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Byron Bunch questo sa: era un venerdì mattina di tre anni fa. E il gruppo di operai che lavoravano nel capannone della segheria alzarono gli occhi, e videro lo sconosciuto lì fermo che li guardava. Non sapevano da quanto tempo li stesse osservando. Aveva l’aria di un vagabondo, ma non proprio di un vagabondo. Le scarpe erano impolverate e anche i pantaloni erano sporchi. Tuttavia erano di un buon serge, con la piega ben stirata, e la camicia era sporca ma era pur sempre una camicia bianca, e portava una cravatta e una paglietta a tesa dura che era piuttosto nuova, con una inclinazione arrogante e sinistra sul viso immobile. Non aveva l’aria d’un barbone di professione nei suoi cenci professionali, ma dava il senso di uno senza radici, come se non avesse un suo proprio paese, una sua città, quattro muri e un pezzo di terra da poter chiamare casa; e che questo senso se lo portasse sempre addosso quasi fosse una bandiera, con un che di spietato, di solitario, e quasi di orgoglioso. «Come se stesse soltanto attraversando un periodo storto» avrebbero detto gli uomini più tardi «e non avesse nessuna intenzione di farlo durare e non gliene fregasse un accidente di come se ne sarebbe tirato fuori». Era giovane. E Byron lo osservò che stava lì fermo a guardare gli operai con le loro tute macchiate di sudore, una sigaretta a un angolo della bocca e l’immobile viso scuro e sprezzante, un po’ piegato da una parte per via del fumo. Dopo un po’ sputò la sigaretta senza toccarla con la mano, si voltò, e proseguì verso l’ufficio dello stabilimento mentre gli operai con le loro tute scolorite e macchiate dal lavoro guardavano la sua schiena con una specie di perplessa indignazione. «Bisognerebbe passarlo alla piallatrice» disse il caporeparto. «C’è il caso che così quell’aria gli verrebbe via».
Non sapevano chi fosse. Nessuno l’aveva mai visto. «Solo che è un bel rischio, per uno, farsi vedere in pubblico con quella faccia» disse uno degli uomini. «Potrebbe dimenticarsene e metterla dove a qualcuno non gli piace». Poi lo accantonarono, almeno nella conversazione, e tornarono al loro lavoro in mezzo al ronzare e allo stridere delle cinghie e degli alberi. Ma dopo neanche dieci minuti il dirigente dello stabilimento entrò, con lo sconosciuto dietro.
«Metti quest’uomo al lavoro» disse al caporeparto. «Dice che se non altro sa maneggiare una pala. Puoi metterlo al monte della segatura».
Gli altri non avevano smesso di lavorare, ma non c’era nessuno nel capannone che non stesse di nuovo osservando lo sconosciuto coi suoi sudici abiti di città, quella sua scura faccia insopportabile e tutta quell’aria di freddo e silenzioso disprezzo. Il caporeparto lo guardò, brevemente, lo sguardo freddo quanto quello dell’altro. «Si mette a farlo vestito così?».
«Affari suoi» disse il dirigente. «Mica ho assunto il suo vestito».
«Be’, a me quello che indossa va bene se va bene a lei e va bene a lui» disse il caporeparto. «Allora, tu» disse. «Vai laggiù a prendere una pala e dai una mano a quelli là a spostare quella segatura».
Il nuovo arrivato si girò senza una parola. Gli altri lo guardarono andar giù al mucchio della segatura, scomparire, riapparire con una pala e mettersi al lavoro. Il caporeparto e il dirigente erano alla porta che parlavano. Si separarono e il caporeparto tornò. «Si chiama Christmas» disse.
«Si chiama come?» disse uno.
«Christmas».
«È uno straniero?».
«Hai mai sentito di un bianco che si chiama Christmas?» disse il caporeparto.
«Non ho mai sentito di nessuno che si chiama così» disse l’altro.
E quella fu la prima volta che Byron ricordò di aver mai pensato che il nome di uno, che dovrebbe essere soltanto il suono per chi è lui, in qualche modo potrebbe essere un auspicio di quello che farà, se soltanto gli altri riuscissero a leggerne il significato in tempo. Gli parve che nessuno di loro avesse guardato lo sconosciuto in modo speciale fino a che non ne sentirono il nome. Ma appena lo sentirono, fu come se in quel suono vi fosse qualcosa che cercava di dir loro che cosa dovessero aspettarsi; che lui si portava addosso il proprio inevitabile monito, come un fiore il suo profumo o un serpente a sonagli il suo sonaglio. Solo che nessuno di loro ebbe abbastanza buonsenso da riconoscerlo. Pensarono soltanto che fosse uno straniero, e mentre per tutto il resto di quel venerdì lo osservarono al lavoro con quella cravatta e la paglietta e i pantaloni stirati, dissero fra di loro che era così che nel suo paese lavoravano gli uomini; benché ce ne fossero degli altri che dissero, «Stasera si cambierà. Mica avrà quel vestito buono della domenica quando arriva al lavoro la mattina».
Poi fu sabato mattina. Quando gli ultimi arrivarono appena prima della sirena, stavano già dicendo «È... Dove...». Gli altri indicarono. Quello nuovo era laggiù al mucchio della segatura, immobile. Accanto, la pala, e lui lì immobile coi medesimi vestiti di ieri, con quel cappello arrogante, che fumava una sigaretta. «Era qui quando siamo arrivati» dissero i primi. «Lì fermo, così. Come non fosse neanche andato a dormire».
