche palestinese da qui a duecento milioni di anni. In effetti, verosimilmente per allora non esisterà un qualsivoglia mammifero. Altri movimenti nazionali sono caratterizzati da un’analoga ristrettezza di vedute. Il nazionalismo serbo si preoccupa ben poco degli eventi accaduti nel Giurassico, mentre i nazionalisti coreani credono che una piccola penisola sulla costa orientale dell’Asia sia l’unica parte del cosmo davvero importante nel grande disegno delle cose.

Di certo anche Simba – con tutta la sua devozione verso il sempiterno Cerchio della Vita – non prende mai in considerazione il fatto che i leoni, le antilopi e l’erba siano davvero eterni. Simba non riflette su che cosa era l’universo prima dell’evoluzione dei mammiferi, né su quale sarà il destino della sua amata savana africana una volta che gli esseri umani avranno ucciso tutti i leoni e ricoperto le praterie di asfalto e cemento. Per questo la vita di Simba dovrebbe essere assolutamente irrilevante?

Tutte le narrazioni sono incomplete. Per costruire un’identità utile per me stesso e per dare un senso alla mia vita, però, non ho davvero bisogno di una narrazione completa priva di punti oscuri e di contraddizioni. Per dare un senso alla mia vita, basta che una narrazione soddisfi due condizioni solamente: la prima è che deve dare a me un qualche ruolo da ricoprire. È improbabile che un uomo di una tribù della Nuova Guinea creda nel sionismo o nel nazionalismo serbo, poiché queste narrazioni non si preoccupano per nulla della Nuova Guinea e della sua gente. Proprio come le star del cinema, agli uomini e alle donne piacciono solo quelle sceneggiature che riservano loro un ruolo importante.

La seconda è che, mentre non occorre che una buona storia si estenda all’infinito, essa deve però andare oltre i miei orizzonti. La storia mi fornisce un’identità e dà senso alla mia vita includendomi in qualcosa di più grande di me. Ma c’è sempre il rischio che io mi chieda cosa conferisca significato a questo “qualcosa di più grande”. Se il senso della mia vita è aiutare il proletariato o la nazione polacca, che cosa esattamente dà senso al proletariato o alla nazione polacca? C’è la storia di uno che sosteneva che il mondo è mantenuto al suo posto appoggiato sul dorso di un enorme elefante. Quando gli fu chiesto su che cosa poggiasse l’elefante, egli replicò che stava sul carapace di una grande tartaruga. E la tartaruga? Sul carapace di una tartaruga ancora più grossa. E quella tartaruga più grossa? L’uomo si spazientì e disse: “Non preoccuparti di questo. Da lì in poi le tartarughe arrivano fino in fondo.”

La maggior parte delle storie di successo si chiude con un finale aperto. Secondo queste narrazioni non occorre mai spiegare da dove arrivi in definitiva il senso di tutto, poiché catturano l’attenzione della gente e la mantengono all’interno di una zona sicura. Perciò quando si spiega che il mondo riposa sul dorso di un enorme elefante, dovreste saper prevenire qualunque domanda difficile descrivendo con un profluvio di dettagli che lo sventolio delle gigantesche orecchie dell’elefante provoca uragani, e che quando l’animale freme di rabbia la superficie della Terra è scossa da terremoti. Se saprete raccontare una buona trama, nessuno chiederà dove si colloca l’elefante. Così il nazionalismo ci seduce con racconti eroici, ci commuove fino alle lacrime ripercorrendo i disastri del passato, e accende la nostra furia soffermandosi sulle ingiustizie che ha patito la nostra nazione. Siamo talmente immersi in questo racconto epico nazionale che cominciamo a considerare ogni cosa che accade sul pianeta dall’impatto che ha sulla nostra nazione, mentre di rado ci interroghiamo su ciò che rende la nostra nazione così rilevante da meritarsi il primo posto tra le cose del mondo.

Quando credete a una specifica narrazione, la cosa vi rende estremamente interessati al più minuto dei suoi dettagli, mentre continuate a essere ciechi rispetto a qualsiasi cosa non rientri nel suo campo. Comunisti devoti possono passare ore a discutere se sia opportuno fare un’alleanza con i socialdemocratici nelle fasi iniziali della rivoluzione, ma raramente si fermano a esaminare la posizione del proletariato nell’evoluzione della vita dei mammiferi sul pianeta Terra o nel propagarsi della vita organica nell’universo. Questi discorsi inutili sono considerati uno spreco di fiato controrivoluzionario.

Sebbene alcune narrazioni si complichino fino a comprendere la totalità dello spazio e del tempo, l’abilità nel controllare l’attenzione consente a molte altre narrazioni di successo di contenere i loro obiettivi in un ambito più modesto. Una legge fondamentale della narrazione è che quando una storia riesce a estendersi oltre l’orizzonte del pubblico, l’obiettivo finale importa poco. La gente può mostrare lo stesso micidiale fanatismo per il bene di una nazione vecchia un migliaio di anni così come per il bene di un dio vecchio un miliardo di anni. Di fatto la gente non è a suo agio con i grandi numeri. Nella maggior parte dei casi ci vuole sorprendentemente poco per esaurire la nostra immaginazione.

Considerando tutto quello che sappiamo sull’universo sembra davvero impossibile che una persona sana di mente creda che la verità ultima sul cosmo e sull’esistenza umana sia contenuta nella narrazione del nazionalismo israeliano, tedesco o russo – o comunque del nazionalismo in generale. Una narrazione che quasi ignora la totalità del tempo e dello spazio, il Big Bang, la fisica quantistica e l’evoluzione della vita rappresenta tutt’al più una componente molto parziale della verità. Eppure la gente, in qualche modo, riesce a non vedere oltre questi orizzonti angusti.

Miliardi di individui nel corso della storia hanno creduto che le loro vite avrebbero avuto un senso anche se non erano integrati in una nazione o partecipi di un grande movimento ideologico. Per costoro è sufficiente “lasciare qualcosa dietro di sé”, assicurando inoltre che la loro storia personale continui oltre la loro morte. Il “qualcosa” che lascio dietro di me è idealmente la mia anima o la mia essenza individuale. Se rinasco in un nuovo corpo dopo la morte del mio corpo attuale, vuol dire che la morte non è la fine, ma costituisce un mero spazio tra due capitoli, e la trama che è cominciata in un capitolo proseguirà nel successivo. Molti hanno almeno una vaga fede in una teoria del genere, anche se non si danno troppa pena di ancorarla a una qualsiasi specifica teologia. Non hanno bisogno di un sofisticato dogma – hanno solo bisogno della rassicurante sensazione che la loro storia continuerà oltre la soglia della morte.

Questa teoria della vita come una epopea senza fine è estremamente seduttiva e diffusa, ma soffre di due gravi tare. Primo, allungando la durata della mia storia individuale non la rendo solo per questo più significativa. Mi limito ad accrescerla, e basta. In effetti, le due grandi religioni che sposano l’idea di un ciclo infinito di nascite e morti – l’induismo e il buddismo – condividono il terrore che tutto sia inutile. Milioni e milioni di volte imparerò a camminare, crescerò, litigherò con mia suocera, mi ammalerò, morirò – e poi rifarò tutto quanto daccapo. Per quale motivo? Se raccolgo tutte le lacrime che ho versato in tutte le mie precedenti esistenze, potrei riempire l’oceano Pacifico; se raccolgo tutti i denti e i capelli che ho perduto, potrei farne un monte più alto dell’Himalaya. E cosa ho ottenuto in cambio di tutto questo? Non c’è da stupirsi che saggi indù e buddisti abbiano tutti concentrato i loro sforzi nel trovare una strada per scendere da questa giostra invece che perpetuarne il movimento.

Il secondo problema di questa teoria è la scarsità di prove a suo sostegno. Che prove ho del fatto che in una vita passata ero un contadino del Medioevo, un cacciatore Neanderthal, un Tyrannosaurus rex, o un’ameba (se davvero ho vissuto milioni di vite, a un certo punto devo essere stato per forza un dinosauro e un’ameba, poiché gli umani esistono da soli 2,5 milioni di anni)? Chi garantisce che nel futuro non rinascerò sotto forma di un cyborg, di un esploratore intergalattico, o persino di una rana? Basare la mia vita su questa promessa è un po’ come vendere la mia casa in cambio di un assegno postdatato emesso da una banca situata sulle nuvole.

Coloro che dubitano che una qualche forma di anima o spirito davvero sopravviva alla loro morte lottano per lasciare dietro di sé qualcosa di tangibile. E questo “qualcosa di tangibile” potrebbe assumere due forme: culturale o biologica. Potrei lasciare dietro di me una poesia, diciamo, oppure qualcuno dei miei preziosi geni. La mia vita ha senso perché la gente tra cent’anni leggerà ancora la mia poesia, oppure perché i miei figli e i miei nipoti saranno ancora in vita. E qual è il senso delle loro vite? Be’, questo è un problema loro, non mio. Il senso della vita in questo modo assomiglia un po’ al gioco della palla avvelenata. Una volta che l’hai passata a qualcun altro, tu sei salvo.

Ahimè, questa modesta speranza di “lasciare qualcosa dietro di sé” di rado trova soddisfazione. La maggior parte degli organismi che sono esistiti si è estinta senza lasciare alcuna eredità genetica. Per esempio, quasi tutti i dinosauri. Oppure una famiglia Neanderthal che si è estinta quando i Sapiens hanno prevalso. Oppure il clan della mia nonna polacca. Nel 1934 mia nonna Fanny emigrò a Gerusalemme con i suoi genitori e due sorelle, ma la maggior parte dei loro parenti rimase nelle cittadine polacche di Chmielnik e Częstochowa. Pochi anni dopo arrivarono i nazisti e li eliminarono tutti, compresi i bambini.

