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Seduta sul bordo della strada, guardando il carro che viene su per la salita verso di lei, Lena pensa, ‘Arrivata fino a qui dall’Alabama: una bella distanza. Tutto a piedi fin dall’Alabama. Una bella distanza’. Pensando non è neanche un mese che sono in viaggio e sono già in Mississippi, più distante da casa di quanto sono mai stata. Ora sono più distante dalla segheria di Doane di quanto sono mai stata da quando avevo dodici anni

Prima che le morissero il padre e la madre non era mai stata nemmeno alla segheria di Doane, anche se sette o otto volte l’anno, di sabato, era andata in paese col carro, con un vestito di quelli comprati per corrispondenza e coi piedi nudi posati sul cassone e le scarpe rinvoltate in un pezzo di carta accanto a lei sul sedile. Le scarpe se le metteva poco prima che il carro arrivasse in paese. Quando diventò più grande chiedeva al padre di fermarsi prima di entrare in paese, scendeva dal carro e proseguiva a piedi. Non diceva a suo padre perché voleva camminare invece di rimanere sul carro, e lui credeva che fosse per via delle strade pavimentate, dei marciapiedi. Invece era perché secondo lei la gente che la vedeva e che incontrava andando a piedi pensava che anche lei vivesse in paese.

Quando aveva dodici anni il padre e la madre erano morti nella stessa estate in quella casa fatta di tronchi, tre stanze e un corridoio, niente reti contro le zanzare, in una stanza con una lampada a cherosene e tutt’intorno un vortice di insetti, il pavimento nudo reso liscio come argento vecchio dai piedi nudi. Lei era la più piccola dei figli viventi. Sua madre morì per prima. Disse, «Abbi cura del babbo». E così Lena fece. Poi un giorno suo padre disse, «Vai alla segheria di Doane con McKinley. Preparati a andare, sii pronta quando arriva». Poi morì. McKinley, il fratello, arrivò con un carro. Un pomeriggio seppellirono il padre in un boschetto dietro una chiesa di campagna, con una tavola di pino per lapide. La mattina dopo Lena se ne andò per sempre, anche se forse in quel momento non lo sapeva, sul carro insieme a McKinley alla volta della segheria di Doane.

Il carro era stato preso in prestito e il fratello aveva promesso di riportarlo prima di sera.

McKinley lavorava lì. Tutti gli uomini del villaggio lavoravano alla segheria o per la segheria, a tagliar pini. Era stata impiantata sette anni prima, e di lì ad altri sette avrebbe distrutto tutti gli alberi da legname alla sua portata. Dopodiché alcuni macchinari e gran parte degli uomini che la mandavano avanti e che vivevano per essa e di essa vennero caricati su dei treni merci e portati via. Una parte dei macchinari fu però abbandonata lì perché col sistema della rateizzazione si poteva sempre comprare pezzi nuovi – immobili ingranaggi scheletrici che, sorprendenti nella loro intensità, sorgevano da mucchi di mattoni sbrecciati e erbacce sfilacciate, e caldaie sfondate che levavano i loro fumaioli arrugginiti e spenti con un’aria ostinata, sorpresa e meditabonda su un paesaggio butterato di ceppi, profondamente silenzioso e desolato, mai arato, mai dissodato, che si sfaceva lentamente in rosse forre strozzate sotto le lunghe, quiete piogge autunnali e la furia galoppante degli equinozi primaverili. Poi di quel villaggio, che perfino nei suoi giorni migliori non era mai stato inserito negli annali del Dipartimento delle Poste, non si sarebbero più ricordati nemmeno i suoi eredi di lì intorno malati di anchilostomiasi, che col tempo tirarono giù le costruzioni per farci il fuoco per cucinare e per scaldarsi.

Ci saranno state sì e no cinque famiglie quando Lena arrivò. C’era un binario e una stazioncina, e una volta al giorno un treno misto la attraversava strepitando. Lo si poteva fermare con una bandiera rossa, ma di solito sbucava dalle colline devastate all’improvviso, come un’apparizione, lamentandosi come una fantasima annunciatrice di lutti, attraversando e lasciandosi dietro quel meno di un villaggio come la perlina dimenticata di un filo rotto. Il fratello aveva vent’anni più di lei. Quando andò a vivere con lui, se lo ricordava appena. Abitava in una casa non verniciata di quattro stanze con la moglie oppressa dal lavoro e dai figli. Per quasi metà di ogni anno la cognata stava partorendo oppure rimettendosi dal parto. In quei periodi Lena faceva tutto il lavoro di casa e si prendeva cura degli altri bambini. Più tardi si sarebbe detta, ‘Mi sa che è per questo che me ne sono fatto uno così alla svelta’.

Dormiva in una stanza di fortuna addossata al retro della casa. Aveva una finestra che lei imparò ad aprire e a richiudere al buio senza far rumore, anche se in quella stanza ci dormiva all’inizio il nipote più grande e poi i due più grandi e poi i tre. Viveva lì da otto anni quando aprì quella finestra per la prima volta. L’aveva aperta neanche una dozzina di volte prima di scoprire che non avrebbe mai dovuto aprirla. Si disse, ‘È la mia solita sfortuna’.

La cognata lo disse al fratello. A quel punto lui si accorse che lei stava cambiando forma, cosa che avrebbe dovuto notare da tempo. Era un uomo duro. Delicatezza, gentilezza, gioventù (aveva passato i quarant’anni), quasi tutto tranne una sorta di ostinata, disperata forza d’animo e il retaggio di un cupo orgoglio del proprio sangue gli erano stati strizzati via come sudore. Le dette della puttana. Accusò l’uomo giusto (i giovani scapoli, o comunque i Casanova da mucchio di segatura, erano ancora meno numerosi delle famiglie) ma lei non ammetteva niente, benché quello se la fosse svignata sei mesi prima. Continuava a ripetere, ostinata, «Mi manderà a prendere. Ha detto che mi avrebbe mandata a prendere»; incrollabile, pecoresca, attingendo a quella riserva di paziente e tenace lealtà sulla quale contano e fanno assegnamento i Lucas Burch, benché non abbiano alcuna intenzione di esser presenti quando ne sorga il bisogno. Due settimane dopo, di nuovo scavalcò quella finestra. Fu un po’ difficile, stavolta. ‘Se prima fosse stato così difficile, mi sa che non sarei qui a farlo adesso’ pensò. Avrebbe potuto uscire dalla porta, di giorno. Nessuno l’avrebbe trattenuta. Forse lo sapeva. Ma scelse di andarsene di notte, e dalla finestra. Si portò dietro un ventaglio di foglia di palma e un fagotto legato per bene in un fazzolettone. Conteneva fra le altre cose trentacinque centesimi in monete da cinque e da dieci. Le scarpe gliele aveva passate il fratello. Erano appena usate perché d’estate nessuno dei due metteva mai le scarpe. Quando sentì sotto i piedi la polvere della strada se le tolse e le portò in mano.

