17
Questo avveniva domenica notte. Il bambino di Lena nacque la mattina dopo. Era appena l’alba quando Byron fermò con uno strattone il suo mulo galoppante davanti alla casa dalla quale era uscito neanche sei ore prima. Saltò a terra e già correva, correndo su per il vialettino verso la veranda buia. Gli sembrava di starsene in disparte e guardarsi pensare, con tutta la fretta che aveva, in una sorta di cupa assenza di sorpresa: ‘Byron Bunch che fa nascere un bambino. Se mi fossi potuto vedere adesso due settimane fa, non avrei creduto ai miei occhi. Gli avrei detto che se lo inventavano’.
La finestra dietro la quale sei ore prima aveva lasciato il sacerdote era buia. Correndo, pensò alla testa calva, i pugni serrati, il flaccido corpo prono abbandonato sullo scrittoio. ‘Ma mi sa che non avrà dormito molto’ pensò. ‘Anche se non fa la parte della... della...’. Non gli veniva in mente la parola levatrice, che sapeva Hightower avrebbe usato. ‘Mi sa che non c’è bisogno che ci stia a pensare’ pensò. ‘Come uno che corre verso un fucile o scappa davanti a un fucile mica ha il tempo di stare a preoccuparsi se la parola per quello che sta facendo è coraggio o vigliaccheria’.
La porta non era chiusa. Evidentemente sapeva che non lo sarebbe stata. Avanzò a tentoni lungo il corridoio, facendo rumore, senza neanche stare attento a non farlo. Non si era mai addentrato in quella casa oltre la stanza dove per l’ultima volta aveva visto il proprietario abbandonato sullo scrittoio sotto la piena luce della lampada. Eppure andò quasi diritto alla porta giusta come se la conoscesse, o la vedesse, o vi venisse condotto. ‘È così che la chiamerebbe lui’ pensò, brancolando in fretta nell’oscurità. ‘E anche lei’. Intendeva Lena, laggiù distesa in quella casupola, già nel mezzo delle doglie. ‘Solo che fra tutti e due avrebbe un nome differente per chi ha preso le cose in mano’. Adesso, prima di entrare nella stanza, sentiva Hightower che russava. ‘Non è tanto sconvolto, dopotutto’ pensa. Poi immediatamente pensò: ‘No. Questo non è giusto. Questo non è giusto. Perché non lo credo. Lo so che se lui dorme e io no è perché lui è un vecchio e non può resistere quanto riesco a resistere io’.
Si avvicinò al letto. L’occupante, tuttora invisibile, russava profondamente. In quel suo russare c’era come una resa profonda e totale. Non tanto uno sfinimento quanto una resa, come se avesse finalmente detto basta, avesse allentato la sua presa su quell’insieme di orgoglio, di speranza, di vanità e di paura, su quella forza di restare attaccati alla disfatta come alla vittoria, che costituisce l’Io-Sono, la rinuncia al quale è di solito la morte. Fermo accanto al letto Byron pensa di nuovo Una cosa brutta. Una cosa brutta Gli pareva adesso che svegliare quell’uomo dal sonno sarebbe stata l’offesa più dolorosa che gli avesse mai fatto. ‘Ma non sono io che sto aspettando’ pensò. ‘Lo sa Iddio. Perché mi sa che Lui da un po’ di tempo sta guardando anche me, come tutti gli altri, per vedere che cosa farò’.
Toccò il dormiente, non sgarbatamente ma con fermezza. Hightower si interruppe a metà russare; sotto la mano di Byron si tirò su di colpo, enorme. «Sì?» disse. «Cosa? Chi è? Chi c’è?».
«Sono io» disse Byron. «Sono ancora Byron. È sveglio, adesso?».
«Sì. Cosa...».
«Sì» disse Byron. «Dice che sta per arrivare. Che ormai ci siamo».
«Chi, dice?».
«Mi dica dov’è la luce... La signora Hines. È laggiù. Io vado avanti a cercare il dottore. Ma potrebbe volerci un po’ di tempo. Sicché lei può prendere il mio mulo. Ce la farà, no? a arrivare fino a là. Ce l’ha ancora il suo libro?».
Il letto scricchiolò al muoversi di Hightower. «Il libro? Il mio libro?».
«Il libro che usò quando arrivò quel bambino negro. Volevo solo ricordarglielo caso mai avesse bisogno di portarselo dietro. In caso non tornassi in tempo col dottore. Il mulo è fuori al cancello. La strada la sa. Io vado a piedi in città a prendere il dottore. Torno laggiù appena posso». Si girò e riattraversò la stanza. Udì, sentì l’altro tirarsi su a sedere sul letto. Si soffermò in mezzo alla stanza quanto bastò per trovare il filo ciondoloni della lampadina e tirarlo. Quando la luce si accese lui stava già avviandosi alla porta. Non si volse a guardare. Dietro di sé udì la voce di Hightower:
«Byron! Byron!». Non si fermò, non rispose.