I tentativi di lasciare dietro di sé una qualche eredità culturale di rado sono coronati da maggiore successo. Non è rimasto niente del clan polacco di mia nonna eccetto alcuni volti sbiaditi nell’album di famiglia e, all’età di 96 anni, nemmeno mia nonna riesce ad attribuire dei nomi a quei volti. Per quanto ne so io, non hanno lasciato dietro di sé alcuna creazione culturale – non una poesia né un diario, neppure una lista della spesa. Potreste sostenere che hanno contribuito all’eredità collettiva del popolo ebraico o del movimento sionista, ma questo non può bastare a dare un senso alle loro vite individuali. Inoltre, come sapete che tutti loro hanno coltivato davvero l’identità ebraica o erano d’accordo con il movimento sionista? Forse uno di loro era un fervente comunista, e ha sacrificato la sua vita facendo la spia per i sovietici? Forse un altro non voleva nient’altro che integrarsi nella società polacca, ha servito lo stato come un ufficiale nell’esercito polacco, ed è stato ucciso dai sovietici nel massacro di Katyń? Forse una terza era una femminista radicale, che rifiutava tutte le tradizionali identità religiose e nazionaliste? Poiché non hanno lasciato niente dietro di sé è troppo facile reclutarli in modo postumo nelle file di questa o quella causa, e loro non sono neppure in grado di protestare.

Se non possiamo lasciare qualcosa di tangibile dietro di noi – come un gene o una poesia – forse è sufficiente limitarsi a migliorare il mondo là dove ci è concesso? Potete aiutare qualcuno, e quel qualcuno di conseguenza aiuterà qualcun altro, e così contribuirete al miglioramento globale del pianeta, e costituirete un piccolo anello nella grande catena della gentilezza. Forse vi mettete a disposizione come mentore di un bambino difficile ma brillante, che un giorno diventerà un dottore che salverà centinaia di vite? Potete aiutare un’anziana signora ad attraversare la strada, e regalare un attimo di felicità alla sua vita? Sebbene la grande catena della gentilezza abbia i suoi meriti, è un po’ come la grande torre delle tartarughe – siamo lontani dal capire quale sia il suo senso. Un saggio uomo anziano a cui è stato chiesto che cosa ha imparato sul senso della vita, ha risposto: “Be’, ho appreso che sono qui sulla Terra per aiutare gli altri. Quello che non ho ancora capito è perché gli altri siano qui.”

Per coloro che non si fidano delle grandi catene, né di qualsiasi futura eredità o di qualunque epopea collettiva, forse la storia più sicura e più modesta a cui si possono dedicare è l’amore. Non cerca di andare oltre il qui e l’ora. Come testimoniano innumerevoli poesie sull’amore, quando siete innamorati, l’intero universo si riduce al lobo dell’orecchio, alle ciglia o al capezzolo del vostro amato. Mentre guarda Giulietta appoggiare la guancia sulla sua mano, Romeo esclama: “Oh, se fossi un guanto su quella mano. Così potrei toccare le sue guance!” Entrare in comunione con un singolo corpo qui e ora ti fa sentire connesso con l’intero cosmo.

In verità, il vostro amato è soltanto un altro essere umano, non è diverso da tutti quelli che ignorate ogni giorno sul treno o al supermercato. Ma a voi, lui o lei sembrano infiniti, e voi siete felici di perdervi in quell’infinito. I poeti mistici di tutte le tradizioni hanno spesso associato l’amore romantico all’unione cosmica, scrivendo di Dio come di un’amante. I poeti romantici hanno contraccambiato il complimento scrivendo dei loro amati come dèi. Se siete davvero innamorati di qualcuno, non vi preoccuperete mai del senso della vita.

E nel caso in cui non siate innamorati? Be’, se credete nella narrazione romantica ma non siete innamorati, almeno sapete qual è lo scopo della vostra vita: trovare il vero amore. Avete visto innumerevoli film e letto sull’argomento pile di libri. Sapete che un giorno incontrerete quella persona speciale, scorgerete l’infinito dentro due occhi luminosi, e la vostra vita intera improvvisamente avrà senso, e tutte le domande che vi siete sempre posti troveranno una risposta nel ripetere un nome all’infinito, proprio come fa Tony in West Side Story oppure Romeo quando vede Giulietta che lo guarda dal balcone.

Il peso del tetto

Per essere buona una narrazione deve assegnarmi un ruolo ed estendersi oltre i miei orizzonti, ma non è necessario che sia vera. Una storia può essere pura fantasia, e tuttavia fornirmi un’identità e dare un senso alla mia vita. In effetti, da un punto di vista scientifico, nessuna delle migliaia di storie che differenti culture, religioni e tribù hanno inventato nel corso della storia è vera. Sono tutte fantasie inventate dagli uomini. Se volete sapere quale sia il vero senso della vita e come risposta vi raccontano una storia, sappiate che è la risposta sbagliata. Non importano i dettagli. Qualsiasi narrazione è sbagliata per il semplice fatto di essere una narrazione. L’universo non funziona come una narrazione.

E allora perché la gente crede alle finzioni? Un motivo è che l’identità delle persone si basa sulla narrazione. Fin da piccoli ci insegnano a credere nelle narrazioni. Le raccontano i genitori, gli insegnanti, i vicini e tante altre arrivano dalla cultura generale molto prima che la gente sviluppi l’autonomia intellettuale ed emotiva necessaria per porsi delle domande e verificare la veridicità di tutte queste narrazioni. Quando però le persone diventano intellettualmente mature, sono così coinvolte in una narrazione che è assai più verosimile che utilizzino il loro intelletto per razionalizzarla piuttosto che per metterla in dubbio. La maggior parte di coloro che si mettono alla ricerca di un’identità assomiglia ai bambini che giocano a caccia al tesoro: trovano soltanto quello che i genitori hanno nascosto per loro in precedenza.

In secondo luogo, non solo le nostre identità individuali ma anche le nostre istituzioni collettive si basano sulla narrazione. Per questo dubitare di una narrazione fa paura. In molte società, chi cerca di farlo viene ostracizzato o perseguitato. E anche se ciò non accade, occorrono nervi saldi per criticare la struttura stessa della società. Perché se in effetti la storia è falsa, allora non ha senso tutto quello che conosciamo del mondo. Le leggi dello stato, le norme sociali, le istituzioni economiche – tutto potrebbe crollare.

La maggior parte delle storie è tenuta insieme dal peso del suo tetto piuttosto che dalla solidità delle sue fondamenta. Prendete la narrazione cristiana, per esempio. Poggia su basi molto fragili. Quale prova abbiamo che il figlio del Creatore dell’intero universo sia nato sotto forma di vita organica basata sul carbonio in un qualche punto della Via Lattea circa duemila anni fa? Quale prova abbiamo che ciò sia avvenuto in Galilea, e che Sua madre fosse vergine? Nonostante la vaghezza di tali assunti enormi istituzioni globali sono state costruite sulla base di questa narrazione, e il peso di queste istituzioni è tale da mantenere la plausibilità della storia. Per modificarne anche una sola parola si sono scatenate vere e proprie guerre. Lo scisma dell’anno Mille tra i cristiani occidentali e i cristiani ortodossi orientali, che è tornato a manifestarsi di recente nel reciproco massacro tra serbi e croati, prese avvio dall’unica parola “filioque” (“e dal figlio” in latino). I cristiani occidentali volevano inserire questa parola nella professione di fede cristiana, mentre i cristiani orientali si opposero con veemenza. (Le implicazioni teologiche derivanti dall’aggiunta di tale parola sono così arcane che sarebbe impossibile spiegarle qui in un modo che risulti significativo. Se siete curiosi chiedete a Google.)

Una volta che identità dei singoli e interi sistemi sociali sono costruiti attorno a una narrazione, diventa impensabile dubitarne non a causa della fragilità delle prove che la sostengono, ma perché il suo collasso innescherebbe un cataclisma individuale e sociale. Nella storia della nostra specie, qualche volta il tetto è più importante delle fondamenta.

Hocus pocus* e l’industria del credere

Le narrazioni che ci forniscono un senso e un’identità sono tutte prodotti della fantasia, ma gli uomini hanno bisogno di crederci. Quindi come fa la narrazione a essere percepita come reale? È ovvio perché gli umani vogliano credere in una storia; ma come ci credono in pratica? Già migliaia di anni fa sacerdoti e sciamani scoprirono la risposta: grazie ai riti. Un rito è un atto magico che rende l’astratto concreto e l’immaginario reale. L’essenza del rito consiste nel pronunciare l’incantesimo: “Hocus pocus, X è Y!”5

Come rendere Cristo reale per i credenti? Durante la cerimonia della Messa, il sacerdote prende una cialda di pane e un bicchiere di vino, e proclama che il pane è la carne di Cristo e il vino è il sangue di Cristo, e mangiando la prima e bevendo il secondo il fedele entra in comunione con Cristo. Che cosa potrebbe esserci di più reale di assaporare concretamente Cristo nella vostra bocca? Per secoli il sacerdote ha pronunciato questi solenni proclami in latino, l’antica lingua della religione, della legge e dei segreti della vita. Di fronte agli occhi sbalorditi dei contadini riuniti in chiesa il sacerdote sollevava il pane ed esclamava “Hoc est corpus!” – “Questo è il corpo!” – e si supponeva che diventasse la carne di Cristo. Nelle menti degli incolti contadini, che non parlavano il latino, “Hoc est corpus!” si tramutava nella formula “Hocus pocus!” e così nacque il potente incantesimo che poteva trasformare una rana in un principe, e una zucca in una carrozza.6

Un migliaio di anni prima della nascita del cristianesimo, gli antichi indù fecero ricorso allo stesso trucco. La Bihadārayaka Upaniad interpreta il sacrificio rituale di un cavallo come una figura dell’intera storia del cosmo. Il testo segue la struttura “Hocus pocus, X è Y!” dicendo che: “La testa del cavallo sacrificale è, invero, l’aurora, il suo occhio è il sole, il suo respiro è il vento, le sue fauci sono il fuoco Vaisvanara, il corpo del cavallo sacrificale è l’anno […] le membra sono le stagioni, le giunture sono i mesi e le quindicine, le zampe sono il giorno e la notte, le ossa sono le stelle fisse e le sue carni sono le nuvole […] quando apre la bocca, saettano bagliori; quando scuote la testa, rimbomba il tuono; quando orina, piove. Il suo stesso nitrito, invero, è la Voce.”7 E così un povero cavallo diventa l’intero universo.

