20
Adesso l’ultima luce ramata del pomeriggio scolora; adesso, oltre i piccoli aceri e il basso cartello, la strada è pronta e vuota, inquadrata dalla finestra dello studio come un palcoscenico.
Ricorda come da giovane, dopo che era appena arrivato a Jefferson dal seminario, quella luce ramata che scolorava sembrava quasi la si potesse udire, come un morente spengersi giallo di trombe che andavano morendo in un intervallo di silenzio e di attesa, dal quale di lì a poco essi sarebbero giunti. E già, ancor prima che lo spengersi dei corni fosse cessato, gli sembrava di udire l’inizio del tuono ancora non più forte di un bisbiglio, di una voce, nell’aria.
Ma non l’aveva mai detto a nessuno. Nemmeno a lei. Nemmeno a lei nei giorni in cui erano ancora gli amanti della notte, e la vergogna e la distanza non erano arrivate e lei sapeva e non aveva dimenticato con distanza e rimpianto e poi disperazione, perché mai lui se ne stesse qui a questa finestra ad aspettare il cadere della notte, l’istante della notte. Nemmeno a lei, alla donna. La donna. La donna (non il seminario, come un tempo aveva creduto): l’Essere Passivo e Anonimo che Dio aveva creato perché fosse il vaso e il ricettacolo non soltanto del seme del suo corpo ma anche del suo spirito, e questa è la verità o quanto di più vicino alla verità egli osi avvicinare.
Era figlio unico. Quando nacque suo padre aveva cinquant’anni, e sua madre era invalida da quasi venti. Lui crebbe convinto che quello fosse l’effetto del cibo con il quale lei aveva dovuto sostentarsi durante l’ultimo anno della Guerra Civile. Forse era davvero quella la ragione. Suo padre non aveva avuto schiavi, benché fosse figlio di un uomo che a suo tempo ne aveva avuti. Avrebbe potuto averne. Ma per quanto nato, educato e vissuto in un’epoca e in un Paese dove possedere schiavi era meno costoso che non possederne, non aveva mai mangiato niente che fosse stato coltivato e cucinato da uno schiavo, né aveva mai dormito in un letto preparato da uno schiavo negro. Così durante la guerra e mentre lui era lontano da casa, sua moglie non aveva altro orto che quello che era in grado di coltivare da sola oppure con il raro aiuto dei vicini. E questo aiuto il marito non le permetteva di accettarlo, per la ragione che non poteva essere ripagato in natura. «Dio provvederà» diceva.
«Provvederà che cosa? Soffioni e gramigne?».
«Allora Egli ci darà le budella per digerirle».
Lui era un sacerdote. Per un anno (questo prima di sposarsi) era uscito di casa presto la domenica mattina senza che il padre, il quale, per quanto membro stimato della chiesa episcopale, a memoria del figlio non era mai entrato in una chiesa, venisse a sapere dove andava. Poi scoprì che il figlio, che aveva appena compiuto ventun anni, tutte le domeniche si faceva a cavallo sedici miglia per andare a predicare in una piccola cappella presbiteriana su in mezzo alle colline. Il padre si mise a ridere. Il figlio ascoltò quella risata come se fosse una serie di urlacci o di imprecazioni: con un distacco freddo e rispettoso, senza dire niente. La domenica successiva tornò alla sua congregazione.
Quando scoppiò la guerra, il figlio non fu tra i primi a partire. Nemmeno fu tra gli ultimi. E rimase con le truppe per quattro anni, quantunque non sparasse mai un moschetto e invece dell’uniforme indossasse la sobria redingote che aveva comprato per sposarcisi e con la quale predicava. Quando nel ’65 tornò a casa l’aveva ancora indosso, ma non la rimise più dopo il giorno in cui il carro si fermò davanti agli scalini sul davanti e due uomini lo sollevarono, lo portarono dentro e lo sdraiarono sul letto. Sua moglie gliela tolse e la mise via in un baule in soffitta. Rimase lì per venticinque anni, finché un giorno suo figlio aprì il baule, la tirò fuori, e distese le pieghe accurate con cui era stata riposta da mani ormai morte.
Se lo ricorda, adesso, seduto alla finestra buia nello studio silenzioso, in attesa che il crepuscolo finisca, in attesa della notte e degli zoccoli al galoppo. La luce ramata è oramai del tutto scomparsa; il mondo è sospeso in una attesa verde che ha la sostanza della luce filtrata da un vetro colorato. Fra poco sarà il momento di cominciare a dire Fra poco, adesso. Adesso fra poco ‘Avevo otto anni, allora’ pensa. ‘Pioveva’. Gli sembra di odorarla ancora quella pioggia, l’umido affliggersi della terra di ottobre, e lo sbadiglio stantio al rovesciarsi del coperchio del baule. Poi l’indumento, le pieghe accurate. Non sapeva che cosa fosse, perché dapprima fu quasi sopraffatto dall’evocazione delle mani della madre defunta che permaneva fra le pieghe. Poi si aprì, ricadendo lentamente. A lui, bambino, sembrò incredibilmente grande, come fosse stato fatto per un gigante; come se per il solo fatto di essere stata indossata da uno di essi, la stoffa stessa avesse assunto le proprietà di quei fantasmi che incombevano immensi ed eroici contro un fondale di tuoni e fumo e lacere bandiere e che riempivano ormai la sua vita, foss’egli sveglio o dormisse.
L’indumento era quasi irriconoscibile dalla quantità di toppe che aveva. Toppe di cuoio, malamente cucite da mani maschili, toppe del grigio della Confederazione ormai ridotto al marrone delle foglie secche, e una che gli fece arrestare il cuore: era blu, blu scuro: il blu degli Stati Uniti. Guardando quella toppa, quella stoffa muta ed anonima, il ragazzo, il bambino nato nell’autunno dell’esistenza di sua madre e di suo padre, i cui organi già richiedevano la cura instancabile di un orologio svizzero, provò una sorta di silenzioso, trionfante terrore che lo fece quasi stare male.
