13

Entro cinque minuti da quando il contadino scoprì l’incendio, cominciò ad arrivare la gente. Alcuni, anch’essi avviati in città sui loro carri per passarvi il sabato, si fermarono, come lui. Alcuni vennero a piedi dalle vicinanze immediate. Era una zona di casupole di negri e di campi malridotti e sfiniti, dalla quale una squadra di poliziotti non sarebbe riuscita a cavar fuori dieci persone fra uomini donne e bambini, eppure adesso in capo a trenta minuti produsse, come dal nulla, gruppetti e comitive che andavano da singoli individui a intere famiglie. Altri ancora arrivavano dalla città a tutta velocità su automobili strombazzanti. Fra questi c’era lo sceriffo di contea – un uomo grasso e rilassato, con una testa solida e intelligente e un aspetto benevolo –, che spinse via tutti quelli che si affollavano a guardare il corpo sul lenzuolo con lo stupore statico e bambinesco col quale gli adulti contemplano il loro ineludibile ritratto. Fra essi gli yankee di passaggio e i poveri bianchi e anche quelli del sud che per un po’ di tempo avevano vissuto nel nord, i quali blateravano che di sicuro era un anonimo delitto negro commesso non da un negro ma dal Negro, e che sapevano, erano convinti, e speravano che fosse stata anche violentata: almeno una volta prima che le venisse tagliata la gola e almeno una volta dopo. Lo sceriffo arrivò, dette anche lui un’occhiata, e poi mandò via il corpo, nascondendo quella povera cosa a tutti gli occhi.

Dopodiché non ebbero niente da guardare eccetto il punto dove prima giaceva il corpo, e l’incendio. E ben presto nessuno fu in grado di ricordare con esattezza dove fosse stato posto il lenzuolo, quale punto del terreno avesse coperto, e così non rimase che guardare l’incendio. Così guardarono l’incendio, con quello stesso ottuso stupore che si erano portati dietro dalle vecchie caverne fetide dove era iniziata la conoscenza, quasi che, come la morte, non avessero mai visto il fuoco prima di allora. Poco dopo arrivò, eroicamente, il carro dei pompieri, rumoroso, con tanto di sirene e di campanelle. Era nuovo, verniciato di rosso, con guarnizioni dorate, una sirena azionata a mano e una campana che in quanto al colore era dorata e in quanto al tono serena, arrogante e orgogliosa. Uomini e ragazzi a testa scoperta vi stavano attaccati con lo stesso stupefacente disprezzo delle leggi fisiche che hanno le mosche. Aveva delle scale meccaniche che al semplice tocco di una mano scattavano ad altezze prodigiose, come certi cappelli a cilindro usati a teatro; solo che ormai non c’era più niente verso cui scattare. Aveva dei rotoli di manichette tutti in ordine e vergini, che evocavano le pubblicità delle compagnie telefoniche sulle riviste popolari;6 ma non c’era niente a cui attaccarle e niente che potesse scorrervi dentro. Così quegli uomini scappellati che avevano abbandonato banconi e scrivanie saltarono giù, compreso quello che azionava la sirena. Si avvicinarono anche loro, e gli furono mostrati i vari punti dov’era stato disteso il lenzuolo, e alcuni, con la pistola già in tasca, cominciarono a far comizi per crocefiggere qualcuno.

Ma non c’era nessuno. Lei aveva vissuto una vita appartata, aveva talmente badato agli affari propri che lasciava alla cittadina dove era nata, vissuta e morta come un’estranea, come una forestiera, un’eredità, diciamo così, di stupore e di sdegno per la quale, benché alla fine avesse fornito loro una scampagnata emotiva, quasi una festa romana, non l’avrebbero mai perdonata e lasciata morire in pace e in silenzio. Questo, proprio no. La pace non è così frequente. Per cui si agitavano e facevano capannello, gridavano chiedendo vendetta, convinti che le fiamme, il sangue, quel corpo che era morto tre anni prima e soltanto adesso aveva ricominciato a vivere chiedessero vendetta, non sapendo che sia la rapita intima furia delle fiamme sia l’immobilità del corpo asseveravano il raggiungimento di una regione al di là delle ferite e del male dell’uomo. Questo, proprio no. Perché l’altra cosa era tanto bella da credere. Meglio degli scaffali e dei banchi pieni della solita roba comprata non perché il proprietario la desiderasse o la apprezzasse, perché potesse trarre un qualche piacere dall’averla, ma allo scopo di indurre con l’inganno qualcun altro a comprarla, e così guadagnarci; e che di quando in quando era costretto a contemplare sia la roba che ancora non aveva venduto sia quelli che potevano comprarla ma ancora non l’avevano comprata, con rabbia e magari sdegno e magari anche disperazione. Meglio degli studi che sapevano di chiuso, dove gli avvocati stavano in attesa annidati fra gli spettri di antiche brame e antiche menzogne, o dove i medici stavano in attesa con coltelli affilati e aspre pozioni, dicendo, convinti che l’uomo debba esserne convinto senza ricorso ad ammonimenti a stampa, che loro lavoravano per quello scopo il cui raggiungimento finale li avrebbe lasciati senza assolutamente più nulla da fare. E arrivarono anche le donne, quelle senza nulla da fare, coi loro vestiti variopinti e a volte messi in fretta, gli sguardi segreti, appassionati e brillanti e i seni segreti e frustrati (loro che hanno sempre amato la morte più della pace) a punteggiare con un’infinità di duri tacchi sottili il costante mormorio Chi è stato? Chi è stato? frasi come magari È ancora in libertà? Ah. Davvero? Davvero?

Anche lo sceriffo fissava le fiamme esasperato e stupefatto, perché non c’era alcuna scena da esaminare. Ancora non pensava di essere stato frustrato da un fattore umano. Era l’incendio. Gli sembrava che l’incendio fosse nato da sé a quel solo fine e a quel solo proposito. Gli sembrava che la cosa a causa della quale e grazie alla quale egli aveva avuto una successione di antenati lunga abbastanza da farlo esistere, si fosse resa complice del crimine. Così continuava ad andare avanti e indietro, sconcertato e irritato, intorno a quell’incurante monumento che aveva il colore sia della speranza sia della catastrofe, finché un agente non venne a dirgli di aver scoperto in una casupola dietro la casa delle tracce di recente occupazione. E immediatamente il contadino che aveva scoperto l’incendio (ancora non era arrivato in città; il suo carro non era avanzato di un centimetro da quando ne era sceso due ore prima, e adesso lui si aggirava fra la gente, i capelli arruffati, gesticolando, sul viso una truce espressione spenta e istupidita, e la voce talmente rauca da esser ridotta a un bisbiglio) si ricordò che quando aveva sfondato la porta, dentro la casa aveva visto un uomo.

«Un bianco, eh?» disse lo sceriffo.

«Sissignore. Che barcollava nell’ingresso come fosse appena rotolato giù per le scale. Cercava di impedirmi di salire al piano di sopra. Diceva che era appena stato su lui, e che su non c’era nessuno. E quando sono tornato giù, era sparito».

Lo sceriffo guardò quelli intorno. «Chi ci viveva in quella casupola?».

«Io non sapevo che ci vivesse nessuno» disse l’agente. «Negri, mi sa. Poteva averci dei negri che vivevano in casa con lei, a quanto ho sentito. Quello che mi meraviglia è che ci sia voluto tanto tempo prima che uno di quelli la facesse fuori».