Non parlò con nessuno. E nessuno cercò di parlargli. Tutti, però, erano consapevoli di lui, della sua schiena regolare (lavorava bene, questo andava detto, con una sorta di sinistra e controllata continuità) e delle sue braccia. Poi fu mezzogiorno. Ad eccezione di Byron, oggi non si erano portati da mangiare, e cominciarono a raccogliere la loro roba preparandosi a smontare fino a lunedì. Byron, da solo, andò col suo secchiello alla rimessa della pompa dove di solito mangiavano, e si mise a sedere. Poi qualcosa gli fece alzare gli occhi. A poca distanza c’era lo sconosciuto che fumava, appoggiato a un palo. Byron capì che era lì quando lui era entrato, e non si dava neppure la pena di allontanarsi. O peggio. Che era venuto lì apposta, ignorando Byron come se fosse un altro palo. «Non stacchi?» disse Byron.
L’altro emise del fumo. Poi guardò Byron. Il viso era scarno, la pelle un morto color pergamena. Non la pelle: la carne stessa, come se il teschio fosse stato modellato con muta, mortale regolarità e poi cotta in un forno furioso. «Quanto pagano per gli straordinari?» disse. E allora Byron capì. Capì allora perché l’altro lavorava col vestito della domenica, e perché non aveva mangiato con lui né ieri né oggi, e perché non era smontato a mezzogiorno insieme agli altri. Lo capì come se quello gli avesse detto che in tasca non aveva un centesimo e che in tutta probabilità ormai da due o tre giorni andava avanti a sigarette. Quasi nel momento stesso in cui lo pensò Byron gli stava porgendo il suo secchiello, il gesto un riflesso come lo era stato il pensiero. Perché prima che il gesto si compisse, quello, senza che nulla cambiasse nella sua posa indolente e sprezzante, girò il viso e attraverso il fumo calante della sigaretta dette un’occhiata al secchiello profferto. «Non ho fame. Tienti la tua schifezza».
Venne lunedì mattina e Byron ebbe di che darsi ragione. Quello arrivò al lavoro con una tuta nuova e un cartoccio di roba da mangiare. A mezzogiorno, però, non si accosciò a mangiare con loro nella rimessa della pompa, e sul viso aveva sempre la stessa espressione. «Lasciatelo stare lì dove s’è messo» disse il caporeparto. «Simms mica ha assunto la sua faccia. Né il vestito, né la faccia».
Simms non aveva assunto neppure la lingua dello sconosciuto, pensava Byron. Perlomeno, da come si comportava, si sarebbe detto che Christmas la pensava così. Anche dopo sei mesi, ancora non aveva niente da dire a nessuno. Nessuno sapeva che cosa facesse fuori dell’orario. Ogni tanto uno dei colleghi di lavoro lo incontrava in piazza dopo cena, e era come se Christmas non lo avesse mai visto. In quelle occasioni aveva il cappello nuovo e i pantaloni stirati e la sigaretta a un angolo della bocca con il fumo che gli sogghignava di traverso sul viso. Nessuno sapeva dove viveva, dove dormiva la notte, tranne che di tanto in tanto qualcuno lo vedeva seguire un sentiero che usciva dal bosco al limitare della cittadina, come se potesse vivere da qualche parte in quella direzione.
Questo non è ciò che Byron sa adesso. Questo è soltanto ciò che sapeva allora, quello che sentiva dire e che osservava quando ne veniva a conoscenza. A quell’epoca nessuno di loro sapeva dove viveva Christmas e che cosa in realtà facesse dietro il velo, lo schermo, di quel lavoro da negro allo stabilimento. Probabilmente nessuno l’avrebbe mai saputo se non fosse stato per quell’altro sconosciuto, Brown. Ma non appena Brown cominciò a chiacchierare, una dozzina di uomini ammisero che da più di due anni compravano whisky da Christmas incontrandolo di notte e da solo nel bosco dietro una dimora dei tempi delle piantagioni a due miglia fuori città, in cui viveva, sola, una zitella di mezz’età di nome Burden. Ma neanche quelli che compravano il whisky sapevano che in realtà Christmas viveva in una casupola per negri mezzo diroccata sul terreno della signorina Burden, e che ci viveva da più di due anni.
Poi un giorno, circa sei mesi prima, un altro sconosciuto era comparso alla segheria così come aveva fatto Christmas, in cerca di lavoro. Anche lui era giovane, alto, già con una tuta nella quale sembrava avesse vissuto ininterrottamente da parecchio tempo, e anche lui sembrava che viaggiasse leggero. Aveva una faccia bella e sveglia ma debole, con una piccola cicatrice bianca vicino alla bocca che aveva l’aria di esser stata contemplata parecchio allo specchio, e un modo di muovere la testa di scatto e guardarsi dietro come fa un mulo per la strada davanti a un’automobile, pensò Byron. Ma non si trattava semplicemente di un guardarsi le spalle, di essere in apprensione; a Byron dava anche l’impressione di un che di spavaldo, di sfrontato, come se quello non facesse altro che ripetere e insistere che non aveva paura di nulla che fosse in grado o fosse capace di avvicinarglisi da dietro. E quando Mooney, il caporeparto, vide il nuovo operaio, Byron fu convinto che lui e Mooney la pensavano allo stesso modo. Mooney disse: «Be’, Simms è andato sul sicuro quando ha assunto quello lì. Non ha assunto nemmeno un paio di pantaloni completo».
«Proprio così» disse Byron. «Mi fa venire in mente una di quelle macchine che girano in città con la radio accesa. Non si capisce cosa dice e la macchina non va da nessuna parte in particolare, e quando guardi da vicino vedi che dentro non c’è neanche nessuno».
«Sì» disse Mooney. «Mi dà l’idea di un cavallo. Non un cavallo cattivo. Solo un cavallo che non vale niente. Bello a vederlo al pascolo, ma appena qualcuno si avvicina al cancello con una briglia è sempre giù in fondo, alla sorgente. Capace di correre, sì, ma quando viene il momento di essere attaccato al carro ha sempre male a uno zoccolo».