L’alba cresceva. Lui andava rapido per la strada, sotto i lampioni distanziati e sempre più fiochi intorno ai quali gli insetti continuavano a vorticare e ad andare a sbattere. Ma il giorno cresceva; quando raggiunse la piazza, la facciata del lato orientale si stagliava netta contro il cielo. Pensava rapido. Non aveva preso alcun accordo con un dottore. Adesso mentre camminava si malediceva, còlto da tutto il groviglio di terrore e di rabbia d’un qualsiasi vero giovane padre per quella che era convinto fosse stata una stupida, criminale negligenza. Tuttavia non si trattava proprio della sollecitudine di un padre imminente. Dietro c’era qualcos’altro, di cui si sarebbe reso conto soltanto più tardi. Era come se nella sua mente, tuttora confusa dalla necessità di far presto, si aggirasse qualcosa che stava per saltargli addosso con gli artigli fuori. Ma quello che stava pensando era, ‘Bisogna che decida alla svelta. Dicevano che quel bambino nero lo fece nascere bene. Ma ora è diverso. Avrei dovuto farlo l’altra settimana, pensare prima a un dottore invece di aspettare, dover spiegare ora all’ultimo momento, andare in cerca di casa in casa finché ne trovo uno disposto a venire, che creda alle balle che dovrò dire. Mi prenda un accidente se uno come me, con tutte le balle che ha detto negli ultimi tempi, non riesce a dirne una che qualcuno finisca per crederci, uomo o donna. Ma sembra proprio che non ci riesca. Proprio mi sa che non ce l’ho dentro, quella di dire una balla bella e buona, e dirla per bene’. Camminava rapido, i passi che risuonavano vuoti e solitari nella strada deserta; la decisione era già stata presa senza che lui neanche se ne fosse reso conto. Ai suoi occhi, non c’era niente di paradossale né di strano. Gli era saltato in testa troppo alla svelta, e vi si era già troppo radicata quando se ne rese conto; i suoi piedi le stavano già obbedendo. Lo stavano portando alla casa dello stesso dottore che era arrivato troppo tardi alla nascita del bambino negro, e alla quale Hightower aveva officiato col suo rasoio e il suo libro.
Anche questa volta il dottore arrivò troppo tardi. Byron dovette attendere che si vestisse. Era un uomo ormai anziano e puntiglioso, e piuttosto seccato di venire buttato giù dal letto a quell’ora. Dovette poi mettersi a cercare la chiave dell’automobile, che teneva in una scatolina di metallo la cui chiave, a sua volta, non riusciva a trovare. Né permise a Byron di rompere la serratura. Così, quando alla fine arrivarono alla casetta, a est il cielo era giallo primula e c’era già un accenno del sole veloce dell’estate. E di nuovo quei due uomini, ormai entrambi più anziani, si incontrarono sulla porta di una casetta composta da una sola stanza, col professionista che ancora una volta era stato battuto dal dilettante, perché quando il dottore varcò la soglia, udì il pianto del bambino. Nervoso, il dottore guardò il sacerdote sbattendo gli occhi. «Be’, dottore» disse. «Peccato che Byron non mi abbia detto che l’aveva già chiamata. Sarei ancora a letto». Oltrepassò il sacerdote ed entrò. «Si direbbe che oggi le è andata meglio dell’ultima volta che abbiamo avuto un consulto. Solo che si direbbe che anche lei abbia bisogno d’un dottore. O forse quello di cui ha bisogno è una tazza di caffè». Hightower disse qualcosa ma il dottore era andato avanti, senza fermarsi a ascoltare. Entrò nella stanza, dove una giovane che non aveva mai visto giaceva spenta ed esangue su una branda militare, e una vecchia con un vestito viola, anche lei mai vista prima, teneva il bambino in grembo. Su una seconda branda, nell’ombra, c’era un vecchio che dormiva. Quando il dottore lo notò, disse fra sé e sé che sembrava morto, da quanto profondo e sereno era il suo sonno. Si avvicinò alla vecchia che teneva il bambino. «Bene, bene» disse. «Byron doveva essere parecchio agitato. Mica mi ha detto che c’era a disposizione tutta la famiglia, anche il nonno e la nonna». La donna alzò gli occhi a guardarlo. Lui pensò, ‘Ha l’aria viva più o meno quanto lui, anche se sta seduta. Non sembra neanche che riesca a rendersi conto di avere una figlia, figuriamoci un nipotino’.