«Portatemi un negro» disse lo sceriffo. L’agente e due o tre degli altri gli portarono un negro. «Chi è che ci viveva in quella casupola?» disse lo sceriffo.

«Non lo so, signor Watt» disse il negro. «Mai fatto caso. Neanche sapevo che ci viveva qualcuno».

«Portatelo laggiù» disse lo sceriffo.

Adesso si accalcavano tutti intorno allo sceriffo, all’agente e al negro, con occhi avidi nei quali il semplice prolungarsi di fiamme vuote aveva cominciato a perdere interesse, con facce tutte identiche. Era come se i loro distinti cinque sensi fossero diventati un unico organo della vista, come un’apoteosi, le parole che volavano fra loro generate dal vento o dall’aria È lui? È lui quello che l’ha fatto? Lo sceriffo l’ha preso. Lo sceriffo l’ha già preso Lo sceriffo li guardò. «Andate via» disse. «Tutti quanti. Andate a guardare l’incendio. Se ho bisogno di voi, posso mandarvi a chiamare. Andate via». Si girò e si avviò coi suoi verso la casupola. Dietro di lui, quelli respinti rimasero lì in gruppo a guardare i tre bianchi e il negro entrare nella casupola e richiudere la porta. Dietro di loro a sua volta l’incendio che stava morendo mugghiava, riempiendo però l’aria non più forte delle voci e molto più di quelle, nascendo dal nulla Perdìo, se è lui, cosa stiamo qui a non far nulla? Ammazzare una donna bianca quel figlio di Nessuno di loro era mai entrato in quella casa. Quando lei era viva, non avrebbero mai permesso alle loro mogli di andare a farle visita. Quando erano più giovani, bambini (l’avevano fatto anche alcuni dei loro padri) le avevano gridato dietro per la strada, «Te la fai coi negri! Te la fai coi negri!».

Nella casupola lo sceriffo si sedette su una delle brande, pesantemente. Sospirò: un uomo grosso come un cassettone, con l’inerzia totale e granitica di un cassettone. «Ora voglio sapere chi ci vive, qui».

«Gliel’ho già detto, non lo so» disse il negro. La voce era un po’ risentita, parecchio allarmata, velatamente allarmata. Guardava lo sceriffo. Gli altri due bianchi li aveva dietro di sé, dove non poteva vederli. Non si voltava a guardarli, neppure un’occhiata. Osservava la faccia dello sceriffo come uno osserva uno specchio. Forse lo vide, come in uno specchio, prima che arrivasse. O forse no, perché se un mutamento, un guizzo, vi fu sulla faccia dello sceriffo, fu niente più di un guizzo, appunto. Ma il negro non si voltò a guardare; quando la cinghia gli si abbatté sulla schiena, sulla sua faccia vi fu soltanto una smorfia, improvvisa, chiara, repentina, che fece saltar su gli angoli della bocca e mostrare per un istante i denti come se sorridesse. Poi la faccia tornò calma, imperscrutabile.

«Mi sa che non ti sei sforzato abbastanza di ricordare» disse lo sceriffo.

«Non posso ricordarlo perché non lo so» disse il negro. «Neanche ci vivo da queste parti. Lo dovete sapere dove sto, voi bianchi».

«Il signor Buford dice che vivi appena un po’ più di qui» disse lo sceriffo.

«C’è un sacco di gente che vive giù di là. Il signor Buford dovrebbe saperlo dove sto».

«Balle» disse l’agente. Si chiamava Buford. Era lui quello che teneva in mano la cinghia, con la fibbia all’estremità. La teneva pronta. Sembrava un cocker che attendeva l’ordine di saltare in acqua.

«Forse sì; forse no» disse lo sceriffo. Studiava il negro. Era immobile, enorme, inerte, facendo avvallare le molle. «Direi che ancora non si rende conto che non scherzo. Senza contare quelli là fuori che non hanno una prigione dove sbatterlo se dovesse saltar fuori qualcosa che non gli va giù. E se ce l’avessero, neanche starebbero a sbattercelo dentro». Forse nei suoi occhi vi fu di nuovo un segno, un segnale; forse no. Forse il negro lo vide; forse no. La cinghia si abbatté un’altra volta, la fibbia che gli raschiava la schiena. «Te lo ricordi, adesso?» disse lo sceriffo.

«Sono due bianchi» disse il negro. La voce era fredda, neanche risentita, nulla. «Non so chi sono, non so cosa fanno. Non sono affari miei. Visti non l’ho mai visti. Ho solo sentito dire che c’erano due bianchi che vivevano qui. Non me ne importava nulla di chi fossero. Ma è tutto quello che so. Potete anche cavarmi il sangue a forza di frustate, ma è tutto quello che so».

Di nuovo lo sceriffo sospirò. «Basta così. Mi sa che è vero».

«È quel Christmas, quello che lavorava alla segheria, e un altro tale che si chiama Brown» disse il terzo. «Potevi prendere il primo a Jefferson con l’alito giusto e ti diceva la stessa cosa».

«E è vero anche questo».

Ritornò in città. Quando la folla si rese conto che lo sceriffo se ne stava andando, ebbe inizio un esodo generale. Era come se non ci fosse più niente da guardare. Il corpo non c’era più, e adesso anche lo sceriffo se ne stava andando. Era come se si portasse dentro, da qualche parte in quella massa di carne inerte e sospirosa, il segreto stesso: quello che li smuoveva e li provocava come con una promessa di qualcosa al di là della trivialità delle viscere piene e della monotonia quotidiana. Così non c’era ormai più nulla da guardare se non l’incendio; ormai erano tre ore che lo guardavano. Ci avevano fatto l’abitudine, ormai; ci erano avvezzi; ormai era diventata una parte permanente della loro vita così come della loro esperienza, starsene lì sotto la sua colonna di fumo senza vento, più alta e altrettanto inattaccabile di un monumento al quale si poteva tornare in qualsiasi momento. Così quando la carovana arrivò in città aveva qualcosa della dignitosa arroganza di un corteo al seguito d’un catafalco, con l’automobile dello sceriffo in testa, e le altre automobili che strombazzavano e belavano dietro a quella dello sceriffo in mezzo a tutto il loro polverone. A un incrocio nei pressi della piazza il corteo fu bloccato per un momento dal carro di un contadino che si era fermato per far scendere un passeggero. Guardando fuori, lo sceriffo vide una giovane scendere lenta e cauta dal carro, con la goffa cautela della gravidanza avanzata. Poi il carro si fece da parte; il corteo proseguì, attraversando la piazza dove già il cassiere della banca aveva tirato fuori dalla camera corazzata la busta che la defunta aveva depositato nelle sue mani e che portava scritto Da aprire alla mia morte. Joanna Burden Quando lo sceriffo entrò nel suo ufficio, il cassiere era lì che aspettava con la busta e quanto conteneva. Era un unico foglio sul quale era scritto, con la stessa calligrafia della busta Avvertire Avvocato E.E. Peebles – Beale Street, Memphis, Tennessee, e Nathaniel Burrington, – St., Exeter, New Hampshire Nient’altro.

«Questo Peebles è un avvocato negro» disse il cassiere.

«Davvero?» disse lo sceriffo.

«Sì. Cosa vuole che faccia?».