«Ma piace alle giumente, mi sa» disse Byron.
«Sicuro» disse Mooney. «Ma mi sa che anche a una giumenta non farebbe un danno permanente».
Il nuovo operaio andò a lavorare giù al mucchio della segatura insieme a Christmas; dandosi un sacco di daffare, raccontando a tutti chi era e dove era stato, in un tono e in un modo che era l’essenza stessa della persona, e che tradiva la sua abitudine al depistaggio e la sua mendacità. Uno non credeva in quello che diceva di aver fatto più di quando aveva detto di chiamarsi Brown, pensò Byron. Non c’era una ragione perché non dovesse chiamarsi Brown. Il fatto, però, era che bastava guardarlo, e uno si rendeva conto che a un certo punto della vita la sua scempiaggine lo avrebbe portato a una qualche crisi per cui avrebbe cambiato nome, e avrebbe pensato a Brown quale soluzione per cambiarlo con una specie di gongolante esaltazione, come se quel nome non fosse mai stato inventato. Il fatto è che non c’era alcuna ragione perché avesse dovuto avere un nome o perché ne avesse bisogno. A nessuno importava niente, così come Byron era convinto che a nessuno (nessuno che portasse i pantaloni, comunque) importava da dove veniva o dove andava o per quanto tempo restava. Perché da dovunque venisse e dovunque fosse stato, uno capiva subito che quello semplicemente viveva alle spalle della terra, come una cavalletta. Era come se lo facesse ormai da tanto di quel tempo che era finito tutto quanto disperso e sparpagliato, e ormai non ne era rimasto più niente tranne l’involucro trasparente e senza peso, soffiato dimentico di qua e di là dal primo vento.
Tuttavia lavoricchiava, a modo suo. Byron era convinto che non fosse rimasto di lui neanche quanto bastava per riuscire a far bene lo scansafatiche. O perfino per volerlo essere, uno scansafatiche, dato che uno deve pur sempre avere una qualche qualità superiore alla media per riuscire a fingersi malato, lo stesso che per far bene qualsiasi altra cosa: rubare o perfino ammazzare. Deve puntare verso un qualche scopo specifico e definito, deve impegnarvisi. E Byron era convinto che Brown non ne era capace. Sentirono dire che il primo sabato sera si era giocato ai dadi la prima intera paga settimanale. Byron disse a Mooney: «Strano. Avrei detto che l’unica cosa che sa fare fosse giocare ai dadi».
«Lui?» disse Mooney. «Cosa ti fa pensare che riesca in una qualche diavoleria quando non riesce neanche a spalare della segatura? che riuscirebbe a fartela con una cosa difficile come maneggiare un paio di dadi, quando non ci riesce con una cosa facile come maneggiare una pala?». Poi disse, «Be’, mi sa che nessuno è tanto disgraziato da non riuscire a battere qualcuno in qualcosa. Perché se non altro riesce a battere Christmas a non far nulla».
«Sicuro» disse Byron. «Mi sa che rigare diritto dev’essere la cosa più facile al mondo per uno pigro».
«Mi sa che ci metterebbe poco a prendere una brutta strada,» disse Mooney «se solo avesse qualcuno che gli fa vedere come».
«Be’, prima o poi lo troverà, da qualche parte» disse Byron. Si voltarono tutti e due a guardare giù verso il mucchio della segatura dove Brown e Christmas erano al lavoro, uno con quella sua minacciosa, furiosa regolarità, l’altro con quel discontinuo alzar di braccio che non sarebbe riuscito a darla a bere neanche a se stesso.
«Mi sa di sì» disse Mooney. «Ma se io volessi prendere una brutta strada, di certo non mi piacerebbe mettermi in società con lui».
Come Christmas, Brown veniva al lavoro con gli stessi vestiti che portava in città. Ma a differenza di Christmas, per parecchio tempo non si cambiò. «Con quei dadi, uno di questi sabati sera vincerà quanto basta per comprarsi un vestito nuovo e avere ancora cinquanta centesimi in cinquini da far tintinnare in tasca» disse Mooney. «E il lunedì mattina non lo rivediamo più». Intanto Brown continuava a venire al lavoro con la stessa tuta e la stessa camicia con cui era arrivato a Jefferson, perdendo la paga settimanale ai dadi il sabato sera o magari vincendo qualcosa, in entrambi i casi reagendo con le stesse cretine sghignazzate, scherzando e canzonando gli stessi che in tutta probabilità periodicamente lo derubavano. Poi un giorno sentirono che aveva vinto sessanta dollari. «Be’, ora non lo rivediamo più» disse uno.