Sono quasi quattro settimane ormai che va avanti così. Dietro di lei quelle quattro settimane, l’evocazione di distante è un quieto corridoio pavimentato di una calma e costante fiducia, di gente dagli anonimi volti gentili e di voci: Lucas Burch? Non so. Non so di nessuno che si chiami così, da queste parti. Questa strada? Porta a Pocahontas. Magari lui è là. È possibile. Quel carro lì farà un pezzo di strada. La può portare per un po’; sdipanando all’indietro, adesso, una lunga monotona successione di tranquilli, lineari cambiamenti da giorno a buio e di nuovo da buio a giorno, attraverso i quali lei avanzava su lenti carri identici, anonimi, come attraverso una successione di incarnazioni dalle ruote cigolanti e le orecchie flosce, come qualcosa che si muovesse in eterno e senza progredire tutt’intorno ad un’urna.

Il carro viene su per la salita verso di lei. L’ha passato circa un miglio addietro. Era fermo lungo la strada, i muli addormentati nelle tirelle e le teste volte nella direzione in cui lei camminava. L’ha visto e ha visto i due uomini accosciati contro un fienile di là dallo steccato. Ha guardato il carro e gli uomini una volta sola: un unico sguardo a cogliere tutto, rapido, innocente e profondo. Non si è fermata; probabilmente gli uomini di là dallo steccato non l’hanno neppure vista guardare il carro o loro. Né si è voltata a guardare. È andata avanti e è scomparsa alla vista, camminando lentamente, i lacci delle scarpe sciolti intorno alle caviglie, finché un miglio più avanti è arrivata in cima alla salita. Allora si è seduta sul bordo della cunetta, i piedi nel basso fossatino, e si è tolta le scarpe. Dopo un po’ ha cominciato a sentire il carro. È un pezzo che lo sente. Poi è comparso alla vista, venendo su per la salita.

Il secco, aspro scricchiolio e sbatacchio di vecchio legno prosciugato e di metallo è terribilmente lento: una serie di pigre, asciutte detonazioni che viaggiano per mezzo miglio nel caldo, immobile silenzio del pomeriggio di agosto che sa di pino e di mosto. Benché i muli arranchino in una fissa, instancabile ipnosi, il veicolo non sembra progredire. Talmente infinitesimale è il suo progredire che sembra rimanere sospeso in eterno a mezza distanza, come una misera perlina sullo scialbo filo rosso della strada. Tanto che, guardandolo, l’occhio lo perde, e vista e senso si fondono, assonnati, e come la strada stessa diventano tutt’uno con i calmi, monotoni cambiamenti da giorno a oscurità, quasi un filo già misurato che venga riavvolto su un rocchetto. Così che alla fine, come sorgendo da una qualche irrilevante regione al di là della distanza stessa, il suo rumore sembra giungere terribilmente lento e privo di senso, come fosse un fantasma che precede di mezzo miglio la sua stessa forma. ‘Così distante a sentirlo prima di vederlo’ pensa Lena. Si pensa già in movimento, di nuovo su un carro, pensando Così sarà come se ci stessi viaggiando sopra da mezzo miglio prima ancora che salga sul carro, prima ancora che il carro arrivi dove stavo aspettando, e quando il carro è di nuovo vuoto di me andrà avanti per mezzo miglio con me ancora sopra Attende, ora senza neanche guardare il carro, col pensiero che prosegue di suo, rapido, tranquillo, pieno degli anonimi volti gentili e delle voci: Lucas Burch? Ha detto che ha provato a Pocahontas? Questa strada? Arriva a Springvale. Aspetti qui. Tra un po’ passerà un carro che la porterà per un tratto Pensando, ‘E se arriva fino a Jefferson, viaggerò nell’udito di Lucas Burch prima che nella sua vista. Udirà il carro, ma non saprà. Così ce ne sarà uno nel suo udito prima che nella vista. E poi mi vedrà e sarà tutto eccitato. E così ce ne saranno due nella sua vista prima che ricordi’.

 

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Accosciati contro la parete in ombra della stalla di Winterbottom, Armstid e Winterbottom la videro che passava lungo la strada. Videro subito che era giovane, incinta, e di fuori. «Chissà dove l’ha trovata, quella pancia» disse Winterbottom.

«Chissà da dove se l’è portata dietro, a piedi» disse Armstid.

«Sarà andata a far visita a qualcuno giù da quella parte, mi sa» disse Winterbottom.

«Mi sa di no. L’avrei sentito. E non è neanche qualcuno dalle mie parti. Anche quello l’avrei sentito».

«Mi sa che lo deve sapere, dove sta andando» disse Winterbottom. «Si vede da come cammina».

«Avrà compagnia prima di essere andata molto lontano» disse Armstid. La donna ormai aveva proseguito, lentamente, col suo inequivocabile carico rigonfio. Nessuno dei due l’aveva vista gettare in qua neanche un’occhiata mentre passava davanti a loro col suo vestito blu scolorito, in mano un ventaglio di foglia di palma e un fagotto di stoffa. «Non viene da qui intorno» disse Armstid. «Dal passo che tiene, è un bel po’ che cammina e ha ancora un bel po’ di strada da fare».