«Sarà meglio che faccia quello che dice quel foglio, mi sa» disse lo sceriffo. «Mi sa che sarà meglio lo faccia io». Mandò due telegrammi. Mezzora dopo ricevette la risposta da Memphis. L’altra arrivò due ore più tardi; dieci minuti dopo, in città si sapeva che il nipote della signorina Burden, nel New Hampshire, offriva una ricompensa di mille dollari per la cattura dell’assassino. Alle nove di sera l’uomo che il contadino aveva trovato nella casa incendiata quando aveva sfondato la porta d’ingresso si fece vivo. Sul momento non sapevano che si trattava di quell’uomo. Lui non glielo disse. Sapevano solo che un tale che stava in città da poco e che conoscevano come un contrabbandiere di nome Brown, e neanche un granché come contrabbandiere, era comparso in piazza tutto eccitato, cercando dello sceriffo. Poi i tasselli cominciarono a andare a posto. Lo sceriffo sapeva che in qualche modo Brown era associato a un altro, un forestiero di nome Christmas a proposito del quale, benché vivesse a Jefferson da tre anni, si sapeva ancora meno che di Brown; soltanto ora lo sceriffo venne a sapere che Christmas aveva vissuto per tre anni nella casupola dietro la casa della signorina Burden. Brown voleva parlare; continuava a parlare, ad alta voce, insistente; fu subito chiaro che quello che voleva era rivendicare i mille dollari della ricompensa.

«Vuole essere testimone per l’accusa?» disse lo sceriffo.

«Io non voglio essere niente» disse Brown, aspro, rauco, la faccia un po’ stralunata. «Io so chi l’ha fatto e quando ricevo la mia ricompensa racconterò tutto».

«Lei acchiappi quello che l’ha fatto, e poi riceve la ricompensa» disse lo sceriffo. Così per sicurezza lo misero dentro. «Anche se mi sa che non ce n’è bisogno» disse lo sceriffo. «Mi sa che finché quei mille dollari sono dove lui li può fiutare, non si riuscirebbe a cacciarlo via neanche volendo». Dopo che Brown fu portato via, sempre rauco, sempre indignato, sempre a gesticolare, lo sceriffo telefonò a una cittadina vicina dove avevano una coppia di segugi. I cani sarebbero arrivati col treno della mattina presto.

Sulla banchina desolata, nella triste alba di quella domenica mattina, c’erano trenta o quaranta uomini ad aspettare quando arrivò il treno, i finestrini illuminati che fuggivano e poi d’un tratto si arrestavano, stridendo. Era un treno espresso, e non sempre faceva sosta a Jefferson. Si fermò il tempo necessario per scaricare i due cani: mille costose tonnellate di ferro strano e complicato che irrompevano, abbaglianti e fragorose, nel bel mezzo di un silenzio quasi impressionante pieno degli insignificanti suoni umani, allo scopo di vomitare due fantasmi scarni, spauriti, gli orecchi ciondolanti, il muso mite, che tristi e abbietti guardavano intorno a sé le stanche, pallide facce di uomini che in due giorni avevano dormito ben poco, e che li circondavano con un’aria di terribile, ansiosa impotenza. Era come se la stessa indignazione iniziale per l’assassinio si portasse dietro nella sua scia e facesse di ogni gesto susseguente qualcosa di mostruoso, di paradossale e di sbagliato, di per sé contro ragione e contro natura.

Il sole stava sorgendo quando tutta la squadra arrivò alla casupola dietro le travi carbonizzate e ormai fredde della casa. I cani, vuoi che prendessero coraggio dalla luce e dal calore del sole o che fossero contagiati dall’eccitazione tesa e carica degli uomini, cominciarono a balzar su e ad abbaiare intorno alla casupola. Fiutando rumorosamente, di concerto presero una pista, trascinandosi dietro quello che teneva i guinzagli. Corsero uno accanto all’altro per un centinaio di metri, dopodiché si fermarono, si misero a scavare furiosamente nella terra, e rivelarono un buco dove qualcuno di recente aveva sepolto delle scatolette di cibo svuotate. Tirarono indietro i cani a forza. Li trascinarono a una certa distanza dalla casupola e li fecero cercare da un’altra parte. Per un po’ i cani andarono avanti e indietro, mugolando, poi di nuovo presero il via, la lingua penzoloni, sbavando, e trascinandosi dietro a tutta velocità gli uomini affannati e imprecanti fino alla casupola, dove, zampe piantate, teste gettate all’indietro e occhi revulsi, abbaiarono all’ingresso vuoto con l’appassionato abbandono di due baritoni che cantassero un’opera italiana. Gli uomini li riportarono in città in macchina, e dettero loro da mangiare. Quando attraversarono la piazza le campane della chiesa stavano suonando, lente e serene, e per le strade la gente, composta, si muoveva dignitosa sotto i parasole, con le sue bibbie e i libri di preghiere.

Quella sera un giovane, un ragazzo di campagna, venne con suo padre a parlare con lo sceriffo. Il ragazzo raccontò che il venerdì sera tardi stava tornando a casa in automobile, e un uomo lo aveva fermato a due o tre chilometri dalla scena dell’assassinio, una pistola in pugno. Il ragazzo era convinto che sarebbe stato derubato e perfino ammazzato, e raccontò che era sul punto di ingannare l’uomo e fargli permettere di arrivare fino a casa sua, dove intendeva fermare, saltar giù e chiedere aiuto, ma quello aveva sospettato qualcosa e l’aveva costretto a fermarsi e a farlo scendere. Il padre voleva sapere quanti di quei mille dollari sarebbero toccati a loro.

«Voi acchiappatelo, e si vedrà» disse lo sceriffo. Così svegliarono i cani e li misero in un’altra macchina, e il ragazzo fece vedere dove l’uomo era sceso, e dettero il via ai cani che immediatamente si precipitarono nella boscaglia e con quella loro evidente infallibilità per il metallo in qualsiasi forma, quasi subito trovarono la vecchia pistola con le sue due camere cariche.

«È una di quelle pistole a due colpi dell’epoca della Guerra Civile» disse l’agente. «Uno dei colpi è stato tirato, ma non è partito. Secondo lei cosa ci faceva, con un affare così?».

«Sciogliete quei cani» disse lo sceriffo. «Forse quei guinzagli gli danno noia». Fecero come aveva detto. Adesso i cani erano liberi; mezzora dopo si erano persi. Non furono gli uomini a perdere i cani; furono i cani a perdere gli uomini. Erano soltanto al di là di un fiumicello dall’altra parte di un crinale, e gli uomini li udivano chiaramente. Non abbaiavano, adesso, orgogliosi, sicuri e magari contenti. Il suono che adesso facevano era un lamento protratto e disperato, mentre gli uomini continuavano a chiamarli. Evidentemente, però, gli animali non li sentivano. Si distinguevano entrambe le loro voci, tuttavia quell’abbietto, ritmato lamento sembrava provenire da un’unica gola, come se le due bestie stessero accucciate fianco a fianco. E fu così che dopo un po’ gli uomini li trovarono, accucciati in un fosso. Oramai le loro voci sembravano quasi quelle di due bambini. Gli uomini rimasero lì accovacciati finché fece abbastanza chiaro da ritrovare la strada fino alle automobili. Poi era il lunedì mattina.

