12
Fu così che ebbe inizio la seconda fase. Era come se fosse caduto in una fogna. Quasi fosse un’altra vita, guardava dietro di sé quella prima, dura resa virile, quella dura terribile resa come lo schiantarsi di uno scheletro spirituale; lo spezzarsi stesso delle cui fibre era quasi avvertibile all’orecchio fisico, tanto che l’atto della capitolazione vera e propria era stato una delusione, come quando il giorno dopo la battaglia finale un generale sconfitto, rasatosi la sera prima e con gli stivali ripuliti dal fango del combattimento, consegna la sua spada a una delegazione.
La fogna scorreva soltanto di notte. Le giornate erano identiche a com’erano sempre state. La mattina alle sei e mezzo andava al lavoro. Usciva dalla casupola senza neanche guardare verso la casa. La sera alle sei tornava, di nuovo senza neanche guardare verso la casa. Si lavava, si metteva la camicia bianca e i pantaloni scuri spiegazzati, entrava in cucina, trovava il suo cibo che aspettava sul tavolo, si metteva seduto e lo mangiava, senza ancora averla vista. Sapeva però che era in casa, e che l’arrivo dell’oscurità all’interno delle vecchie pareti stava rompendo qualcosa, lasciandolo poi a corrompersi nell’attesa. Sapeva come lei aveva passato la giornata; che anche le sue giornate non erano diverse da quelle di sempre, come se anche nel suo caso fosse stata un’altra persona a viverle. Tutto il giorno se la immaginava che andava in giro a fare le sue cose, sedeva per quell’immutabile lasso di tempo allo scrittoio graffiato, o parlava, prestava ascolto alle negre che venivano alla casa da entrambe le direzioni, da una parte e dall’altra della strada, seguendo dei sentieri consumati da anni e anni e che si irradiavano dalla casa come i raggi di una ruota. Che cosa le raccontassero non sapeva, per quanto le avesse vedute avvicinarsi alla casa con un’aria non proprio segreta e tuttavia decisa, entrare di solito sole benché a volte in due o tre, coi loro grembiuli e le loro pezzuole, e di tanto in tanto con una giacchetta da uomo buttata sulle spalle, e poi riemergere e andar via per i sentieri che si irradiavano, non in fretta e tuttavia senza indugiare. Gli passavano rapide in testa, pensando Ora sta facendo questo. Ora sta facendo quello senza pensare molto a lei. Era convinto che durante il giorno nemmeno lei pensasse a lui più di quanto lui pensasse a lei. Anche quando la notte, nell’oscurità della sua camera, lei insisteva a raccontargli nei minimi, noiosissimi dettagli le cose da nulla della sua giornata e insisteva che anche lui le raccontasse la sua giornata, era alla maniera degli amanti: quell’imperiosa, insaziabile richiesta che i minimi dettagli delle due giornate vengano messi in parole, senza alcun bisogno di stare ad ascoltare il racconto. Poi lui finiva di mangiare e saliva su da lei che lo attendeva. Era raro che si affrettasse. Col passare del tempo, e con la novità della seconda fase che si esauriva e diventava abitudine, restava immobile sulla porta della cucina a guardare il crepuscolo e a vedere, forse con un presagio, un presentimento, la strada solitaria e brutale che si era scelta e che lo attendeva, pensando Questa non è la mia vita. Cosa ci faccio, io, qui
Dapprima lo scandalizzò: l’abietta furia del ghiacciaio del New England esposto tutt’a un tratto al fuoco dell’inferno biblico del New England. Forse si rendeva conto dell’abiura che c’era in tutto questo: l’urgenza imperiosa e feroce dietro alla quale si nascondeva una vera disperazione per tutti quegli irrevocabili anni di frustrazione, che ogni notte, quasi fosse convinta che sarebbe stata l’ultima notte sulla terra, lei tentava di compensare condannandosi in eterno all’inferno dei suoi avi, vivendo non solo nel peccato ma nella lordura. Aveva una sorta di avidità per i simboli verbali proibiti; un insaziabile appetito per il loro suono nella bocca di lui e nella propria. Rivelava la terribile, impersonale curiosità di un bambino per i soggetti e gli oggetti proibiti; l’instancabile, distaccato interesse di un chirurgo per il corpo e le sue possibilità. Poi, di giorno, lui vedeva la donna calma, impassibile, quasi mascolina, quasi di mezza età, che era vissuta sola per vent’anni, senza nessuna delle paure di una donna, in una casa solitaria in una zona popolata di negri, quando lo era, e che passava una certa parte di ogni giornata seduta tranquillamente a uno scrittoio a scrivere tranquillamente per gli occhi di giovani e vecchi i consigli pratici di un misto di prete, banchiere e infermiera.
Durante quel periodo (non è che la si potesse chiamare una luna di miele) Christmas la osservò passare per tutte le varie incarnazioni di una donna innamorata. Ben presto lei fece assai più che scandalizzarlo: lo sbalordì, lo disorientò. Lo colse di sorpresa, impreparato, con dei furibondi attacchi di gelosia. Lei non poteva assolutamente aver conosciuto un’esperienza simile, e non c’era né motivo per una scena del genere, né alcuna possibile antagonista: era convinto che lei stessa ne fosse ben consapevole. Era come se si fosse deliberatamente inventata l’intera faccenda allo scopo di recitare il tutto come a teatro. Ma lo faceva con una tale furia, talmente persuasa e con una tale forza di persuasione che la prima volta lui pensò avesse le traveggole e la terza che fosse ammattita. Rivelò un improvviso quanto infallibile istinto per l’intrigo. Insistette su un posto dove nascondere biglietti e lettere. Era un buco in un palo dello steccato dietro la stalla cadente. Non la vide mai metterci un biglietto, eppure insisteva che lui tutti i giorni andasse a controllare; quando lo faceva, la lettera c’era. Quando non lo faceva e le mentiva, scopriva che lei aveva già sistemato qualche trappola per coglierlo in fallo; piangeva, singhiozzava.
A volte i biglietti gli dicevano di non venire fino a una certa ora, in quella casa dove nessun bianco a parte lui entrava da anni e dove per vent’anni aveva sempre passato la notte da sola; per una intera settimana lo costrinse a scavalcare una finestra per venire da lei. Lui lo faceva, e a volte doveva mettersi a cercarla per tutta la casa buia finché la trovava, nascosta, in qualche ripostiglio, in stanze vuote, in attesa, ansimante, gli occhi che nell’oscurità brillavano come gli occhi di un gatto. Di quando in quando stabiliva i convegni sotto un cespuglio da qualche parte del giardino, e lì la trovava nuda, o con indosso le vesti mezzo ridotte a brandelli, negli spasimi d’una sfrenata ninfomania, il corpo che luceva nel lento passare da uno a un altro gesto, da una all’altra delle formali posizioni erotiche quali avrebbe potuto disegnare un Beardsley del tempo di Petronio. Era sfrenata, allora, nell’intima, ansante semioscurità senza pareti, con quei capelli sfrenati, ogni ciocca dei quali sembrava prendere vita come tentacoli di piovra, e le mani sfrenate e lei che respirava: «Negro! Negro! Negro!».