Quasi tutto può essere trasformato in un rito, dando a gesti banali come l’accensione delle candele, il suono delle campane o sgranare le perle del rosario un profondo significato religioso. Ed è vero anche per i gesti fisici, come chinare la testa, prostrare il corpo o unire i palmi delle mani. Varie forme di copricapo, dal turbante dei sikh al hijab musulmano, sono stati così caricati di significato che per secoli hanno suscitato lotte appassionate.

Anche al cibo può essere attribuito un valore spirituale di gran lunga superiore a quello nutrizionale, si tratti delle uova di Pasqua che simbolizzano la nuova vita e la resurrezione di Cristo, oppure delle erbe amare e del pane azzimo che gli ebrei devono mangiare durante la Pasqua ebraica in memoria della loro schiavitù in Egitto e della loro miracolosa fuga. Un piatto che nel resto del mondo difficilmente sarebbe interpretato come il simbolo di qualcosa. Allo stesso modo il primo dell’anno gli ebrei religiosi mangiano miele come auspicio perché l’anno sia dolce, mangiano le teste di pesce con l’auspicio di essere produttivi come i pesci e che andranno avanti invece che indietro, e mangiano melagrane con l’auspicio che le loro buone azioni si moltiplicheranno come i numerosi semi della melagrana.

Si è fatto ricorso a riti analoghi anche per scopi politici. Per migliaia di anni corone, troni e scettri hanno rappresentato regni e interi imperi, e milioni di individui sono morti in guerre brutali scatenate per il possesso del “trono” o della “corona”. Le corti reali hanno elaborato protocolli estremamente complessi associati alle più articolate cerimonie religiose. In campo militare, la disciplina e i rituali sono inseparabili, e i soldati dall’antica Roma fino ad oggi dedicano innumerevoli ore alla marcia in formazione, ai saluti ai superiori e a pulire con cura gli stivali. Una celebre battuta di Napoleone dice così: un soldato combatterà a lungo e duramente per un pezzo di nastro colorato.

Forse nessuno ha compreso l’importanza politica dei rituali meglio di Confucio, che concepì la stretta osservanza dei riti (li) come la chiave per l’armonia sociale e la stabilità politica. I classici confuciani come Il libro dei riti, I riti degli Zhou e Il cerimoniale registravano nel minimo dettaglio quale rito avrebbe dovuto essere praticato per ogni occasione di stato, fino a indicare il numero dei vasi rituali usati nella cerimonia, il genere di strumenti musicali da suonare e i colori degli abiti da indossare. Ogni qualvolta la Cina era colpita da qualche crisi, gli studiosi confuciani si affrettavano a darne la colpa all’aver trascurato i dovuti riti, proprio come un sergente maggiore attribuisce una sconfitta militare alla pigrizia dei soldati che non hanno pulito con cura i loro stivali.8

Nell’Occidente moderno, l’ossessione confuciana per i rituali è stata spesso vista come un segno di superficialità e arcaismo. È più verosimile che rappresenti il profondo, infinito apprezzamento di Confucio per la natura umana. Non è forse un caso che le culture confuciane – soprattutto quella cinese, ma anche nei paesi vicini, Corea, Vietnam e Giappone – abbiano prodotto strutture sociali e politiche estremamente durature. Se volete conoscere l’essenza della verità della vita, i riti e i rituali sono un enorme ostacolo. Ma se siete interessati – come Confucio – alla stabilità sociale e all’armonia, la verità è spesso un peso, mentre i riti e i rituali possono essere i vostri migliori alleati.

Questa considerazione è tanto rilevante nel XXI secolo quanto lo era nell’antica Cina. Il potere di Hocus pocus sopravvive, vigoroso, nel nostro moderno mondo industriale. Per molti nel 2018, due bastoncini di legno incollati in croce sono Dio, un manifesto colorato sulla parete è la Rivoluzione, e un pezzo di tessuto svolazzante è la Nazione. Non potete né vedere né sentire la Francia, poiché essa esiste soltanto nella vostra immaginazione, ma potete certamente vedere e ascoltare la Marsigliese. Perciò sventolando una bandiera colorata e cantando un inno trasformate la nazione da una narrazione astratta in una realtà concreta.

Migliaia di anni fa gli indù devoti sacrificavano preziosi cavalli – oggi investono risorse nella produzione di costose bandiere. La bandiera nazionale dell’India è nota come il Tiranga (letteralmente, “tricolore”), poiché è costituita da tre bande orizzontali di color zafferano, bianco e verde. In India esiste un elaborato codice di leggi che regola il corretto uso e l’esposizione della bandiera nazionale, e la versione del 2002 proclama che la bandiera “rappresenta le speranze e le aspirazioni del popolo dell’India. È il simbolo del nostro orgoglio nazionale. Nel corso degli ultimi cinque decenni molti individui, inclusi i membri delle forze armate, hanno di buon grado offerto le loro vite affinché il tricolore sventoli in tutta la sua gloria”.9 Il codice della bandiera cita quindi Sarvepalli Radhakrishnan, il secondo presidente dell’India, il quale spiegava che:

Il color zafferano denota rinuncia o abnegazione. I nostri leader devono essere indifferenti ai vantaggi materiali e dedicare se stessi al loro lavoro. Il bianco al centro è luce, il sentiero della verità che guida la nostra condotta. Il verde indica la nostra relazione con la terra, la nostra relazione con la pianta della vita da cui ogni altra vita dipende. La ruota di Aśoka al centro della banda bianca rappresenta la ruota della legge del dharma. Verità o Satya, dharma o virtù dovrebbero essere i principi di riferimento per tutti coloro che operano sotto questa bandiera.10

Nel 2017 il governo nazionalista dell’India ha issato una delle bandiere più grandi del mondo ad Attari sul confine indopakistano, con l’intento non di ispirare rinuncia o abnegazione, bensì di provocare l’invidia del Pakistan. Questo particolare Tiranga era lungo 36 metri e largo 24, e fu issato su un pennone alto 110 metri (che cosa avrebbe detto Freud?). La bandiera poteva essere vista fin dalla capitale pakistana di Lahore. Sfortunatamente i forti venti continuavano a lacerare la bandiera, e l’orgoglio nazionale richiedeva che venisse continuamente ricucita, con enormi spese per i contribuenti indiani.11 Perché il governo indiano investe le sue scarse risorse per far sventolare enormi bandiere, invece di costruire le fogne nelle baraccopoli di Delhi? Perché la bandiera rende l’India reale e le fogne no.

In effetti, è proprio il costo della bandiera che rende efficace il rito. Di tutti i riti il sacrificio è il più potente, poiché il dolore è la cosa più vera al mondo. Non si può mai ignorarlo o dubitarne. Se volete davvero convincere la gente di una fantasia, costringetela a fare un sacrificio per quella fantasia. Una volta che avrete sofferto per una storia, sarete convinti della sua realtà. Se digiunate perché Dio vi ha ordinato di fare così, il morso della fame rende Dio presente più di qualsiasi statua o immagine. Se perdete le vostre gambe per difendere la patria, il vostro corpo mutilato e la carrozzina renderanno l’idea della nazione più reale di qualsiasi poesia o inno. In termini meno seri e drammatici, se preferite acquistare una marca di pasta della vostra nazione, prodotta localmente e di qualità inferiore, invece che una marca di pasta italiana, importata e di alta qualità, al costo di un piccolo sacrificio quotidiano potrete sentire la realtà della nazione anche al supermercato.

Questo però è un ragionamento logico fallace. Se soffrite a causa della vostra credenza in Dio o nella nazione, il vostro dolore non dimostra che le vostre credenze siano vere. Non state forse pagando il prezzo della vostra creduloneria? In ogni caso, alla maggior parte degli individui non piace ammettere di essere sciocchi. Per questo più la gente fa sacrifici per una particolare fede, più la sua fede si rinsalda. In questo consiste la misteriosa alchimia del sacrificio. Per sottometterci al suo potere, il sacerdote che celebra il sacrificio non ha bisogno di darci alcunché – né pioggia, né denaro, né la vittoria in guerra. Piuttosto ha bisogno di portarci via qualcosa. Una volta che ci abbia convinti a fare qualche doloroso sacrificio siamo in trappola.

Funziona così anche il mondo del commercio. Se comprate una Fiat di seconda mano per duemila dollari, è probabile che ve ne lamenterete con chiunque abbia la pazienza di darvi ascolto. Ma se comprate una Ferrari ultimo modello per duecentomila dollari, ne canterete le lodi in lungo e in largo, non perché è davvero un’ottima auto, ma perché avete pagato così tanto denaro per averla che dovete per forza credere che sia la cosa più meravigliosa del mondo. Anche nelle questioni di cuore, qualsiasi aspirante Romeo o Werther sa che senza sacrificio non esiste vero amore. Il sacrificio non è soltanto un modo per convincere il vostro amato che avete intenzioni serie – è anche un modo per convincere voi stessi che siete davvero innamorati. Perché pensate che le donne chiedano anelli con diamante ai loro amati? Una volta che l’amato abbia fatto un sacrificio finanziario così ingente, deve convincere se stesso che lo ha fatto per una buona causa.

Il sacrificio di sé è estremamente persuasivo non solo per i martiri, ma anche per chi assiste al martirio. Ben pochi dèi, nazioni o rivoluzioni possono funzionare senza martiri. Se ritenete di poter mettere in discussione il dramma divino, il mito nazionalista o la saga rivoluzionaria, sarete immediatamente richiamati all’ordine: “Ma i martiri benedetti sono morti per questo! Come osi dire che sono morti invano? Pensi forse che questi eroi fossero degli sciocchi?”