 

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Lunedì la temperatura cominciò a salire. Martedì sera, dopo una giornata caldissima, l’oscurità è umida, immobile, opprimente; appena entra, Byron sente che le narici gli si irrigidiscono e si sbiancano a causa del forte odore di rinchiuso di quella casa tenuta da un uomo. E quando Hightower si avvicina, l’odore di carne grassa non lavata e di vestiti non freschi – quell’odore di sciatta sedentarietà, di statica carne troppo abbondante troppo poco lavata – è quasi insopportabile. Entrando, Byron pensa come ha pensato altre volte: ‘È un suo diritto. Può non essere come sono io, ma è come è lui e è un suo diritto’. E ricorda che una volta gli era sembrato di trovare la risposta, come per ispirazione o per intuizione: ‘È l’odore della bontà. Certo che è un puzzaro, per noi che siamo cattivi e viviamo nel peccato’.

Di nuovo siedono uno di fronte all’altro nello studio, con in mezzo lo scrittoio e la lampada accesa. Byron siede di nuovo sulla seggiola dura, il volto chino, immobile. La sua voce è seria, ostinata: la voce di un uomo il quale sta dicendo qualcosa che non soltanto non farà piacere, ma che non verrà creduta. «Le troverò un altro posto. Un posto più appartato. Dove lei possa...».

Hightower guarda il suo volto chino. «Perché dovrebbe andare da un’altra parte? Quando lì è bella comoda, con una donna a portata di mano se dovesse averne bisogno?». Byron non risponde. Siede senza muoversi, gli occhi abbassati; il volto è ostinato, immobile; guardandolo, Hightower pensa ‘È perché succedono tante cose. Troppe cose. È per questo. L’uomo fa, combina, tanto più di quanto riesca a sopportare o debba sopportare. È così che scopre di poter sopportare qualsiasi cosa. È per questo. È questo che è terribile. Che può sopportare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa’. Hightower osserva Byron. «È soltanto la signora Beard la ragione per cui va via?».

Byron continua a non alzare gli occhi, parlando con quella voce piatta e ostinata: «Ha bisogno di un posto dove sia un po’ come a casa sua. Non le manca molto, e in una pensione, dove per lo più sono tutti uomini... Una stanza dove quando viene il momento sia tranquillo, senza tutti quei maledetti giurati e cavallai su e giù per il corridoio...».

«Capisco» dice Hightower. Osserva il volto di Byron. «E tu vorresti che la prendessi qui con me». Byron fa per parlare, ma l’altro continua: anche il suo tono è freddo, uniforme: «Non funzionerebbe, Byron. Se ci fosse un’altra donna che vive qui. E è un peccato, con tutte queste stanze, la tranquillità. Penso a lei, capisci. Non a me. Non me ne importerebbe nulla di quello che si direbbe, si penserebbe».

«Non è questo che sto chiedendo». Byron non alza gli occhi. Sente che l’altro lo sta osservando. Pensa Lo sa anche lui che non è questo che sto chiedendo. Lo sa. L’ha appena detto. Lo so quello che pensa. Me l’aspettavo, mi sa. Mi sa che non c’è ragione che pensi differente dagli altri, anche su di me «Mi sa che dovrebbe saperlo». Forse lo sa. Ma Byron non alza gli occhi per vedere. Continua a parlare con quella sua voce piatta, guardando in basso, mentre di là dello scrittoio Hightower, seduto appena un po’ più che eretto, guarda il viso sottile, battuto dall’aria aperta, dilavato dal lavoro, dell’uomo che ha davanti a sé. «Non voglio coinvolgerla in qualcosa che non la riguarda. Lei non l’ha neanche vista, e mi sa che neanche la vedrà mai. Come mi sa che non avrà mai neanche visto lui tanto da riconoscerlo. È solo che pensavo...». La sua voce cessa. Di là dello scrittoio il sacerdote, rigido, lo guarda, in attesa, senza offrire di venirgli in aiuto. «Quando si tratta di non fare, mi sa che un consiglio uno può anche darselo da sé. Ma quando si tratta di fare, mi sa che uno farebbe meglio a ascoltare tutti i consigli che può. Ma non è che voglia coinvolgerla. Non voglio che si preoccupi».

«Penso di saperlo, questo» dice Hightower. Osserva il viso chino dell’altro. ‘Non sono più in vita’ pensa. ‘Per questo è inutile anche solo cercare di immischiarsi, di interferire. Non mi ascolterebbe più di quanto mi ascolterebbero e mi darebbero retta quella donna e quell’uomo (già, e quel bambino) se cercassi di tornare in vita’. «Ma mi hai detto che quella donna sa che lui è qui».

«Sì» dice Byron, meditabondo. «Proprio laggiù dove pensavo che l’occasione di far del male a un uomo o una donna o un bambino non mi avrebbe trovato. E non era ancora arrivata che vado e spiattello tutto quanto».

«Non voglio dire quello. Neanche tu sapevi niente, allora. Voglio dire, tutto il resto. Di lui e del... quel... Sono tre giorni, ormai. Dovrà pur averlo saputo, che sia stato tu a dirglielo o no. Ormai dovrà pur averlo saputo».

«Christmas». Byron non alza gli occhi. «Non ho più detto nulla, dopo che mi ha domandato di quella piccola cicatrice bianca vicino alla bocca. Quella sera per tutto il tempo che c’è voluto per arrivare in città ho avuto paura che facesse delle domande. Mi scervellavo per pensare a cose di cui parlarle perché non avesse l’opportunità di farmi altre domande. E per tutto il tempo che credevo di non lasciarle scoprire che quello non soltanto se l’era svignata lasciandola nei guai, ma aveva addirittura cambiato nome per non farsi trovare, adesso che finalmente l’aveva trovato aveva trovato un contrabbandiere, e be’, lei lo sapeva già. Lo sapeva già che era uno che non valeva nulla». Adesso dice, in una specie di assorto stupore: «Non avevo neanche bisogno di nasconderglielo, di raccontarle tante storie. Era come se sapesse già quello che stavo per dire, e che stavo per raccontarle delle storie. Come se ci avesse già pensato di suo, e già non ci credeva prima ancora che lo dicessi, e anche quello aveva poca importanza. Ma la parte di lei che sapeva la verità, che comunque non sarei mai riuscito a ingannare...». Si impappina, annaspa, con l’altro di là dello scrittoio che lo osserva, rigido, senza offrire di venirgli in aiuto. «È come se fosse divisa in due, e una delle due parti sa benissimo che lui è un mascalzone. Ma l’altra parte è convinta che quando un uomo e una donna stanno per avere un bambino, il Signore farà sì che quando viene il momento siano tutti insieme. Come se fosse Dio a preoccuparsi delle donne, per proteggerle dagli uomini. E se il Signore non ritiene che sia opportuno fare incontrare le due parti perché si confrontino, allora non lo faccio nemmeno io».

«Sciocchezze» dice Hightower. Guarda di là dallo scrittoio il viso immobile, ostinato, ascetico dell’altro: il viso di un eremita che è vissuto per tanto tempo in un luogo deserto dove soffia la sabbia. «La cosa che deve fare, l’unica cosa, è tornare in Alabama. Dai suoi».

«Questo proprio no» dice Byron. Lo dice immediatamente, con un tono immediato e definitivo, come se fosse stato tutto il tempo in attesa di dirlo. «Non avrà nessun bisogno di farlo. Mi sa proprio che non avrà nessun bisogno di farlo». Ma non alza lo sguardo. Sente che l’altro lo sta guardando.

«Lo sa, Bu... Brown, che lei è qui a Jefferson?».