Quella sera a cena non riusciva a mangiare. Alzando gli occhi, il padre, un uomo vicino alla sessantina, trovava il bambino che lo fissava con un’espressione di terrore e di soggezione, e anche di qualcos’altro. Allora l’uomo diceva, «Che cosa hai combinato, adesso?» e il bambino non riusciva a rispondere, non riusciva a spiccicare parola, continuando a fissare il padre con un’espressione, sul suo viso di bambino, che sembrava uscita dall’inferno stesso. Quella notte, a letto, non riusciva a dormire. Giaceva rigido nel suo letto, al buio, senza neanche tremare, mentre l’uomo che era non soltanto suo padre ma anche l’ultimo parente rimastogli, e con il quale c’era una tale distanza di tempo che neppure le diecine di anni erano in grado di misurare, al punto che fra loro non c’era neppure alcuna somiglianza fisica, se ne dormiva a distanza di pareti e di piani. E il giorno dopo il bambino ebbe uno dei suoi soliti attacchi intestinali. Ma si rifiutava di dire che cosa aveva, perfino alla negra che mandava avanti la casa e che gli faceva anche da mamma e da infermiera. Poco a poco gli ritornarono le forze. E poi un giorno sgattaiolò di nuovo su in soffitta, aprì il baule, tirò fuori la giacca, e trionfante e atterrito palpeggiò la toppa blu, e con quella gioia morbosa si domandò se fosse stato suo padre a uccidere l’uomo dalla cui giacca blu veniva quella toppa, domandandosi, ancor più atterrito, il perché della profondità e della forza di quel desiderio e di quella paura di sapere. E tuttavia il giorno successivo, quando sapeva che suo padre era andato a visitare qualcuno dei suoi pazienti fuori città e non avrebbe potuto essere di ritorno prima di buio, andò in cucina e disse alla donna negra: «Racconta un’altra volta del nonno. Quanti yankee ammazzò?». E adesso quando ascoltava non aveva più paura. Non era neppure trionfo: era orgoglio.
Quel nonno era la grande spina nel fianco del suo figlio. Il figlio mai l’avrebbe detto né tanto meno pensato, così come né all’uno né all’altro sarebbe mai saltato in mente di rimpiangere di non aver avuto l’uno un figlio e l’altro un padre diversi. Nel complesso il loro rapporto era tranquillo, da parte del figlio un freddo riserbo automaticamente rispettoso e privo di umorismo, da parte del padre un umorismo brusco, grezzo, diretto, più ricco di arguzia che di sostanza. Vivevano piuttosto amichevolmente nella loro casa a due piani in città, quantunque da tempo il figlio rifiutasse di mangiare qualsiasi cosa che fosse stata preparata dalla schiava che lo aveva tirato su fin dall’infanzia. Con grande indignazione della negra si cucinava da sé in cucina, si portava il cibo in tavola da sé, e lo mangiava di fronte al padre, il quale, puntigliosamente e immancabilmente, levava alla sua salute un bicchiere di bourbon: neanche quello il figlio toccava, né aveva mai assaggiato.
Il giorno in cui il figlio si sposò, il padre gli cedette la casa. Quando la sposa e lo sposo arrivarono, lui era in attesa sulla veranda, la chiave di casa in mano. Indossava il mantello e aveva il cappello in testa. Intorno a lui era accatastato il suo bagaglio personale, e dietro c’erano i due schiavi che possedeva: la negra che cucinava, e il suo ‘ragazzo’, un uomo più anziano di lui a cui non restava più un capello, il quale era il marito della cuoca. Lui non era un piantatore: era un avvocato, il quale aveva imparato legge più o meno come suo figlio avrebbe imparato medicina, «di forza, per grazia del diavolo, e con la fortuna», come era solito dire. Si era già comprato una casetta in campagna a due miglia di distanza, e calesse e pariglia erano lì fermi in attesa davanti alla veranda mentre anche lui aspettava a gambe larghe, il cappello spinto all’indietro – un uomo gagliardo, brusco, col naso rosso e dei baffi come il capo d’una banda di briganti – mentre il figlio e la nuora, che non aveva mai visto, venivano dal cancello su per il vialetto. Quando si inchinò e la salutò, lei avvertì odore di whisky e di sigari. «Mi sa che potrai andare» disse. I suoi occhi erano burberi e audaci, ma gentili. «Comunque, questo testardo bacchettone ha bisogno solo di qualcuno che faccia il contralto negli inni presbiteriani, da dove neppure il buon Dio in persona riuscirebbe a spremere un po’ di musica».
Se ne andò sul suo calesse infiocchettato, con tutti i suoi averi personali intorno – i vestiti, la damigiana, gli schiavi. La cuoca non rimase neppure per preparare il primo pasto. Non le venne proposto, e così non fu respinta. In vita sua, il padre non entrò più in quella casa. Sarebbe stato il benvenuto. Tanto lui che il figlio lo sapevano senza che ci fosse mai stato bisogno di dirlo. E alla moglie lui piaceva – era una dei tanti figli di una coppia di ottime origini che non aveva mai fatto fortuna, e che nella chiesa sembrava trovare una sorta di compensazione per quello che mancava in tavola all’ora della cena – e lo ammirava in un suo modo silenzioso, allarmato, segreto: la sua spavalderia, la sua burbera, semplice osservanza di un codice molto semplice. Tuttavia avevano notizie di quello che faceva, di come l’estate successiva al suo ritiro in campagna avesse fatto irruzione in un lungo raduno religioso che una chiesa teneva all’aperto in un boschetto vicino e l’aveva trasformato in una settimana di corse amatoriali di cavalli mentre dal pulpito rurale, davanti a una congregazione sempre più scemante, allampanati predicatori di campagna, con i loro volti fanatici, tuonavano anatemi in direzione della sua incurante testa impenitente. La sua ragione per non andare a far visita al figlio e alla nuora sembrava sincera: «Mi trovereste noioso e io troverei noiosi voi. E chissà? Quel bacchettone potrebbe corrompermi. Vecchio come sono, potrebbe corrompermi e spedirmi in paradiso». Ma non era quella la ragione. Il figlio sapeva che non lo era, lui che sarebbe stato il primo a insorgere contro quella calunnia se fosse venuta da parte di un altro: che nel vecchio c’era delicatezza e comprensione.
Il figlio era un abolizionista ancor prima che quel sentimento, divenuto parola, cominciasse a filtrare dal Nord; anche se poi, quando venne a sapere che i repubblicani gli avevano messo un nome, lui cambiò completamente nome alle proprie convinzioni senza peraltro mitigare di un nulla i propri princìpi e il proprio comportamento. Anche allora, quando non era giunto alla trentina, era un uomo di una spartana temperanza ben al di là degli anni che aveva, come spesso lo è il figlio di un servitore non troppo schizzinoso della Fortuna e della bottiglia. Forse questo spiega il fatto che non avesse avuto figli fin dopo la guerra, dalla quale tornò cambiato, un po’ ‘deodorato’ di santità, come avrebbe detto il padre defunto. Per quanto durante quei quattro anni non avesse mai sparato un colpo, il suo servizio non era stato soltanto quello di pregare e di predicare alla truppa la domenica mattina. Quando tornò a casa con la sua ferita e si mise a esercitare medicina, si mise a praticare soltanto quella chirurgia e quella farmacologia che aveva imparato e praticato sul corpo di amici come di nemici aiutando i dottori al fronte. Delle tante cose che il figlio aveva fatto, probabilmente era questa che al padre avrebbe dato più soddisfazione: che il figlio si era creata una professione sulla pelle di chi aveva invaso e devastato il suo Paese.