«Non so» disse Mooney. «Sessanta dollari è la cifra sbagliata. Se fosse stato dieci dollari o cinquecento, mi sa che avresti ragione. Ma proprio sessanta, no. Adesso penserà che qui si è sistemato bene, che finalmente ogni settimana mette insieme più o meno quello di cui ha bisogno». E il lunedì tornò davvero al lavoro, in tuta; li videro, Brown e Christmas, giù al mucchio della segatura. Li guardavano laggiù, tutti e due, dal giorno in cui Brown aveva preso lavoro; Christmas che piantava con forza la pala nella segatura, lento e regolare, come se stesse facendo a pezzi un serpente sepolto («o qualcuno» disse Mooney) e Brown che si appoggiava alla sua pala mentre apparentemente raccontava a Christmas qualcosa, una storiella. Perché di lì a un momento si metteva a ridere, scoppiava dalle risa, la testa buttata all’indietro, mentre accanto a lui l’altro continuava a lavorare in silenzio, furioso, instancabile. Dopo di che Brown ricominciava e per un po’ lavorava tenendo di nuovo il passo con Christmas, ma poi a ogni palata prendeva su sempre meno roba fino a che nel suo arco sempre più basso la pala neanche sfiorava la segatura. Allora tornava ad appoggiarsi e a concludere, a quanto sembrava, quello che stava raccontando a Christmas, a quell’uomo che neppure sembrava udire la sua voce. Come se l’altro fosse a distanza di un miglio, o parlasse in una lingua diversa da quella che conosceva lui, pensava Byron. E qualche volta, il sabato sera, li si vedevano insieme in città: Christmas nel suo solito serge pulito, sobrio e austero, la camicia bianca e la paglietta, e Brown col suo vestito nuovo (era marroncino a riquadri rossi, e aveva una camicia colorata e un cappello come quello di Christmas ma con una banda a colori) che parlava e rideva, la voce che si sentiva da una parte all’altra della piazza e poi di nuovo l’eco, un po’ come in una chiesa un suono senza senso sembra venire da tutte le parti allo stesso tempo. Come se volesse far vedere a tutti che razza di amiconi erano con Christmas, pensava Byron. E poi Christmas si girava e con quella sua immobile faccia cupa se ne veniva via dall’occasionale gruppetto di cui il semplice suono vuoto della voce di Brown li aveva fatti circondare, con Brown dietro che ancora parlava e rideva. E ogni volta gli altri operai dicevano, «Be’, lunedì mattina non viene al lavoro». Ma ogni lunedì lui c’era. Fu Christmas che mollò per primo.
Mollò un sabato sera, senza avvertire, dopo quasi tre anni. Fu Brown a informarli che Christmas aveva mollato. Alcuni degli operai avevano famiglia, altri erano scapoli, avevano età diverse e conducevano vite differenti, ma il lunedì mattina venivano tutti al lavoro con una sorta di gravità, quasi di decoro. Alcuni erano giovani, e il sabato sera bevevano, scommettevano e di quando in quando andavano anche a Memphis. Ma il lunedì mattina venivano al lavoro seri e silenziosi, con le loro tute pulite e le loro camicie pulite, aspettando in silenzio che suonasse la sirena e poi mettendosi in silenzio al lavoro, come se qualcosa del giorno di festa indugiasse ancora nell’aria, a sancire che qualsiasi cosa uno avesse fatto nel giorno di festa, venire al lavoro il lunedì mattina puliti e in silenzio era niente più che la cosa giusta e decorosa da fare.
Questo avevano sempre notato in Brown. Il lunedì mattina arrivava quasi sempre con gli stessi vestiti sporchi della settimana prima, e una barba lunga che non aveva conosciuto rasoio. E era più rumoroso del solito, gridava e faceva scherzi come un bambino di dieci anni. I suoi sobri compagni disapprovavano. Per loro era come se fosse arrivato nudo, o ubriaco. Quindi fu Brown che quel lunedì mattina li avvertì che Christmas aveva mollato. Arrivò in ritardo, ma non era quello. Non si era neppure rasato, ma non era quello. Era silenzioso. Per un po’ non si accorsero che era presente, lui che a quell’ora avrebbe dovuto avere metà degli operai che lo mandavano a quel paese, e certuni anche sul serio. Arrivò mentre la sirena stava suonando e andò diritto al mucchio della segatura, mettendosi al lavoro senza dire una parola a nessuno, neanche quando uno gliela rivolse. E allora videro che era laggiù da solo, che Christmas, il suo socio, non c’era. Quando arrivò il caporeparto, uno disse: «Be’, vedo che hai perso uno dei tuoi apprendisti pompieri».
Mooney guardò giù dove Brown infilava la pala nel mucchio come fosse fatto di uova. Sputò corto. «Già. Ha fatto soldi troppo alla svelta. Questo vecchio lavorino non gli bastava più».
«Fatto soldi?» disse un altro.
«Uno di loro, sì» disse Mooney, continuando a osservare Brown. «Ieri sera li ho visti che guidavano una macchina nuova. Era lui...» fece cenno con la testa verso Brown «... che guidava. Non mi sono meravigliato. Quello che mi meraviglia è che anche uno dei due sia venuto a lavorare, oggi».
«Be’, mi sa che Simms non avrà problemi a trovare qualcuno che prenda il suo posto, di questi tempi» disse l’altro.
«Per quello non ne avrebbe mai, di problemi» disse Mooney.
«Mi pareva che se la cavasse piuttosto bene».
«Oh» disse Mooney. «Ho capito. Stai parlando di Christmas».
«Tu di chi stavi parlando? Di Brown? Ha detto che molla anche lui?».
«Secondo te resterà lì giù a lavorare, con quell’altro tutto il giorno in giro per la città in macchina?».
«Oh». Anche l’altro si mise a guardare Brown. «Vorrei sapere dove l’hanno presa, quella macchina».
«Io no» disse Mooney. «Quello che vorrei sapere è se Brown molla a mezzogiorno o lavora fino alle sei».
«Be’,» disse Byron «se qui riuscissi a fare abbastanza soldi da comprarmi una macchina, mollerei anch’io».
Due o tre guardarono Byron facendo un sorrisino. «Mica è qui che hanno fatto i soldi» disse uno. Byron lo guardò. «Mi sa che Byron si tiene troppo fuori dai guai per sapere cosa succede agli altri» disse l’altro. Guardarono Byron. «Brown è quello che si potrebbe dire un dipendente pubblico. Prima Christmas li faceva andare laggiù di notte in quel bosco dietro a dove sta la signorina Burden; adesso Brown lo consegna direttamente in città. Dicono che basta tu sappia la parola d’ordine e lui il sabato sera, nel primo vicolo, si sbottona la camicia e ti vende mezzo litro di whisky».
«E quale sarebbe la parola d’ordine?» disse un altro. «Settantacinque centesimi?».