Per un istante Byron quasi sorride. Il suo labbro si solleva: un lieve movimento, quasi un’ombra, senza allegria. «Quello ha avuto troppo da fare. A star dietro a quei mille dollari. È quasi un divertimento starlo a guardare. Come uno che non sa suonare, e soffia forte dentro un corno sperando che da un momento all’altro cominci a fare musica. Gli fanno attraversare la piazza in manette due volte al giorno, quando poco ma sicuro non riuscirebbero a farlo scappar via neanche se gli aizzassero contro quei segugi. Sabato, in prigione, ha passato tutta la notte a dire che cercavano di portargli via i suoi mille dollari cercando di inventare che aveva aiutato Christmas nell’omicidio, finché Buck Conner è andato su alla sua cella e gli ha detto che se non si metteva zitto e lasciava dormire gli altri detenuti, gli metteva un bavaglio. Allora si è messo zitto, e domenica sera sono usciti coi cani e ha fatto un tale baccano che hanno dovuto tirarlo fuori di prigione e portarselo dietro anche lui. Ma i cani non hanno trovato nulla, e allora lui a strillare e a maledirli, quei cani, che voleva prenderli a randellate perché non riuscivano mai a trovare una pista, e ha ricominciato a dire a tutti quanti che era stato lui il primo a denunciare Christmas e che voleva solo giustizia, finché lo sceriffo l’ha preso da una parte e gli ha parlato. Non si sa che cosa gli abbia detto. Magari gli avrà detto che lo rinchiudeva in cella e la volta dopo non lo avrebbe lasciato venire con loro. Comunque si è calmato un po’, e sono andati avanti. Sono tornati in città solo lunedì sera tardi. Lui stava ancora zitto. Forse era stanco sfinito. Non dormiva da un pezzo, e dicono che cercava di correre più dei cani sicché lo sceriffo alla fine ha minacciato di ammanettarlo a un agente per tenerlo indietro così che i cani potessero annusare qualcosa oltre a lui. Aveva bisogno di farsi la barba già sabato sera quando l’avevano messo dentro, e ormai ne aveva bisogno davvero. Mi sa che aveva l’aria di un assassino peggio di Christmas. E adesso imprecava contro Christmas, come se Christmas si fosse andato a nascondere solo per cattiveria, per fare un dispetto a lui e impedirgli di metter le mani su quei mille dollari. Sicché la sera l’hanno riportato in prigione e l’hanno rinchiuso in cella. Poi stamattina sono andati e l’hanno riportato fuori, e sono partiti tutti quanti insieme ai cani, dietro a una nuova pista. Dice la gente che hanno continuato a sentirlo che berciava e parlava finché sono usciti di città».

«E lei non lo sa, a sentire te. Dici che gliel’hai tenuto nascosto. Preferisci che sappia che è un mascalzone piuttosto che uno stolto, eh?».

Il viso di Byron è di nuovo immobile, adesso non sorride più; è assolutamente serio. «Non lo so. È stato domenica sera, dopo che sono venuto qui da lei a parlare sono tornato a casa. Pensavo che fosse a letto a dormire, ma era ancora seduta in salotto e ha detto “Che cosa c’è? Cos’è successo, qui?”. Io non la guardavo, e sentivo che lei mi stava guardando. Le ho detto che un negro aveva ammazzato una donna bianca. Non le ho raccontato storie. Ero così contento di non aver dovuto raccontarle storie. Perché prima di pensarci avevo già detto “e ha dato fuoco alla casa”. E allora era troppo tardi. Le avevo fatto vedere il fumo, e le avevo detto dei due di nome Brown e Christmas che vivevano là. E sentivo che mi guardava come sento lei adesso, e ha detto “Come si chiamava il negro?”. È proprio così, Dio fa in modo che quello che hanno bisogno di sapere riescono a tirarlo fuori dalle balle che raccontano gli uomini, senza bisogno di far domande. E che non scoprono quello che non hanno bisogno di sapere, senza nemmeno sapere che non l’hanno scoperto. E così io non so di sicuro quello che sa e quello che non sa. Le ho tenuto nascosto solo che è stato l’uomo a cui sta dando la caccia a fare il nome dell’assassino, e che adesso è in prigione eccetto quando è fuori insieme ai cani a dar la caccia a quello che lo ha preso con sé e l’ha trattato da amico. Questo no, non gliel’ho detto».

«E adesso cos’hai intenzione di fare? Lei dov’è che vuole andare?».

«Vuole andare là a aspettarlo. Le ho detto che è fuori per incarico dello sceriffo. Per cui non è che le abbia raccontato una balla vera e propria. Mi aveva già domandato dove viveva e glielo avevo già detto. E lei ha detto che è là che deve andare fino a che lui torna, visto che è la sua casa. Ha detto che lui vorrebbe che lei facesse così. E io mica potevo andarle a dire che quella casupola è l’ultimo posto al mondo su cui lui vorrebbe che lei mettesse gli occhi. Voleva andare là stasera appena tornavo a casa dal lavoro. Aveva già fatto il suo fagotto e si era già messa il cappellino, aspettando che tornassi a casa. “Mi ero già avviata da sola” ha detto. “Ma non ero tanto sicura di saperci arrivare”. E io ho detto Sì; solo che era troppo tardi, oggi, e ci saremmo andati domani, e lei ha detto, “Manca ancora un’ora a buio. Sono solo due miglia, no?”, e io ho detto di aspettare perché prima dovevo chiedere, e lei ha detto “Chiedere a chi? Non è la casa di Lucas?”, e sentivo che mi guardava e ha detto “Credevo mi avesse detto che Lucas viveva lì?”. E mi guardava e poi ha detto “Chi sarebbe questo predicatore da cui va sempre a parlare di me?”».

«E tu vuoi lasciarla andare a vivere laggiù».

«Potrebbe essere la cosa migliore. Avrebbe la sua intimità, laggiù, e sarebbe lontana da tutte le chiacchiere fino a che finisce questa storia».

«Vuoi dire, si è messa in testa di far così, e non glielo impedisci. Non vuoi impedirglielo».

Byron non alza gli occhi. «In un certo senso è casa di lui. La cosa più vicina a una casa che avrà mai in vita sua, mi sa. E lui è il suo...».

«Laggiù da sola, con un bambino in arrivo, e la casa più vicina è qualche catapecchia di negri a mezzo miglio di distanza». Osserva il viso di Byron.

«Ci ho pensato. C’è modo, qualcosa si può fare...».

«Quale qualcosa? Come fai a proteggerla, laggiù?».

Byron non risponde subito; non alza gli occhi. Quando parla, la voce è risoluta. «Ci sono cose che uno fa in segreto senza fare del male, reverendo. Comunque la gente le giudichi».

«Non credo che tu faresti mai nulla veramente di male, Byron, comunque lo possa vedere la gente. Ma te la senti di dire fino a dove il male arriva e non è più solo apparenza di male? dove il male si arresta fra il fare e il sembrare?».

«No» dice Byron. Poi si muove un po’; parla come se anche lui si svegliasse: «Mi auguro di no. Mi sa che cerco di fare la cosa giusta, per quanto posso». – ‘E questa’, pensa Hightower, ‘è la prima menzogna che mi abbia mai detta. Che abbia detto a chiunque, uomo o donna, forse incluso se stesso’. Guarda di là dallo scrittoio il volto serio, deciso, ostinato che ancora non l’ha mai guardato. ‘O forse non è ancora una menzogna perché lui stesso non sa che lo è’. Dice:

«Be’». Ora parla con un tono falsamente sbrigativo che, pappagorgia cascante e scuri occhi cavernosi, il suo volto smentisce. «Allora è deciso. La porti laggiù, in casa di lui, ti assicuri che sia bella comoda e che non venga disturbata finché è tutto finito. E poi dirai a quel tale – Burch, Brown – che lei è lì».