‘Ma santità non è la parola giusta per lui’ pensa a sua volta il figlio del figlio, seduto alla sua buia finestra mentre al di fuori il mondo rimane immobile in quella sospensione verde al di là delle trombe svanite. ‘Il nonno sarebbe stato il primo a prendere di petto chiunque avesse usato quel termine’. Un termine che era come un ritorno a quei giorni oscuri, austeri non poi tanto lontani, quando in quel Paese uno aveva ben poco di sé da sprecare e ben poco tempo per farlo, e quel poco uno doveva proteggerlo e difenderlo non soltanto dalla natura ma anche dall’uomo, per mezzo di pura e semplice forza d’animo la quale, almeno finché era vivo, non lo ricompensava con nessun agio fisico. Era su questo che si fondava la sua disapprovazione nei confronti della schiavitù, nonché del suo gagliardo padre sacrilego. Il fatto stesso che, senza vederlo come paradossale, egli avesse partecipato attivamente a una guerra faziosa e per di più schierandosi dalla parte i cui princìpi erano opposti ai suoi, provava chiaramente che egli era costituito da due persone diverse ed entrambe complete, una delle quali, secondo le proprie regole serene, viveva in un mondo dove la realtà non esisteva.
Tuttavia l’altra parte di lui, quella che viveva nel mondo vero, se la cavava meglio di tanti. In tempo di pace viveva secondo i suoi princìpi, e quando scoppiò la guerra se li portò dietro e secondo essi visse; quando in quelle tranquille domeniche, in quei tranquilli boschetti, c’era stato da predicare, l’aveva fatto, senza alcun particolare equipaggiamento se non la sua volontà, la sua convinzione, e quanto riusciva a raccattare via via; quando ci fu da salvare i feriti sotto il fuoco e da curarli senza gli strumenti necessari, fece anche quello, di nuovo senza altro equipaggiamento se non la sua forza e il suo coraggio, e quello che riusciva a raccattare via via. E quando la guerra fu perduta e gli altri tornarono a casa con gli occhi ostinatamente rivolti verso ciò che rifiutavano di credere morto, lui guardò avanti e trasse quanto profitto poteva dalla sconfitta mettendo in pratica quello che vi aveva imparato. Si mise a fare il dottore. Uno dei suoi primi pazienti fu sua moglie. Forse fu lui a tenerla in vita. Se non altro, la rese in grado di produrre vita, quantunque lui avesse cinquant’anni e lei più di quaranta quando il figlio nacque. Quel figlio crebbe e diventò uomo in mezzo a dei fantasmi, e fianco a fianco con uno spettro.
I fantasmi erano suo padre, sua madre e una vecchia negra. Il padre che era stato un pastore senza una chiesa e un soldato senza un nemico, e che nella sconfitta aveva combinato le due cose e era diventato un dottore, un chirurgo. Era come se proprio la fredda e inflessibile convinzione che gli permetteva di restare in equilibrio, per così dire, fra puritanesimo e tradizione realista, fosse divenuta, invece che sconfitta e scoraggiata, più saggia. Quasi nel fumo del cannone avesse visto, come in una visione, che l’imposizione delle mani significasse esattamente quello. Come se d’un tratto si fosse convinto che negli intendimenti di Cristo chi aveva bisogno di una guarigione soltanto spirituale non meritava di essere tenuto, di essere salvato. Quello era uno dei fantasmi. Il secondo era la madre, il cui primo ed ultimo ricordo è per lui quello di un viso sottile, occhi immensi, e capelli scuri sparpagliati su un guanciale, con delle mani azzurre, immobili, quasi scheletriche. Se il giorno in cui morì gli fosse stato detto che a volte l’aveva vista fuori dal letto, non ci avrebbe creduto. Più tardi ricordò altrimenti: la ricordò che si muoveva, in giro per casa, badando a faccende domestiche. Ma fin quando ebbe otto, nove, dieci anni la pensò senza gambe, senza piedi; ridotta a quel viso sottile e a quei due occhi che giorno dopo giorno sembravano farsi sempre più grandi, come stessero per abbracciare tutto il visibile, tutta la vita, con un ultimo terribile sguardo di frustrazione e sofferenza e prescienza, e che quando quella cosa sarebbe avvenuta, lui l’avrebbe udita: sarebbe stato un suono, come un grido. Già prima che morisse li sentiva attraverso le pareti. Erano la casa stessa: lui viveva al loro interno, all’interno del loro oscuro, totale, paziente residuo del tradimento fisico. Lui e la madre vivevano come due deboli bestioline in una tana, una caverna, nella quale ogni tanto entrava il padre – quell’uomo che per entrambi era un estraneo, uno straniero, quasi una minaccia: tanto rapidamente il benessere corporale altera e cambia lo spirito. Era più che uno straniero: era un nemico. Aveva un odore diverso dal loro. Parlava con una voce diversa, quasi con parole diverse, come se di solito vivesse in ambienti diversi e in un mondo diverso; rannicchiato accanto al letto, il bambino sentiva quell’uomo riempire la stanza della sua rude salute e del suo inconsapevole disprezzo, anch’egli impotente e frustrato quanto loro.
Il terzo fantasma era la negra, la schiava, che era andata via sul calesse quella mattina quando il figlio e la sua sposa erano arrivati a casa. Era andata via che era una schiava; ritornò nel ’66 che era ancora una schiava, ora a piedi – una donna enorme, con un volto irascibile e allo stesso tempo tranquillo; la maschera di una tragedia nera fra una scena e l’altra. Dopo la morte del padrone e fino a che non si fu finalmente convinta che non avrebbe mai più rivisto né lui né il marito – il ‘ragazzo’, il quale aveva seguito il padrone in guerra e anche lui non era più tornato – si rifiutò di lasciare la casa in campagna dove si era trasferito il padrone e che lui le aveva affidato quando era partito per il fronte. Dopo la morte del padre, il figlio vi andò per chiudere casa e per rimuovere gli oggetti personali di suo padre, e si offrì di provvedere a lei. Lei rifiutò. Rifiutò anche di venir via. Si era fatta il suo orticello in giardino e viveva lì sola, attendendo il ritorno del marito, alle voci della cui morte si rifiutava di prestare ascolto. Non erano altro che voci vaghe: di come, in seguito alla morte del padrone nell’incursione della cavalleria di Van Dorn per distruggere le provviste di Grant a Jefferson, il negro era diventato inconsolabile. Una notte sparì dal bivacco. Ben presto cominciarono a arrivare racconti di un negro pazzo che era stato fermato da un qualche picchetto confederato vicino alle linee nemiche, e raccontava sempre la stessa storia ingarbugliata di un padrone scomparso tenuto dagli yankee in attesa del riscatto. Non riuscivano a fargli prendere in considerazione neanche per un momento l’idea che potesse essere morto. «No, signore» diceva. «Non Padron Gail. Lui no. Non avrebbero mai il coraggio di ammazzarlo, un Hightower. Ce l’hanno nascosto da qualche parte, per cercare di strizzargli fuori dove io e lui abbiamo nascosto la caffettiera della signora e il vassoietto d’oro. È quello, che vogliono». Tutte le volte scappava. Poi un giorno dalle linee federali venne parola che un negro aveva attaccato con una pala un ufficiale yankee, costringendolo a sparargli per salvarsi la vita.