«Sì» disse la donna. Lo guardava dal basso in alto, accovacciata sul bambino. Poi lui vide che la sua faccia non era stupida, non era vacua. Vide che era allo stesso tempo serena e terribile, come se il sereno e il terrore fossero entrambi defunti tanto tempo prima e fossero tornati in vita insieme. Ma notò soprattutto la sua posizione, allo stesso momento come una roccia e come una belva in agguato. La donna fece un cenno con il capo verso l’uomo; per la prima volta il dottore lo guardò bene, là che dormiva sull’altra branda. Lei disse, in un bisbiglio al contempo furbesco e teso di un terrore che si affievoliva: «L’ho fregato. Gli ho detto che stavolta lei arrivava dal dietro. L’ho fregato. Ma ora è arrivato. Adesso può occuparsi di Milly. A Joey ci penso io». Poi tutto questo svanì. Mentre lui guardava, la vita, la vividezza, si estinse, fuggì da una faccia che sembrava troppo immobile, troppo smorta per averla mai potuta albergare; adesso gli occhi lo interrogavano con uno sguardo intontito, inarticolato, sconcertato, mentre rimaneva accovacciata sul bambino come se lui fosse stato lì lì per strapparglielo. Forse il movimento che lei aveva fatto lo svegliò; emise un unico vagito. Poi anche lo sconcerto svanì. Fuggì rapido come un’ombra; lei abbassò lo sguardo sul bambino, pensosa, legnosa, grottesca. «È Joey» disse. «È il piccino della mia Milly».
E Byron, fuori della porta dove si era fermato quando il dottore era entrato, sentì quel vagito e gli successe qualcosa di terribile. La signora Hines lo aveva chiamato fuori dalla sua tenda. Qualcosa nella sua voce gli aveva fatto infilare i pantaloni mentre stava già quasi correndo, e sulla porta della casupola passò accanto alla signora Hines, che non si era neanche spogliata, e corse dentro. Poi la vide, e questo lo arrestò di colpo come fosse stato un muro. La signora Hines gli era al gomito e gli parlava; forse lui rispose, le disse qualcosa. Comunque aveva sellato il mulo e stava già galoppando verso la città, con l’impressione di stare ancora guardandola, di stare ancora guardando la sua faccia mentre distesa sulla branda si sollevava sulle braccia puntate e guardava in giù verso la forma del suo corpo sotto il lenzuolo, gemendo di terrore e disperazione. Continuò a vederla per tutto il tempo che gli ci volle a svegliare Hightower, per tutto il tempo che mise fretta al dottore, mentre dentro di lui quella cosa unghiuta incombeva in agguato, e il pensiero correva troppo rapido per dargli il tempo di pensare. Ecco che cos’era. Un pensiero troppo veloce per il pensiero, almeno finché insieme al dottore fosse tornato alla casupola. E poi, appena fuori della porta della casupola dove si era arrestato, udì il bambino emettere un vagito e gli successe qualcosa di terribile.
Capì adesso cos’era che incombeva, unghiuto, in agguato, mentre attraversava la piazza deserta in cerca del dottore che aveva omesso di fissare. Capì adesso perché aveva omesso di fissare un dottore in anticipo. Era perché fino a che la signora Hines non l’aveva chiamato fuori dalla sua tenda, non aveva creduto che lui (che lei) ne avrebbe mai avuto bisogno, che ce ne sarebbe mai stato bisogno. Era come se ormai da una settimana i suoi occhi avessero accettato la sua pancia senza che la mente ci credesse. ‘Eppure lo sapevo, ci credevo’ pensò. ‘Dovevo averlo capito, per fare quello che ho fatto: tutto quel correre di qua e di là, tutte le balle, il seccare la gente’. Ma adesso si rendeva conto che fino a quando non era passato di corsa accanto alla signora Hines e non aveva guardato dentro la casupola, non ci aveva creduto. Quando la voce della signora Hines per la prima volta gli era entrata nel sonno, aveva capito che cos’era, che cosa era successo; si alzò e si mise, quasi fosse un paio di affrettati pantaloni, la necessità della fretta, sapendo perché, sapendo che ormai da cinque notti se lo aspettava. Eppure ancora non ci credeva. Capì adesso che quando era corso dentro e aveva guardato, si aspettava di vederla su, seduta; magari che gli venisse incontro sulla porta, placida, immutata, fuori del tempo. Ma anche quando aveva messo mano alla porta aveva udito qualcosa che non aveva mai udito prima. Era un gemito lamentoso, con un che di appassionato e insieme di abbietto, che sembrava parlare chiaramente a qualcosa in una lingua che lui sapeva non essere la sua né quella di un qualsiasi altro uomo. Poi passò oltre la signora Hines sulla porta e vide lei distesa sulla branda. Prima di allora non l’aveva mai vista a letto, e era convinto che quando, o se, ce l’avesse mai vista, sarebbe stata tesa, viva, magari un po’ sorridente, e totalmente consapevole di lui. Ma quando entrò, lei non lo guardò neppure. Non sembrava neppure essersi accorta che la porta si era spalancata, che nella stanza c’era qualcuno o qualcosa oltre a lei e alla cosa a cui con quel grido lamentoso aveva parlato in una lingua ignota ad uomo. Era coperta fino al mento ma il torso si tirava su sulle braccia, e il capo era chino. Aveva i capelli sciolti e gli occhi erano come due buchi, e la bocca era esangue come il guanciale dietro di lei, e mentre in quell’atteggiamento di allarme e di sorpresa sembrava contemplare con una sorta di incredula indignazione la forma del suo corpo sotto le coperte, emise di nuovo quel forte, abbietto grido lamentoso. Adesso la signora Hines era china su di lei. Volse la testa, quella faccia legnosa, sopra la spalla viola. «Vada» disse. «Vada a chiamare il dottore. Ci siamo».