«E lui se la darà a gambe» dice Byron. Non alza gli occhi, ma un’onda di esultanza, di trionfo, sembra traversarlo prima che lui riesca a controllarla e a nasconderla, quando è troppo tardi anche per provarci. Per il momento non cerca di controllarla, anche lui appoggiato all’indietro sulla sua seggiola dura, guardando il sacerdote per la prima volta, il viso sicuro, spavaldo, acceso. L’altro incrocia lo sguardo, fisso.

«È questo che vuoi?» dice Hightower. Rimangono seduti così nella luce della lampada. Dalla finestra aperta viene il caldo silenzio infinito della notte senz’aria. «Pensa a quello che stai facendo. Stai cercando di metterti fra marito e moglie».

Byron ha ripreso controllo. Il suo volto non è più trionfante. Ma continua a guardare l’uomo più anziano. Forse ha anche cercato di controllare la voce. Ma ancora non ci riesce. «Non sono ancora marito e moglie» dice.

«Ne è convinta, lei? Credi che è quello che direbbe lei?». Si fissano. «Ah, Byron, Byron. Che cosa sono poche parole borbottate davanti a Dio, rispetto alla determinazione della natura di una donna? Davanti a quel bambino?».

«Be’, lui potrebbe anche non darsela a gambe. Se ottiene quella ricompensa, quei soldi, magari. Con quei mille dollari, potrebbe benissimo ubriacarsi al punto di fare qualsiasi cosa, perfino sposarsi».

«Ah, Byron, Byron».

«Allora cosa pensa che dovremmo – dovrei fare? Cosa suggerisce?».

«Vattene. Lascia Jefferson». Si guardano. «No» dice Hightower. «Tu non hai bisogno del mio aiuto. C’è già qualcuno che ti sta aiutando e è più forte di me».

Per un momento Byron non parla. Continuano a fissarsi. «Chi è che mi starebbe aiutando?».

«Il diavolo» dice Hightower.

 

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‘E il diavolo protegge anche lui’ pensa Hightower. Sta camminando, è a mezza strada verso casa, il piccolo canestro carico sul braccio. ‘Anche lui. Anche lui’ pensa, continuando a camminare. Fa caldo. È in maniche di camicia, alto, con le sue gambe sottili nei pantaloni neri, braccia e spalle magre e sparute, e quel pancione flaccido che sembra una mostruosa gravidanza. La camicia è bianca, ma non di bucato; il colletto è sudicio, come il foulard di linone annodato come viene viene, e non si fa la barba da due o tre giorni. Anche il panama è sudicio, e sotto, fra il cappello e il cranio, a protezione dal caldo, sporgono gli angoli e i bordi di un fazzoletto sudicio. È stato in centro a fare la sua spesa settimanale, dove, sparuto, sformato, con la barba grigia di tre giorni e gli occhi scuri dietro le lenti sporche, le mani orlate di nero e il rancido odore della carne di un uomo sedentario che si lava poco, era entrato nell’unico negozio pieno di odori e di roba in cui faceva sempre la spesa e pagava in contanti quello che comprava.

«Be’, l’hanno trovato alla fine quel negro» disse il proprietario.

«Negro?» disse Hightower. Si fece completamente immobile, nell’atto di mettersi in tasca il resto dopo aver pagato.

«Quel bas... quel tale; l’assassino. Io l’ho sempre detto che aveva qualcosa che non andava. Che non era bianco. Che aveva qualcosa di strano. Ma la gente non sta a sentire finché...».

«Trovato?» disse Hightower.

«Cavolo, ci può scommettere. Figurarsi, quell’imbecille non ha avuto neanche il buonsenso di uscire dalla contea. C’era lo sceriffo, qui, che non ha fatto che telefonare di que e di là, e quel brutto figlio... ah, era qui sotto il suo naso tutto il tempo».

«E lo hanno...». Si sporse in avanti sul bancone, al di sopra del canestro carico. Sentiva contro il ventre il bordo del bancone. Dava un senso di solidità, di stabilità; se mai, era come se la terra si preparasse a muoversi, stesse leggermente oscillando. Poi parve muoversi davvero, come qualcosa lasciato andare lentamente e senza fretta che piombava, accelerava, ingannevole, perché l’occhio era indotto a credere che gli scaffali sporchi con le loro file di scatolette ricoperte di cacate di mosche e il negoziante dietro il bancone non si fossero mossi; offendendo, ingannando il senso. E lui che pensava, ‘Mi rifiuto! Mi rifiuto! Mi sono comprato l’immunità. Ho pagato!’.

«Ancora non l’hanno acchiappato» disse il proprietario. «Ma sono lì lì. Lo sceriffo ha portato i cani a quella chiesa stamattina che non era ancora giorno. Gli sono dietro di neanche sei ore. Pensare che quel maledetto imbecille non ha avuto neanche il buonsenso... si capisce proprio che è un negro, anche senza tutto il resto...». Poi il negoziante stava dicendo, «È tutto, per oggi?».

«Cosa?» disse Hightower. «Che cosa?».

«Non voleva altro?».

«Sì. Sì. Era...». Cominciò a brancicarsi in tasca, col negoziante che lo osservava. La mano venne fuori, ancora brancicando. Sbatté contro il bancone, facendo cadere degli spiccioli. Il proprietario ne fermò due o tre mentre stavano per rotolare giù dal bancone.

«Per che cos’è?» disse il proprietario.

«Per il...». La mano di Hightower brancicò sul canestro carico. «Per...».

«Ma ha già pagato». Il proprietario lo osservava, curioso. «Questo è il resto che le ho appena dato. Per il biglietto da un dollaro».

«Oh» fece Hightower. «Sì. Io... È che...». Il negoziante stava raccogliendo gli spiccioli. Quando la mano del cliente toccò la sua sembrava di ghiaccio.

«È questo caldo» disse il proprietario. «Sfinisce. Vuole mettersi a sedere un momento prima di rimettersi in strada?». Ma Hightower parve non udirlo. Si stava già avviando verso la porta, col negoziante che lo osservava. Uscì per strada, il canestro al braccio, camminando rigido e cauto come uno sul ghiaccio. Faceva caldo; la calura saliva vibrando dall’asfalto, creando intorno agli edifici familiari della piazza una specie di nimbo, una specie di vivo, palpitante chiaroscuro. Qualcuno, passando, gli rivolse la parola; lui neppure se ne accorse. Proseguì pensando E anche lui. E anche lui camminando ora in fretta, così che quando girò finalmente l’angolo entrò nella morta e vuota stradina dove lo aspettava la sua morta e vuota casetta, stava quasi ansimando. ‘È il caldo’ gli stava dicendo, in superficie, la sua mente, ripetitiva, esplicativa. Tuttavia, anche nella strada silenziosa dove ormai quasi nessuno si soffermava a guardare, a ricordare il suo cartello, già in vista della sua casa, del suo santuario, continua sotto la superficie della sua mente che vorrebbe ingannarlo, vorrebbe calmarlo: ‘Mi rifiuto. Mi rifiuto. Mi sono comprato l’immunità’. Sono come delle parole dette ad alta voce, adesso: ripetitive, pazienti, apologetiche: ‘L’ho pagato. Non cavillo sul prezzo. Nessuno può accusarmene. Volevo solo pace; hanno detto il prezzo e l’ho pagato, senza cavillare’. La strada tremola e ondeggia; è sudato, ma adesso perfino l’aria di mezzogiorno è fresca su di lui. Poi il sudore, il caldo, il miraggio, tutto precipita a fondersi in una decisione che abroga ogni logica e ogni giustificazione e la cancella come farebbe il fuoco: Mi rifiuto! Mi rifiuto!