«Dev’essere venuta a trovare qualcuno» disse Winterbottom.

«Mi sa che l’avrei sentito» disse Armstid. La donna andava avanti. Non si era girata a guardare. Sparì alla vista giù per la strada: rigonfia, lenta, senza fretta e istancabile come il pomeriggio stesso che avanzava. Uscì anche dalle loro chiacchiere; forse anche dalla loro mente. Infatti dopo un po’ Armstid disse quello che era venuto a dire. Aveva già fatto due viaggi, guidando il suo carro per cinque miglia e restandosene lì accosciato per tre ore a sputare sotto la parete in ombra del fienile di Winterbottom con la placida vaghezza fuori del tempo tipica della sua schiatta, allo scopo di dirlo. Voleva fare a Winterbottom un’offerta per la sarchiatrice che Winterbottom intendeva vendere. Alla fine Armstid guardò il sole e offrì il prezzo che aveva deciso di offrire mentre era disteso a letto tre notti prima. «So di una a Jefferson che posso comprare per quella cifra» disse.

«Mi sa che faresti bene a comprarla» disse Winterbottom. «Mi sembra un affare».

«Sicuro» disse Armstid. Di nuovo guardò il sole, e si alzò. «Be’, mi sa che sarà meglio avviarsi verso casa».

Salì sul suo carro e svegliò i muli. Cioè, li mise in moto, dato che solo un negro riesce a capire quand’è che un mulo sta dormendo o è sveglio. Winterbottom lo seguì fino allo steccato, appoggiando le braccia alla sbarra superiore. «Sissignore» disse. «Proprio così. A quel prezzo la comprerei anch’io, quella sarchiatrice. Se la lasci perdere, mi venga un accidente se non ho una mezz’idea di comprarla io, a quel prezzo. Mi sa che quello che ce l’ha mica avrebbe una coppia di muli da vendere per cinque dollari o giù di lì, eh?».

«Sicuro» disse Armstid. Proseguì, col carro che prendeva il suo lento sbatacchiare macinamiglia. E non si guarda indietro. A quanto sembra non guarda neanche davanti a sé, perché non vede la donna seduta nella cunetta lungo la strada se non quando il carro ha quasi raggiunto il colmo della salita. Nel momento in cui riconosce il vestito blu non saprebbe dire se lei abbia neanche mai veduto il carro. Così come nessuno potrebbe capire se lui l’ha mai guardata, mentre, senza alcun avvertibile movimento da una parte come dall’altra, impercettibilmente si avvicinano mentre il carro avanza paurosamente verso di lei in quella sua lenta, sonnolenta, palpabile aura di polvere rossa nella quale il costante zoccolio dei muli si muove come in sogno, punteggiato dall’intermittente tintinnio dei finimenti e dall’elastico ballonzolare degli orecchi da coniglio, coi muli ancora né svegli né addormentati quando lui li arresta.

Da sotto un cappellino da sole di un blu scolorito, stinto ormai per i tanti lavaggi ad acqua e sapone tirati via, lei alza lo sguardo verso di lui, in silenzio, affabile: giovane, con una faccia affabile, franca, amichevole, e sveglia. Ancora non si muove. Sotto il vestito scolorito dello stesso blu stinto, il suo corpo è informe e immobile. Sul grembo, il ventaglio e il fagotto. È senza calze. I piedi nudi riposano uno accanto all’altro nella bassa cunetta, non meno inerti delle due pesanti, polverose scarpe da uomo accanto ad essi. Armstid, coi suoi occhi chiari, se ne sta lì ingobbito sul carro fermo. Nota che il bordo del ventaglio è cucito bene insieme con lo stesso blu scolorito del vestito e del cappellino da sole.

«Fin dove va?» dice.

«Cercavo di arrivare un po’ più avanti prima di buio» dice lei. Si alza e prende su le scarpe. Lentamente, facendo attenzione, risale sulla strada, avvicinandosi al carro. Armstid non scende a aiutarla. Tiene soltanto ferma la pariglia mentre lei si arrampica pesantemente sopra la ruota e mette le scarpe sotto la cassetta. Poi il carro si muove. «La ringrazio» dice. «Era proprio una fatica, a piedi».

Apparentemente, Armstid non l’ha guardata in faccia neppure una volta. Tuttavia ha già visto che non ha la fede. Non la guarda neanche adesso. Il carro riprende il suo lento sbatacchiare. «È distante da dove viene?».

Lei espelle il fiato. Non è tanto un sospiro quanto una tranquilla emissione, come di tranquilla sorpresa. «Proprio una bella distanza, a pensarci ora. Vengo dall’Alabama».

«Dall’Alabama? Nelle sue condizioni? Ma i suoi dove sono?».

Neanche lei lo guarda. «Sto cercando di trovarlo da queste parti. Magari lei lo conosce. Si chiama Lucas Burch. Lungo la strada mi hanno detto che è a Jefferson, che lavora in una segheria».

«Lucas Burch». Il tono di Armstid è quasi identico a quello di lei. Siedono uno accanto all’altro sul sedile avvallato e con le molle rotte. Lui le vede le mani in grembo e il profilo sotto il cappellino da sole; è dalla coda dell’occhio che lo vede. Lei sembra guardare la strada che si srotola fra le orecchie elastiche dei muli. «E viene fin qua, a piedi, da sola, a cercarlo?».

Per un momento lei non risponde. Poi dice: «La gente è stata gentile. È stata davvero gentile».

«Anche le donne?». Con la coda dell’occhio guarda il suo profilo, pensando Chissà cosa dirà Martha pensando, ‘Mi sa che lo so cosa dirà Martha. Mi sa che le donne riescono a fare del bene senza essere tanto gentili. Gli uomini, be’, forse. Ma solo una donna che è anche lei poco per bene sarà davvero gentile con un’altra che ha bisogno di gentilezza’ pensando Lo so eccome. So esattamente cosa dirà Martha

Lei, immobile, sta un po’ piegata in avanti sul sedile, il profilo, la guancia, immobili. «È strano» dice.