Non ricordava assolutamente di essere andato alla stalla. Tuttavia ecco che era lì, a acchiappare il mulo, tirar fuori la sella e sbattergliela sopra. Faceva veloce, e tuttavia il pensiero era lentissimo. Ora si rendeva conto del perché. Ora si rendeva conto che il pensiero era fluito lento e senza intoppi quasi per una sorta di calcolo, come l’olio si allarga lentamente su una superficie all’addensarsi di una tempesta. ‘Se allora l’avessi saputo’ pensò. ‘Se allora l’avessi saputo. Se mi fosse entrato dentro’. Lo pensò calmo, con una disperazione e un rimpianto terribili. ‘Sì. Avrei girato la schiena e me ne sarei andato dall’altra parte’. Ma non l’aveva fatto. Era passato davanti alla casupola al galoppo, col pensiero che filava continuo e senza intoppi, senza ancora sapere perché. ‘Mi basta passare e esser lontano prima che strilli un’altra volta’ pensò. ‘Mi basta passare e esser lontano prima di doverla sentire un’altra volta’. Questo lo portò avanti per un po’, fino alla strada, con la piccola bestia dura e muscolosa che adesso andava forte, il pensiero, l’olio, che si allargava continuo e senza intoppi: ‘Prima vado da Hightower. Il mulo lo lascio a lui. Devo ricordarmi di rammentargli il libro da dottore. Bisogna che non me ne scordi’ diceva l’olio, portandolo fino a là, dove balzò giù dal mulo ancora al galoppo e entrò nella casa di Hightower. Poi aveva qualcos’altro. ‘Questa è fatta’ pensando Anche se non riesco a trovare un dottore vero Questo lo portò fino alla piazza, e poi lo tradì; lo sentì che artigliava e incombeva, pensando Anche se non trovo un dottore vero. Perché non ho mai creduto di averne bisogno. Non ci ho mai creduto Ce l’aveva nella testa, che galoppava a rompicollo, paradossalmente aggiogato alla necessità di fare in fretta, mentre aiutava il vecchio dottore a cercare la chiave della piccola cassaforte per arrivare alla chiave d’accensione dell’automobile. La trovarono, finalmente, e per un po’ la necessità di fare in fretta andò di pari passo con il movimento, la velocità, lungo la strada vuota sotto l’alba vuota – quello, oppure, come fa la gente, aveva rimesso tutta la realtà, tutta la paura e il terrore, nelle mani del dottore accanto a lui. Comunque, ciò gli permise di ritornare fin laggiù, dove insieme lasciarono l’automobile e si avvicinarono alla porta della casupola, oltre la quale la lampada era ancora accesa: per quell’intervallo egli corse nello iato finale della pace prima che il colpo si abbattesse e la cosa unghiuta lo raggiungesse da dietro. Poi udì il bambino piangere. Allora capì. L’alba avanzava rapida. Rimase immobile in quella pace fredda, nel silenzio che si risvegliava – piccolo, insignificante, uno che mai, in nessun posto, uomo o donna si era girato a guardare una seconda volta. Capiva adesso che c’era sempre stato qualcosa che lo aveva protetto dal credere, mentre il credere lo proteggeva. Con duro, austero stupore, pensò È come se soltanto quando la signora Hines mi ha chiamato e l’ho sentita e ho visto la sua faccia e ho capito che per lei in quel momento Byron Bunch non era assolutamente nulla, io abbia scoperto che non è vergine E pensò che era terribile, ma non era tutto. C’era qualcos’altro. Non stava a capo chino. Se ne stava immobile nell’alba che aumentava, mentre il pensiero andava avanti, calmo E mi tocca anche questo, come dice il reverendo Hightower. Adesso dovrò dirglielo. Dovrò dirlo a Lucas Burch Non era sorpresa, adesso. Era qualcosa come la terribile e irrimediabile disperazione dell’adolescenza. Be’, finora non credevo neanche che lui esistesse. Era come se io, lei, e tutta l’altra gente che ho dovuto metterci di mezzo, fossimo solo un sacco di parole che non corrispondevano neanche a qualcosa, non fossero neanche noi, mentre per tutto il tempo quello che era noi continuava a andare avanti senza neanche accorgersi che le parole non c’erano. Sì. Fino a adesso non ho mai creduto che Lucas Burch esista. Che ci sia mai stato un Lucas Burch.