Di lì a sei mesi era completamente corrotta. Non si poteva dire che fosse stato lui a corromperla. La vita di Christmas, con tutta la sua anonima promiscuità, era stata piuttosto convenzionale, come lo è di solito una sana e normale vita peccaminosa. Quella corruzione scaturiva da una fonte ancor più inesplicabile per lui che per lei. Anzi, era come se con la corruzione che lei sembrava cogliere dall’aria stessa cominciasse a corrompere lui. E Christmas cominciò a spaventarsi. Non sarebbe stato in grado di dire di che cosa. Ma cominciò a vedersi come da lontano, come uno che venisse risucchiato in una palude senza fondo. Ancora non era arrivato a pensarlo proprio in questi termini. Quanto adesso vedeva era quella fredda strada solitaria e brutale. Ecco: fredda; pensava, a volte dicendoselo ad alta voce, «Sarà meglio che mi dia una mossa. Sarà meglio che mi levi di qui».
Ma qualcosa lo tratteneva, come può sempre venire trattenuto il fatalista: la curiosità, il pessimismo, la semplice inerzia. E intanto la relazione andava avanti, sommergendolo sempre più con l’imperiosa, travolgente furia di quelle notti. Forse si rendeva conto di non poter fuggire. Comunque fosse, rimase, osservando le due creature che lottavano in un unico corpo come due forme illuminate dalla luna, lottando, affogando in spasimi alterni sulla superficie di un denso stagno nero sotto la luna calante. Un momento era quella immobile, fredda figura controllata della prima fase, che per quanto perduta e dannata rimaneva non si sa come impervia e inattaccabile; poi era l’altra, la seconda, che in un furioso diniego di quella inattaccabilità faceva di tutto per annegare nel nero abisso di sua propria creazione quella purezza fisica che era stata preservata troppo a lungo ormai perché potesse essere mai perduta. Ogni tanto le due venivano alla superficie, allacciate come sorelle; le acque nere si ritiravano. Poi il mondo rifluiva, tornava: la stanza, le pareti, il pacifico suono delle miriadi di insetti di là delle finestre estive dove gli insetti ronzavano da quarant’anni. Allora lei lo guardava con l’espressione disperata e esaltata di una sconosciuta; guardandola, lui allora si parafrasava: «Vorrebbe pregare, ma non sa fare neanche questo».
Lei aveva incominciato a ingrassare.
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La fine di quella fase non fu netta, non vi fu un momento culminante come nella prima. Sfociò nella terza fase così gradualmente che non si sarebbe potuto dire dove l’una era cessata e l’altra iniziata. Era l’estate che diventava autunno, con già, come ombre davanti a un sole calante, il senso freddo e implacabile dell’autunno gettato avanti sull’estate; qualcosa dell’estate morente che schizzava di nuovo come un tizzone morente, nell’autunno. Questo prese un arco di due anni. Christmas lavorava ancora alla segheria, e allo stesso tempo si era messo a vendere un po’ di whisky, con molta prudenza, limitandosi a pochi clienti discreti nessuno dei quali era a conoscenza degli altri. Lei di questo era all’oscuro, anche se lui teneva la scorta nascosta nei paraggi e i clienti li incontrava nel bosco dietro il pascolo. Con tutta probabilità non avrebbe fatto obiezioni. Ma neppure la signora McEachern avrebbe fatto obiezioni alla corda nascosta; forse non glielo disse per la stessa ragione per la quale non l’aveva detto alla signora McEachern. Pensando alla signora McEachern e alla corda, e alla cameriera a cui non aveva mai raccontato da dove provenivano i soldi che le dava, e adesso alla sua amante attuale e al whisky, arrivò quasi a convincersi che non era per fare soldi che vendeva il whisky ma perché era destinato a nascondere sempre qualcosa alle donne che lo circondavano. Nel frattempo, ogni tanto di giorno la vedeva da lontano in giro sul retro della proprietà, dove sotto le vesti pulite e austere che indossava si muoveva, spedito, quel ricco marciume pronto a sgorgare in putredine al minimo tocco, come qualcosa che cresceva in una palude, senza che lei guardasse nemmeno una volta verso la casupola o verso di lui. E quando pensava a quell’altra personalità che sembrava esistere da qualche parte nella stessa fisica oscurità, gli sembrava che quella che ora vedeva di giorno fosse il fantasma di qualcuno che la sorella notturna aveva assassinato e che ora si aggirava senza scopo per i luoghi dell’antica pace, depredata perfino della facoltà di lamentarsi.
Naturalmente, la furia iniziale della seconda fase non poteva durare. All’inizio era stato un torrente; adesso era una marea, che saliva e scendeva. Quando era alta, quasi riusciva a ingannarli entrambi. Era come se dalla consapevolezza, insita in lei, che si trattava di un semplice fluire destinato ben presto a ritrarsi, nascesse una furia più folle, un più violento diniego capace di spronarsi e spronare lui verso inimmaginabili sperimentazioni che li trasportavano come di slancio, li trascinavano al di là di ogni volontà e di ogni disegno. Era come se lei in qualche modo sapesse che c’era poco tempo, che l’autunno incombeva su di lei, senza che peraltro ancora sapesse che cosa significasse esattamente l’autunno. Sembrava trattarsi soltanto di istinto: istinto fisico, e istintivo diniego degli anni sprecati. Poi la marea si ritirava. E allora, come nella scia di un maestrale morente, si ritrovavano arenati su una spenta spiaggia satolla a guardarsi come estranei, con occhi vuoti di speranza e pieni di rimprovero – occhi, quelli di lui, esausti; quelli di lei, disperati.
Ma l’ombra dell’autunno incombeva su di lei. Cominciò a parlare di un figlio, quasi che l’istinto l’avesse avvertita che adesso era il momento di giustificarsi oppure espiare. Ne parlava nei momenti di riflusso. All’inizio, la prima parte della notte era sempre alta marea, come se le ore di luce e di separazione avessero fatto da diga alla corrente che scemava tanto da simulare un torrente, almeno per un momento. Ma dopo un po’ la corrente si fece troppo sottile anche per quello: adesso lui andava da lei con riluttanza, un estraneo, già guardandosi dietro; come un estraneo la lasciava dopo esser stato seduto con lei nella camera buia, a parlare di un terzo estraneo. Si accorse adesso che, quasi per premeditazione, si incontravano sempre in camera, quasi fossero sposati. Non doveva più cercarla per tutta la casa; le notti in cui doveva cercarla, nascosta e ansimante, nuda, in giro per l’oscurità della casa o fra i cespugli del giardino in rovina, erano morte ormai come il palo cavo dello steccato di là dal fienile.