A lungo la donna non ci credette. «Non che lui non sia tanto scemo da farlo» disse. «È solo che non ha abbastanza cervello da riconoscere uno yankee per dargli addosso con una pala se ne vedesse uno». Continuò a dirlo per un anno. Poi un giorno comparve a casa del figlio, la casa che aveva lasciato dieci anni prima e dove non aveva mai più messo piede, portandosi dietro tutto quello che possedeva in un pezzuola. Entrò in casa e disse: «Eccomi. Ce n’hai legna per preparare da mangiare?».
«Sei libera, adesso» le disse il figlio.
«Libera?» disse lei. Lo disse con calmo, cupo disprezzo. «Libera? Cos’ha fatto la libertà, a parte far ammazzare Padron Gail e far diventare Pomp ancora più scemo di quel che era riuscito a fare il Signore. Libera? Non venitemi a parlare di libertà».
Quello era il terzo fantasma. Con quel fantasma il bambino (‘e anche lui poco più di un fantasma, allora’ pensa adesso quello stesso bambino, alla finestra che va svanendo) parlava dello spettro. Non si stancavano mai: il bambino diviso fra godimento e paura, rapito, ingordo, e la vecchia col suo cupo, feroce dolore, il suo orgoglio. Ma quello, per il bambino, era soltanto un sereno brivido di godimento. Non provava paura a sentire che il suo nonno, al contrario, aveva ucciso uomini «a centinaia», come gli veniva detto e come credeva, o che Pump, il negro, fosse morto tentando di uccidere qualcuno. Nessun orrore, in tutto questo, perché erano soltanto fantasmi, mai veduti in carne ed ossa, eroici, semplici, pulsanti di vita; mentre il padre che conosceva e temeva era un fantasma che non sarebbe morto mai. ‘Perciò non fa meraviglia’ riflette ‘che io abbia saltato una generazione. Non fa meraviglia che non abbia avuto un padre e che fossi già morto una sera vent’anni prima che vedessi la luce. E che la mia unica salvezza debba essere di tornare a morire in quel posto dove la mia vita era già cessata prima che incominciasse’.
Al seminario, subito dopo il suo arrivo, pensava spesso a come glielo avrebbe detto, agli anziani, a quegli uomini imponenti e puri che reggevano le sorti della Chiesa alla quale si era volontariamente consacrato. Si sarebbe presentato davanti a loro e avrebbe detto, «Ascoltate. Dio deve chiamarmi a Jefferson perché è là che la mia vita morì – uno sparo, una sera, e fu sbalzata dalla sella di un cavallo al galoppo in una strada di Jefferson prima ancora di nascere». All’inizio pensava di poterlo dire. Era convinto che avrebbero capito. Era andato là, aveva scelto quella vocazione, con quello scopo specifico. Inoltre credeva nella Chiesa, in tutte le sue ramificazioni e in ciò che rappresentava. Era convinto, con una gioia calma, che se mai c’era un rifugio, poteva essere soltanto la Chiesa; che se mai la verità poteva andare nuda e senza vergogna o paura, poteva essere soltanto al seminario. Quando si convinse di aver sentito la vocazione, gli sembrò di vedere il proprio futuro, tutta la propria vita, integra e da ogni parte completa e inviolabile, come un sereno vaso classico, all’interno del quale lo spirito poteva rinascere al riparo dall’aspro uragano del vivere e morire così, in pace, al solo suono remoto del vento aggirato, con appena una manciata di putrida polvere da gettare. Questo significava la parola seminario: muri silenziosi e sicuri entro i quali lo spirito intralciato e infastidito dalle sue vestimenta potesse di nuovo conoscere la serenità di contemplare senza orrore o allarme la propria nudità.
‘Ma c’è ben altro, in cielo e anche in terra, oltre alla verità’ pensa, parafrasa,8 serenamente, seriamente, senza giocare con le parole; ma anche non del tutto seriamente, anche un po’ giocandoci. Seduto nel crepuscolo che cala, la testa che con la sua fasciatura bianca incombe più grossa e più spettrale che mai, pensa: ‘Ben altro, davvero’, riflettendo su come evidentemente l’uomo sia stato dotato di inventiva al fine di potersi fornire, in momenti di crisi, di forme e di suoni con i quali difendersi dalla verità. Di una cosa almeno non doveva pentirsi: di non aver fatto lo sbaglio di dire agli anziani quello che aveva avuto l’intenzione di dir loro. Gli era bastato vivere in seminario meno di un anno per capire come andavano le cose. Peggio ancora: avendolo capito, invece di perdere qualcosa, qualcosa aveva guadagnato, qualcosa aveva evitato. E quel guadagno aveva colorato il viso stesso e la forma dell’amore.
Era la figlia di uno dei pastori, dei suoi insegnanti lì al collegio. Come lui, era figlia unica. Immediatamente si convinse che era bellissima, perché prima di vederla ne aveva sentito parlare, e quando la vide non la vide affatto, a causa del viso che si era creato nella propria mente. Non poteva credere che fosse vissuta lì tutta la vita e non fosse bellissima. Per tre anni, il viso vero neanche lo vide. Da due anni, ormai, c’era un albero cavo dentro il quale si lasciavano dei bigliettini. Credeva, ammesso che ci pensasse, che l’idea fosse nata spontaneamente in loro due, non importa chi fosse stato il primo a pensarla e ad esprimerla. In realtà l’idea non era stata né sua né di lei, ma l’aveva tratta da un libro. Ma quel viso non lo vedeva affatto. Non vedeva quel piccolo ovale che di colpo si appuntiva al mento, quella intensa espressione di scontentezza (aveva due o tre anni più di lui, e lui non lo sapeva, non lo avrebbe mai saputo). Non vedeva che da tre anni quegli occhi lo guardavano con un calcolo quasi disperato, come gli occhi di un giocatore d’azzardo messo alle strette.