«Come fa la gente a vedere una sconosciuta nelle sue condizioni che cammina per la strada, e capire che il marito l’ha lasciata?». Lei non si muove. Adesso il carro ha una specie di ritmo, il suo legno prosciugato e torturato tutt’uno con il lento pomeriggio, la strada, la calura. «E lei si picca di trovarlo qua».

Lei non si muove. Sembra che guardi la strada fra gli orecchi dei muli, come se la distanza fosse incisa sulla strada, bella chiara. «Lo troverò, mi sa. Non sarà difficile. Sarà dove c’è più gente, dove si ride e si scherza. È sempre stato speciale, in questo».

Armstid grugnisce, un brusco suono cattivo. «Forza, muli» dice; dice fra sé, fra il pensarlo e il dirlo ad alta voce: ‘Mi sa proprio che questa ci riuscirà. Mi sa che fra poco quello scoprirà di aver fatto un grosso sbaglio quando si è fermato da questa parte dell’Arkansas, o anche del Texas’.

Adesso il sole è obliquo, un’ora sopra l’orizzonte, sopra il rapido calare della notte estiva. La viottola dirama dalla strada, ancora più tranquilla della strada. «Ci siamo» dice Armstid.

La donna si muove immediatamente. Si china e trova le scarpe; sembra che non lasci al carro neanche il tempo di fermarsi per mettersele. «La ringrazio tanto» dice. «È stato d’aiuto».

Il carro è di nuovo fermo. La donna si prepara a scendere. «Anche se arriva allo spaccio di Varner prima del tramonto, sarà sempre a dodici miglia da Jefferson» dice Armstid.

Lei, goffa, tiene scarpe, fagotto e ventaglio con una mano, l’altra libera per aiutarsi a scendere. «Mi sa che è meglio che io vada avanti» dice.

Armstid non la tocca. «Venga, passi la notte a casa mia» dice; «dove delle donne – dove una donna può... se lei – Venga, su. Prima cosa domattina la porto da Varner, e lì può trovare un passaggio fino in città. È sabato, di sicuro ci sarà qualcuno che ci va. Lui mica le scappa di sotto da mattina a sera. Se è davvero a Jefferson, ci sarà anche domani».

Lei se ne sta immobile, i suoi averi raccolti in mano per scendere. Guarda davanti a sé, dove la strada curva e sparisce, attraversata in tralice dalle ombre. «Mi sa che ho ancora qualche giorno».

«Sicuro. Ha un sacco di tempo. Solo che è probabile che da un momento all’altro si ritrovi con della compagnia che non può camminare. Venga a casa con me». Dà il via ai muli senza aspettare una risposta. Il carro si immette nella viottola, la strada in ombra. La donna si appoggia all’indietro, anche se tiene ancora in mano il ventaglio, il fagotto e le scarpe.

«Non vorrei restare in obbligo» dice lei. «Non vorrei scomodare».

«Sicuro» dice Armstid. «Venga con me». Per la prima volta i muli vanno rapidi di propria volontà. «Fiutano il mais» dice Armstid, pensando, ‘Ma ecco com’è la donna. Pronta a mettere i bastoni fra le ruote a un’altra donna, ma non ci pensa neanche due volte a andarsene in giro in pubblico senza vergogna perché sa che la gente, gli uomini, si prenderanno cura di lei. Non gliene importa nulla delle donne. Non è stata una donna a metterla in quelli che neanche chiama guai. Sissignore. Lascia che una si sposi o si metta nei guai senza essere sposata, e di colpo si stacca dalla razza e dalla specie delle donne e passa il resto della vita a cercare di entrare nella razza degli uomini. Ecco perché fiuta tabacco, fuma, e vuole votare’.

Quando il carro passa davanti alla casa e prosegue verso il recinto del fienile, sua moglie è lì sulla porta d’ingresso che lo osserva. Lui non guarda in quella direzione; non ha bisogno di guardare per sapere che lei sarà lì, è lì. ‘Sì’ pensa, triste, sardonico, facendo svoltare i muli per il cancello aperto, ‘so esattamente cosa dirà. Mi sa proprio che lo so esattamente’. Ferma il carro. «Vada avanti in casa» dice; è già sceso e ora la donna sta scendendo lentamente, con quella attenzione come se si ascoltasse dentro. «Quando trova qualcuno, sarà Martha. Io arrivo quando ho dato da mangiare alle bestie». Non la guarda mentre attraversa il recinto e prosegue verso la cucina. Non ne ha bisogno. Passo passo con lei, anche lui entra dalla porta della cucina e si trova davanti la donna che adesso osserva la porta della cucina esattamente come prima osservava il carro passare davanti a quella d’ingresso. ‘Mi sa che so esattamente cosa dirà’ pensa.

Scioglie i muli, li abbevera, li porta nella stalla e dà loro da mangiare, e fa rientrare le mucche dal pascolo. Poi va in cucina. Lei è ancora lì, la donna grigia con la sua fredda, dura faccia irascibile, che ha messo al mondo cinque figli in sei anni e li ha fatti crescere fino a diventare uomini e donne. Non è oziosa. Lui non la guarda. Va all’acquaio, riempie un tegame dal secchio e si tira su le maniche. «Lei si chiama Burch» dice. «O almeno, così dice che si chiama quello a cui dà la caccia. Lucas Burch. Qualcuno, lungo la strada, le ha detto che adesso è a Jefferson». Comincia a lavarsi, dandole la schiena. «È arrivata fin qui dall’Alabama, sola e a piedi, dice».

La signora Armstid non si volta a guardare. È occupata alla tavola. «Avrà compagnia per un bel pezzo prima che riveda l’Alabama» dice.

«O quel Burch, mi sa». È tutto indaffarato all’acquaio, fra acqua e sapone. E sente che lei lo sta guardando, la nuca, le spalle nella camicia di un azzurro scolorito dal sudore. «Dice che qualcuno giù da Samson le ha detto che c’è uno di nome Burch o roba del genere che lavora alla segheria a Jefferson».

«E si immagina di trovarcelo. Lì che aspetta. Con la casa ammobiliata e tutto».