Tutto questo era morto: le scene, le scene recitate alla perfezione di segrete, mostruose delizie e di gelosia. Benché se lei solo l’avesse saputo, adesso sì che avrebbe avuto motivo di essere gelosa. Ogni settimana o due lui faceva un viaggio, per affari, le diceva. Quello che lei non sapeva era che gli affari lo portavano a Memphis, dove la tradiva con altre donne, donne che pagava. Lei questo non lo sapeva. Forse nella fase in cui si trovava adesso non sarebbe rimasta convinta, non avrebbe neanche ascoltato le prove, non le sarebbe importato. Perché si era messa a giacere sveglia per quasi tutta la notte, recuperando il sonno il pomeriggio. Non era malata; non era il corpo. Non era mai stata così bene; l’appetito era enorme, e pesava quindici chili in più di quanto avesse mai pesato in vita sua. Non era quello a tenerla sveglia. Era qualcosa che usciva dall’oscurità, dalla terra, dalla stessa estate morente: qualcosa di minaccioso e, per lei, di terribile, perché l’istinto le assicurava che non le avrebbe fatto del male; che l’avrebbe còlta di sorpresa e completamente cambiata, ma non le avrebbe fatto del male: al contrario, l’avrebbe salvata e la vita sarebbe andata avanti come prima e anche meglio di prima, anche meno terribile. La cosa terribile era che lei non voleva essere salvata. «Non sono ancora pronta per pregare» diceva ad alta voce, calma, rigida, in silenzio, gli occhi spalancati, con la luna che si riversava dalla finestra e riempiva la camera di un freddo, irrevocabile, straziante rimpianto. «Non fare che debba pregare, ancora. Dio caro, fa’ che rimanga dannata ancora per un po’, per un altro po’ ancora». Le sembrava di vedere tutta la sua vita passata, gli anni della fame, come una grigia galleria alla cui lontana e irrevocabile estremità, indelebile come un rimprovero, il suo petto nudo di appena tre brevi anni prima soffriva, vergine e crocefisso, nel suo tormento; «Ancora no, mio Dio. Ancora no, mio Dio».
Così quando lui adesso veniva da lei, dopo i freddi, passivi trasporti di maniera dettati dalla mera abitudine, incominciò a parlare di un figlio. Dapprima ne parlò in tono impersonale, parlando di bambini in generale. Forse era semplice, istintiva furbizia e scaltrezza tutta femminile, forse no. Comunque, passò del tempo prima che lui si rendesse conto, rimanendo di sasso, che lei ne stava parlando come di una possibilità, come di un’idea da mettere in pratica. Disse subito No.
«Perché no?» disse lei. Lo guardò, studiandolo. Lui stava pensando in fretta, pensando Vuole sposarsi. Ecco cos’è. Non vuole un bambino più di quanto lo voglia io ‘È solo un tranello’ pensò. ‘Avrei dovuto saperlo, aspettarmelo. Avrei dovuto prendere e andar via da qui un anno fa’. Ma ebbe paura a dirglielo, a lasciare che la parola matrimonio entrasse fra di loro, venisse fuori ad alta voce, pensando, ‘Potrebbe non averci pensato, e le metterei io l’idea in testa’. Lei lo stava osservando. «Perché no?» disse. E allora qualcosa gli balenò in testa Perché no? Vorrebbe dire tranquillità, sicurezza, per il resto della vita. Non avresti mai più bisogno di rimetterti in strada. E che differenza farebbe, rispetto a ora? Pensando ‘No. Se cedo adesso, rinnego tutti i trent’anni che ho vissuto per fare di me quello che ho scelto di essere’. Disse:
«Se dovevamo averne uno, mi sa che l’avremmo avuto due anni fa».
«Non lo volevamo, allora».
«Nemmeno ora lo vogliamo» disse lui.
Questo, in settembre. Appena dopo Natale lei gli disse che era incinta. Quasi prima che avesse finito di parlare, lui era convinto che stava mentendo. Scoprì, in quel momento, che da tre mesi era proprio quello che si aspettava gli dicesse. Quando però la guardò in viso, capì che non stava mentendo. Si convinse che anche lei sapeva di non mentire. Pensò, ‘Ecco, ci siamo. Ora dice: sposarsi. Ma se non altro posso andarmene prima da questa casa’.
Ma lei non lo disse. Sedeva immobile sul letto, le mani in grembo, l’immobile viso del New England (era tuttora un viso da zitella: ossuto, prominente, un po’ scarno, quasi mascolino: in contrasto, il corpo grassoccio aveva un’animalità più ricca e più morbida di quanta avesse mai avuta) abbassato. In tono pensoso, distaccato, impersonale, disse: «Non manca nulla. Perfino un bastardino negro. Mi piacerebbe vedere la faccia del babbo e di Calvin. Per te questo sarebbe il momento buono per filartela, se è quello che hai voglia di fare». Ma era come se non stesse nemmeno ascoltando la propria voce, nemmeno intendesse che le sue parole significavano davvero qualcosa: era la fiammata finale della tenace estate morente sulla quale l’autunno, l’alba della semimorte, era piombata di sorpresa. ‘È finita, ormai’ pensava in silenzio; ‘finita’. A parte l’attesa che passasse un altro mese, per essere sicura; l’aveva imparato dalle donne negre, che non si può sempre sapere se non dopo due mesi. Doveva aspettare un altro mese, stando attenta al calendario. Per essere sicura fece un segno sul calendario, così che non ci fossero sbagli; dalla finestra della camera stette a guardare il mese compiersi. C’era stata una gelata, e un po’ del fogliame stava cambiando colore. Il giorno segnato sul calendario venne e passò; si dette un’altra settimana, per essere doppiamente sicura. Non era euforica, dato che non era sorpresa. «Aspetto un bambino» disse, calma, ad alta voce.
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‘Domani me ne vado’ si disse lui quello stesso giorno. ‘Domenica me ne vado’ pensò. ‘Aspetto di ritirare la paga di questa settimana, e poi sparisco’. Ormai non vedeva l’ora di arrivare a domenica, e cominciò a fare piani su dove andare. Per tutta quella settimana non la vide. Si aspettava che lo mandasse a chiamare. Quando entrava o quando usciva dalla casupola, si accorgeva che evitava di guardare in direzione della casa, come aveva fatto la prima settimana dopo il suo arrivo. Non la vedeva mai. Di quando in quando vedeva le donne negre, con indosso roba qualsiasi contro il freddo autunnale, che andavano o venivano lungo i loro sentieri battuti, che entravano nella casa o ne uscivano. Nient’altro. Quando fu domenica, non se ne andò. ‘Tanto vale che metta insieme tutta la grana che posso’ pensò. ‘Se lei non ha fretta che mi levi di torno, non c’è ragione che ne abbia io. Me ne vado sabato prossimo’.