 

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Quando, seduto alla finestra dello studio al primo buio, vide Byron entrare nella luce del lampione e quindi uscirne, di colpo si sporse in avanti sulla sedia. Non che fosse sorpreso di vedere lì Byron a quell’ora. Dapprima, appena riconobbe la figura, pensò Ah. Me l’immaginavo che sarebbe venuto, stasera. Non è da lui sopportare neanche la sembianza del male Fu mentre stava pensando questo che sobbalzò, si piegò in avanti; per un istante, dopo avere riconosciuto la figura che si avvicinava nel pieno bagliore del lampione, credette di essersi sbagliato, pur sapendo che non era possibile, che non poteva essere altri che Byron, dato che stava già varcando il cancello.

Stasera Byron è completamente diverso. Lo si vede dal passo, dal portamento; piegato in avanti, Hightower si dice Come se avesse imparato l’orgoglio, o la sfida La testa di Byron è eretta; cammina rapido e eretto; d’un tratto Hightower dice, quasi ad alta voce: ‘Ha fatto qualcosa. Ha compiuto un passo’. Schiocca la lingua, piegato in avanti nella finestra buia, osservando la figura sparire rapidamente alla vista e in direzione della veranda, dell’entrata, dove un momento dopo sente i suoi passi e poi sente bussare. Va alla porta d’ingresso.

«Sono io, reverendo» dice Byron.

«Ti ho riconosciuto» dice Hightower. «Anche se stavolta non hai inciampato sul primo gradino. Sei già entrato in questa casa tante volte la domenica sera, ma fino a stasera non sei mai entrato senza inciampare nel primo gradino, Byron». Quello era il tono in cui di solito cominciavano le visite di Byron: quel tono leggermente autoritario di frivolezza e di cordialità al fine di mettere l’altro a suo agio, e da parte del visitatore quella lenta diffidenza contadinesca che è la cortesia. Certe volte a Hightower sembrava che avrebbe potuto spingere Byron in casa usando con giudizio, semplicemente, il fiato, come se Byron avesse una vela.

Questa volta però Byron sta già entrando, prima ancora che Hightower abbia finito la frase. Entra immediatamente, con quella nuova aria nata non si sa come dalla sicurezza e dalla sfida. «E mi sa che si accorgerà di detestare ancora di più quando non inciampo che quando inciampo» dice Byron.

«È una speranza, Byron, o una minaccia?».

«Be’, non la intendevo come una minaccia» disse Byron.

«Ah» fa Hightower. «In altre parole, non puoi offrire alcuna speranza. Be’, almeno sono avvertito. Sono stato avvertito appena ti ho visto alla luce del lampione. Ma almeno mi racconterai. Quello che hai già combinato, anche se non hai creduto opportuno parlarne prima». Stanno dirigendosi verso la porta dello studio. Byron si ferma; si gira, alza lo sguardo al volto più alto.

«Allora lo sa» dice. «Ha già sentito». Poi, anche se la sua testa non si è mossa, non sta più guardando l’altro. «Be’» dice. Dice: «Be’, tutti hanno il diritto di avere la lingua sciolta. Comprese le donne. Però vorrei sapere chi gliel’ha detto. Non che mi vergogni. Non che intendessi tenerglielo nascosto. Sono venuto a dirglielo io stesso, appena ho potuto».

Sono lì fermi appena fuori dalla porta della stanza illuminata. Hightower si accorge adesso che le braccia di Byron sono cariche di fagotti e di pacchetti che sembra possano contenere roba da mangiare. «Cosa?» dice Hightower. «Cos’è che sei venuto a dirmi?... Ma entra. Forse so già che cos’è. Ma voglio vedere la tua faccia quando me lo dici. Anch’io ti avverto, Byron». Entrano nella stanza illuminata. I fagotti sono di roba da mangiare: lui stesso ne ha comprata e portata troppa per non capirlo. «Siediti» dice Hightower.

«No» dice Byron. «Non mi trattengo tanto». Rimane in piedi, serio, riservato, sempre con quell’aria comprensiva, ma decisa senza essere sicura, fiduciosa senza essere risoluta: l’aria di uno che sta per fare qualcosa che qualcuno a lui caro non capirà e non approverà, e che tuttavia lui sa essere giusta così come sa che il suo amico non la vedrà mai così. Dice: «Non approverà. Ma non c’è altro da fare. Vorrei che lo potesse vedere anche lei. Ma mi sa che non può. E mi sa che questo è tutto».

Dall’altra parte dello scrittoio, di nuovo seduto, Hightower lo osserva gravemente. «Che cosa hai fatto, Byron?».

Byron parla con quella sua nuova voce: quella voce breve, tersa, ogni parola chiara di significato, non incespicante. «L’ho portata laggiù stasera. Avevo già messo a posto la casupola, ripulita come si deve. Adesso lei è sistemata. Era quello che voleva. Era la cosa più vicina a una casa che lui ha mai avuto e mai avrà, per cui mi sa che lei ha il diritto di usarla, specialmente visto che il proprietario adesso non la usa. Essendo trattenuto altrove, diciamo così. Lo so che lei non approverà. Potrà elencare una quantità di ragioni, e di ragioni buone. Dirà che la casa non è sua e perciò lui non può dargliela. Giusto. Forse non lo è. Ma non c’è essere vivente, uomo o donna, in questo Paese o in questo Stato che possa dire che lei non la può usare. Dirà che nella condizione in cui si trova dovrebbe avere una donna accanto. Giusto. C’è una negra, abbastanza vecchia da avere cervello, che vive a meno di duecento metri di distanza. Può chiamarla senza alzarsi dalla sedia o dal letto. Dirà, ma non è una donna bianca. E io le domando, che cosa riceverà dalle donne di Jefferson quando verrà il momento di quel bambino, visto che è qui solo da una settimana e già non può parlare con una donna dieci minuti senza che quella si renda conto che non è sposata, e finché quel maledetto delinquente cammina su questa terra e lei di quando in quando ne sente parlare, non si sposerà mai. Quanto aiuto riceverà dalle signore bianche, in quel momento? Certo, faranno in modo che abbia un letto su cui distendersi e delle pareti che la nascondano dalla strada. Non è questo che voglio dire. E mi sa che si potrebbe anche dire che più di questo non merita, visto che non è dietro a delle pareti che si è ridotta nello stato in cui è. Ma non è stato quel bambino a scegliere. E anche se fosse stato lui, mi prenda un accidente se un qualsiasi povero bimbetto, con tutto quello che dovrà affrontare in questo mondo, non merita... non merita più di... qualcosa di più che... Ma lei lo capisce cosa voglio dire, mi sa. Mi sa che potrebbe anche dirlo lei stesso». Di là dello scrittoio Hightower lo osserva mentre parla con quel tono uniforme, controllato, mai una volta a corto di parole se non quando è arrivato a un qualcosa per lui ancora troppo nuovo e nebuloso per poter far altro che sentirlo dentro. «E la terza ragione. Una donna bianca laggiù da sola. Non lo approverebbe, lei. Quello lo approverebbe meno di tutto».