Dalla sua voce lui non saprebbe dire se lo stia guardando oppure no. Si asciuga con un pezzo di sacco per la farina. «Magari lo trova davvero. Se quello che vuole è filarsela via, mi sa che si accorgerà di aver fatto un bello sbaglio a fermarsi prima di averci messo in mezzo il Mississippi». E adesso sa che lei lo sta guardando: la donna grigia né grassottella né magra, dura come un uomo, indurita dal lavoro, in un pratico vestito grigio reso rigido e funzionale, le mani sui fianchi, il viso come quello di generali che sono stati sconfitti in battaglia.

«Voi uomini» dice.

«Cosa vuoi fare? Buttarla fuori? Metterla a dormire nel fienile, magari?».

«Voi uomini» dice lei. «Maledetti uomini».

 

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Entrano in cucina insieme, benché la signora Armstid sia davanti. Va diritta ai fornelli. Lena è in piedi vicina alla porta. Adesso è a capo scoperto, i capelli pettinati lisci. Anche il vestito blu sembra rinfrescato e riposato. Sta a guardare mentre ai fornelli la signora Armstid sbatacchia gli anelli di ferro e maneggia i pezzi di legno con la brusca malevolenza di un uomo. «Vorrei dare una mano» dice Lena.

La signora Armstid non si volta a guardare. Sbatacchia malevola i fornelli. «Stia lì dov’è. Risparmi i piedi, adesso, così per un altro po’ non avrà da mettersi sdraiata».

«Sarei obbligata se gentilmente mi lasciasse dare una mano». «Stia lì dov’è. Sono trent’anni che lo faccio tre volte al giorno. L’epoca che avevo bisogno d’una mano è passata da un bel po’». È indaffarata intorno ai fornelli, non si volta a guardare. «Armstid dice che lei si chiama Burch».

«Sì» dice l’altra. Adesso la sua voce è molto seria, molto bassa. Siede immobile, le mani ferme in grembo. E la signora Armstid neppure si volta a guardare. È sempre indaffarata ai fornelli. Sembrano richiedere un’attenzione del tutto sproporzionata alla decisa malevolenza con la quale ha acceso il fuoco. Sembrano impegnare la sua attenzione come si se trattasse di un costoso orologio.

«Si chiama già Burch?».

La giovane non risponde subito. Adesso la signora Armstid non sferraglia coi fornelli, benché la sua schiena sia ancora volta verso la donna più giovane. Poi si gira. Si guardano, d’un tratto nude, osservandosi: la giovane seduta, con i capelli ben pettinati e le mani inerti sul grembo, e la più anziana accanto ai fornelli, che si gira, anche lei immobile, con un avvitarsi malevolo di capelli grigi alla base del cranio e un viso che poteva esser scolpito nell’arenaria. Poi quella più giovane parla.

«Le ho detto una bugia. Ancora non mi chiamo Burch. Mi chiamo Lena Grove».

Si fissano. La voce della signora Armstid non è né fredda né calda. Non è nulla. «E allora vuole raggiungerlo così farà in tempo a chiamarsi Burch. È così?».

Adesso Lena guarda in giù, come se stesse studiandosi le mani in grembo. La voce è bassa, ostinata. E tuttavia serena. «Io lo so, non ho bisogno di promesse da parte di Lucas. È successo così, purtroppo, e è dovuto andar via. È solo che i suoi piani non sono più andati come dovevano e non è potuto venire a prendermi come aveva intenzione. Io lo so, io e lui non c’era bisogno di parlare di promesse. Quando quella sera venne a sapere che sarebbe dovuto andar via...».

«Venne a sapere quale sera? La sera che lei gli disse di quel bambino?».

Per un momento l’altra non risponde. Il suo viso è calmo come la pietra, ma non duro. La sua ostinazione ha un che di morbido, una sorta di luce interna di calma, tranquilla irragionevolezza e di distacco. La signora Armstid la osserva. Lena non guarda l’altra donna mentre parla. «Aveva detto in giro già da un pezzo che forse sarebbe dovuto andar via. Solo che a me non me l’aveva detto prima perché non voleva farmi preoccupare. Appena è venuto a sapere che forse doveva andar via, ha capito subito che era meglio se se ne andava, che si sarebbe trovato meglio da qualche parte dove il caposquadra non ce l’aveva con lui. Ma continuava a rimandare. Ma quando è successo questo, allora non si poteva più rimandare. Il caposquadra ce l’aveva con lui perché gli era antipatico perché Lucas era giovane e sempre pieno di vita e il caposquadra voleva dare il lavoro di Lucas a un suo cugino. Ma non aveva voluto dirmelo perché mi sarei solo preoccupata. Ma quando è successo questo, non si poteva più aspettare. Sono stata io a dirgli di andar via. Lui ha detto che se glielo dicevo io, rimaneva, caposquadra o no. Ma io gli ho detto di andare. Anche così, lui non voleva andare. Ma io gli ho detto di andare. Solo di mandarmi a dire quando era pronto per farmi venire. E poi i suoi piani sono andati diverso e non ha potuto mandarmi a prendere in tempo, come aveva intenzione. Arrivando così, in mezzo a gente che non conosceva, un giovane ha bisogno di tempo per sistemarsi. Non lo sapeva, quando è andato via, che per sistemarsi avrebbe avuto bisogno di più tempo di quello che pensava. Specialmente uno giovane, pieno di vita come Lucas, che gli piace la gente e gli piace divertirsi, e anche alla gente lui piace. Non lo sapeva che ci avrebbe messo più tempo di quello che pensava, giovane com’è, con la gente che gli sta sempre dietro perché non fa che ridere e scherzare, e interferisce col suo lavoro senza che lui lo sappia perché non vuole mai ferire i sentimenti della gente. E io volevo che se la godesse per l’ultima volta, perché il matrimonio è differente per uno giovane, uno giovane pieno di vita, rispetto a una donna. È tanto lunga, per un giovane pieno di vita. Non le pare?».