Restò. Il tempo rimaneva freddo, bello ma freddo. Adesso, quando andava a letto sotto la sua coperta di cotone nella casupola piena di spifferi, pensava alla camera su in casa, col caminetto acceso e le grandi trapunte imbottite di laniccio. Non era mai stato tanto vicino all’autocommiserazione. ‘Come minimo potrebbe mandarmi un’altra coperta’ pensava. Avrebbe anche potuto comprarsela per conto suo, ma non lo fece. Né lei gliela diede. Aspettava. Aspettò parecchio, a quanto gli sembrava. Poi una sera, in febbraio, tornò a casa e sulla branda trovò un biglietto da parte di lei. Era breve; era quasi un ordine, che quella sera salisse su alla casa. Non ne fu sorpreso. Non aveva mai conosciuto una donna che, in mancanza di un altro a disposizione, col tempo non venisse a patti. E ora sapeva che l’indomani sarebbe andato via. ‘Doveva essere questo che stavo aspettando’ pensò; ‘aspettavo solo la ragione’. Quando si cambiò, si fece anche la barba. Senza accorgersene, si preparò come uno sposo. In cucina trovò la tavola apparecchiata per lui, come al solito; per tutto il periodo in cui non l’aveva vista, quello non era mai mancato. Mangiò e salì al piano di sopra, senza fretta. ‘Abbiamo tutta la sera’ pensava. ‘Così avrà qualcosa a cui poter pensare domani sera e la sera dopo, quando da me trova vuoto’. Lei era seduta davanti al fuoco. Neppure volse la testa, quando lui entrò. «Portati qui quella seggiola» disse.
Fu così che ebbe inizio la terza fase. Per un po’ di tempo lo sconcertò, ancor più delle altre due. Si era aspettato ansia, una sorta di tacito chiedere scusa; oppure, in mancanza di quello, una acquiescenza che voleva soltanto essere corteggiata. Era pronto perfino ad arrivare a quel punto. Quello che trovò fu una sconosciuta che con la calma fermezza di un uomo gli scostò la mano quando alla fine, e con una sorta di perplessa disperazione, le si avvicinò e la toccò. «Su, via» le disse. «Se hai qualcosa da dirmi. Parliamo sempre meglio, dopo. Non farà male al bambino, se è di questo che hai paura».
Lo arrestò con una parola sola; per la prima volta lui guardò il suo volto: vide un volto freddo, remoto e fanatico. «Ti rendi conto,» disse lei «che stai sprecando la tua vita?». E lui rimase lì a guardarla come di sasso, quasi non riuscisse a credere ai suoi orecchi.
Gli ci volle un po’ di tempo per capire che cosa intendeva. Non lo guardava neanche. Stava lì seduta a guardare il fuoco, il volto freddo, immobile, pensoso, parlandogli come se fosse un estraneo, mentre lui ascoltava, incredulo e offeso. Voleva che lui prendesse in mano le sue faccende con le scuole negre – tutto quanto, la corrispondenza e le visite periodiche. Aveva progettato tutto quanto. Glielo espose per filo e per segno, mentre lui ascoltava sempre più incredulo e arrabbiato. Avrebbe avuto controllo completo, e lei gli avrebbe fatto da segretaria, da assistente; avrebbero viaggiato insieme da una scuola all’altra, insieme avrebbero visitato le abitazioni negre; ascoltandola, pur arrabbiato com’era, si rendeva conto di quanto pazzo fosse quel progetto. E intanto, contro il fuoco tranquillo, il pacato profilo di lei era grave e sereno come un ritratto dentro una cornice. Quando venne via, ricordò che nemmeno una volta lei aveva menzionato il bambino che aspettava.
Ancora non era convinto che fosse pazza. Pensava che dipendesse dal fatto che era incinta, così come era convinto che fosse quello il motivo per il quale non si lasciava toccare. Tentò di farla ragionare. Ma era come tentare di far ragionare un albero: non si scosse neanche quel tanto per controbattere, e rimase semplicemente ad ascoltare in silenzio per poi riprendere a parlare in quel freddo tono uniforme come se lui non avesse mai aperto bocca. Quando si alzò e uscì, non capì neppure se si era accorta che se ne era andato.
Nei due mesi successivi la vide soltanto una volta. Andava avanti con la sua solita vita, tranne che adesso non si avvicinava più alla casa e i pasti li consumava di nuovo in città, come quando aveva incominciato a lavorare alla segheria. A quell’epoca, però, quando aveva incominciato a lavorare, non aveva nessun bisogno di pensare a lei durante il giorno; non ci pensava quasi mai. Adesso, invece, non riusciva a non farlo. Ce l’aveva in testa di continuo, al punto che era quasi come se la stesse guardando, laggiù nella casa, in attesa, paziente, inesorabile, pazza. Durante la prima fase era stato come se lui si trovasse all’esterno di una casa, con la neve per terra, e cercasse di entrare; durante la seconda fase si trovava in fondo a un pozzo nella calda, violenta oscurità; adesso si trovava nel mezzo di una pianura dove non c’era nessuna casa, non c’era nemmeno neve, nemmeno vento.
Adesso cominciò ad avere paura, lui che finora aveva conosciuto tutt’al più sconcerto, e magari premonizione e fatalismo. Adesso aveva un socio in affari, per quanto riguardava il whisky: un tale mai visto prima, di nome Brown, che un giorno all’inizio della primavera era comparso alla segheria in cerca di lavoro. Sapeva che lo sconosciuto era uno scervellato, ma dapprima pensò, ‘Se non altro avrà abbastanza buonsenso da fare quello che gli dico di fare. Non avrà da pensare di suo’; fu soltanto più avanti che si disse: ‘Ora so che quello che rende qualcuno scervellato è non saper seguire nemmeno i propri buoni consigli’. Prese Brown perché Brown era uno di fuori e aveva una certa allegra, spregiudicata prontezza e non troppo coraggio, e Christmas sapeva che un vigliacco, con tutti i suoi limiti, nelle mani di una persona accorta può diventare piuttosto utile a chiunque eccetto che a se stesso.
La sua paura era che Brown potesse venire a sapere della donna su alla casa, e con la sua imprevedibile scempiaggine combinasse qualcosa di irrevocabile. Temeva che la donna, visto che la stava evitando, una di quelle notti si facesse venire in mente l’idea di scendere da lui. Da febbraio l’aveva vista una volta sola. Fu quando andò a cercarla per dirle che Brown veniva a vivere con lui nella casupola. Era di domenica. La chiamò, e lei uscì sulla veranda sul retro dove lui la stava aspettando, e ascoltò in silenzio. «Non c’era bisogno che tu lo facessi» disse. Sul momento lui non capì che cosa intendesse. Soltanto più tardi il pensiero di nuovo lampeggiò, completo, come una frase stampata: Pensa che me lo sia portato qui per tenerla a distanza. Crede che pensi che, con lui lì, lei non avrà il coraggio di venire; che dovrà lasciarmi in pace
Così quello che credeva lui, la paura di quello che lei avrebbe potuto fare, se lo mise in testa da sé, convincendosi di averglielo messo in testa a lei. Si convinse, visto che lei l’aveva pensato, che la presenza di Brown non soltanto non l’avrebbe dissuasa: sarebbe stato un incentivo a farla scendere alla casupola. Dato che ormai da più di un mese lei non aveva fatto assolutamente niente, non aveva fatto il minimo gesto, si convinse che sarebbe stata capace di qualsiasi cosa. Adesso anche lui rimaneva sveglio la notte. Ma pensava, ‘Bisogna che faccia qualcosa. C’è qualcosa che dovrò fare’.