Per i musulmani sciiti, il dramma del cosmo ha raggiunto il suo momento culminante nel giorno di Āshūrā, che cadde il decimo giorno del mese di muarram, sessantuno anni dopo l’Egira (10 ottobre 680 secondo il calendario cristiano). Quel giorno, a Karbala in Iraq, i soldati del malvagio usurpatore Yazid massacrarono Husayn ibn Ali, il nipote del profeta Maometto, insieme a un piccolo gruppo di seguaci. Per gli sciiti il martirio di Husayn è divenuto il simbolo della lotta eterna del bene contro il male e degli oppressi contro l’ingiustizia. Proprio come i cristiani rimettono costantemente in scena il dramma della crocefissione e imitano la passione di Cristo, così gli sciiti rimettono in scena il dramma di Āshūrā e imitano la passione di Husayn. Milioni di sciiti si riversano ogni anno nel tempio sacro di Karbala, dove si ritiene che Husayn sia stato martirizzato, e nel giorno di Āshūrā gli sciiti di tutto il mondo compiono rituali di lutto, in alcuni casi flagellandosi e tagliandosi con coltelli e catene.

Tuttavia l’importanza di Āshūrā non è limitata a un luogo e a un giorno. L’ayatollah Ruhollah Khomeini e numerosi altri leader sciiti hanno sempre ripetuto ai loro fedeli che “ogni giorno è Āshūrā e ogni luogo è Karbala”.12 Il martirio di Husayn a Karbala conferisce così senso a ogni evento, in ogni luogo, in ogni tempo, e persino le decisioni più banali dovrebbero essere prese considerandone l’impatto sulla grande lotta cosmica tra il bene e il male. Se osate dubitare di questa storia, vi verrà subito ricordata Karbala – e dubitare o deridere il martirio di Husayn è semplicemente la peggiore offesa di cui potete rendervi colpevoli.

In alternativa, se i martiri sono scarsi e la gente non è in vena di sacrifici, il sacerdote che celebra il sacrificio può ottenerlo da qualcun altro. Potreste sacrificare un essere umano al vendicativo dio Ba’al, bruciare un eretico al rogo per la maggior gloria di Gesù Cristo, giustiziare donne adultere perché così ha ordinato Allah, o inviare i nemici di classe in un gulag. Una volta che abbiate agito in questo modo, un’alchimia del sacrificio leggermente diversa comincia a esercitare il suo influsso magico su di voi. Quando infliggete una pena a voi stessi nel nome di una qualche storia, questo vi pone davanti a una scelta: “O la storia è vera oppure io sono uno sciocco credulone.” Quando infliggete una pena ad altri, anche questo vi pone davanti a una scelta: “O la storia è vera oppure io sono una persona crudele e malvagia.” E siccome non vogliamo ammettere di essere sciocchi e cattivi, preferiamo credere che la storia sia vera.

Nel marzo 1839, nella città persiana di Mashhad, un ciarlatano del luogo disse a una donna ebrea che soffriva di una malattia cutanea che se avesse ucciso un cane e si fosse lavata le mani con il suo sangue sarebbe guarita. Mashhad è una città santa sciita, e il caso volle che la donna intraprendesse la macabra terapia nel giorno sacro di Āshūrā. Fu vista da alcuni sciiti, che credettero – o dissero di aver creduto – che la donna avesse ucciso il cane per parodiare il martirio di Karbala. La voce di un tale sacrilegio si diffuse rapidamente per le strade di Mashhad. Aizzata dall’imam locale, una folla inferocita irruppe nel ghetto, diede fuoco alla sinagoga e uccise trentasei ebrei. A tutti gli ebrei superstiti di Mashhad fu imposta una dura scelta: convertirsi immediatamente all’islam o essere uccisi. Questo orrendo episodio non ha rovinato la reputazione di Mashhad come “capitale spirituale dell’Iran”.13

Quando pensiamo ai sacrifici umani di solito la mente corre ai sanguinari rituali nei templi cananei o aztechi, ed è opinione comune che il monoteismo abbia posto fine a queste pratiche terribili. In realtà, i monoteisti hanno praticato il sacrificio umano su una scala assai più grande dei culti politeisti. Il cristianesimo e l’islam hanno ucciso molte più persone nel nome di Dio di quante ne abbiano uccise i seguaci di Ba’al o Huitzilopochtli. Al tempo in cui i conquistadores spagnoli posero fine a tutti i sacrifici umani in onore degli dèi aztechi o inca, nella madrepatria spagnola l’Inquisizione non lesinava roghi per bruciare schiere di eretici.

Esistono sacrifici di tutti i tipi e di tutte le dimensioni. Non sempre necessitano di un sacerdote che brandisce un pugnale o di sanguinosi pogrom. L’ebraismo, per esempio, vieta di lavorare o viaggiare durante il giorno santo dello Shabbat (il suo significato letterale è “stare fermi” o “riposare”). Lo Shabbat comincia al tramonto del venerdì e dura fino al tramonto del sabato, e durante queste ventiquattro ore gli ebrei ortodossi si astengono da qualsiasi tipo di lavoro, compreso anche lo strappo della carta igienica da un rotolo nel gabinetto. (I rabbini più colti ed esperti hanno discusso su questo punto, e hanno concluso che lo strappo della carta igienica rappresenta una trasgressione del precetto dello Shabbat, e pertanto gli ebrei devoti che vogliono pulirsi durante lo Shabbat devono preparare in anticipo una riserva di carta pre-strappata.)14

In Israele, gli ebrei religiosi spesso cercano di imporre agli ebrei laici e persino a quelli atei il rispetto di questi precetti. Poiché i partiti ortodossi di solito detengono il potere politico in Israele, nel corso degli anni sono state approvate numerose leggi che vietano qualsiasi attività durante lo Shabbat. Benché non siano riusciti a dichiarare illegale l’uso di veicoli privati durante lo Shabbat, sono riusciti a vietare il trasporto pubblico. Questo sacrificio religioso esteso a tutta la nazione colpisce i settori più deboli della società, specialmente il sabato che è l’unico giorno della settimana in cui la classe operaia può muoversi liberamente per fare visita a parenti lontani e amici o per vedere attrazioni turistiche. Una nonna ricca non ha alcun problema a guidare la sua auto nuova fiammante per andare a trovare i suoi nipoti in un’altra città, ma una nonna povera non può fare altrettanto, perché non ci sono né bus né treni.

Infliggendo tali difficoltà a centinaia di migliaia di cittadini, i partiti religiosi mettono alla prova e consolidano la loro incrollabile fede nell’ebraismo. Sebbene non venga versata una goccia di sangue, viene sacrificato il benessere di molte persone. Se l’ebraismo è solo una storia di fantasia, allora è una cosa veramente crudele impedire a una nonna di andare a trovare i suoi nipoti o impedire a uno studente senza molti mezzi di andare a divertirsi in spiaggia. Eppure è proprio agendo in questa maniera che i partiti religiosi dicono al mondo – e a se stessi – che credono davvero nella narrazione ebraica. Pensate forse che si divertano a far soffrire la gente senza una buona ragione?

Il sacrificio non solo rafforza la vostra fede nella narrazione, ma spesso sostituisce tutti gli obblighi verso di essa. La maggior parte delle grandi narrazioni del genere umano ha istituito ideali che gran parte della gente non può realizzare. Quanti cristiani seguono davvero i dieci comandamenti alla lettera, senza mai mentire o desiderare quello che non gli compete? Quanti buddisti hanno davvero raggiunto lo stadio di annullamento dell’io? Quanti socialisti lavorano al massimo delle loro capacità senza prendere più di quello di cui hanno davvero bisogno?

Incapace di essere all’altezza di tali ideali, la gente considera il sacrificio una soluzione. Un indù può evadere le tasse, avere rapporti occasionali con prostitute e maltrattare i genitori anziani, ma si può convincere di essere una persona veramente pia perché è a favore della distruzione della moschea Babri ad Ayodhyā e ha anche fatto una donazione per costruire un tempio al suo posto. Proprio come nei tempi antichi, anche nel XXI secolo la ricerca del senso delle cose troppo spesso finisce con il risolversi in una serie di sacrifici.

Il portafoglio delle identità

Gli antichi egizi, i cananei e i greci si assicuravano contro i rischi della vita diversificando i loro sacrifici. Veneravano una moltitudine di divinità e, se le preghiere rivolte a una di loro non sortivano l’effetto desiderato, potevano sperare di ottenerlo grazie all’intercessione di un’altra divinità. Perciò facevano sacrifici al dio del sole al mattino, alla dea della terra a mezzogiorno e a una schiera assortita di fate e demoni alla sera. Da allora le cose non sono cambiate di molto. Tutte le narrazioni e gli dèi in cui la gente crede oggi – siano Yahweh, Mammona, la Nazione o la Rivoluzione – sono incomplete, piene di buchi e zeppe di contraddizioni. Inoltre di rado ci si affida a una singola narrazione. La gente preferisce gestire un portafoglio ben assortito di storie e diverse identità, cambiandole a seconda delle necessità. Queste dissonanze cognitive sono una caratteristica intrinseca di quasi tutte le società e i movimenti.

Prendete in considerazione un tipico sostenitore del Tea Party che in qualche modo riesca a tenere insieme un’ardente fede in Gesù Cristo con una ferma opposizione alle politiche di welfare del governo e un convinto appoggio alla National Rifle Association. Ma non era Gesù che privilegiava la carità alle armi? Questa combinazione ideologica potrebbe sembrare poco plausibile, ma il cervello umano ha tanti cassetti e scompartimenti, e alcuni neuroni non dialogano tra loro. Potete anche trovare parecchi sostenitori di Bernie Sanders che hanno vaghe speranze in una futura rivoluzione di qualche tipo, e allo stesso tempo credono nell’importanza di investire il vostro denaro con saggezza. Costoro non hanno problemi a passare da una discussione sull’iniqua distribuzione delle ricchezze nel mondo a una sull’andamento dei loro investimenti a Wall Street.