La signora Armstid non risponde. Guarda l’altra lì seduta sulla seggiola coi suoi capelli lisci, le mani immobili in grembo, il viso morbido e meditabondo. «Probabile che mi abbia già mandato a dire, e sia andato perso per la strada. È parecchio lontano anche da qui all’Alabama, e non sono ancora neanche arrivata a Jefferson. Gli avevo detto che non mi aspettavo che scrivesse, visto che per le lettere proprio non è tagliato. “Basta che tu mi mandi a dire quando sei pronto”, gli ho detto. “Sarò lì a aspettare”. Da principio mi sono un po’ preoccupata, dopo che è andato via, perché ancora non mi chiamavo Burch, e col mio fratello e i suoi che non conoscevano Lucas come lo conoscevo io. E come facevano?». Sul viso le sorge lentamente un’espressione di delicata, luminosa sorpresa, come se avesse appena pensato a qualcosa che non si era neanche resa conto di non sapere. «Capisce, come ci si poteva aspettare che lo conoscessero. Ma prima doveva sistemarsi; era lui che aveva tutte le difficoltà di ritrovarsi in mezzo a della gente che non conosceva, con me che non avevo altro da fare che aspettare mentre lui aveva tutte le noie e i problemi. Ma dopo un po’ mi sa che avevo già abbastanza da fare a portare avanti questo bambino per preoccuparmi del cognome o di quello che pensava la gente. Ma io e Lucas non c’è bisogno di promesse, fra di noi. Sarà stato qualcosa di inaspettato che è successo, oppure ha mandato a dire e è andato perso. Così un bel giorno, semplicemente, ho deciso di prendere e non stare più a aspettare».

«Come faceva a sapere da che parte andare quando si è messa per strada?».

Lena si guarda le mani. Adesso si stanno muovendo, piegando e ripiegando con incantata incertezza una piega della sottana. Non è timidezza o esitazione. Si direbbe un qualche meditabondo riflesso della sola mano. «Ho continuato a chiedere. Giovane e vivace com’è Lucas, che non ci mette nulla a far conoscenza con la gente, sapevo che dovunque era stato la gente se ne sarebbe ricordata. Così ho continuato a chiedere. E infatti un paio di giorni fa, sulla strada, ho sentito dire che è a Jefferson, a lavorare in segheria».

La signora Armstid osserva il suo viso chino. Ha le mani sui fianchi e osserva la donna più giovane con un’espressione di freddo, impersonale disprezzo. «E secondo lei sarà lì quando lei arriva. Ammesso che ci sia mai stato. Che sentirà dire che anche lei è in città, e sarà ancora lì quando cala il sole».

Il viso abbassato di Lena è grave, calmo. Adesso la mano è ferma. Riposa immobile sul grembo, come vi fosse morta. La voce è calma, tranquilla, caparbia. «Mi sa che una famiglia dovrebbe essere tutta insieme quando arriva un bambino. Specialmente il primo. Mi sa che ci penserà il Signore».

 

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«E mi sa proprio che dovrà pensarci Lui» dice aspra, malevola, la signora Armstid. Armstid è a letto, la testa un po’ rialzata, e la osserva al di sopra della pediera mentre lei, ancora vestita, si china nella luce della lampada sul cassettone, frugando violentemente in un cassetto. Tira fuori una scatola di metallo, l’apre con una chiave attaccata al collo, estrae un sacchetto che apre, e prende un galletto di porcellana con una fessura sul dorso. Quando lo muove, tintinna di monete. Lo rovescia, lo scuote violentemente sopra il piano del cassettone, ne fa cadere dalla fessura un misero sgocciolio di monete. Armstid, a letto, la osserva.

«Cos’è che ti metti a fare coi soldi delle tue uova, a quest’ora?».

«Mi sa che sono miei e ci faccio quello che voglio». Si china sotto la lampada, il viso aspro, amaro. «Lo sa Iddio quello che ci ho sudato, per curarle. Una mano da parte tua ho ancora da vederla».

«Sicuro» dice lui. «Mi sa che in tutto il Paese non c’è essere umano che cercherà mai di portartele via, quelle galline, a parte i procioni e i serpenti. E nemmeno quel galletto salvadanaio» dice. Perché, chinandosi improvvisa, lei si strappa via una scarpa e vibra sul salvadanaio di porcellana un unico colpo sfracellante. Dal letto, reclino, Armstid la osserva mentre raccoglie gli ultimi spiccioli tra i frammenti di porcellana, li lascia cadere con gli altri nel sacchetto, l’annoda e lo riannoda tre o quattro volte con aria malevola e definitiva.

«Daglielo tu» dice. «E appena è giorno attacchi i muli e la porti via di qui. Portala fino a Jefferson, se ti va».

«Mi sa che riuscirà a trovare un passaggio dall’emporio di Varner» dice lui.

 

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La signora Armstid si alzò prima dell’alba e preparò la colazione. Era in tavola quando Armstid entrò dopo aver munto. «Valle a dire di venire a mangiare» disse la signora Armstid. Quando lui e Lena tornarono in cucina, la signora Armstid non c’era. Lena dette un unico sguardo in giro per la stanza, soffermandosi sulla porta quasi senza soffermarsi, il viso già fisso in un’espressione di sorriso imminente, di discorso, discorso preparato, sapeva Armstid. Ma non disse nulla, la pausa meno di una pausa.

«Mangiamo e poi si va» disse Armstid. «Ha ancora un bel pezzo di strada da fare». La osservò mangiare, di nuovo con quella tranquilla e affabile proprietà della sera prima a cena, benché vi fosse adesso, a inquinarla, una sorta di compìto e quasi schizzinoso ritegno. Poi le diede il sacchetto annodato. Lei lo prese, la faccia compiaciuta, calda, benché non molto sorpresa.

«Be’, è proprio gentile da parte di sua moglie» disse. «Ma non ne avrò bisogno. Ormai sono così vicina».

«Mi sa che farà bene a tenerlo. L’avrà visto, mi sa, che a Martha non va tanto giù essere contraddetta quando si è messa in testa di fare qualcosa».

«Proprio gentile» disse Lena. Legò il sacchetto nel fagotto e si mise il cappellino da sole. Il carro era lì fuori in attesa. Quando si avviarono giù per la viottola, passata la casa, lei si voltò a guardare. «È stato proprio gentile da parte vostra» disse.