Così si mise a ingannare Brown e a evitarlo allo scopo di arrivare alla casupola per primo. Ogni volta si aspettava che lei fosse lì ad attenderlo. Quando arrivava alla casupola e la trovava vuota, con una sorta di rabbia impotente pensava a tutta quell’urgenza, quelle menzogne e quella fretta, e a lei sola e oziosa in casa tutto il giorno, con nient’altro da fare che decidere se tradirlo subito o torturarlo per un altro po’. In altre circostanze non gliene sarebbe potuto importare di meno se Brown fosse venuto a sapere o no della loro relazione. Non c’era in lui alcuna reticenza o alcun senso di cavalleria nei riguardi delle donne. Era una questione pratica, concreta. Non gli sarebbe importato nulla se tutta Jefferson fosse venuta a sapere che era il suo amante: quello che non voleva era che qualcuno cominciasse a fare supposizioni sulla sua vita privata là fuori per via del whisky nascosto, che gli rendeva trenta o quaranta dollari la settimana. Quella era una ragione. Un’altra ragione era la vanità. Sarebbe morto o sarebbe stato pronto a ammazzare pur di non far sapere a qualcun altro, a un altro uomo, che piega aveva ormai preso la loro relazione. Che non solo lei era completamente cambiata, ma che stava tentando di cambiare anche lui e farlo diventare una via di mezzo fra un eremita e un missionario per i negri. Era convinto che se Brown fosse venuto a sapere della prima cosa, inevitabilmente sarebbe venuto a sapere dell’altra. Così, dopo tutti quei raggiri e tutta quella fretta, alla fine arrivava alla casupola e mentre metteva la mano alla porta, ricordando l’ansia e pensando che di lì a un istante avrebbe scoperto che era stato tutto inutile anche se omettere quella precauzione non osava, la odiava con un violento rigurgito di terrore e di rabbia impotente. Poi una sera aprì la porta e sulla branda trovò il biglietto.
Lo vide appena entrato, bianco, quadrato e profondamente inscrutabile contro la coperta scura. Non si fermò neppure a pensare che credeva di sapere qual era il messaggio, che cosa prometteva. Non provò alcuna impazienza; provò sollievo. ‘È finita, adesso’ pensò senza prender su il foglietto ripiegato. ‘Sarà com’era prima, adesso. Niente più chiacchiere di negri e di bambini. È venuta a patti. L’altra idea, quella l’ha esaurita; ha capito che non arrivava a nulla. Adesso ha capito che quello che vuole, quello di cui ha bisogno, è un uomo. Vuole un uomo per la notte; quello che lui fa di giorno non ha importanza’. Avrebbe dovuto rendersi conto, a quel punto, per quale ragione non se ne era andato. Avrebbe dovuto capire che quel pezzettino di carta che ancora non aveva rivelato nulla lo legava come una catena con tanto di lucchetto. Non gli venne in mente. Si vide soltanto ancora una volta a un passo dalla promessa e dal piacere. Adesso, però, sarebbe stato tutto più tranquillo. Era così che entrambi lo volevano; a parte che adesso lui aveva il coltello dalla parte del manico. ‘Tutte quelle scempiaggini’ pensò, tenendo in mano il biglietto ancora da aprire; ‘tutte quelle maledette scempiaggini. Lei è ancora lei e io sono ancora io. E adesso, dopo tutte queste maledette scempiaggini’; pensando a come ci avrebbero fatto sopra delle belle risate, la sera, più tardi, dopo, quando sarebbe arrivato il momento di chiacchierare tranquilli e di ridere, tranquilli: di tutta quella faccenda, l’uno dell’altra, di se stessi.
Non l’aprì, il biglietto. Lo mise via, poi si lavò e si cambiò, fischiettando mentre lo faceva. Non aveva ancora finito quando entrò Brown. «Bene bene bene» disse Brown. Christmas non disse nulla. Era lì in piedi davanti al pezzo di specchio inchiodato alla parete, a farsi la cravatta. Brown si era fermato al centro della stanza: un giovane alto e asciutto con una tuta sudicia e la sua bella, debole faccia scura e gli occhi curiosi. A un lato della bocca c’era una sottile cicatrice bianca come un filo di bava. Dopo un po’ Brown disse: «Hai l’aria di stare andando da qualche parte».
«Davvero?» disse Christmas. Non si girò a guardare. Fischiettava, monotono ma preciso: qualcosa in scala minore, triste, da negri.
«Mi sa che non starò a cambiarmi,» disse Brown «visto che sei già quasi pronto».
Christmas si voltò a guardarlo. «Pronto per cosa?».
«Non stai andando in città?».
«Ho mai detto che stavo andandoci?» disse Christmas. Si girò di nuovo verso lo specchio.
«Oh» fece Brown. Guardava la nuca di Christmas. «Be’, allora mi sa che stai uscendo per qualche affare privato». Guardava Christmas. «Fa freddo, stasera, per starsene sdraiati sul bagnato con sotto solo una ragazzina smilza».
«Sì, eh?» disse Christmas fischiettando, concentrato e senza fretta. Si girò, prese su la giacca e se la infilò, con Brown che continuava a guardarlo. Andò alla porta. «Ci vediamo domattina» disse. La porta non si richiuse dietro di lui. Sapeva che Brown era lì sulla soglia che lo guardava, ma non cercò di nascondere dove stava andando. Proseguì verso la casa. ‘Che guardi pure’ pensò. ‘Che mi venga dietro, se vuole’.
In cucina c’era la tavola apparecchiata per lui. Prima di mettersi a sedere tirò fuori di tasca il biglietto ancora non letto e lo posò accanto al piatto. Non era chiuso, non era sigillato; si aprì di scatto come di suo, quasi a invitarlo, insistente. Ma lui non lo guardò. Cominciò a mangiare. Mangiava senza fretta. Aveva quasi finito quando d’un tratto levò la testa, in ascolto. Poi si alzò e andò alla porta dalla quale era entrato, silenzioso come un gatto, e di colpo la spalancò. Brown era lì fuori, la faccia accostata alla porta, o meglio dove un momento prima c’era la porta. La luce gli cadde sulla faccia, e su di essa c’era un’espressione di intento interesse infantile che sotto gli occhi di Christmas si fece di sorpresa; poi la faccia si riprese e si tirò un po’ indietro. Per quanto bassa, cauta, da cospiratore, la voce di Brown aveva un che di allegro e malizioso, come se, non richiesto e senza aspettare di sapere quello che stava succedendo, lui avesse già stabilito con Christmas alleanza e solidarietà, per lealtà nei confronti del socio o forse dell’uomo in generale di contro a tutte le donne. «Bene bene bene» disse. «Allora è qui che vieni a spassartela tutte le sere. Proprio sull’uscio di casa nostra, diciamo così...».