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‘Fortuna’ dice Hightower; ‘fortuna. Non so se abbia avuto fortuna oppure no’. Ma il dottore è andato avanti e è entrato. Voltandosi a guardare ancora per un momento, Hightower osserva il gruppetto intorno alla branda, continua a sentire la voce allegra del dottore. La vecchia adesso se ne sta seduta in silenzio, ma a guardarla gli sembra sia passato solo un istante da quando stava lottando con lei per prendere il bambino, per la paura che nel suo muto e furioso terrore lo facesse cadere. Ma lei, non meno furiosa perché muta, era come se, il bambino quasi strappato dal corpo della madre, lo levasse in alto, col suo corpo pesante e in agguato come un orso, fissando con odio il vecchio addormentato sulla branda. Quando Hightower era arrivato, lui stava dormendo. Non sembrava neanche respirare, e quando era entrato il reverendo la donna era in agguato su una seggiola accanto alla branda. Sembrava esattamente un masso in bilico su un burrone, pronto a precipitare, e per un istante Hightower pensò L’ha già ammazzato. Questa volta ha preso le sue precauzioni parecchio in anticipo Poi ebbe molto daffare; la vecchia era gomito a gomito senza che lui neanche se ne fosse accorto finché lei afferrò il bambino prima ancora che respirasse e lo levò in alto, fissando il vecchio addormentato sull’altra branda con una faccia da tigre. Poi il bambino respirò e pianse, e la donna sembrò rispondergli, anche lei in una lingua sconosciuta, selvaggia e trionfante. La sua faccia si fece quasi maniacale quando lui lottò con lei e glielo prese prima che lo facesse cadere. «Vede» disse. «Guardi! È tranquillo. Non glielo porterà via, questa volta». Lei continuò a fissarlo, muta, animalesca, come se non capisse l’inglese. Ma il furore, il trionfo, le era scomparso dal viso: emetteva un gemito rauco, cercando di riprendergli il bambino. «Attenta, ora» disse lui. «Starà attenta?». Lei annuì, gemendo, palpando leggera il bambino. Ma le mani erano ferme, e lui glielo lasciò prendere. E adesso è lì seduta col bambino in grembo mentre il dottore che è arrivato troppo tardi sta accanto alla branda e continua a parlare con la sua voce cordiale e risentita, mentre le sue mani sono indaffarate. Hightower si gira e esce, cauto come un vecchio nello scendere dallo scalino rotto, quasi che nella pancia cascante avesse qualcosa di fatale e delicatissimo, come dinamite. Ormai è più che l’alba; è mattina: già il sole. Si guarda intorno, si ferma; chiama: «Byron». Non c’è risposta. Poi vede che anche il mulo, che aveva legato lì vicino a un palo dello steccato, è scomparso. Sospira. ‘Be’’ pensa. ‘Così, eccomi al punto in cui l’umiliazione finale da subire da parte di Byron è una camminata di due miglia da qui a casa. Non vale neppure la pena di prendersela, anche se non è degno di Byron, dell’odio. Ma quante volte quello che facciamo non lo è. Così come non lo siamo noi di quello che facciamo’.
Torna lentamente in città – un uomo scarno con una grande pancia, un panama sporco e il fondo di una ruvida camicia da notte di cotone infilato nei pantaloni neri. ‘Per fortuna, con tutta quella fretta, le scarpe me le sono messe’ pensa. ‘Sono esausto’ pensa, irritato. ‘Sono esausto, e non riuscirò a dormire’. Lo sta pensando irritato, stancamente, a tempo coi suoi passi, quando svolta nel suo cancello. Adesso il sole è alto, la città si è svegliata; fiuta qua e là il fumo delle colazioni sul fuoco. ‘Il minimo che poteva fare,’ pensa ‘visto che non mi ha lasciato il mulo, era venire avanti a accendermi il fuoco in cucina. Visto che secondo lui mi fa bene all’appetito farmi una camminatina di due miglia prima di mangiare’.