«È stata lei» disse Armstid. «Io non c’entro nulla, mi sa».

«È stato proprio gentile, comunque. Bisognerà che me la saluti lei. Speravo di vederla, ma...».

«Sicuro» disse Armstid. «Avrà avuto da fare, o qualcosa. Glielo dirò».

Arrivarono all’emporio nella luce del primo mattino, con gli uomini accosciati già a sputare da una parte all’altra del portico segnato dai tacchi, che la guardarono scendere lenta da cassetta, con attenzione, in mano il fagotto e il ventaglio. Neanche questa volta Armstid scese a aiutarla. Disse, da cassetta: «Questa è la signora Burch. Vuole andare a Jefferson. Se c’è qualcuno che oggi va in città, sarebbe grata di un passaggio».

Lei mise piede a terra, con le sue pesanti scarpe polverose. Alzò gli occhi su di lui, serena, tranquilla. «È stata una gentilezza» disse.

«Sicuro» disse Armstid. «Mi sa che ormai in città riesce a arrivarci». La guardò, giù a terra. Poi per quello che sembrò un momento interminabile si guardò la lingua che cercava le parole, pensando rapido e in silenzio, il pensiero in un lampo Uno. Tutti. Tutti gli uomini. Uno lascerà passare cento occasioni di fare del bene in cambio di un’occasione di impicciarsi dove l’impicciarsi non è gradito. Sorvolerà e ignorerà occasioni, opportunità, di arricchirsi, diventare famoso, fare del bene, e a volte perfino di fare del male. Ma non mancherà mai di cogliere l’occasione di impicciarsi Poi la lingua trovò le parole, e lui a ascoltare, forse con la stessa sorpresa di lei: «Solo che non ci farei troppo conto, su... troppo conto...» pensando Non ascolta. Se le sentisse, delle parole così, non starebbe nemmeno a scendere da questo carro, con quella pancia e quel ventaglio e quel fagotto, sola, diretta in un posto dove non è mai stata, a caccia di uno che non vedrà mai più e che da come stanno le cose ha già visto una volta di troppo «... quando ripassa da qui, domani o anche stasera...».

«Mi sa che andrà tutto bene» disse lei. «M’hanno detto che lui si trova qui».

Lui girò il carro e tornò verso casa, ingobbito sul sedile avvallato, gli occhi chiari, pensando, ‘Non sarebbe servito a niente. Non ci avrebbe creduto a sentirselo dire più di quanto crederà a quello che pensa la gente intorno a lei da... Ormai sono quattro settimane, ha detto. Non più di quanto lo avverta e ci creda adesso. Seduta lassù sullo scalino più alto, con le mani in grembo e quelli lì accosciati che sputano oltre di lei sulla strada. E senza neanche aspettare che glielo chiedano prima di mettersi a raccontarlo. Raccontandogli di sua volontà di quel mascalzone come se non avesse niente di particolare da nascondere o da raccontare, anche quando Jody Varner o uno di quegli altri le dirà che quel tale alla segheria a Jefferson si chiama Bunch e non Burch; e senza che neanche questo la preoccupi. Ne sa di più anche di Martha, mi sa, come quando ieri sera le ha detto che il Signore provvederà, e quello che è giusto si avvererà’.

 

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Bastarono un paio di domande. Poi, seduta sullo scalino più alto, il ventaglio e il fagotto sul grembo, ancora una volta Lena racconta la sua storia, con la paziente e tranquilla ricapitolazione di un bambino che mente, gli uomini in tuta che ascoltano in silenzio, accosciati.

«Quel tale si chiama Bunch» dice Varner. «Lavora là alla segheria da sette anni, più o meno. Come fa a sapere che anche quel Burch è lì?».

Lei sta guardando la strada, nella direzione di Jefferson. Il viso è calmo, in attesa, un po’ distaccato ma non perplesso. «Mi sa che c’è. Alla segheria e tutto. A Lucas gli è sempre piaciuta la confusione. Non gli è mai piaciuta la vita tranquilla. Ecco perché la segheria di Doane non gli andava a genio. Per questo ha deciso... abbiamo deciso di cambiare: per i soldi, e per il movimento».

«Per i soldi, e per il movimento» dice Varner. «Lucas mica sarebbe il primo stallone che per un po’ di soldi e di movimento ha dato un calcio a tutto quello che da ragazzo era stato tirato su per fare, e a quelli che contavano su di lui che facesse».

Ma è evidente che lei non sta ascoltando. Siede in silenzio sullo scalino più alto, osservando la strada deserta che curva, in salita, verso Jefferson. Gli uomini accosciati lungo la parete guardano il suo placido viso immobile e pensano quello che pensava Armstid e pensa Varner: che sta pensando a una canaglia il quale l’ha piantata nei guai e che sono convinti non rivedrà mai più, tranne forse per i lembi della giacchetta piatti come una tavola da come corre. ‘O forse è a quella segheria di Doane o di Bone che sta pensando’ pensa Varner. ‘Mi sa che neanche una ragazzina scema ha bisogno di venire fino in Mississippi per scoprire che qualsiasi posto da cui scappa non sarà poi tanto differente o tanto peggiore di quello in cui arriva. Anche se c’è un fratello che ha da ridire sul fatto che la sorella vada in giro di notte’ pensando Avrei fatto come il fratello, il padre avrebbe fatto lo stesso. Non ha una madre perché il sangue paterno odia con l’amore e con l’orgoglio, ma il sangue materno con l’odio ama e ci convive

Lei non sta affatto pensando a tutto questo. Sta pensando agli spiccioli annodati nel fagotto che ha sotto le mani. Sta ricordando la colazione, pensando che in questo stesso momento può entrare nell’emporio e comprare formaggio e gallette, e se vuole anche delle sardine. Da Armstid ha preso solamente una tazza di caffè e un pezzo di pane di mais: nient’altro, per quanto Armstid insistesse. ‘Ho mangiato come si deve’ pensa, le mani poggiate sul fagotto, sapendo degli spiccioli nascosti, ricordando quell’unica tazza di caffè, il decoroso morsettino di quello strano pane; pensando, con una sorta di orgoglio sereno: ‘Come una signora, ho mangiato. Come una signora che viaggia. Ma ora posso comprarmi anche delle sardine, se voglio’.