In effetti nessuno ha una sola identità. Nessuno è soltanto un musulmano, o soltanto un italiano, o soltanto un capitalista. Ma ogni tanto si impone una ideologia fanatica che obbliga la gente a credere in un’unica narrazione e ad avere un’unica identità. Nelle ultime generazioni la più fanatica di queste credenze è stato il fascismo, che esigeva che la gente non credesse a nient’altro che alla narrazione nazionalista, e non avesse altra identità se non quella della nazione di appartenenza. Non tutti i nazionalisti sono fascisti. La maggior parte dei nazionalisti ha una grande fede nella narrazione della propria nazione, ne esalta i meriti e l’assoluta dedizione che esige e che le è dovuta – ma nello stesso tempo riconosce che il mondo non si esaurisce con la propria nazione. Io posso essere un leale cittadino italiano con speciali obblighi nei confronti della nazione italiana, e tuttavia possedere altre identità. Posso essere un socialista, un cattolico, un marito, un padre, uno scienziato e un vegetariano, e ognuna di queste identità comporta obblighi aggiuntivi. Talvolta parecchie delle mie identità mi spingono in direzioni diverse, e alcuni dei miei obblighi entrano in conflitto fra loro. Ma chi ha mai detto che la vita è facile?

Si può parlare propriamente di fascismo quando il nazionalismo vuole semplificare troppo la realtà a proprio vantaggio, negando tutte le altre identità e gli altri obblighi. Negli ultimi anni c’è stata molta confusione sull’esatto significato di fascismo. Si tende a qualificare come “fascisti” quasi tutti coloro che non ci piacciono. L’abuso del termine rischia di farlo diventare una parola buona per tutte le occasioni. E quindi che cosa significa davvero? In breve, mentre per il nazionalismo la mia nazione è unica ed esige speciali obblighi, per il fascismo la mia nazione è la nazione suprema, ed esige obblighi esclusivi. In qualunque situazione non dovrò mai anteporre gli interessi di qualsiasi gruppo o individuo agli interessi della mia nazione. Anche se la mia nazione opera per sfruttare in modo orrendo la sofferenza di milioni di stranieri in una terra lontana, non avrò dubbi nel sostenerla. Se non lo farò sarò uno spregevole traditore. Se la mia nazione comanda di uccidere milioni di persone – io ne ucciderò milioni. Se la mia nazione comanda di negare la verità e disprezzare la bellezza – io negherò la verità e disprezzerò la bellezza.

Come valuta un fascista l’arte? Come fa un fascista a sapere se un film è un buon film? Molto semplice. Esiste un solo criterio. Se il film promuove gli interessi nazionali – è un buon film. Se non li promuove – è un cattivo film. E come fa un fascista a decidere cosa insegnare ai bambini a scuola? Vale lo stesso criterio, bisogna insegnare ai bambini qualsiasi cosa privilegi gli interessi della nazione; la verità non conta.15

Questa venerazione della nazione è molto seducente, non solo perché semplifica brutalmente parecchi problematici dilemmi, ma anche perché induce la gente a pensare di appartenere alla cosa più importante e più bella nel mondo – la sua nazione. Gli orrori della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto mostrano le terribili conseguenze di questa linea di pensiero. Purtroppo, quando la gente parla dei mali del fascismo spesso sbaglia, perché tende a dipingerlo come un mostro orrendo e non spiega perché sia così seducente. Questo accade perché la gente talvolta si compiace di idee fasciste senza rendersene conto. La gente pensa: “Mi è stato insegnato che il fascismo è brutto, ma quando mi guardo allo specchio vedo qualcosa di molto bello, quindi non posso essere fascista.”

Si tratta dell’errore in cui cadono i film di Hollywood quando rappresentano i cattivi della storia – Voldemort, Sauron, Darth Vader – tanto brutti quanto malvagi. Di solito sono la quintessenza della crudeltà anche nei confronti dei loro più leali sostenitori. Quello che non ho mai capito guardando questi film è per quale ragione uno dovrebbe essere tentato di seguire un odioso bastardo come Voldemort.

Il problema del male è che nella vita reale non è necessariamente brutto. Può assumere sembianze molto belle. Il cristianesimo conosce questa verità meglio di Hollywood, e infatti l’arte tradizionale cristiana in genere rappresenta Satana come un bel fusto. Ed è il motivo per cui è così difficile resistere alle tentazioni di Satana. Lo stesso motivo per cui è difficile confrontarsi con il fascismo. Quando vi guardate nello specchio fascista, quello che vedete non è affatto brutto. Quando i tedeschi si guardavano nello specchio fascista negli anni trenta, vedevano la Germania come la cosa più bella al mondo. Se oggi i russi si guardano nello specchio fascista, vedono la Russia come la cosa più bella al mondo. E se gli israeliani si guardano nello specchio fascista, vedono Israele come la cosa più bella al mondo. Quello che tutti vogliono è lasciarsi affascinare da una bellissima immagine collettiva.

La parola “fascismo” deriva dal latino fascis, che significa “fascio di verghe”. Non sembra molto entusiasmante come simbolo di una delle più feroci e letali ideologie nella storia mondiale. In realtà possiede un significato profondo e sinistro. Una singola verga è molto debole, e si può spezzare facilmente in due. Quando si riuniscono molte verghe insieme in un fascis, invece, diventa quasi impossibile spezzarle. Questo implica che l’individuo da solo non possa nulla, mentre la collettività, fin quando rimane unita, sia molto potente.16 I fascisti, inoltre, credono nel privilegiare gli interessi della collettività rispetto a quelli di ogni individuo, ed esigono che nessuna singola verga osi in nessun caso mettere in discussione l’unità del fascio.

Non è mai chiaro dove “un fascio di verghe” umano cominci e un altro finisca. Perché dovrei vedere l’Italia come un fascio di verghe al quale appartengo? Perché non la mia famiglia, o la città di Firenze, o la regione Toscana, o il continente europeo, o l’intera specie umana? Forme più miti di nazionalismo consentono di avere obblighi verso la mia famiglia, Firenze, l’Europa e l’intero genere umano, così come obblighi speciali verso l’Italia. Al contrario, i fascisti italiani esigeranno lealtà assoluta soltanto nei confronti dell’Italia.

Nonostante i più tenaci sforzi di Mussolini e del partito fascista, la maggioranza degli italiani rimase piuttosto tiepida nell’anteporre l’Italia alla propria famiglia. In Germania la propaganda nazista svolse un lavoro molto più accurato, ma anche Hitler non riuscì a far dimenticare tutte le narrazioni alternative. Perfino nei giorni più oscuri dell’era nazista, i tedeschi mantennero in vita alcune storie di riserva oltre a quella ufficiale. Questo fu evidente nel 1945. Dopo dodici anni di lavaggio del cervello era plausibile che molti tedeschi non sarebbero riusciti a dare un senso alle loro vite post-belliche. Dopo essersi affidati a una sola grande storia, cosa potevano fare quando quella storia crollò? Ma la maggioranza dei tedeschi si riebbe con una sorprendente velocità. Da qualche parte nelle loro menti avevano conservato alcune altre storie sul mondo, e appena Hitler si fu sparato un colpo in testa, gli abitanti di Berlino, Amburgo e Monaco adottarono nuove identità e trovarono nuovi scopi che dessero senso alle loro vite.

È vero, circa il 20% dei Gauleiter nazisti – i capi delle sezioni locali del partito – si suicidò, così come circa il 10% dei generali.17 Ma questo significa che l’80% dei Gauleiter e il 90% dei generali furono in grado di continuare a vivere. La grande maggioranza dei tesserati al partito nazista e persino le schiere delle SS non impazzirono né si uccisero. Andarono avanti facendo i contadini, gli insegnanti, i dottori e gli agenti assicurativi.

D’altronde anche il suicidio non è prova di un impegno assoluto verso un’unica narrazione. Il 13 novembre 2015 lo Stato islamico ha orchestrato numerosi attacchi suicidi a Parigi che hanno fatto 130 vittime. Gli estremisti hanno spiegato che queste azioni erano la vendetta per i bombardamenti dell’aeronautica francese sugli attivisti dello Stato islamico in Siria e in Iraq, e che il loro scopo era obbligare la Francia a cessare i bombardamenti.18 Lo Stato islamico ha anche dichiarato che tutti i musulmani uccisi dalle forze aeree francesi erano martiri, che adesso godono della benedizione eterna in paradiso.

Qualcosa qui non torna. Se i martiri uccisi dall’aeronautica francese sono in cielo, di cosa ci si dovrebbe vendicare? Vendetta per cosa, esattamente? Per aver inviato in cielo alcune persone? Se aveste appena sentito che il vostro amato fratello ha vinto un milione di dollari alla lotteria, comincereste a far saltare in aria i bussolotti usati per l’estrazione dei numeri? Quindi perché andare a fare stragi a Parigi solo perché i caccia francesi hanno dato ai vostri fratelli un biglietto di sola andata per il paradiso? Sarebbe anche peggio se in effetti riusciste a dissuadere la Francia dall’intraprendere ulteriori bombardamenti in Siria. Perché, in questo caso, molti meno musulmani andrebbero in paradiso.

Potremmo essere tentati di concludere che gli attivisti dello Stato islamico non credono che i martiri vadano in paradiso. Per questo si arrabbiano quando vengono bombardati e uccisi. Ma se le cose stanno così, perché alcuni di loro indossano cinture esplosive e si fanno saltare in mille pezzi? Con ogni probabilità, la risposta è che essi tengono fede a due narrazioni contraddittorie, senza preoccuparsi della loro incoerenza. Come si è notato in precedenza, alcuni neuroni semplicemente non dialogano con gli altri.

Otto secoli prima che l’aeronautica francese bombardasse le roccaforti dello Stato islamico in Siria e in Iraq, un altro esercito francese invadeva il Medio Oriente, evento che è noto ai posteri come la “settima crociata”. Guidati da re Luigi IX, detto il Santo, i crociati speravano di conquistare la valle del Nilo e trasformare l’Egitto in un baluardo cristiano. Furono sconfitti nella battaglia di Mansura e la maggior parte dei crociati fu fatta prigioniera. Un cavaliere crociato, Jean de Joinville, scrisse le sue memorie nelle quali racconta che, dopo la sconfitta in battaglia e la decisione di arrendersi, uno dei suoi uomini disse: “Non sono d’accordo con questa decisione. Il mio consiglio è che tutti dovremmo lasciarci uccidere, perché in questo modo andremo in paradiso”. Joinville commenta ironicamente che “nessuno di noi seguì il suo consiglio”.19

Joinville non spiega perché si rifiutarono. Dopo tutto, erano pur sempre uomini che avevano lasciato i loro confortevoli castelli in Francia per avventurarsi in rischiose imprese mediorientali anche perché credevano alla promessa della salvezza eterna. Come mai, ci si chiede, quando stavano per ottenere la benedizione eterna del paradiso, preferirono la prigionia in terra musulmana? Anche se i crociati credevano devotamente nella salvezza dell’anima e nel paradiso, nel momento della verità scelsero di salvare se stessi.