Va in cucina e accende, lentamente, maldestramente; altrettanto maldestramente della prima volta che aveva tentato di farlo, venticinque anni prima, e mette il caffè sul fuoco. ‘E poi torno a letto’ pensa. ‘Però so già che non dormirò’. Tuttavia sente un che di querulo in quello che pensa, come il tranquillo piagnucolare d’una donna querimoniosa che neanche fa caso a quello che dice; poi si accorge che si sta preparando la sua solita abbondante colazione, e di colpo si interrompe, schioccando la lingua come scocciato. ‘Dovrei sentirmi peggio di come mi sento’ pensa. Ma deve ammettere che non è così. E mentre è lì fermo, lungo, sgraziato, solo nella sua solitaria cucina maltenuta, con in mano un tegamino di ferro nel quale il grasso vecchio di ieri è tristemente rappreso, viene traversato da una vampa, un’ondata, una carica d’un qualcosa quasi rovente, quasi trionfale. ‘Gliel’ho fatta vedere, a tutti quanti!’ pensa. ‘Torna la vita, a questo vecchio, mentre loro arrivano troppo tardi. Arrivano per i suoi avanzi, come direbbe Byron’. Ma questa è vanità, vuoto orgoglio. Tuttavia quella lenta vampa che sta acquetandosi non se ne cura, impervia al rimprovero. Pensa, ‘E con ciò? E anche se lo provo, orgoglio e vanità?’. Ma evidentemente quel calore, quella vampa, non ha bisogno di appoggio né se ne cura; né si appaga della concretezza di un’arancia e di due uova col pane tostato. E abbassa gli occhi ai vuoti piatti sporchi sulla tavola e dice, adesso ad alta voce: «Che Dio mi perdoni. Non ho nessuna voglia di mettermi a lavarli, adesso». Né va in camera a tentare di dormire. Va alla porta e guarda dentro, con quella vampa di determinazione e di orgoglio, pensando, ‘Se fossi una donna, ora. Ecco cosa farebbe una donna: tornare a letto a riposare’. Va nello studio. Adesso si muove come uno che ha uno scopo preciso, lui che per venticinque anni non ha fatto assolutamente niente dal momento della sveglia al momento di rimettersi giù a dormire. Né è il Tennyson il libro che adesso sceglie: anche questa volta, sceglie cibo per uomo. È l’Enrico IV, e va fuori sul retro e si distende sull’avvallata sedia a sdraio all’ombra del gelso, lasciandocisi cadere pesante e massiccio. ‘Ma non riuscirò a dormire,’ pensa ‘perché tanto fra poco arriva Byron e mi sveglia. Ma anche solo per scoprire che cos’altro riesce a escogitare da farmi fare, vale quasi la pena di restare svegli’.
Si addormenta presto, quasi immediatamente, russando. Uno che si soffermasse ad abbassare gli occhi sulla sedia vedrebbe, sotto il doppio riflesso del cielo sulle lenti, un viso innocente, sereno e sicuro. Ma non viene nessuno, anche se quando sei ore più tardi si sveglia sembra avere l’impressione che qualcuno lo abbia chiamato. Si tira su a sedere di colpo, la sedia che scricchiola sotto di lui. «Sì?» dice. «Sì? Cosa c’è?». Ma non c’è nessuno, anche se per un momento ancora si guarda attorno, e sembra ascoltare, in attesa, con quell’aria risoluta e sicura. Né quella vampa è scomparsa. ‘Anche se speravo che dormendo mi passasse’ pensa, subito pensando, ‘No. Non voglio dire speravo. Quello che ho in mente è temevo. E così anch’io mi sono arreso’ pensa, calmo, immobile. Comincia a fregarsi le mani, dapprima con delicatezza, con un che di colpevole. ‘Anch’io mi sono arreso. E me lo concederò. Sì. Forse anche questo mi è riservato. E così me lo concederò’. E poi lo dice, lo pensa Quel bambino che ho fatto nascere. Io non ho nessuno che porti il mio nome. Ma anche prima di adesso sapevo di tanti a cui per gratitudine la madre ha dato il nome del dottore che l’aveva fatto nascere. Però c’è Byron. Byron è naturale che abbia la precedenza. Lei dovrà averne degli altri ricordando il forte corpo giovane dal cui stesso travaglio risplendeva un che di sereno e di immune alla paura Degli altri. Molti altri. Quella sarà la sua vita, il suo destino. Il buon ceppo che, obbedendole, popola la buona terra; da questi forti lombi discendendo, senza fretta o precipitazione, di madre in figlia. Ma generato da Byron, il prossimo. Povero ragazzo. Anche se mi ha fatto tornare a casa a piedi
Entra in casa. Si rade, si toglie la camicia da notte e si mette la camicia che indossava ieri, e un colletto, una cravatta di linone e il panama. La camminata fino alla casupola non gli prende quanto gli aveva preso il ritorno a casa, benché adesso passi dal bosco dove camminare è più difficile. ‘Devo farlo più spesso’ pensa, sentendo il sole intermittente, il caldo, fiutando l’odore selvaggio e fecondo della terra, del bosco, il silenzio assordante. ‘Anche questa è un’abitudine che non avrei mai dovuto perdere. Ma forse mi torneranno tutte e due, ammesso che questo già di per sé non sia lo stesso che pregare’.
Emerge dal bosco all’estremità del pascolo dietro la casupola. Oltre la casupola vede il folto d’alberi dove prima si levava la casa che era bruciata, benché da qui non possa vedere i muti tizzoni carbonizzati di quelle che una volta erano le assi e le travi. ‘Povera donna’ pensa. ‘Povera donna sterile. Non esser vissuta anche una sola settimana di più, finché la fortuna ritornava in questo posto. Finché la fortuna e la vita ritornavano in questi sterili terreni in rovina’. Gli sembra di vedere, di sentire intorno a sé i fantasmi di campi ricchi, e la ricca, feconda vita nera delle capanne, le grida morbide, la presenza di donne feconde, i prolifici bambini nudi nella polvere davanti alle porte; e di nuovo la grande casa rumorosa, assordante di generazioni di grida bianche. Giunge alla casupola. Non bussa; la mano che già apre la porta, chiama con una voce forte che quasi rimbomba: «Può entrare il dottore?».