Byron guardava da faccia a faccia. «Davvero? È quello che fanno?».
«È quello che fa Brown. Christmas, non lo so. Non ci giurerei. Ma Brown è sempre dov’è Christmas. Dio li fa e poi li accoppia, dicono i vecchi».
«Poco ma sicuro» disse un altro. «Se Christmas ci sia dentro oppure no, mi sa che non lo sapremo mai. Lui non va certo in giro a farsi vedere da tutti coi pantaloni giù, come Brown».
«Non ne ha bisogno» disse Mooney, guardando Brown.
E Mooney aveva ragione. Fino a mezzogiorno tennero d’occhio Brown, giù tutto solo al mucchio della segatura. Poi suonò la sirena e presero i loro secchielli, si accosciarono nella rimessa della pompa e cominciarono a mangiare. Brown entrò, abbacchiato, la faccia allo stesso tempo imbronciata e ferita come quella d’un bambino, e si accosciò in mezzo a loro, le mani penzoloni fra i ginocchi. Non aveva da mangiare, oggi.
«Non mangi, oggi?» disse uno.
«Una schifezza fredda, da uno schifo di secchiello da sugna?» disse Brown. «Cominciare all’alba, rompersi la schiena tutta la giornata come un maledetto negro, con un’ora a mezzogiorno per buttar giù una schifezza fredda da un secchiello».
«Be’, magari c’è qualcuno che lavora come lavorano i negri là da dove viene» disse Mooney. «Ma un negro, qui, non durerebbe fino alla sirena di mezzogiorno, se lavorasse come lavorano qui certi bianchi».
Brown però sembrava non sentisse, non ascoltasse, lì accosciato con quella faccia imbronciata e le mani penzoloni. Era come se non stesse a sentire nessuno tranne se stesso, che ascoltasse soltanto se stesso: «È da scemi. Uno dev’essere uno scemo, a farlo».
«Mica ci sei incatenato, a quella pala».
«Ci puoi giurare» disse Brown.
A quel punto suonò la sirena. Si rimisero al lavoro, tenendo d’occhio Brown laggiù al mucchio della segatura. Scavava per un po’ e poi cominciava a rallentare, muovendosi sempre più lentamente finché alla fine era lì che teneva in mano la pala come fosse un frustino da cavallerizzo, e lo vedevano che parlava da solo. «Visto che non ha nessun altro, laggiù, a cui raccontarlo» disse uno.
«Non è quello» disse Mooney. «Ancora non si è persuaso del tutto».
«Convinto di cosa?».
«Dell’idea di essere ancora più scemo di quel che penso perfino io» disse Mooney.
La mattina dopo non comparve. «D’ora in poi il suo indirizzo sarà presso il barbiere» disse uno.
«O quel vicolo appena dietro» disse un altro.
«Mi sa che lo vedremo un’altra volta» disse Mooney. «Verrà a ritirare la paga per ieri».
E così fece. Verso le undici arrivò. Ora aveva indosso il vestito nuovo e in testa la paglietta, e si fermò al capannone e rimase lì a guardare i lavoranti come quel giorno di tre anni prima aveva fatto Christmas, come se in qualche modo le stesse pose del maestro nella sua vita passata motivassero, a sua insaputa, i muscoli solerti del discepolo che aveva imparato troppo rapidamente e troppo bene. Ma Brown riusciva soltanto ad apparire sgangherato e vuotamente sbruffone laddove il maestro aveva un’aria cupa, silenziosa, e letale come un serpente. «Dateci dentro, schiavi bastardi!» disse forte Brown, con una voce allegra tutta denti.
Mooney lo guardò, e i denti di Brown sparirono. «Mica stai parlando a me» disse Mooney. «Vero?».
La faccia mobile di Brown eseguì uno di quei mutamenti istantanei che loro conoscevano bene. Come se fosse così sgangherata e costruita così leggera che neanche per lui era un problema cambiarla, pensò Byron. «Non stavo parlando a te» disse Brown.
«Oh, capisco». Il tono di Mooney si fece del tutto piacevole, accomodante. «Era a questi altri che stavi dando di bastardi».
Immediatamente, un secondo disse: «Stavi dicendo a me?».
«Dicevo a me stesso» disse Brown.
«Bene, una volta tanto in vita tua hai detto la santa verità» disse Mooney. «Cioè, la metà. Vuoi che venga lì e te la dica in un orecchio, l’altra metà?».
E quella fu l’ultima volta che lo videro alla segheria, anche se adesso Byron riconosce e ricorda la macchina nuova (ben presto con un paio di parafanghi ammaccati) in giro per la città, lenta, senza una destinazione, con Brown stravaccato dietro il volante a cercare, senza molto successo, di darsi un’aria di dissolutezza, invidiabilità e indolenza. Qualche volta c’è anche Christmas, ma non spesso. E ora non è più un segreto quello che fanno. Ormai è di dominio pubblico, fra i giovani e perfino fra i ragazzi, che si può comprare del whisky da Brown in un batter d’occhio, e la città sta soltanto aspettando di vedere quando verrà beccato, quando lo tirerà fuori dall’impermeabile e lo offrirà in vendita a un agente in borghese. Ancora non sanno per certo se Christmas sia o no coinvolto, tranne che nessuno crede che Brown abbia abbastanza cervello da riuscire a trarre profitto neanche dal contrabbando, e alcuni sanno che Christmas e Brown vivono entrambi in una casupola nella proprietà della signorina Burden. Ma neanche quelli sanno se la signorina Burden ne sia o no al corrente, e se lo sapessero non glielo andrebbero a dire. Vive da sola in quella casa fin dalla nascita, e tuttavia è ancora una sconosciuta, una forestiera la cui famiglia si era trasferita qui durante la Ricostruzione. Una yankee, una che sta per i negri, a proposito della quale in città circolano tuttora chiacchiere di strani rapporti con negri locali e di fuorivia, benché siano ormai passati sessant’anni da quando il suo fratello e il suo nonno erano stati ammazzati nel bel mezzo della piazza da un ex possidente di schiavi per una questione di voti negri in un’elezione statale. Con tutto ciò, quella storia aleggia ancora intorno a lei e alla sua proprietà: qualcosa di oscuro, di strano e minaccioso, anche se è soltanto una donna e la discendente di gente che i vecchi della città avevano ragione (o credevano di avere ragione) di odiare e di temere. Ma c’è, è lì: i discendenti di entrambe le parti nei loro rapporti con i fantasmi dell’altra, e in mezzo lo spettro dell’antico sangue versato e dell’antico orrore, l’antica rabbia e l’antica paura.