Il supermercato di Elsinore

Per secoli gli uomini hanno creduto contemporaneamente in molte narrazioni, ma non sono mai stati assolutamente convinti della verità di nessuna di queste. Questa incertezza era un’offesa al dettato delle religioni, per il quale la fede è una virtù cardinale e il dubbio uno dei peccati più gravi. Come se solo il fatto di credere senza avere prove fosse di per sé cosa buona. Con l’affermarsi della cultura moderna, i ruoli si sono invertiti. La fede è diventata l’immagine dell’asservimento mentale mentre il dubbio viene visto come condizione preliminare di libertà.

Tra il 1599 e il 1602, William Shakespeare scrisse la sua versione del Re leone, meglio nota come Amleto. Tuttavia, a differenza di Simba, Amleto non completa il Cerchio della Vita. Rimane scettico e dubbioso fino all’ultimo, senza mai scoprire il senso della vita, e senza mai decidere se sia meglio essere o non essere. Per questo Amleto è l’eroe moderno per eccellenza. La modernità non ha respinto la pletora di narrazioni ereditate dal passato. Anzi, ha aperto un supermercato dedicato a loro. L’uomo e la donna moderni sono liberi di assaggiarle tutte, scegliendo e combinando qualsiasi storia sia di loro gradimento.

Molti non sono capaci di gestire tutta questa libertà e incertezza. I moderni movimenti totalitari come il fascismo hanno reagito con violenza al supermercato delle idee seminatrici di dubbio, e sono anche stati più rigorosi delle religioni tradizionali nel pretendere la fede assoluta in un’unica narrazione. La maggior parte degli uomini e delle donne moderni, comunque, si è trovata a suo agio nel supermercato delle idee. Che cosa fate quando non sapete quale sia il senso della vita e in quale storia credere? Sacralizzate la capacità di scegliere. Vi trovate sempre là in un corridoio del supermercato, con il potere e la libertà di scegliere qualunque cosa vi piaccia, esaminando con attenzione i prodotti davanti a voi, e… fermo immagine, stop, Fine. Scorrono i titoli di coda.

Secondo la mitologia liberale, se rimanete a lungo in quel grande supermercato, prima o poi sperimenterete l’epifania liberale, e comprenderete il vero significato della vita. Tutte le storie sugli scaffali del supermercato sono dei falsi. Il significato della vita non è un prodotto già pronto. Non esiste alcuna sceneggiatura divina, e niente all’infuori di me può dare significato alla mia vita. Sono io che infondo ogni cosa di senso con le mie scelte e con i miei sentimenti.

Nel film fantasy Willow – una banale favola di George Lucas – l’eroe eponimo è un comune nano che sogna di diventare un potente stregone e di padroneggiare i segreti dell’esistenza. Un giorno un potente stregone giunge nel villaggio del nano in cerca di un apprendista. Willow e altri due nani speranzosi si presentano all’appello, e lo stregone sottopone gli aspiranti maghi a un semplice test. Stende la sua mano destra, allarga le dita e chiede loro con una voce simile a quella di Yoda: “Il potere di controllare il mondo, in quale dito si trova?” Ciascuno dei tre nani sceglie un dito – ma scelgono tutti quello sbagliato. Tuttavia, lo stregone nota qualcosa di strano in Willow, e poi gli chiede: “Quando ho teso le mie dita, qual è stato il tuo primo impulso?” “Be’, è stata l’idea stupida,” risponde Willow con imbarazzo, “di scegliere il mio dito.” “Aha!” esclama lo stregone soddisfatto. “Quella era la risposta esatta! Non hai fiducia in te stesso.” La mitologia liberale non si stanca mai di ripetere questa lezione.

Sono le nostre dita umane che hanno scritto la Bibbia, il Corano e i Veda, e sono i nostri cervelli che conferiscono potere a queste storie. Non c’è dubbio che si tratti di storie bellissime, ma la loro bellezza si trova unicamente negli occhi di chi guarda. Gerusalemme, La Mecca, Varanasi e Bodh Gaya sono luoghi sacri, ma solo a causa dei sentimenti che gli umani provano quando vi arrivano. In se stesso, l’universo è soltanto un miscuglio di atomi privo di senso. Niente è bellissimo, sacro o sexy – sono solo i nostri sentimenti che lo rendono così. Siamo noi che rendiamo bella una mela rossa e repellente un mucchio di escrementi. Senza il nostro sentire, quel che resta è un fascio di molecole.

Speriamo di trovare il senso della vita adattandoci a qualche storia prefabbricata sull’universo ma, secondo l’interpretazione liberale del mondo, la verità è esattamente l’opposto. L’universo non ha alcun senso. Io do senso all’universo. Questa è la mia vocazione cosmica. Non c’è un destino già scritto né un dharma. Se mi trovo nei panni di Simba o di Arjuna, posso scegliere di combattere per la corona di un regno, ma non sono obbligato a farlo. Posso unirmi a un circo itinerante, andare a Broadway a cantare in un musical o trasferirmi nella Silicon Valley e lanciare una start-up. Sono libero di creare il mio proprio dharma.

Quindi, proprio come tutte le altre storie cosmiche, anche la narrazione liberale comincia con una narrativa della creazione. Dice che la creazione accade in ogni momento, e io sono il creatore. Qual è allora lo scopo della mia vita? Creare senso con i sentimenti, con il pensiero, con il desiderio e con l’invenzione. Qualsiasi cosa che limiti la libertà umana di sentire, di pensare, di desiderare e di inventare limita il senso dell’universo. L’ideale supremo è liberarsi da questi limiti.

In termini pratici, coloro che credono nella narrazione liberale vivono alla luce di due comandamenti: creare e lottare per la libertà. La creatività può manifestarsi nella scrittura di una poesia, nell’esplorazione della vostra sessualità, nell’inventare una nuova app, o nello scoprire una nuova sostanza chimica. La lotta per la libertà include qualsiasi cosa che liberi la gente dai vincoli sociali, biologici e fisici: organizzare dimostrazioni contro brutali dittatori, insegnare alle bambine a leggere, trovare una cura per il cancro, o costruire una nave spaziale. Il pantheon liberale degli eroi ospita Rosa Parks e Pablo Picasso insieme a Louis Pasteur e ai fratelli Wright.

Questo suona molto eccitante e profondo, in teoria. Peccato che la nostra libertà e la nostra creatività non siano quello che ci propone la narrazione liberale. Secondo le più approfondite ricerche scientifiche, non esiste alcuna magia dietro le nostre scelte e creazioni. Esse sono il risultato degli scambi di segnali biochimici tra neuroni, e anche se liberate gli esseri umani dal giogo della Chiesa cattolica e dell’Unione Sovietica, le loro scelte saranno dettate da algoritmi biochimici tanto spietati quanto l’Inquisizione e il KGB.

La narrazione liberale mi spinge a cercare la libertà di espressione e a realizzare me stesso. Ma sia l’“io” sia la libertà sono chimere mitologiche prese in prestito dalle favole dei tempi antichi. Il liberalismo ha una nozione particolarmente confusa del concetto di “libera volontà”. Gli uomini ovviamente possiedono una volontà, hanno desideri e talvolta sono liberi di realizzarli. Se per “libera volontà” intendete la libertà di fare quello che desiderate – allora sì, gli umani hanno libera volontà. Ma se con libera volontà intendete la libertà di scegliere cosa desiderare – allora no, gli uomini non ce l’hanno.

Se sono sessualmente attratto dagli uomini, posso essere libero di realizzare le mie fantasie, ma non sono libero di sentire un’attrazione per le donne. In alcuni casi potrei decidere di contenere le mie pulsioni sessuali o anche di tentare una terapia di “conversione sessuale”, ma l’autentico desiderio di cambiare il mio orientamento sessuale è una mia forzatura sui miei neuroni, forse causato da pregiudizi culturali e religiosi. Perché una persona si vergogna della sua sessualità e si sforza di alterarla, mentre un’altra persona celebra gli stessi desideri sessuali senza alcuna traccia di colpevolezza? Forse il primo è condizionato da sentimenti religiosi più forti del secondo. Ma la scelta di avere sentimenti religiosi forti o deboli è libera? Di nuovo, una persona può decidere di andare in chiesa ogni domenica sforzandosi deliberatamente di rafforzare i suoi deboli sentimenti religiosi – ma perché uno aspira a essere più religioso, mentre l’altro è felice di rimanere ateo? Può essere il risultato di svariate condizioni genetiche e culturali, ma non è mai il risultato della “libera volontà”.

Quello che è vero del desiderio sessuale è vero di tutti i desideri, e di tutti i sentimenti e pensieri. Considerate il primo pensiero che vi viene in mente. Da dove è scaturito? Avete scelto liberamente di pensarlo, e soltanto allora lo avete pensato? Certamente no. Il processo di autoesplorazione comincia con cose semplici, e diventa poi gradualmente più complesso. All’inizio comprendiamo che non controlliamo il mondo esteriore. Io non decido quando piove. Poi comprendiamo che non controlliamo ciò che accade all’interno del nostro corpo. Io non controllo la mia pressione sanguigna. In seguito comprendiamo che non governiamo neppure il nostro cervello. Io non dico ai neuroni quando scattare. Alla fine dovremmo ammettere che non controlliamo i nostri desideri, e neppure le nostre reazioni a questi desideri.