La casupola è vuota se non per la madre e il bambino. Lei sta su a sedere sulla branda, il bambino al seno. Quando Hightower entra, si sta tirando il lenzuolo sul petto nudo, guardando la porta non in allarme ma attenta, il viso fisso in un’espressione calda e serena come se fosse sul punto di sorridere. Lui vede che svanisce. «Credevo...» dice lei.
«Chi credevi?» dice lui, rimbombando. Si avvicina al giaciglio e la guarda, guarda la vizza faccina color terracotta del bambino che sembra sospesa al petto, senza corpo e ancora addormentata. Di nuovo lei si tira su il lenzuolo, modesta e tranquilla; immobile sopra di lei, quell’uomo calvo, scarno, panciuto ha sul viso un’espressione gentile, raggiante, trionfale. Lei, la testa china, guarda il suo piccino.
«Sembra proprio che non ne abbia mai abbastanza. Ha l’aria di essersi riaddormentato, lo metto giù e subito si mette a strillare e devo riattaccarlo».
«Non dovresti stare qui da sola» dice lui. Si guarda intorno per la stanza. «Dove...».
«È andata via anche lei. In città. Non l’ha detto, ma è là che è andata. Lui se l’è svignata, e quando lei si è svegliata mi ha chiesto dov’era e gliel’ho detto, era uscito, e lei gli è andata dietro».
«In città? Svignato?». Poi fa «Oh», piano. Adesso il suo viso è serio.
«L’ha tenuto d’occhio tutto il giorno. E lui teneva d’occhio lei. Lo capivo. Faceva finta di dormire. Lei era convinta che dormisse. E così dopo mangiato è crollata. Non si era riposata per niente ieri notte, e dopo mangiato si è messa sulla seggiola e si è appisolata. Lui la teneva d’occhio, e si è alzato da quella branda, piano piano, guardandomi di sbieco e facendomi l’occhiolino. È andato alla porta, sempre voltato a guardarmi di sbieco facendomi l’occhiolino, e è uscito in punta dei piedi. Io non ho cercato di fermarlo e nemmeno di svegliare lei». Guarda in su verso Hightower, gli occhi seri, spalancati. «Avevo paura a farlo. Parla strano. E come mi guardava. Come se tutto quel farmi l’occhiolino e guardarmi di sbieco non fosse per non svegliarla, ma per dirmi cosa mi sarebbe successo se lo facevo. E avevo paura. Così sono restata qui a letto col bambino e dopo un po’ si è svegliata di scatto. Allora ho capito che non avrebbe voluto addormentarsi. Era come se si svegliasse e già correva alla branda dove prima c’era lui, toccandola come se non riuscisse a credere che se n’era andato. Perché stava lì alla branda, palpeggiando la coperta come se magari pensasse che si era perso da qualche parte dentro la coperta. E poi mi ha guardata, una volta sola. E mica mi faceva l’occhiolino e mi guardava di sbieco, macché, però avrei preferito lo facesse. E mi ha chiesto e io gliel’ho detto, e lei si è messa il cappello e è uscita». Guarda Hightower. «Sono contenta che se ne sia andata. Mi sa che non dovrei dirlo, dopo tutto quello che ha fatto per me. Ma...».
Hightower è immobile sopra il giaciglio. Sembra non vederla neanche. Il viso è serissimo; è come se fosse invecchiata di dieci anni da quando lui è lì in piedi. O forse è come se adesso avesse l’aspetto che dovrebbe avere, e che quando lui è entrato la sua faccia non potesse neanche riconoscersi allo specchio. «In città» dice. Poi i suoi occhi si svegliano, e di nuovo vedono. «Be’. Non ci si può più fare nulla, ormai» dice. «E poi, gli uomini in centro, quelli che ragionano... qualcuno ce ne sarà... Perché sei contenta che se ne siano andati?».
Lei abbassa gli occhi. La sua mano si muove intorno alla testa del bambino, senza toccarla: un gesto istintivo, non necessario, apparentemente inconsapevole. «È stata gentile. Più che gentile. A tenere il bambino così potevo riposare. Vuole sempre tenerlo lei, seduta lì su quella seggiola... Dovrà scusarmi. Non l’ho nemmeno invitato a sedersi». Lo guarda trascinare la seggiola vicino alla branda e sedersi. «... seduta lì per tenerlo d’occhio sulla sua branda, che faceva finta di dormire». Guarda Hightower; i suoi occhi intenti, interrogativi. «Non fa che chiamarlo Joey. Quando mica si chiama Joey. E non fa che...». Guarda Hightower. Adesso i suoi occhi sono perplessi, dubbiosi, interrogativi. «Non fa che parlare di... È tutta confusa, non so come. E in certi momenti mi confondo anch’io, a ascoltare, a dover...». I suoi occhi, le sue parole, annaspano, brancolano.
«Si confonde?».