Poi una sera la vide, la guardò. Improvvisamente, ferocemente, lei si mise a parlare di matrimonio. Accadde senza preambolo, senza avvertimento. Non ne avevano mai parlato. Lui non ci aveva neanche mai pensato, mai pensato neanche a quella parola. Aveva accettato perché la maggior parte degli insegnanti erano sposati. Per lui, tuttavia, non si trattava di uomini e donne che vivevano in un’intimità fisica consacrata, ma di uno stato di morte trasposto fra i viventi e tuttora funzionante, come due ombre incatenate insieme dall’ombra di una catena. A questo era abituato; era cresciuto con uno spettro. Poi una sera lei si mise a parlare, improvvisamente, ferocemente. Quando lui alla fine capì che cosa intendesse con fuggire dalla sua vita presente, non ne fu sorpreso. Era troppo innocente. «Fuggire?» disse. «Fuggire da che cosa?».
«Da questo!» disse lei. Per la prima volta lui vide il suo viso come un volto vivente, come una maschera posta davanti al desiderio e all’odio: contorto, cieco, furioso, bramoso. Non stupido: soltanto cieco, temerario, disperato. «Tutto quanto! Tutto! Tutto!».
Non fu sorpreso. Si rese immediatamente conto che aveva ragione, e che lui, semplicemente, non aveva capito. Si rese immediatamente conto che la propria fede nel seminario era sempre stata uno sbaglio. Non uno sbaglio serio, ma qualcosa di falso, di inesatto. Forse aveva già cominciato ad avere dei dubbi lui stesso, senza che fino a quel momento se ne fosse reso conto. Forse era per questo che ancora non aveva detto loro perché doveva andare a Jefferson. Lo aveva detto a lei, un anno prima, perché voleva, doveva andarci, e che aveva l’intenzione di dir loro la ragione, con lei che lo guardava con quegli occhi che lui non aveva ancora visto. «Vuoi dire» disse lui «che non mi ci manderebbero? che non si darebbero da fare perché ci andassi? Che non sarebbe una ragione sufficiente?».
«Certo che non lo sarebbe» disse lei.
«Ma perché? È la verità. Sciocca, magari. Ma è la verità. E a che serve la Chiesa, se non a aiutare chi potrà anche essere sciocco ma vuole la verità? Perché non dovrebbero farmici andare?».
«Be’, se stesse a me e tu mi dessi questa come ragione, io di sicuro non ti ci farei andare».
«Oh» disse lui. «Capisco». Ma non è che proprio capisse, anche se pensò che forse si sbagliava e che aveva ragione lei. Così quando un anno dopo improvvisamente lei gli parlò di matrimonio e di fuga in quegli stessi termini, non si meravigliò, non ne fu ferito. Semplicemente, con tutta calma, pensò, ‘Così, questo è l’amore. Capisco. Mi sbagliavo anche in questo’, pensando come aveva pensato altre volte e avrebbe pensato in seguito e come qualunque altro uomo ha sempre pensato: a quanto sia falso anche il più profondo dei libri quando lo si applica alla vita.
Cambiò completamente. Fecero i loro programmi per sposarsi. Adesso capiva di averle sempre visto negli occhi quel calcolo disperato. ‘Forse hanno fatto bene a mettere l’amore nei libri’ pensava calmo. ‘Forse non potrebbe sopravvivere da nessuna altra parte’. La disperazione si vedeva ancora, ma adesso che c’erano dei piani precisi, che c’era un giorno stabilito, era una disperazione più tranquilla, fatta soprattutto di calcolo. Adesso parlavano della sua ordinazione, di come avrebbe potuto ottenere la chiamata da Jefferson. ‘Bisognerà metterci al lavoro subito’ disse lei. Lui le disse che ci lavorava da quando aveva quattro anni; forse era una battuta, forse faceva dello spirito. Lei lo ignorò con quella sua bramosa e controllata mancanza di umorismo, quasi di attenzione, parlando come a se stessa di uomini, nomi, che bisognava vedere, davanti ai quali bisognava prosternarsi o che bisognava minacciare, delineandogli tutta una campagna di umiliazioni e di macchinazioni. Lui stava ad ascoltare; ma quello strambo, scherzoso sorrisino, forse di disperazione, non lasciò il suo volto. Disse, mentre lei parlava, «Sì. Sì. Vedo. Capisco». Era come se stesse dicendo Sì. Vedo. Adesso vedo. È così che fanno queste cose, che fanno i loro interessi. La regola è questa. Lo vedo, adesso
Dapprima, quando la manipolazione, l’umiliazione, le piccole menzogne si rifletterono in altre piccole menzogne e quindi in minacce nella forma di richieste e suggerimenti all’interno della gerarchia della Chiesa e lui ricevette la chiamata a Jefferson, sul momento dimenticò come l’aveva ottenuta. Non se ne ricordò che quando si fu sistemato a Jefferson; certo non mentre il treno, nell’ultima tratta del viaggio, volava verso il coronamento della sua vita attraversando una terra in tutto simile a quella dove era nato. E tuttavia appariva diversa, sebbene egli sapesse che la differenza era non tanto all’esterno quanto all’interno del finestrino, contro il quale la sua faccia stava quasi appiccicata come quella di un bambino, mentre accanto a lui sua moglie aveva anch’essa in viso un che di eccitato, oltre che di famelico e disperato. Erano sposati ormai da neanche sei mesi. Da allora, non una volta le aveva più visto in viso, nuda, la disperazione. Ma neppure aveva più visto quella brama. E di nuovo pensò, calmo, senza grande sorpresa e forse senza dolore: Capisco. È così che è. Il matrimonio. Sì. Ora capisco
Il treno correva. Girato verso il finestrino, guardando la campagna che fuggiva, parlava con la viva, felice voce di un bambino: «Avrei potuto venirci prima, a Jefferson, praticamente in qualsiasi momento. Ma non l’ho fatto. Avrei potuto venirci in qualsiasi momento. C’è una differenza, capisci, fra la noncuranza del civile e la noncuranza del soldato. La noncuranza del soldato? Altroché: era la noncuranza della disperazione. Un pugno di uomini (lui non era ufficiale: credo che questa fosse l’unica cosa su cui mio padre e la vecchia Cinthy sono sempre stati d’accordo: che il nonno non aveva la spada, non galoppava davanti a tutti gli altri brandendo la spada) torvi e scapestrati come studentelli, i quali compirono una bravata talmente pazzesca che nemmeno le truppe che li avevano avuti di fronte per quattro anni si sarebbero mai immaginate di vedergliela azzardare. Cavalcare per cento miglia in una campagna dove ogni boschetto e ogni villaggio aveva il suo bivacco yankee, e entrare in una cittadina con tanto di guarnigione – conosco la strada precisa che presero per entrare in città e poi per uscirne. Non l’ho mai vista, ma so esattamente