Capire questo può aiutare a diventare meno ossessivi nei confronti delle nostre opinioni, dei nostri sentimenti e dei nostri desideri. Non abbiamo una libera volontà, ma possiamo essere un po’ più liberi dalla tirannia della nostra volontà. Di solito gli uomini danno una così grande importanza ai loro desideri che cercano di controllare e modellare il mondo intero secondo questi desideri. Inseguendo le loro brame, gli uomini volano sulla luna, devastano il mondo con le guerre e destabilizzano l’intero ecosistema. Se comprendiamo che i nostri desideri non sono magiche manifestazioni di libere scelte, ma piuttosto il prodotto di processi biochimici (influenzati da fattori culturali che sono anche loro fuori dal nostro controllo), potremmo esserne meno preoccupati. È meglio comprendere noi stessi, le nostre menti e i nostri desideri che cercare di realizzare qualsiasi fantasia ci venga in mente.

E per comprendere noi stessi, è un passaggio cruciale riconoscere che l’“io” è una storia fittizia che complessi meccanismi della nostra mente costantemente elaborano, aggiornano e riscrivono. C’è un narratore nella mia mente che spiega chi sono, da dove vengo, dove vado, e che cosa sta accadendo in questo istante. Come gli spin doctor del governo che forniscono spiegazioni per gli ultimi avvenimenti politici, il narratore interno prende di continuo abbagli, ma raramente lo ammette, se mai lo fa. E proprio come il governo costruisce un mito nazionale con le bandiere, le icone e le parate, così la mia macchina della propaganda interiore costruisce un mito personale fatto di ricordi preziosi e traumi ben custoditi che spesso con la verità hanno solo una vaga relazione.

Nell’era di Facebook e di Instagram è possibile osservare questo processo mitopoietico più chiaramente che mai in precedenza, perché parte di esso è stato esteriorizzato, essendo trasferito dall’intimità della mente agli schermi dei computer interconnessi. È affascinante e terrificante vedere gente che dedica un grande dispendio di ore a costruire e abbellire un perfetto “io” online, diventando una cosa sola con la loro creazione, e così dissociandosi dalla verità su se stessi.20 Ed ecco come una vacanza in famiglia in cui non mancano mai imbottigliamenti nel traffico, bisticci per stupidaggini e silenzi carichi di tensione si trasforma in una collezione di panorami da cartolina, cene perfette e facce sorridenti; il 99% di ciò di cui facciamo esperienza non diventa mai parte della storia dell’“io”.

È particolarmente degno di nota che la fantasia del nostro sé tende a essere molto visiva, mentre le nostre esperienze effettive sono corporee. Nella fantasia, osservate una scena con il vostro occhio mentale oppure sullo schermo di un computer. Vi vedete in piedi su una spiaggia tropicale, il mare blu dietro di voi, un largo sorriso sulla faccia, in una mano un cocktail, l’altro braccio intorno alla vita del vostro amato. Il paradiso. Quello che l’immagine non vi mostra è la fastidiosa zanzara che vi pizzica la gamba, la sensazione di disgusto che vi sale dallo stomaco per aver mangiato una zuppa di pesce non fresco, la tensione nella vostra mascella per simulare una grande sorriso, e il brutto litigio che avete avuto cinque minuti prima. Se solo si potesse avere la sensazione di quello che la gente prova nelle foto mentre le scatta!

Pertanto se davvero volete comprendere voi stessi, non dovreste identificarvi con il vostro account Facebook o con la storia interiore dell’“io”. Al contrario, dovreste badare al vostro reale flusso sanguigno e mentale. Vedrete i pensieri, le emozioni e i desideri apparire e scomparire senza ragioni particolari e senza alcun controllo da parte vostra, proprio come colpi di vento che arrivano ora da una direzione ora dall’altra e vi scompigliano i capelli. E proprio come non siete il vento, così non siete neppure l’accozzaglia di pensieri, emozioni e desideri di cui fate esperienza, e certamente non siete la storia depurata che raccontate con il senno di poi. Fate esperienza di tutto ciò, ma non lo controllate, non lo possedete, e non lo siete. La gente si domanda “Chi sono io?” e si aspetta che le venga raccontata una storia. La prima cosa che vi serve sapere su voi stessi è che non siete una storia.

Nessuna storia

Il liberalismo ha compiuto un deciso passo verso la negazione di tutti i drammi cosmici, ma poi ha ricreato quel tipo di dramma dentro l’essere umano – l’universo non ha una trama, così spetta a noi crearla, e questa è la nostra vocazione e il significato della nostra vita. Migliaia di anni prima della nostra epoca liberale, l’antico buddismo era andato oltre negando non solo tutti i drammi cosmici, ma anche il dramma interiore della creazione umana. L’universo è privo di senso, e anche i sentimenti umani non hanno alcun senso. Essi non svolgono un ruolo o una funzione in qualche grandiosa narrazione cosmica – sono soltanto vibrazioni effimere, che appaiono e scompaiono senza una ragione specifica. Questa è la verità. Facciamola finita.

Il Bihadārayaka Upaniad ci racconta che “La testa del cavallo sacrificale è, invero, l’aurora, il suo occhio è il sole […] le membra sono le stagioni, le giunture sono i mesi e le quindicine, le zampe sono il giorno e la notte, le ossa sono le stelle fisse e le sue carni sono le nuvole.” Al contrario, il Mahāsatipaṭṭhāna Sutta, un testo fondamentale del buddismo, spiega che quando un uomo medita, osserva il proprio corpo con attenzione e nota che “In questo corpo ci sono i capelli sulla testa, peli sulla pelle, unghie, denti, pelle, carne, muscoli, ossa, midollo, fegato, cuore […], saliva, muco nasale, fluido sinoviale e urina. Osservando queste cose capisce: ‘Questo è il corpo!’”21 I capelli, le ossa o l’urina non stanno per qualcos’altro. Sono solo quello che sono.

Un paragrafo dopo l’altro il testo prosegue a spiegare che non importa che cosa osservi nel corpo o nella mente chi pratica la meditazione, lo comprende per quello che è. Perciò, quando chi pratica la meditazione respira, “un lungo respiro lo capisce per quello che è: ‘un lungo respiro’. Un respiro breve lo capisce per quello che è: ‘un respiro breve’”.22 Il respiro lungo non rappresenta le stagioni e il respiro breve non rappresenta i giorni. Si tratta solo di vibrazioni corporee.

Il Buddha ha insegnato che le tre realtà fondamentali dell’universo sono: ogni cosa muta di continuo, niente ha un’essenza duratura, e niente è completamente soddisfacente. Potete esplorare i più remoti anfratti della galassia, del vostro corpo o della vostra mente – ma non incontrerete mai qualcosa che non cambia, che ha un’essenza eterna, e che vi soddisfi completamente.

La sofferenza scaturisce dal fatto che la gente non riesce a capire e a valorizzare questo stato di cose. Le persone credono che da qualche parte esista una qualche essenza eterna, e che se solo possono trovarla ed entrare in relazione con essa, saranno completamente soddisfatte. Questa essenza eterna è chiamata talvolta Dio, talvolta nazione, talvolta anima, talvolta autentico “io”, e talvolta vero amore – e tanto più si è legati a queste “entità”, tanto più forte sarà la delusione e l’infelicità provocata dal mancato raggiungimento. E quel che è peggio, più forte è il legame, più forte è l’odio che si prova per qualsiasi persona, gruppo o istituzione che si oppone al raggiungimento degli obiettivi tanto desiderati.

Secondo il Buddha, quindi, la vita non ha senso, e non serve inventarne uno. È sufficiente capire che non esiste alcun significato, e così ci si libererà dalla sofferenza provocata dai nostri legami e dalla nostra identificazione con i fenomeni vuoti. “Che cosa dovrei fare?” si domanda la gente, e il Buddha consiglia: “Non fare niente. Assolutamente niente.” Il problema sta nel fatto che noi facciamo costantemente qualcosa. Non necessariamente a livello fisico – possiamo stare seduti immobili per ore con gli occhi chiusi – e tuttavia a livello mentale siamo impegnatissimi nel creare storie e identità, nel combattere battaglie e nel cercare di vincerle. Non fare niente significa che anche la mente non fa niente e non crea niente.

Purtroppo, anche questo atteggiamento si può trasformare con facilità in un poema eroico. Anche se sedete con gli occhi chiusi e fate attenzione all’aria che entra ed esce dalle vostre narici, potreste comunque iniziare a elaborare narrazioni su quello che state facendo. “Il mio respiro è un po’ forzato, mentre se respiro in maniera più calma, ne acquisterò in salute” oppure “Se continuo a fare attenzione al mio respiro e a non fare niente, diventerò un illuminato, e sarò la persona più saggia e più felice del mondo”. Poi la narrazione epica comincia a espandersi, e allora le persone si gettano nell’impresa di una ricerca spirituale non solo per liberare se stessi dai propri legami, ma anche per convincere gli altri a farlo. Accettato il fatto che la vita è priva di senso, trovo il mio scopo esistenziale nello spiegare questa verità agli altri, discutendo con i miscredenti, tenendo discorsi agli scettici, donando denaro per costruire monasteri, e così via. È anche troppo facile così che “Nessuna storia” diventi un’altra storia.

La storia del buddismo fornisce un migliaio di esempi di come la gente che crede nell’impermanenza e nella vacuità di tutti i fenomeni, e nell’importanza di non avere legami, può entrare in contrasto e combattere contro il governo di un paese, il possesso di un edificio, o persino il significato di una parola. Combattere altre genti perché credete nella gloria di un Dio eterno è meschino e incomprensibile; combattere altre genti perché credete nella vacuità di tutti i fenomeni è davvero bizzarro – ma molto umano.