«Ah, Byron, Byron».

«Lo so che lei, reverendo, non pensa quello che pensano in tanti; quello che stanno pensando. Lo so che lei lo sa come stanno le cose, anche se quella ragazza non fosse... se non fosse per... Lo so che l’ha detto perché sa quello che penseranno gli altri».

Hightower siede di nuovo nella posizione di un idolo orientale, fra le braccia parallele sui braccioli della sedia. «Vattene, Byron. Vai via. Adesso. Subito. Lascia questo posto, questo posto terribile, questo terribile, terribile posto. Io ti leggo dentro. Tu mi dirai che hai appena scoperto l’amore; io ti dirò che hai appena scoperto la speranza. Nient’altro; la speranza. L’oggetto non ha importanza, non per la speranza, neppure per te. Non c’è che un traguardo, in fondo alla strada che stai prendendo: il peccato o il matrimonio. E tu il peccato lo rifiuteresti. Nient’altro, che Dio mi perdoni. Per te non ci sarà, non dovrà esserci, che il matrimonio. E insisterai che sia il matrimonio. La convincerai; forse l’hai già fatto, se soltanto se ne rendesse conto, se soltanto lo ammettesse: altrimenti, come mai si accontenta di restare qui senza fare nessuno sforzo per vedere l’uomo che è venuta a cercare? Non posso dirti, Scegli il peccato, perché non solo mi odieresti, ma porteresti quell’odio diritto a lei. Per questo dico, Vattene. Adesso. Subito. Volgi il viso e non guardare indietro. Ma questo no, Byron».

Si guardano. «Lo sapevo che non avrebbe approvato» dice Byron. «Mi sa che ho fatto bene a non fare l’ospite mettendomi a sedere. Ma questo non me l’aspettavo. Che anche lei si mettesse contro una donna tradita e a cui è stato fatto un torto...».

«Una donna che ha un bambino non sarà mai tradita; il marito di una madre, sia o non sia il padre, è già cornuto. Datti almeno un’opportunità su dieci, Byron. Se devi sposarti, ci sono donne sole, ragazze, vergini. Non è giusto che tu ti sacrifichi per una donna che ha già scelto una volta e adesso desidera rinnegare quella scelta. Non è giusto. Non è corretto. Non era questo che Dio intendeva quando ha fatto il matrimonio. Fatto il matrimonio? Sono le donne che hanno fatto il matrimonio».

«Sacrificio? Io, il sacrificio? Mi sembra che il sacrificio...».

«Non per lei. Per tutte le Lena Grove del mondo ci sono sempre due uomini, e il loro numero è legione: tutti i Lucas Burch e i Byron Bunch. Ma nessuna Lena, nessuna donna, ne merita più di uno. Nessuna. Ci sono state donne buone rese martiri da dei bruti, ubriaconi e roba del genere. Ma quale donna, buona o cattiva che sia, ha mai sofferto per mano di un qualsiasi bruto quanto gli uomini hanno sofferto a causa di una donna buona? Dimmelo, Byron».

Parlano a voce bassa, senza riscaldarsi, lasciandosi una pausa per soppesare le parole dell’altro, come fanno due uomini già inattaccabili nelle loro convinzioni. «Mi sa che ha ragione» dice Byron. «Comunque, non sta a me darle torto. E neanche sta a lei darmelo a me, mi sa, anche se ce l’ho».

«No» dice Hightower.

«Anche se ce l’ho» dice Byron. «Per cui, mi sa che le auguro la buonanotte». Dice, a bassa voce: «È una bella camminata, fin laggiù».

«Sì» dice Hightower. «Anch’io una volta me la facevo, di tanto in tanto. Dovranno essere sulle tre miglia».

«Due miglia» dice Byron. «Be’». Si gira. Hightower non si muove. Byron riassesta i pacchi che non ha messo giù. «Le auguro la buonanotte» dice, avviandosi verso la porta. «Mi sa che la vedo, uno di questi giorni».

«Sì» dice Hightower. «C’è qualcosa che posso fare? Qualcosa di cui ha bisogno? Lenzuola, roba del genere?».

«Molto gentile. Mi sa che ne ha quante ne vuole. Ce n’erano di già, lì. Molto gentile».

«E mi avvertirai? Se succede qualcosa. Se il bambino... Ti sei messo d’accordo con un dottore?».

«Ci penserò, sì».

«Ma ci sei già andato, da uno? Hai preso accordi?».

«Ho intenzione di occuparmene. E le farò sapere».

Poi se ne è andato. Dalla finestra Hightower di nuovo lo osserva passare e risalire la strada verso il margine della cittadina, verso la sua camminata di due miglia, con i suoi pacchi di cibo. Esce dalla vista camminando eretto e di buon passo; un passo che un vecchio ormai ingrassato e senza fiato, un vecchio che ormai ha passato troppo tempo seduto, non riuscirebbe a tenere. E Hightower sta lì affacciato alla finestra, nella calura di agosto, ignaro dell’odore nel quale vive – quell’odore di uno che non vive più nella vita: quell’odore di pingue essiccazione e di lenzuola stantie precorritore della tomba – ascoltando i passi che gli sembra di continuare a udire ancora molto dopo che sa di non poterli più udire, pensando, ‘Che Dio lo benedica. Che Dio lo aiuti’; pensando Essere giovani. Essere giovani. Non c’è niente come quello: non c’è nient’altro al mondo Pensa in silenzio: ‘Non avrei dovuto perdere l’abitudine di pregare’. Poi non sente più i passi. Adesso, affacciato alla finestra, sente soltanto gli immensi, interminabili insetti, respira il caldo, immobile, ricco odore maculato della terra, pensando a quanto, da giovane, da ragazzo, amava l’oscurità, a come la notte camminava oppure si sedeva fra gli alberi. Allora il terreno, la corteccia degli alberi, tutto diventava vero, ricco, selvaggio, evocava strani e minacciosi mezzi piaceri, mezzi terrori. Ne aveva paura. Lo spaventava; amava aver paura. Poi un giorno, al seminario, si rese conto di non avere più paura. Fu come se una porta si fosse chiusa, da qualche parte. Non aveva più paura dell’oscurità. Semplicemente, la odiava; la fuggiva, cercando pareti, cercando luce artificiale. ‘Sì’ pensa. ‘Non avrei mai dovuto lasciar perdere l’abitudine di pregare’. Viene via dalla finestra. Una parete dello studio è ricoperta di libri. Vi si ferma davanti, cercando, finché trova il libro che vuole. È Tennyson. È pieno di orecchie. Ce l’ha da quando era al seminario. Va a sedersi sotto la lampada e lo apre. Non ci vuole molto. Ben presto quel bel linguaggio galoppante, quello smidollato sdilinquirsi grondante di alberi senza linfa e di passioni disidratate incomincia a fluire liscio, rapido, sereno. È meglio che pregare, senza la noia di dover pensare ad alta voce. È come ascoltare un eunuco che in una cattedrale canta in una lingua che non ha neanche bisogno di non capire.

6. La pubblicità delle compagnie telefoniche dell’epoca spesso mostrava cavi telefonici arrotolati.