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Se un tempo c’era stato dell’amore, tanto gli uomini che le donne avrebbero detto che Byron Bunch l’aveva dimenticata. O lei (col che s’intende, l’amore) aveva dimenticato lui – quell’ometto che non vedrà più i trent’anni, che per sette anni ha passato sei giorni alla settimana alla segheria alimentando le macchine di tavole. Anche il sabato pomeriggio lo passa lì, da solo ormai, gli altri operai tutti in città coi loro vestiti della domenica e in cravatta, con quella terribile, inane e irrequieta oziosità degli uomini che lavorano.
In questi sabati pomeriggio, dato che non può far funzionare la piallatrice da solo, carica le tavole finite su dei vagoni merci, calcolando il proprio tempo al minuto secondo rispetto a una sirena immaginaria. Gli altri operai, la città stessa o quella parte di essa che si ricorda di lui, sono tutti convinti che lo faccia per via dello straordinario che riceve. E forse la ragione sarà quella. L’uomo sa così poco dei suoi simili. Ai suoi occhi, tutti, uomini o donne, sono motivati da quelli che crede sarebbero i suoi stessi motivi se fosse tanto folle da fare ciò che stanno facendo gli altri. In realtà, c’è soltanto un uomo in città che sarebbe in grado di parlare di Bunch con una qualche cognizione di causa, e con quest’uomo la città non sa che Bunch ha alcun rapporto, perché si vedono e si parlano soltanto di notte. Quest’uomo si chiama Hightower. Venticinque anni fa era il pastore di una delle chiese principali, forse la chiesa principale. Soltanto quest’uomo sa dove va Bunch tutti i sabati sera quando suona la sirena immaginaria (o quando il grosso orologio d’argento di Bunch dice che ha suonato). La signora Beard, nella cui pensione alloggia Bunch, sa soltanto che tutti i sabati, poco dopo le sei, Bunch rientra, fa il bagno, si mette un vestito di serge di poco prezzo che non è più nuovo, mangia la sua cena, e sella il mulo che tiene in un baracchino dietro la casa che lui stesso ha rattoppato e rivestito di un tetto, e se ne va sul suo mulo. Lei non sa dove va. È soltanto Hightower, il pastore, a sapere che Bunch si fa trenta miglia a cavallo del mulo, in piena campagna, e passa la domenica a dirigere il coro di una chiesa di campagna – una funzione che dura tutto il giorno. Poi verso la mezzanotte risella il mulo e se ne torna a Jefferson a un piccolo trotto regolare che va avanti tutta la notte. E il lunedì mattina, con la sua tuta pulita e la camicia pulita, quando suona la sirena si presenta alla segheria. La signora Beard sa soltanto che ogni settimana, dalla cena di sabato alla colazione di lunedì, la sua stanza e la stalla per il mulo ricavata dal baracchino rimangono vuote. Soltanto Hightower sa dove va e che cosa va a fare, perché due o tre sere alla settimana Bunch va a far visita a Hightower nella casetta dove l’ex pastore vive da solo, in quella che la città chiama la sua vergogna – la casa scrostata, angusta, oscura, mal illuminata, che sa di uomo, di puzza di uomo. Lì i due siedono nello studio del pastore, a parlare a voce bassa: uno esile, insignificante, completamente ignaro di costituire un mistero per i suoi compagni di lavoro, e l’altro il reietto di cinquant’anni ripudiato dalla sua chiesa.
Poi Byron si innamorò. Si innamorò contravvenendo all’intera tradizione della sua austera e gelosa educazione campagnola che esige nell’oggetto l’inviolabilità fisica. Accade un pomeriggio di sabato quando lui è solo alla segheria. A due miglia di distanza la casa sta ancora bruciando, col fumo giallo che si erge diritto all’orizzonte come un monumento. L’avevano visto prima di mezzogiorno, quando il fumo cominciava a levarsi sopra gli alberi, prima che la sirena suonasse e gli altri se ne andassero. «Mi sa che oggi staccherà anche Byron» dicevano. «Con un incendio da guardare».
«È un incendio bello grosso» disse un altro. «Cosa sarà? Non mi ricordo niente da quelle parti tanto grande da fare tutto quel fumo se non quella casa della Burden».
«Forse è proprio quella» disse un altro. «Il mio babbo dice che si ricorda che cinquant’anni fa la gente diceva che bisognava bruciarla, e con un po’ di grasso umano per farla prendere bene».
«Forse è stato il tuo babbo che è corso laggiù di nascosto e gli ha dato fuoco» disse un terzo. Scoppiarono a ridere. Poi si rimisero al lavoro, in attesa della sirena, interrompendosi ogni tanto per guardare l’incendio. Dopo un po’ arrivò un automezzo carico di tronchi. Chiesero notizie al conducente, che era passato dalla città.
«Burden» disse il conducente. «Sì. Il nome è quello. Qualcuno in città diceva che c’è andato anche lo sceriffo».