Senza una parola, Christmas gli tirò un pugno. Il colpo non arrivò forte perché Brown, nel bel mezzo del suo sghignazzare, stava già muovendosi all’indietro, innocente e malizioso. Il colpo gli mozzò la voce; muovendosi, scattando all’indietro, uscì da dove cadeva la luce, sparì nell’oscurità, e da lì la sua voce venne, non ancora alta, come se anche adesso non volesse mettere a repentaglio l’affare del socio, ma tesa, ora, allarmata, stupefatta: «Non mettermi le mani addosso!». Era il più alto dei due: una forma dinoccolata che già si scomponeva ridicola nella fuga, quasi sul punto di abbattersi a terra e disintegrarsi del tutto, incespicando, indietreggiando davanti al continuo avanzare sempre silenzioso dell’altro. Di nuovo la voce di Brown arrivò, alta, piena di ansietà e di spuria minaccia: «Non mettermi le mani addosso!». Questa volta il pugno colpì la spalla mentre lui si girava. Adesso stava correndo. Corse per un centinaio di metri prima di rallentare, guardandosi alle spalle. Poi si fermò e si voltò indietro. «Maledetto vigliacco d’un terrone» disse, in tono esitante, subito dando uno strappo con la testa come se la sua voce avesse fatto più rumore, fosse risultata più alta di quanto avesse voluto. Dalla casa non veniva alcun suono; la porta della cucina era di nuovo scura, di nuovo chiusa. Alzò la voce di un tanto: «Maledetto vigliacco d’un terrone! Te lo insegno io con chi ti metti a fare il furbo». Non venne alcun suono, da nessuna parte. Faceva freddo. Si girò e tornò alla casupola, bofonchiando fra sé e sé.
Quando Christmas rientrò in cucina, non dette neppure un altro sguardo alla tavola su cui era posato il biglietto che aveva ancora da leggere. Prese la porta che immetteva nella casa e andò verso le scale. Cominciò a salire, senza fretta. Saliva a passi regolari; ora vedeva la porta della camera da letto, con in basso un filo di luce dal caminetto. Proseguì deciso e mise la mano alla porta. Poi l’aprì e rimase immobile, di sasso. Lei era seduta a un tavolo, sotto la lampada: una figura che lui conosceva, vestita di un abito severo che conosceva – un abito che sembrava fatto per un uomo e portato da un uomo trascurato. Sopra l’abito vide una testa con i capelli che cominciavano a ingrigire tirati tristemente indietro in un brutto nodo violento come un catorzolo su un ramo malato. Poi lei levò il viso a guardarlo, e lui si accorse che aveva degli occhiali con una montatura di acciaio che non le aveva mai visto. Rimase lì sulla soglia, la mano ancora al pomello, completamente immobile. Gli sembrò di sentire davvero le parole dentro di sé: Dovevi leggerlo, quel biglietto. Dovevi leggerlo, quel biglietto pensando, ‘Adesso io faccio qualcosa. Io faccio qualcosa’.
Le sentiva ancora, quelle parole, lì in piedi accanto al tavolo con tutte quelle carte sparse e lei che neppure si era alzata, mentre ascoltava la fredda enormità che la ferma, impassibile voce di lei sciorinava, la bocca che ripeteva dopo di lei le parole mentre lui dall’alto guardava le sparse carte enigmatiche, col pensiero che scivolava via inarrestabile e vuoto, domandandosi che cosa volesse dire quel foglio e che cosa volesse dire quell’altro. «Al college» disse la bocca di lui.
«Sì» disse lei. «Ti accetteranno. Ti accetteranno tutti quanti. Grazie a me. Puoi scegliere quello che vuoi, fra tutti quanti. Non dovremo nemmeno pagare».
«Al college» disse la bocca di lui. «Un college per negri. Io».
«Sì. Dopo puoi andare a Memphis. Puoi studiare legge nello studio di Peeble. Ti insegnerà legge. Poi potrai prendere in mano tutti gli affari legali. Tutto quanto, tutto quello che fa lui, che fa Peeble».
«E poi imparare legge nello studio di un avvocato negro» disse la bocca di lui.
«Sì. Poi passerò a te tutti gli affari, tutti i soldi. Tutti quanti. Così quando hai bisogno di soldi per te potrai... sapresti come fare; un avvocato sa come fare in maniera che... Li aiuteresti a uscire dall’oscurità e nessuno ti potrebbe accusare o biasimarti anche se scoprissero... Anche se tu non restituissi... ma potresti restituirli e nessuno verrebbe mai a saperlo...».
«Ma un college per negri, un avvocato negro» disse la voce di lui, bassa, neppure polemica; soltanto insistente. Non si guardavano; lei non aveva alzato gli occhi da quando era entrato.
«Diglielo» disse lei.
«Dirlo ai negri che sono un negro anch’io?». Adesso lei lo guardò, il viso calmissimo. Era il viso di una vecchia, adesso.
«Sì. Dovrai farlo. Così non ti faranno pagare nulla. Grazie a me».
Allora fu come se improvvisamente lui dicesse alla propria bocca: ‘Piantala. Piantala con queste sciocchezze. Fa’ parlare me’. Si piegò in avanti. Lei non si mosse. I loro visi non distavano neanche venti centimetri: uno freddo, di un biancore come di morte, fanatico, folle; l’altro colore della pergamena, il labbro arricciato a formare un rigido ghigno silenzioso. Disse, piano: «Sei vecchia. Non me ne ero mai accorto. Una vecchia. Hai del grigio nei capelli». Immediatamente lei gli diede uno schiaffo, senza che il resto del corpo si muovesse affatto. Lo schiaffo fece un suono piatto; il pugno di lui venne subito dopo, come un’eco. La colpì, poi in quella lunga ventata la tirò su dalla seggiola e la tenne davanti a sé, ferma, neanche un guizzo sul viso immobile, mentre lo investiva la lunga ventata della rivelazione. «Non aspetti nessun bambino» disse. «Non l’hai mai aspettato. Non hai nulla, solo che sei vecchia. Sei solo invecchiata, t’è successo e ormai è troppo tardi. Non è altro che questo». La lasciò andare e la colpì un’altra volta. Lei cadde rannicchiata sul letto, gli occhi levati su di lui, e di nuovo la colpì in faccia e standole sopra le disse le parole che un tempo le piaceva tanto sentirgli sulle labbra, che un tempo diceva sempre di assaporarvele, un murmure osceno e carezzevole. «Tutto qui. È solo che sei finita. Non servi più a nulla. Tutto qui».
Lei giaceva sul letto, sul fianco, la testa girata a guardarlo da sopra la bocca sanguinante. «Forse sarebbe meglio se fossimo morti, tutti e due» disse lei.
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Vedeva il biglietto posato sulla coperta appena apriva la porta. Poi andava, lo prendeva, e lo apriva. A quel punto ricordava il buco nel palo dello steccato come qualcosa di cui aveva sentito parlare, qualcosa che era successo in una vita diversa da quella che aveva mai vissuto. Perché la carta, la forma, l’inchiostro, erano gli stessi. Non erano mai stati lunghi, quei biglietti; non erano lunghi adesso. Adesso però non contenevano niente che evocasse implicite promesse, ricchi e irripetibili piaceri. Adesso erano più brevi di un epitaffio, e più stringati di un ordine.
Il primo impulso era quello di non andare. Era convinto di non avere il coraggio di andarci. Poi capiva che non osava non andarci. Non si cambiava più, ormai. Con la tuta macchiata di sudore traversava il tardo crepuscolo di maggio e entrava in cucina. La tavola non era più apparecchiata per lui, ormai. A volte passando le dava un’occhiata e pensava, ‘Mio Dio. Quand’è che mi son seduto qui a mangiare in pace’. E non riusciva a ricordarlo.