Nel XVIII secolo, le dinastie reali di Birmania e del confinante Siam si vantavano della loro devozione nei confronti del Buddha, e i sovrani vennero legittimati dal ruolo di protettori della fede buddista. I re sovvenzionavano monasteri, costruivano pagode, e ascoltavano ogni settimana colti monaci che predicavano loro eloquenti sermoni sui cinque impegni morali fondamentali di ogni essere umano: non uccidere, non rubare, non commettere abusi sessuali, non ingannare il prossimo e astenersi dall’alcool. Tuttavia, i due regni combatterono fra loro senza risparmio. Il 7 aprile 1767 l’esercito del re birmano Hsinbyushin, dopo un lungo assedio, distrusse la capitale del Siam. Le truppe vittoriose uccisero, saccheggiarono, stuprarono e verosimilmente alzarono il gomito. Poi diedero alle fiamme gran parte della città, con i suoi palazzi, monasteri e pagode, e rientrarono in patria con migliaia di schiavi e carri pieni di oro e gioielli.

Non che il re Hsinbyushin prendesse alla leggera il suo impegno nei confronti del buddismo. Sette anni dopo aver riportato la sua trionfale vittoria, il re fece una processione lungo il grande fiume Irrawaddy, fermandosi a pregare nelle più importanti pagode che erano sul percorso, e chiedendo a Buddha di benedire i suoi eserciti con altre vittorie. Quando Hsinbyushin raggiunse Rangoon, ricostruì e ampliò la struttura più sacra in tutta la Birmania – la pagoda Shwedagon. Poi fece dorare l’edificio ingrandito con tanto oro quanto era il suo peso, e in cima alla pagoda fece erigere una guglia d’oro che fu impreziosita da una profusione di gemme (forse saccheggiate dal Siam). Colse anche l’occasione per uccidere il re di Pegu, che era suo prigioniero, oltre al fratello e al figlio di quest’ultimo.23

Nel Giappone degli anni trenta del secolo scorso, la gente trovò i modi più fantasiosi per tenere insieme le dottrine buddiste con il nazionalismo, il militarismo e il fascismo. Pensatori buddisti radicali come Nisshō Inoue, Ikki Kita e Tanaka Chigaku sostenevano che, per dissolvere i propri legami egoistici, le persone avrebbero dovuto offrire se stesse in dono all’imperatore, eliminare qualsiasi traccia di pensiero individuale, e garantire assoluta fedeltà alla nazione. Varie organizzazioni ultranazionaliste erano ispirate da queste idee, compreso un fanatico gruppo militare che cercò di rovesciare il sistema politico conservatore giapponese con una campagna di assassini politici. Uccisero l’ex ministro delle finanze, il direttore generale della Mitsui Corporation, e alla fine il primo ministro Inukai Tsuyoshi. Accelerarono inoltre la trasformazione del Giappone in una dittatura militare. Quando i militari entrarono in guerra, i sacerdoti buddisti e i maestri della meditazione zen predicarono disinteressata obbedienza all’autorità statale e raccomandarono alla popolazione di sacrificarsi per lo sforzo bellico. Al contrario, gli insegnamenti del Buddha sulla compassione e la non-violenza furono in qualche modo dimenticati, e non ebbero alcuna influenza sul comportamento delle truppe giapponesi a Nanchino, Manila o Seul.24

Oggi la situazione dei diritti umani dello stato buddista Myanmar è fra le peggiori al mondo, e un monaco buddista, Ashin Wirathu, guida il movimento antimusulmano nel paese. Rivendica di voler solo proteggere il Myanmar e il buddismo contro le cospirazioni jihadiste dei musulmani, ma i suoi sermoni e articoli sono così incendiari, che nel febbraio 2018 Facebook ha rimosso la sua pagina, appellandosi al proprio codice deontologico che vieta i post che possono istigare odio. Durante un’intervista del 2017 per il Guardian il monaco ha detto che bisogna avere compassione anche per un’effimera zanzara, ma quando gli è stato chiesto di commentare le accuse secondo cui alcune donne musulmane erano state stuprate dai militari del Myanmar egli ha risposto ridendo: “È impossibile. I loro corpi sono troppo disgustosi.”25

Abbiamo poche speranze che nel mondo ci possano essere pace e armonia globale anche quando 8 miliardi di esseri umani dovessero cominciare a meditare con regolarità. Osservare la verità su se stessi è un compito molto difficile! E anche se si riuscisse in qualche modo a ottenere l’impegno di gran parte dell’umanità, molti deformeranno la verità trasformandola in qualche narrazione con i buoni, i cattivi e i nemici, e troveranno ottime scuse per fare la guerra.

La prova della realtà

Anche se tutte queste grandi narrazioni sono finzioni generate dalle nostre menti, non c’è ragione di disperare. La realtà è ancora lì. Non potete recitare una parte in un dramma immaginario ma, prima di tutto, perché vorreste farlo? La grande domanda che gli esseri umani dovrebbero affrontare non è “qual è il senso della vita?” bensì “come si esce dalla condizione di sofferenza?” Quando vi liberate di tutte le storie fittizie, potete osservare la realtà con molta più chiarezza di prima, e se davvero conoscete la verità su voi stessi e sul mondo, niente può più rendervi infelice. Ma questo, sia chiaro, è assai più facile a dirsi che a farsi.

Noi umani abbiamo conquistato il mondo grazie alla nostra abilità di creare e credere a storie fittizie. Inoltre non siamo particolarmente bravi nel distinguere tra finzione e realtà. Trascurare questa distinzione è stata una questione di sopravvivenza. Se tuttavia volete imparare a distinguere tra finzione e realtà, il luogo giusto per cominciare è la sofferenza. Perché è la cosa più reale che ci sia al mondo.

Quando vi imbattete in una qualche grande storia, e desiderate sapere se è vera o frutto dell’immaginazione, una delle domande fondamentali da porsi è se il protagonista della vicenda può soffrire. Per esempio, se qualcuno vi racconta la storia della nazione polacca, prendetevi un momento per riflettere se la nazione polacca può soffrire. Adam Mickiewicz, il grande poeta romantico e padre del moderno nazionalismo polacco, ricordato per la celebre definizione della Polonia come “Cristo delle nazioni”, in uno scritto del 1832 – decenni dopo che la Polonia era stata spartita tra Russia, Prussia e Austria, e poco dopo la rivolta del 1830 brutalmente repressa dai russi – spiegò che l’orrenda sofferenza della Polonia era un sacrificio a beneficio dell’intera umanità, paragonabile al sacrificio di Cristo, e che proprio come Cristo la Polonia sarebbe risorta dal mondo dei morti.

In un famoso passaggio Mickiewicz scrisse che:

La Polonia disse [ai popoli dell’Europa]: “Chi verrà con me sarà libero ed eguale perché io sono la LIBERTÀ.” Ma quando i re sentirono queste parole si spaventarono e crucifissero la nazione Polacca e la sotterrarono gridando “Abbiamo ucciso e sotterrato la Libertà”. Ma fu il grido degli sciocchi […] Perché la nazione Polacca non era morta […] Il Terzo Giorno l’Anima si riunirà al Corpo; e la Nazione risorgerà e libererà dalla Schiavitù tutti i Popoli d’Europa.26

Una nazione può davvero soffrire? Una nazione possiede occhi, mani, sensi, affetti e passioni? Se la pungete, può sanguinare? Ovviamente no. Se viene sconfitta in una guerra, perde una provincia, o anche rinuncia alla propria indipendenza, non è comunque in grado di sperimentare il dolore, la tristezza o qualsiasi altro tipo di infelicità, perché non possiede un corpo, una mente e nessun sentimento di qualsiasi genere. In verità, si tratta solo di una metafora. Solo nell’immaginazione di certi esseri umani la Polonia rappresenta un’entità reale capace di soffrire. La Polonia soffre attraverso gli uomini che le prestano i loro corpi – non solo come soldati nell’esercito polacco, ma anche come coloro che provano sulla loro carne, nel senso fisico del termine, le gioie e i dolori della nazione. Quando nel maggio 1831 giunse a Varsavia la notizia della sconfitta polacca nella battaglia di Ostrołeka, gli stomaci si contorsero per l’angoscia, i cuori ebbero una fitta di dolore, gli occhi si riempirono di lacrime.

Tutto questo non giustifica l’invasione russa, certamente, né mina il diritto dei polacchi di fondare un paese indipendente e di decidere in merito alle proprie leggi e ai propri costumi. Tuttavia si capisce che in definitiva la realtà non può essere la storia della nazione polacca, perché la stessa esistenza della Polonia dipende dalle immagini che ne hanno le menti umane.

Pensate invece al destino di una donna di Varsavia che è stata rapita e stuprata dalle truppe russe. Diversamente dalla sofferenza metaforica della nazione polacca, la sofferenza di quella donna fu reale. Può anche essere stata causata dalla credenza umana in svariate finzioni, come il nazionalismo russo, il cristianesimo ortodosso e l’eroismo machista, tutte cose che ispirarono molti statisti e soldati russi. A ogni modo, la sofferenza che ne risulta è al 100% reale.

Ogni qual volta i politici cominciano a parlare in termini mistici, state attenti. Potrebbero cercare di mascherare e giustificare una sofferenza reale coprendola con una nebbia di incomprensibili paroloni. Fate particolare attenzione a queste quattro parole: sacrificio, eternità, purezza, redenzione. Se ne udite anche una sola, date l’allarme. E se vi capita di vivere in un paese il cui leader dice cose tipo “Il loro sacrificio riscatterà la purezza della nostra eterna nazione” – sappiate che siete in guai seri. Per tutelare la vostra lucidità, traducete sempre tali sciocchezze in immagini concrete: un soldato che piange in agonia, una donna colpita e brutalizzata, un bambino che trema di paura.

Quindi se volete conoscere la verità sull’universo, sul senso della vita e sulla vostra identità, il posto migliore per cominciare è osservare la sofferenza e capire la sua realtà.

La risposta non è una storia.

* Hocus pocus è la formula rituale che in lingua inglese precede il lancio di un incantesimo, corrispondente al nostro “Abracadabra”. Si è preferito lasciare l’originale per non perdere il riferimento all’etimologia di tale espressione, funzionale alla tesi sostenuta dall’Autore in questo paragrafo; si noti inoltre che hocus pocus nell’inglese corrente significa “sciocchezze, fandonie”. (N.d.T.)

In italiano nell’originale.