«Be’, mi sa che a Watt Kennedy gli piace andare a guardare un incendio, anche se gli tocca portarsi dietro quel distintivo» disse uno.
«Da com’è la piazza,» disse il conducente «non avrà difficoltà a trovare qualcuno da arrestare, laggiù».
La sirena di mezzogiorno suonò. Gli altri se ne andarono. Byron mangiò il suo desinare, l’orologio d’argento aperto davanti a lui. Quando l’orologio fece l’una, si rimise al lavoro. Era solo nella rimessa a caricare, facendo i suoi interminabili viaggi regolari fra la rimessa e il vagone con un pezzo di sacco di iuta ripiegato sulla spalla per cuscinetto, e portando sul cuscinetto dei carichi di pile di regoli che un altro avrebbe detto di non esser capace di sollevare né di portare, quando Lena Grove entrò dalla porta dietro di lui, il viso già pronto a un sereno sorriso anticipatore, la bocca già a formare un nome. Lui la sente, si volta, e vede quel suo viso svanire come la morente agitazione di un sassolino lasciato cadere in una sorgente.
«Lei non è lui» dice Lena dietro il sorriso che svanisce, con la grave sorpresa di un bambino.
«Nossignora» dice Byron. Si ferma, girandosi a mezzo con i regoli in equilibrio. «Mi sa di no. Chi è che non sono?».
«Lucas Burch. Mi hanno detto...».
«Lucas Burch?».
«Mi hanno detto che l’avrei trovato qui». Parla con una sorta di serena sospettosità, osservandolo senza battere le ciglia, come se fosse convinta che lui stia cercando di imbrogliarla. «Quando ho cominciato a avvicinarmi alla città, continuavano a chiamarlo Bunch invece di Burch. Ma credevo lo dicessero male. O magari ero io che lo sentivo male».
«Sì, signora» dice lui. «È così: Bunch. Byron Bunch». Con i regoli ancora in equilibrio sulla spalla la guarda, il corpo rigonfio, i lombi pesanti, la polvere rossa sulle pesanti scarpe da uomo ai piedi. «Lei è la signora Burch?».
Lei non risponde subito. Sta lì ferma appena di qua dalla porta, osservandolo intenta ma senza apprensione, con quello sguardo calmo, appena perplesso, appena sospettoso. Ha degli occhi azzurrissimi. Ma in essi c’è l’ombra di quella convinzione che lui stia cercando di imbrogliarla. «Mi dicevano, laggiù mentre venivo, che Lucas lavora alla segheria a Jefferson. Me l’hanno detto in tanti. E sono arrivata a Jefferson e m’hanno detto dov’era la segheria, e in città ho chiesto di Lucas Burch e hanno detto “Forse vuol dire Bunch” e allora ho pensato che avessero solo capito male il nome e così andava bene lo stesso. Anche quando mi hanno detto che quello di cui parlavano non era scuro di carnato. Non mi dirà che qui non conosce nessun Lucas Burch».
Byron mette giù il suo carico di regoli in una pila precisa, pronta a esser presa su di nuovo. «No, signora. Qui no. Nessun Lucas Burch, qui. E li conosco tutti, quelli che lavorano qui. Potrebbe darsi che lavori da qualche parte in città. O dove abbattono le piante».
«C’è un’altra segheria?».
«No, signora. Ma ci sono tanti posti dove abbattono».
Lei lo fissa. «Per strada mi hanno detto che lavorava alla segheria».
«Qui non ci conosco nessuno che si chiami così» dice Byron. «Non mi ricordo di nessuno che si chiami Burch a parte me, e io mi chiamo Bunch».
Lei continua a fissarlo con quell’espressione non tanto preoccupata per il futuro quanto sospettosa dell’adesso. Poi tira un respiro. Non è un sospiro: semplicemente, fa un profondo respiro silenzioso. «Be’» dice. Si volta a mezzo e guarda in giro, le assi segate, i regoli impilati. «Mi sa che mi metterò un momento a sedere. È stata una bella fatica, camminare su queste strade dure dalla città a qui. Mi sembra che venire a piedi fin qui dalla città mi ha stancato più che tutto il viaggio dall’Alabama». Si dirige verso una bassa pila di assi.
«Aspetti» dice Byron. Quasi scatta in avanti, facendosi scivolare dalla spalla il sacco ripiegato. La donna si ferma nell’atto di mettersi a sedere e Byron distende il sacco sulle assi. «Starà più comoda».
«Be’, molto gentile da parte sua». Si siede.
«Mi sa che così sarà un po’ più comodo» dice Byron. Si toglie di tasca l’orologio d’argento e lo guarda; poi anche lui si siede, all’altro capo della pila di legname. «Mi sa che saranno più o meno cinque minuti».
«Cinque minuti di riposo?» dice lei.
«Cinque minuti da quando è entrata. Direi che avevo già cominciato a riposarmi. Sabato pomeriggio tengo io il conto».
«E tutte le volte che si ferma per riposare tiene il conto? Come fanno a sapere che si è fermato? Qualche minuto che differenza farebbe?».
«Mi sa che mica mi pagano per stare a sedere» dice lui. «E così, viene dall’Alabama».
Seduta sul cuscinetto di iuta, pesante, il viso calmo e tranquillo, lo racconta anche a lui, che la guarda in silenzio; raccontandogli più di quanto si renda conto di stare raccontando, come ormai da quattro settimane è andata facendo ai tanti volti estranei in mezzo ai quali ha viaggiato con la calma serenità di un cambio di stagione. E Byron, a sua volta, si fa il quadro di una giovane tradita e abbandonata e neppure consapevole di essere stata abbandonata, e che ancora non si chiama Burch.