Entrava in casa e saliva le scale. Già sentiva la sua voce. Cresceva mentre lui saliva e finché arrivava alla porta della camera. La porta era sempre chiusa a chiave; dall’altra parte veniva la continua voce monotona. Non distingueva le parole; soltanto l’interminabile, monotono mormorio... Non osava tentare di distinguere le parole. Non osava tentare di capire che cosa stava facendo, lei. Così restava lì fermo, in piedi a aspettare, e dopo un po’ la voce cessava e lei apriva la porta e lui entrava. Passando accanto al letto guardava il pavimento lì accanto e gli sembrava di distinguere l’impronta dei ginocchi, e strappava via gli occhi come se quello che avevano guardato fosse la morte.
Di solito la lampada non era stata ancora accesa. Non si sedevano. Ancora una volta rimanevano in piedi a parlare, come facevano due anni prima; in piedi nel crepuscolo mentre la voce di lei ripeteva il suo discorso: «... non al college, allora, se non vuoi andarci... Fanne a meno... La tua anima. L’espiazione per...». E lui che aspettava, freddo, immobile, fino a che lei aveva finito: «... l’inferno... per tutta l’eternità...».
«No» diceva lui. E lei ascoltava, anch’essa in silenzio, e lui sapeva che non era convinta così come lei sapeva che nemmeno lui lo era. Tuttavia nessuno dei due si arrendeva; peggio: non lasciava l’altro in pace; lui neanche se ne andava. E restavano lì in piedi ancora per un po’ nel silenzioso crepuscolo popolato, come dai loro stessi lombi, da una miriade di spettri di peccati e piaceri defunti, guardando l’uno l’immobile, evanescente viso dell’altro, stanco, spento, e indomito.
Poi se ne andava. E prima che dietro di lui la porta si richiudesse e il chiavistello venisse tirato, di nuovo sentiva la piatta, monotona voce disperata, a dire che cosa e a che cosa o a chi, non osava capire o sospettare. E così, quella notte di agosto di tre mesi dopo, mentre seduto in silenzio fra le ombre del giardino in rovina ascoltava l’orologio del tribunale a due miglia di distanza che batteva le dieci e poi le undici, era convinto, paradossalmente, di servire, in totale passività, quella fatalità nella quale credeva di non credere. Si stava dicendo Ho dovuto farlo già al passato; ho dovuto farlo. L’ha detto anche lei
Lo aveva detto due sere prima. Trovò il biglietto e andò da lei. Mentre saliva le scale la voce monotona era più forte, risuonava più forte e più chiara del solito. Quando arrivò in cima alle scale vide perché. La porta questa volta era aperta, e lei, in ginocchio accanto al letto, non si alzò quando lui entrò. Non si mosse; la voce non cessò. Il capo non era chino. Il viso era levato, quasi con orgoglio, la posa di formale abiezione parte integrante di quell’orgoglio; e nel crepuscolo, quella piatta, serena voce di abnegazione. Non sembrava si fosse accorta di lui fino a che terminò una frase. Allora volse la testa. «Inginocchiati insieme a me» disse.
«No» disse lui.
«Inginocchiati» disse lei. «Non c’è neanche bisogno che tu Gli parli. Inginocchiati e basta. Basta che tu faccia il primo passo».
«No» disse lui. «Me ne vado».
Lei non si mosse. Guardava in su verso di lui. «Joe» disse. «Aspetta, ti prego. Almeno questo?».
«Sì» disse lui. «Aspetto. Ma fai alla svelta».
Riprese a pregare. Parlava a bassa voce, con quella abiezione piena di orgoglio. Quando era necessario usare i simboli verbali che lui le aveva insegnato, li usava, li diceva esplicitamente e senza esitazione, parlando a Dio come se Egli fosse un uomo lì in quella stanza con altri due uomini. Parlava di sé e di lui come di altre due persone, la voce calma, monotona, asessuata. Poi tacque. Si alzò, in silenzio. Rimasero in piedi nel crepuscolo, una di fronte all’altro. Questa volta non pose neanche la domanda; lui non ebbe neanche bisogno di rispondere. Dopo un po’ lei disse, a bassa voce:
«Allora resta solo un’ultima cosa da fare».
«Resta solo un’ultima cosa da fare».
‘Così è tutto fatto, tutto finito’ pensò lui in silenzio, seduto nell’ombra fitta dei cespugli, udendo l’ultimo rintocco del lontano orologio cessare e svanire. Era un posto dove l’aveva raggiunta, scovata in una di quelle notti selvagge di due anni prima. Ma era stato in un’altra epoca, un’altra vita. Adesso tutto era calmo e silenzioso, e fresco il sospiro della terra feconda. L’oscurità era una miriade di voci che venivano da tutto il tempo che aveva conosciuto, come se tutto il passato fosse un disegno piatto. E che andava avanti: domani notte, tutti i domani, erano parte di quel disegno piatto, che andava avanti. Lo pensò sbalordito, in silenzio: che andava avanti all’infinito, familiare, perché quello che era sempre stato era lo stesso di tutto quello che sarebbe stato, perché il domani che sarebbe stato e il domani che era stato sarebbero stati gli stessi. Poi era arrivato il momento.
Si alzò. Uscì dall’ombra, girò intorno alla casa e entrò in cucina. La casa era buia. Non era stato nella casupola fin dalla mattina presto e non sapeva se lei gli avesse lasciato un biglietto oppure no, se lo stesse aspettando oppure no. Tuttavia non cercò di fare in silenzio. Era come se non stesse pensando al sonno, o se lei stesse dormendo oppure no. Salì le scale senza fermarsi ed entrò in camera. Quasi all’istante lei parlò dal letto. «Accendi la lampada» disse.
«Non c’è bisogno di luce» disse lui.
«Accendi la lampada».
«No» disse lui. Era in piedi accanto al letto, il rasoio in mano. Ma ancora non era aperto. Ma lei non disse altro. Poi il proprio corpo gli parve allontanarsi da lui e avvicinarsi al tavolo. Le sue mani posarono il rasoio sul piano, trovarono la lampada, sfregarono il fiammifero. Lei era a letto, seduta contro la testiera. Sulla camicia da notte aveva uno scialle tirato contro il petto. Le braccia erano piegate sopra la scialle, le mani nascoste alla vista. Lui rimase fermo al tavolo. Si guardarono.
«Ti inginocchi insieme a me?» disse lei. «Non sono io che te lo chiedo».
«No» disse lui.
«Non te lo chiedo. Non sono io che te lo chiedo. Inginocchiati insieme a me».
«No».
Si guardavano. «Joe» disse lei. «Per l’ultima volta. Non sono io che te lo chiedo. Ricordatelo. Inginocchiati insieme a me».