come sarà. So esattamente come sarà la casa, in quella strada, che un giorno sarà nostra e dove vivremo. Non sarà subito, sarà dopo un po’. Per un po’ dovremo vivere in canonica. Ma presto, appena potremo, guarderemo dalla finestra e vedremo quella strada, magari anche le impronte degli zoccoli o la loro forma nell’aria, perché sarà la stessa aria anche se la polvere, il fango, non c’è più... Affamati, emaciati, che urlando davano fuoco ai magazzini delle scorte di un’intera campagna perfettamente pianificata, e poi via, al galoppo. Niente saccheggi: niente fermarsi, nemmeno per delle scarpe, del tabacco. Ti dico, non erano uomini in cerca di bottino e di gloria; erano ragazzi che cavalcavano la spaventosa onda di marea di un’esistenza disperata. Ragazzi. Perché questo. Questo è meraviglioso. Ascolta. Cerca di vederlo. Eccola, la splendida immagine di eterna giovinezza e desiderio virgineo che crea gli eroi. Che rende le gesta degli eroi talmente vicine all’incredibile che non stupisce se di tanto in tanto le loro gesta devono emergere dal fumo come lampi di spari, e il loro spengersi fisico diventa una leggenda dai mille volti prima ancora che abbiano esalato l’ultimo respiro, affinché la verità, paradossale com’è, non si autodistrugga. Be’, questo è quanto mi raccontava Cinthy. E io ci credo. Lo so. È troppo bello per dubitarne. È perfino troppo bello, troppo semplice, per essere stato inventato da una mente bianca. Un negro sì, un negro potrebbe averlo inventato. Ma anche se Cinthy se lo fosse inventato, io ci credo lo stesso. Perché anche i fatti non reggono. Io non so se lo squadrone del nonno si fosse smarrito oppure no. Non credo. Penso che l’abbiano fatto apposta, come dei ragazzi che avessero incendiato un fienile di nemici senza prendere nemmeno una scandola o il lucchetto di una porta potrebbero fermarsi in piena fuga per rubare qualche mela a un vicino, a un amico. Ricordati, erano affamati. Erano tre anni che avevano fame. Magari ci avevano fatto l’abitudine. Comunque, avevano dato fuoco a tonnellate di cibo, vestiario, tabacco e liquore, senza prendere nulla per quanto non ci fossero stati ordini contro il saccheggio, e adesso si girano, con tutto questo alle spalle come fondale: la costernazione, lo scoppio; il cielo stesso doveva essere in fiamme. Lo vedi, lo senti: le grida, gli spari, le grida di trionfo e di terrore, il tambureggiare degli zoccoli, gli alberi che si levano contro quel bagliore rosso, anch’essi come immobilizzati dal terrore, gli abbaini aguzzi delle case come l’orlo dentellato della terra che esplodeva e finiva. Adesso è uno spazio stretto: avverti, senti nell’oscurità i cavalli tenuti a freno di forza, che balzano in avanti; fragore di armi; bisbigli troppo forti, un respirare pesante, le voci ancora trionfanti; dietro di loro il resto del distaccamento che passa al galoppo verso il richiamo delle trombe. Questo devi udirlo, sentirlo: poi lo vedi. Vedi prima dello schianto, nell’improvviso bagliore rosso, i cavalli neri di sudore, occhi e nari che si spalancano nelle teste gettate all’indietro; scintillare di metallo, le bianche facce esangui di spaventapasseri viventi che non ricordano più da quando non mangiano tutto quanto vogliono in uno stesso pasto; forse qualcuno era già smontato, forse un paio erano già entrati nel pollaio. Tutto questo lo vedi prima che arrivi il rimbombo del fucile da caccia a pallini. Fu quell’unico colpo. “E naturalmente lui doveva trovarcisi davanti” diceva Cinthy. “A rubare galline. Un uomo cresciuto, con un figlio maritato, che va in guerra dove doveva solo ammazzare degli yankee, ammazzato nel pollaio di qualcuno con in mano una manciata di penne”. A rubare galline». La voce era acuta, da bambino, esaltata. Già sua moglie lo afferrava per il braccio: Shhhhhh! Shhhhhhhh! La gente ti sta guardando! Ma lui neanche sembrava sentirla. Gli occhi, il sottile viso malaticcio, sembravano trasudare una sorta di luminosità. «Tutto qui. Non sapevano chi fosse stato a sparare. Non lo seppero mai. E neanche cercarono di scoprirlo. Poteva essere stata una donna, molto probabilmente la moglie di un qualche soldato della Confederazione. Mi piace, come idea. Sarebbe stato bello, così. Qualsiasi soldato può venire ammazzato dal nemico nel pieno della battaglia, con un’arma approvata dagli arbitri e i regolamentatori della guerra. Oppure da una donna in una camera da letto. Ma non con un fucile a pallini per andare a caccia di uccelli, e in un pollaio. E allora perché meravigliarsi se questo mondo è popolato principalmente dai morti? Di sicuro, quando Dio si guarda intorno e vede i loro successori, come fa a non condividere i Suoi con noi?».
«Zitto! Shhhhhhhhh! Ci stanno guardando!».
Poi il treno rallentava, entrava in città; di là dal finestrino gli squallidi sobborghi passarono, scomparvero. Lui continuava a guardare fuori – un uomo magro, un po’ sciatto, con intorno ancora qualcosa della residua luminosità della sua vocazione, della sua missione, che in silenzio cingeva, chiudeva e proteggeva il proprio cuore impetuoso, pensando in silenzio che, di sicuro, il paradiso doveva avere qualcosa del colore e dell’aspetto del villaggio, della collina o della casupola di cui il credente dice, Questo è mio. Il treno si arrestò: lentamente giù per il corridoio, ancora soffermandosi a guardar fuori, poi la discesa in mezzo a volti seri, dignitosi, e critici: le voci, i mormorii, le mezze frasi gentili ma che si riservavano di giudicare, per il momento né aperte né (diciamolo) pregiudizi. ‘L’ho ammesso’ pensa. ‘Credo di averlo accettato. Ma forse è stata l’unica cosa che ho fatto, Dio mi perdoni’. La terra è ormai quasi scomparsa alla vista. Adesso è quasi notte. La sua testa, distorta dalla fasciatura, non ha profondità, non ha solidità; immobile, sembra sospesa sulle pallide macchie gemelle che sono le sue mani posate sul davanzale della finestra aperta. Si piega in avanti. Già sente che i due istanti stanno per toccarsi: quello che rappresenta la somma della sua vita, che si rinnova fra ogni imbrunire e ogni crepuscolo, e l’istante sospeso dal quale il presto fra un momento comincerà. Quando era più giovane, quando il suo fiuto per la selvaggina era ancora troppo acuto per l’attesa, in quel momento certe volte si ingannava e credeva di averli uditi prima di sapere che era venuto il momento.