«No, mi sa che non lo conosco» dice alla fine. «E poi qui stasera ci sono solo io. Gli altri sono tutti laggiù a quell’incendio, di sicuro». Le indica l’alta colonna di fumo giallo che si erge, senza vento, al di sopra degli alberi.
«L’abbiamo visto dal carro prima di arrivare in città» dice lei. «È davvero un grosso incendio».
«È una vecchia casa immensa. C’è da tanto tempo. Non ci vive nessuno a parte una signora, sola. Mi sa che c’è della gente, in città, che dirà che è una punizione, anche adesso. È una yankee. I suoi vennero qui durante la Ricostruzione a sobillare i negri. Due di loro nel farlo finirono ammazzati. Dicono che è sempre impegolata coi negri. Va a fargli visita quando sono malati, come se fossero bianchi. Non vuole una cuoca perché dovrebbe essere una negra. La gente dice che secondo lei i negri sono uguali ai bianchi. Per questo la gente non ci vai mai, laggiù. A parte uno». Lei lo osserva, attenta. Adesso lui non la guarda, guardando un po’ discosto. «O forse due, a quello che sento. Spero che siano arrivati in tempo a aiutarla a salvare la mobilia. Forse ce l’hanno fatta».
«Forse ce l’hanno fatta chi?».
«Due che di nome fanno Joe tutti e due, che stanno laggiù da qualche parte. Joe Christmas e Joe Brown».
«Joe Christmas? Strano, come nome».
«È un tipo strano». Di nuovo guarda un po’ discosto dal viso interessato di lei. «Anche il suo socio è un bel tipo. Brown. Lavorava qui. Ma adesso hanno mollato, tutti e due. Non è una gran perdita per nessuno, mi sa».
La donna se ne sta lì seduta sul cuscinetto di iuta, interessata, tranquilla. Fra tutti e due potrebbero essere seduti col vestito della domenica su delle seggiole a stecche, sulla liscia terra battuta davanti a una casupola di campagna un sabato pomeriggio. «Si chiama Joe anche il suo socio?».
«Sissignora. Joe Brown. Ma mi sa che magari è davvero il suo nome. Perché quando si pensa a uno che si chiama Joe Brown, si pensa a uno con una bocca grande così che non fa che ridere e vociare. Sicché mi sa che è davvero il suo nome, anche se Joe Brown sembra davvero un po’ troppo svelto e facile per essere un nome naturale, non so perché. Ma mi sa che sia davvero il suo. Perché se lo pagassero da quanto parla, adesso questo impianto sarebbe tutto suo. La gente però a quanto pare lo trova simpatico. Lui e Christmas vanno d’accordo, comunque».
Lei lo sta osservando. Il viso è ancora sereno, ma adesso è molto serio, gli occhi molto seri e molto intensi. «Che cosa fanno, lui e quell’altro?».
«Nulla che non dovrebbero, mi sa. Almeno, ancora non sono stati beccati. Brown lavorava qui, diciamo; quando aveva finito di ridere o di far scherzi alla gente. Ma Christmas ha smesso. Vivono insieme laggiù, più o meno dove sta bruciando quella casa. E ho sentito cosa fanno per campare. Ma non sono affari miei, per prima cosa. E seconda cosa, la maggior parte di quello che la gente dice degli altri non è vero, tanto per cominciare. E così mi sa che io sono tale e quale come tutti gli altri».
Lei lo sta osservando. Non batte nemmeno le ciglia. «E lui dice di chiamarsi Brown». Poteva essere una domanda, ma non aspetta una risposta. «Che tipo di racconti ha sentito su cosa fanno?».
«Non voglio mettere nei guai nessuno» dice Byron. «Mi sa che non dovevo chiacchierare tanto. Un fatto è sicuro, sembra proprio che uno appena smette di lavorare si caccia nei guai».
«Che tipo di racconti?» dice lei. Non si è mossa. Il tono è basso, ma Byron è già innamorato, per quanto ancora non lo sappia. Non la guarda, sentendosi sul viso, sulla bocca, il suo sguardo serio e intento.
«C’è chi dice che vendono whisky. Che lo tengono nascosto laggiù dove c’è quella casa che brucia. E girano dei discorsi di Brown ubriaco giù in città un sabato sera, che stava per spifferare qualcosa che non se ne doveva parlare, di lui e di Christmas una sera a Memphis, o in una strada buia dalle parti di Memphis, che c’era una pistola. O magari due pistole. Perché Christmas arriva di corsa e lo mette zitto e se lo porta via. Qualcosa che Christmas non voleva si sapesse, comunque, e che perfino Brown se non fosse stato ubriaco avrebbe saputo che non andava raccontato. Così ho sentito dire. Per parte mia, io non c’ero». Quando solleva il viso, si accorge di aver abbassato lo sguardo prima ancora di avere incontrato gli occhi di lei. Si direbbe che abbia già la premonizione di qualcosa di ormai irrevocabile, impossibile da annullare, lui che era sempre stato convinto che se stava lì al laboratorio da solo di sabato pomeriggio, l’occasione di ferire o di far del male non sarebbe riuscita a scovarlo.
«Com’è, d’aspetto?» dice lei.
«Christmas? Be’...».
«Non dico lui».
«Oh. Brown. Sì. Alto, giovane. Scuro di carnato. Le donne dicono che è bello, tante lo dicono, a quanto sento. Sempre a ridere, a giocherellare, a far scherzi alla gente. Io però...». La sua voce cessa. Non riesce a guardarla, sentendosi sul viso quello sguardo fisso, serio.
«Joe Brown» dice lei. «Ha mica una piccola cicatrice bianca proprio qui vicino alla bocca?».
E non riesce a guardarla, e se ne sta lì seduto sulla pila di legname quando ormai è troppo tardi, e si sarebbe staccato la lingua con un morso.