«No» disse lui. Allora vide le sue braccia aprirsi e la mano destra uscire da sotto lo scialle. Impugnava una pistola vecchio stile, a colpo unico, quasi altrettanto lunga e più pesante di un fucile corto. Tuttavia sulla parete la sua ombra e quella del braccio e della mano di lei, mostruose, non oscillavano affatto, il cane armato anch’esso mostruoso, un uncino crudele tirato indietro e pronto a scattare come la testa arcuata di un serpente; non tremava affatto. Né tremavano i suoi occhi, immobili come il tondo anello nero della bocca della pistola. Ma non c’era rabbia, in essi, non c’era furore. Erano calmi e immobili come tutta la pietà, tutta la disperazione, tutta la convinzione. Ma lui non li stava guardando. Stava guardando l’ombra della pistola sulla parete; stava guardando quando l’ombra del cane armato scattò via.
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Immobile in mezzo alla strada, la mano destra levata nel bagliore della macchina che si avvicinava, in realtà non si aspettava che si fermasse. Eppure si fermò, con una improvvisa strisciata stridente quasi ridicola. Era una vecchia macchinina sconquassata. Quando lui si avvicinò, nel bagliore riflesso dei fari due facce giovani parvero emergere come due pallidi palloncini atterriti, la più vicina, quella della ragazza, tirata indietro con un fievole, diffuso terrore. Ma al momento Christmas non vi fece caso. «Che ne dite se vengo con voi fin dove arrivate?» disse. Loro non dissero parola, guardandolo con quell’immobile curioso terrore che lui non notava. Così, aprì la portiera per salire dietro.
Quando lo fece, la ragazza incominciò a emettere un gemito soffocato che un istante dopo divenne molto più forte, come se la paura prendesse coraggio. L’automobile era già in moto; sembrò balzare in avanti, e il ragazzo, senza togliere le mani dal volante o girare la testa verso la ragazza, sibilò: «Zitta! Mettiti zitta! È la nostra sola speranza! Ti metti zitta sì o no?». Christmas non sentì neanche questo. Se ne stava seduto appoggiato allo schienale, adesso, del tutto inconsapevole di stare viaggiando proprio dietro un terrore disperato. Pensò soltanto, con momentaneo interesse, che quella piccola automobile stava viaggiando a una velocità parecchio spericolata per una straducola di campagna così stretta.
«Fin dove porta questa strada?» disse.
Il ragazzo glielo disse, facendo il nome della stessa cittadina che gli aveva fatto il ragazzo negro quel pomeriggio di tre anni addietro, quando per la prima volta lui aveva visto Jefferson. La voce del ragazzo era secca e debole. «È lì che vuole andare, capo?».
«Va bene» disse Christmas. «Sì. Sì. Va bene lì. Mi va bene. Andate lì, voi?».
«Sicuro» disse il ragazzo, con quel suo debole tono piatto. «Dove dice lei». Accanto a lui la ragazza ricominciò con quel soffocato verso lamentoso da bestiolina; di nuovo il ragazzo, il viso sempre fisso davanti a sé, l’automobile che correva e sobbalzava, le sibilò: «Zitta! Shhhhhhhh. Zitta! Zitta!». Ma di nuovo Christmas non vi fece caso. Vedeva soltanto le due giovani teste che guardavano rigide davanti a sé nella luce dei fari, dentro la quale il nastro della strada si gettava sbandando e fuggendo. Ma notava i due e la strada che fuggiva senza curiosità; neanche fece attenzione quando si accorse che il ragazzo a quel che pareva gli stava parlando da un po’ di tempo; quanto avessero viaggiato o dove fossero, non sapeva. Il ragazzo adesso parlava lento, ripetendosi, come se ogni parola venisse scelta con attenzione in quanto semplice, e pronunciata lentamente e chiaramente per l’orecchio di uno straniero: «Senta, capo. Quando svolto quassù. È solo una scorciatoia. Una breve scorciatoia per una strada migliore. Ora prendo la scorciatoia. Quando arrivo lì alla scorciatoia. Per la strada migliore. Così arriviamo prima. Capito?».
«Va bene» disse Christmas. L’automobile proseguiva sobbalzando, sbandando alle curve e su per le salite e di nuovo volando giù come se la terra fosse venuta a mancare sotto di loro. Cassette della posta sui pali lungo la strada si avventavano nella luce dei fari e guizzavano via. Di tanto in tanto oltrepassavano una casa buia. Di nuovo il ragazzo stava parlando:
«Adesso, questa scorciatoia che le dicevo. È proprio qui in fondo. Svolto qui. Ma non è che lascio la strada. Faccio solo un tratto breve fino a una strada migliore. Capito?».
«Va bene» disse Christmas. Poi, senza alcuna ragione, disse: «Dovete vivere qui da queste parti».
Ora fu la ragazza a parlare. Si girò sul sedile, di scatto, la faccina esangue dall’ansia e dal terrore, con la cieca disperazione di un ratto: «Sì, proprio così!» gridò. «Tutti e due! Proprio laggiù! E quando il mio babbo e i miei fratelli...». La sua voce cessò, interrotta di colpo; Christmas vide la mano del ragazzo schiaffata sulla sua bocca, e le mani di lei che gli tiravano il polso mentre sotto la mano la sua voce strozzata soffocava e gorgogliava. Christmas si piegò in avanti.
«Qui» disse. «Scendo qui. Potete lasciarmi qui».
«Ecco cos’hai combinato!» anche il ragazzo gridò, flebile, anche lui con una rabbia disperata. «Se fossi stata zitta...».
«Fermi qui» disse Christmas. «Non vi faccio niente, a nessuno dei due. Voglio solo scendere». Di nuovo l’automobile si arrestò con una strisciata improvvisa. Il motore tuttavia continuava a andare, e la macchina schizzò di nuovo via prima che lui avesse lasciato il predellino; dovette saltare in avanti e correre per qualche passo per ritrovare l’equilibrio. Mentre lo faceva, qualcosa di pesante e di duro lo colpì al fianco. L’automobile proseguì di corsa, svanendo a tutta velocità. Ne tornò, fluendo nell’aria, il lamento stridulo della ragazza. Poi era scomparsa; l’oscurità, la polvere adesso impalpabile, scese di nuovo, e così il silenzio sotto le stelle d’estate. L’oggetto che lo aveva colpito gli aveva dato una bella botta; poi scoprì che era attaccato alla sua mano. Alzando la mano, si accorse che impugnava l’antica, pesante pistola. Non sapeva di averla; non ricordava affatto di averla raccolta, né perché. Eppure eccola lì. ‘E ho fatto cenno a quell’automobile con la destra’ pensò. ‘Naturale che lei... che loro...’. Tirò indietro la destra come per gettare, la pistola in equilibrio nel palmo. Poi si arrestò, e sfregò un fiammifero ed esaminò la pistola nel misero bagliore morente. Il fiammifero finì di bruciare e si spense, e tuttavia gli parve di continuare a vedere quella vecchia cosa con le due camere cariche: quella sulla quale il cane era già caduto e che non era esplosa, e l’altra sulla quale non era caduto ma nei piani sarebbe dovuto cadere. ‘Per lei e per me’ disse. Il braccio tornò in avanti, e gettò. Udì la pistola abbattersi con un unico schianto nel sottobosco. Poi non venne più alcun suono. ‘Per lei, e per me’.