‘Forse questo è tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho mai fatto’ medita, pensando a quei volti: i volti di vecchi naturalmente sospettosi della sua giovinezza e gelosi della chiesa che mettevano nelle sue mani quasi come un padre consegna una sposa: volti di vecchi segnati dal semplice accumulo di frustrazione e di sospetto che tanto spesso è il retro del quadro di una sana e venerabile vecchiaia – il retro, per inciso, che il soggetto e proprietario del quadro deve guardare, non può esimersi dal guardare. ‘Loro fecero la loro parte; giocarono secondo le regole’ medita. ‘Fui io che fallii, che infransi le regole. Forse questo è il più grande peccato sociale di tutti; ahimè, forse un peccato morale’. Il meditare prosegue, sereno, tranquillo, fluido, assestandosi in figure serene che non rivendicano, non rimproverano, non esprimono poi tanto rimpianto. Si vede come una figura indistinta fra ombre indistinte, paradossale, con una sorta di falso ottimismo ed egoismo, che nella sua ricerca di un sogno era convinta avrebbe trovato, in quella parte della Chiesa che più erra, fra le cieche passioni, le mani levate e le voci degli uomini, ciò che non era riuscito a trovare nella claustrale apoteosi terrena della Chiesa. Gli sembra di esserne sempre stato del tutto consapevole: che quanto distrugge la Chiesa non è il brancolare verso l’esterno di quelli che ci sono dentro né il brancolare verso l’interno di quelli che ne sono fuori, ma i professionisti che la controllano e che hanno tolto le campane dalle guglie. Gli sembra di vederli, senza fine, senza ordine, vuoti, dottrinari, foschi, vòlti al cielo non in estasi o per passione ma dannati, a supplicare, a minacciare. Gli sembra di vedere le chiese del mondo come un bastione, come una di quelle barricate del Medioevo piantate di morti e di pali aguzzi, contro la verità e contro quella pace nella quale peccare ed essere perdonati che è la vita dell’uomo.
‘E io questo lo accettai’ pensa. ‘Acconsentii. No, peggio: la servii. La servii usandola per favorire il mio desiderio personale. Venni qui dove volti pieni di sconcerto, di fame e di ansia mi attendevano, attendevano di credere; non li vidi. Dove mani si levavano a quello che credevano avrei portato loro; non le vidi. Portai con me un impegno, forse l’impegno primo dell’uomo, che avevo accettato di mia propria volontà davanti a Dio; ritenevo quella promessa e quell’impegno così poco importanti che non mi resi neanche conto di averla fatta, quella promessa, di aver preso quell’impegno. E se questo fu tutto quanto feci per lei, che altro potevo aspettarmi? Che cosa potevo aspettarmi se non l’ignominia, la disperazione, e il volto di Dio girato dall’altra parte per la vergogna? Forse nel momento in cui le rivelai non soltanto la profondità della mia fame ma il fatto che mai e poi mai lei avrebbe avuto parte alcuna nel soddisfarla; forse in quel momento divenni il suo seduttore e il suo assassino, autore e strumento della sua vergogna e della sua morte. Dopotutto, dovranno pur esserci delle cose di cui Dio non può essere accusato dall’uomo e ritenuto responsabile. Dovranno pur esserci’. Adesso il meditare comincia a farsi più lento. Rallenta come una ruota che comincia a girare nella sabbia, e l’asse, il veicolo, la forza che la spinge non ne è ancora consapevole.
Sembra osservarsi in mezzo a tanti volti, sempre in mezzo, circondato e chiuso da volti, come se si osservasse dal proprio pulpito, dal fondo della chiesa, o come se fosse un pesce in una boccia. E più ancora: i volti sembrano essere specchi nei quali si osserva. Li riconosce tutti; in essi, riesce a leggere quello che sta facendo. Sembra vedervi riflessa una figura grottesca, come quella di un attore un po’ frenetico: un ciarlatano che predica qualcosa di peggiore di un’eresia, nel completo disprezzo di tutto quello del cui palcoscenico si era impossessato, offrendo, invece della forma crocefissa della pietà e dell’amore, un avventuriero spavaldo e dissoluto, ammazzato con un fucile a pallini in un pacifico pollaio durante una momentanea interruzione della sua vocazione a uccidere. La ruota del meditare rallenta; l’asse ora lo sa ma il veicolo non ne è ancora consapevole.
Vede i volti che lo circondano rispecchiare stupore, perplessità, quindi indignazione, poi paura, come se guardassero al di là delle sue frenetiche pagliacciate e vedessero dietro di lui, che lo guardava dall’alto, l’estremo, supremo Volto Stesso, freddo, terribile a causa del Suo onnisciente distacco. Lui sa che essi vedono ancora più lontano: che vedono l’impegno, del quale si era dimostrato indegno, strumento adesso del suo castigo; gli sembra adesso di parlare al Volto: «Forse ho accettato più di quanto fossi in grado di compiere. Ma è forse un delitto? Dovrò essere punito, per questo? Dovrò essere ritenuto responsabile per qualcosa che era al di là delle mie possibilità?». E il Volto: «Non fu per compiere quello che tu la accettasti. Tu la prendesti come strumento del tuo egoismo. Come mezzo per essere chiamato a Jefferson; non per i Miei fini, ma per il tuo».
‘Sarà vero?’ pensa. ‘Potrebbe davvero esser stato così?’. Si rivede come quando giunse l’ignominia. Ricorda quello che aveva percepito prima ancora che cominciasse, nascondendoselo alla mente. Si vede mentre offre, come contentino, fortezza morale, tolleranza e dignità, facendo mostra di rinunciare al suo pulpito per le ragioni di un martire, quando in realtà in quello stesso istante balzava dentro di lui, trionfante, un moto di ricusa dietro un volto che si credeva al riparo del libro degli inni, e che quando il fotografo scattò il suo flash lo aveva tradito.