Così sembra meditare sulla strada in salita mentre gli uomini accosciati, sputando lenti, la sogguardano convinti che stia pensando a quell’uomo e alla crisi in arrivo, mentre in realtà lei sta combattendo una piccola battaglia contro la provvidenziale cautela dell’antica terra della quale, con la quale e grazie alla quale vive. Questa volta vince lei. Si alza e camminando un po’ goffa, con una certa attenzione, attraversa la batteria schierata di occhi d’uomo e entra nell’emporio, con il commesso che le va dietro. ‘Lo faccio’ pensa, anche mentre sta ordinando il formaggio e le gallette; ‘lo faccio’, dicendo ad alta voce: «E una scatola di sardine». Le chiama saurdine. «Una scatola da un cinquino».

«Non ne abbiamo, sardine da un cinquino» dice il commesso. «Le sardine sono quindici centesimi». Anche lui le chiama saurdine.

Lei ci pensa. «Cos’avete in una scatola da un cinquino?».

«Nulla, a parte cera da scarpe. Mi sa che non è quello che vuole. Non da mangiare, almeno».

«Mi sa che prenderò quelle da quindici centesimi, allora». Scioglie il fagotto e il sacchetto annodato. Ci vuole un po’ di tempo per allentare i nodi. Ma li scioglie pazientemente uno per uno, poi paga e riannoda il sacchetto e il fagotto, e prende i suoi acquisti. Quando esce sul portico, fermo davanti agli scalini c’è un carro. A cassetta c’è un uomo.

«C’è un carro che va in città» le dicono. «Le darà un passaggio».

Il viso le si sveglia, sereno, lento, caldo. «Be’, è proprio gentile» dice.

 

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Il carro avanza lento, costante, come se qui, immerso nella solitudine assolata della terra immensa, ne fosse al di fuori, al di là di tutto il tempo e tutta la fretta. Dall’emporio di Varner a Jefferson sono dodici miglia. «Arriveremo prima dell’ora di mangiare?» dice lei.

Il conducente sputa. «C’è il caso di sì» dice.

Sembra che non l’abbia mai guardata, nemmeno quando è salita sul carro. Nemmeno lei sembra che l’abbia mai guardato. Lo fa adesso. «Mi sa che ci va parecchio spesso, a Jefferson».

Lui dice, «Qualche volta». Il carro va avanti cigolando. Campi e boschi sembrano sospesi in una qualche inevitabile mezza distanza, al tempo stesso statica e fluida, rapida, come un miraggio. E tuttavia il carro li supera.

«Mica conosce nessuno, a Jefferson, di nome Lucas Burch».

«Burch?».

«Dovrei trovarlo là. Lavora alla segheria».

«No» dice il conducente. «Non mi sembra di conoscerlo. Ma ci sarà un sacco di gente a Jefferson che non conosco. Probabile ci sia».

«Dico io, spero proprio. Viaggiare sta diventando difficile».

Il conducente non la guarda. «Da quanto distante viene, a cercarlo?».

«Dall’Alabama. È una bella distanza».

Lui non la guarda. La sua voce è del tutto casuale. «Com’è che i suoi l’hanno lasciata partire, nello stato in cui è?».

«I miei sono morti. Vivo col mio fratello. Ho deciso io di venire, così».

«Ho capito. Le ha mandato a dire di venire a Jefferson».

Lei non risponde. Sotto il cappellino da sole, le vede il profilo tranquillo. Il carro va avanti, lento, fuori del tempo. Le rosse, placide miglia si sdipanano fra le costanti zampe dei muli, sotto le ruote che scricchiolano e sferragliano. Adesso il sole è alto sulla testa; l’ombra del cappellino adesso le cade sul grembo. Lei alza lo sguardo al sole. «Mi sa che è l’ora di mangiare» dice. Lui guarda con la coda dell’occhio mentre lei apre il formaggio, le gallette e le sardine, e gliele offre.

«Non mi va nulla» dice lui.

«Mi farebbe piacere se ne prendesse».

«Non mi va. Mangi pure».

Lei comincia a mangiare. Mangia lentamente, senza fretta, succhiandosi il ricco olio delle sardine dalle dita con lento gusto totale. Poi s’interrompe, non all’improvviso ma in completa immobilità, la mandibola arrestata in mezzo al boccone, una galletta morsa in mano e il viso un po’ abbassato e gli occhi vuoti, come se stesse ascoltando qualcosa di lontanissimo oppure così vicino da essere dentro di lei. Il viso le si è sbiancato, ha perso il suo pieno sangue vivo, e lei siede immobile, udendo e sentendo l’immemore terra implacabile, ma senza paura, senza apprensione. ‘Sono almeno due gemelli’ si dice, senza muovere le labbra, senza suono. Poi lo spasmo passa. Riprende a mangiare. Il carro non si è fermato; il tempo non si è fermato. Il carro giunge in cima all’ultima salita e vedono del fumo.

«Jefferson» dice il conducente.

«Be’, guarda un po’» dice Lena. «Ci siamo quasi, eh?».

Adesso è l’uomo che non sente. Sta guardando davanti a sé, dall’altra parte della valle, verso la cittadina sul crinale opposto. Seguendo la frusta puntata, lei vede due colonne di fumo: una, con la pesante densità del carbone che brucia, al di sopra di un alto comignolo, l’altra un’alta colonna gialla apparentemente immobile sopra un folto d’alberi a qualche distanza oltre l’abitato. «È una casa che sta bruciando» dice il conducente. «Lo vede?».

Ma adesso è lei che, a sua volta, sembra non ascoltare, non udire. «Ma pensa un po’» dice; «neanche quattro settimane che sono in viaggio, e eccomi già a Jefferson. Ma pensa un po’. Se ne fa, di strada».