Gli sembra di osservarsi, vigile, paziente, abile, mentre gioca bene le sue carte facendo mostra di venire trascinato senza un lamento verso ciò che, senza ammetterlo neanche allora, era stato il suo desiderio fin da prima di entrare in seminario. E sempre buttando là i suoi contentini come frutta marcia davanti a un branco di maiali: il misero reddito proveniente da suo padre, che continuava a dividere con quella istituzione di Memphis; lasciandosi perseguitare, strappare di notte dal letto, trascinare nel bosco e prendere a bastonate, restando sempre a portata di occhi e di orecchi della cittadina, senza vergogna, con l’ego paziente e voluttuoso del martire, quell’aria, quel contegno, quel Per quanto ancora, o Signore finché, di nuovo in casa, la porta sbarrata, sollevò la maschera con quella voluttuosa, trionfale esultanza: Ah. Ecco fatto, ora. Ora è finita. Ora è tutto comprato e pagato
‘Ma ero giovane, allora’ pensa. ‘Anch’io dovevo fare non quello che potevo fare, ma quello che sapevo fare’. Il meditare adesso va avanti troppo lento; dovrebbe saperlo, sentirlo. Tuttavia il veicolo ancora non si accorge di quello a cui si sta avvicinando. ‘E dopotutto, ho pagato. Ho comprato il mio fantasma, anche se l’ho pagato con la mia vita. E chi può proibirmi di farlo? Uno avrà pure il diritto di distruggersi, purché non faccia del male a nessuno, purché viva per sé e di sé...’. Improvvisamente si interrompe. Immobile, mentre trattiene il respiro, lo coglie una costernazione che sta per trasformarsi in vero e proprio terrore. Adesso si accorge della sabbia; rendendosene conto, sente dentro di sé una concentrazione come per un qualche sforzo tremendo. L’avanzare, adesso, è ancora un avanzare, ma è ormai indistinguibile dal recente passato, come i pochi centimetri di sabbia appena percorsa rimasti attaccati alla ruota che gira, e che ricadono con un sibilo secco che avrebbe dovuto avvertirlo già da prima: ‘... rivelato a mia moglie la mia fame, il mio ego... strumento della sua disperazione e della sua ignominia...’ e senza averla affatto pensata, una frase sembra essersi levata, di colpo, nel suo cranio, dietro i suoi occhi: Non voglio pensarlo. Non devo pensarlo. Non oso pensarlo Mentre è lì seduto alla finestra, piegato in avanti sulle mani immobili, il sudore comincia a scendergli, sgorgando fuori come sangue, e a colare. Passato quell’istante, stretta nella sabbia, la ruota del pensiero continua a girare lenta e implacabile come uno strumento medioevale di tortura, sotto le cavità distorte e spezzate del suo spirito, la sua vita: ‘Allora se è così, se io sono lo strumento della sua disperazione e della sua morte, allora anch’io sono lo strumento di qualcuno al di fuori di me. E so che da cinquant’anni non sono neanche argilla: sono un unico istante di tenebra che un cavallo ha attraversato al galoppo e in cui un fucile ha sparato. E se io sono il mio nonno defunto nell’istante della sua morte, allora mia moglie, la moglie del suo nipote... il corruttore e l’assassino della moglie del mio nipote, dato che non potevo lasciare mio nipote né vivere né morire...’.
La ruota, lasciata libera, con un lungo sospiro sembra riprendere a correre. Lui siede immobile in quello che essa si lascia dietro, nel sudore che si raffredda, col sudore che continua a scendere. La ruota gira e va avanti. Adesso prosegue rapida e regolare, perché adesso è libera dal suo peso, dal veicolo, dall’asse, da tutto. Nella luminosa sospensione di agosto in cui la notte sta per calare definitivamente, essa sembra generare un vago bagliore del quale si circonda, come un alone. L’alone è pieno di volti. Volti che non sono improntati a sofferenza, non sono improntati a niente: non a orrore, non a dolore, neppure a rimprovero. Sono sereni, come se si fossero salvati in un’apoteosi; e fra di essi, il suo. In realtà si assomigliano un po’ tutti, un insieme di tutti i volti che ha mai visto. Riesce comunque a distinguerli gli uni dagli altri: quello di sua moglie; gente del luogo, membri della congregazione che lo ha rinnegato, che quel giorno era venuta a prenderlo alla stazione con fame e trepidazione; quello di Byron Bunch; la donna col suo bambino; e quella di un uomo di nome Christmas. Soltanto questo volto non è chiaro. È più confuso di tutti gli altri, come negli spasimi ora rasserenati di una più recente, più inestricabile sintesi. Poi vede che si tratta di due volti i quali sembrano lottare (ma non lottare di propria volontà o perché lo vogliano: questo lo capisce, ma a causa del moto e della volontà della ruota stessa), a turno, per liberarsi l’uno dall’altro, poi svaniscono e di nuovo si fondono. Ma adesso ha visto l’altro volto, quello che non è Christmas. ‘Ma come, è di...’ pensa. ‘L’ho visto, poco fa... Ma come, è quel... ragazzo. Con quella pistola nera, automatica la chiamano. Quello che... in cucina, dove... ammazzato, che ha sparato...’. Poi gli sembra che dentro di lui una qualche piena finale rompa gli argini e si riversi fuori. Gli sembra di guardarla, sentendo di perdere contatto con la terra, sempre più leggero, svuotandosi, librandosi. ‘Sto morendo’ pensa. ‘Dovrei pregare. Dovrei tentare di pregare’. Ma non lo fa. Nemmeno tenta. ‘Con tutta l’aria, tutto il cielo, pieni del pianto perduto e inascoltato di tutti i viventi che sono mai vissuti, che continuano a gemere come bambini perduti tra le fredde, terribili stelle... Volevo così poco, chiedevo così poco. Sembrerebbe che io...’. La ruota continua a girare. Rotea, adesso, scomparendo, senza avanzare, come fatta girare da quella piena finale riversatasi fuori di lui, lasciando il suo corpo vuoto e più leggero di una foglia dimenticata e ancor più insignificante di un immobile relitto consunto abbandonato sul davanzale non più solido, sotto mani senza più peso; così che può essere ora Ora
È come se avessero semplicemente atteso che lui potesse trovare qualcosa con cui respirare, affannato, con cui riaffermarsi nel trionfo e nel desiderio, con quanto è rimasto dell’onore, dell’orgoglio, e della vita. Sopra il battito del suo cuore sente il tuono che avanza, martellante, infinito. Dapprima è come un lungo sospirare di vento fra gli alberi, poi dilagano alla vista, portati adesso da una nube di polvere spettrale. Passano, precipitosi, piegati in avanti sulle selle, le armi in pugno, sotto il frustare dei nastri delle bramose lance protese; passano tumultuosi, gridando senza alcun suono, come un’onda di marea la cui cresta è dentellata dalle selvagge teste dei cavalli e dalle armi brandite degli uomini come il cratere di un mondo che sta esplodendo. Passano di furia, sono scomparsi; la polvere turbina, succhiata verso il cielo, svanisce nella notte che è ormai calata. Eppure, piegato in avanti nella finestra, la testa bendata enorme e senza profondità al di sopra delle macchie gemelle delle mani sul davanzale, gli sembra di udirli tuttora: le trombe selvagge, il clangore delle sciabole e il tuono morente degli zoccoli.
8. La parafrasi è da Amleto, atto I, scena v, vv. 166-67.