«Non fa che parlare di lui come se il suo babbo fosse quel... quello in prigione, quel signor Christmas. Non la fa mai finita, e allora mi confondo anch’io e anche a me mi viene da pensare che il suo babbo è quel signor... quel signor Christmas...». Lo guarda; è come stesse facendo un qualche terribile sforzo. «Ma lo so che non è così. Lo so che è una sciocchezza. È perché lei non fa che ripeterlo e ripeterlo e io ancora non sono bella forte, e finisco per confondermi anch’io. Ma ho paura...».
«Di che cosa?».
«Non mi piace esser confusa. E ho paura che lei finisca per confondermi, come quando dicono che se incroci gli occhi, poi non riesci più a farli tornare diritti...». Cessa di guardarlo. Non si muove. Sente che lui la sta guardando.
«Dici che non si chiama Joey. Come si chiama?».
Ancora per un momento non guarda Hightower. Poi alza gli occhi. Dice, troppo immediatamente, troppo sicura: «Ancora non glielo ho dato, il nome».
E lui capisce perché. È come se la vedesse per la prima volta da quando è entrato. Per la prima volta nota che i suoi capelli sono stati pettinati da poco e che si è anche rinfrescata il viso, e vede, mezzo nascosti dal lenzuolo, come se ce li avesse ficcati in fretta mentre lui entrava, un pettine e un pezzo di specchio rotto. «Quando sono entrato, stavi aspettando qualcuno. E non ero io. Chi stavi aspettando?».
Lei non distoglie lo sguardo. Non c’è né innocenza né dissimulazione sul suo viso. E non è né placido né sereno. «Aspettando?».
«Era Byron Bunch che aspettavi?». Lei continua a non distogliere lo sguardo. Il volto di Hightower è serio, fermo, gentile. Tuttavia v’è in esso quella inflessibilità che lei ha veduto sul volto di alcune brave persone, di solito uomini, che ha conosciuto. Lui si china in avanti e posa la mano su quella di lei che sorregge il corpo del bambino. «Byron è un brav’uomo» dice.
«Mi sa che lo so, lo so più di tanti. Più di quasi tutti».
«E tu sei una brava donna. Lo diventerai. Voglio dire...». dice in fretta. Poi si interrompe. «Non volevo dire...».
«Lo so, mi sa» dice lei.
«No. Non quello. Quello non conta. Quello ancora non è niente. Dipende tutto da quello che farai dopo. Di te stessa. Degli altri». La guarda; lei non distoglie lo sguardo. «Lascialo andare. Allontanalo da te». Si guardano. «Allontanalo, figlia mia. Probabilmente hai poco più che la metà dei suoi anni. Ma hai già vissuto il doppio di lui. Non ti raggiungerà mai, non si metterà mai in pari con te, perché ha sprecato troppo tempo. E anche questo, il suo niente, è altrettanto irrimediabile del tuo tutto. Lui non può tornare indietro e fare, e tu non puoi tornare indietro e disfare. Hai un figlio maschio che non è suo, di un uomo che non è lui. Lo costringerai a vivere con due uomini e solo un terzo di una donna, lui che si merita se non altro che il niente col quale è vissuto per quarantacinque anni venga violato, se violato dev’essere, senza due testimoni. Mandalo via».
«Mica sta a me. È libero. Glielo chieda a lui. Non ho mai cercato di trattenerlo».
«È questo. Probabilmente, se ci avessi provato, non saresti riuscita a trattenerlo. È questo. Se avessi saputo come fare a provare. Ma poi, se lo avessi saputo, non saresti qui su questa branda, con questo bambino al petto. Sicché non hai intenzione di mandarlo via? Non hai intenzione di dirglielo?».
«Non posso dire di più di quanto ho già detto. E gli ho detto di no cinque giorni fa».
«Di no?».
«Ha detto di sposarlo. Di non aspettare. E io ho detto di no».
«E diresti no, adesso?».
Lo guarda fisso. «Sì. Lo direi anche adesso».
Lui, grosso, sgraziato, fa un sospiro; il suo viso ancora una volta è fiacco, stanco. «Ti credo. Continuerai a dirlo finché non avrai visto...». Di nuovo la guarda; di nuovo il suo sguardo è intento, duro. «Dov’è? Byron?».
Lei lo guarda. Dopo un momento dice, piano: «Non lo so». Lo guarda; d’un tratto il suo viso è del tutto vuoto, come se qualcosa che gli dava effettiva solidità e fermezza stesse cominciando a defluirne. Adesso non c’è più né dissimulazione né vigilanza né cautela. «Stamattina verso le dieci è tornato. Non è entrato. È venuto alla porta e è rimasto lì, a guardarmi e basta. Non lo vedevo da ieri sera e lui non aveva neanche visto il bambino sicché gli ho detto “Venga a vederlo” e lui mi ha guardato, lì ritto sulla porta, e mi ha detto “Sono venuto a sentire quando vuole vederlo” e io ho detto “Vedere chi?” e lui ha detto “Potrebbero doverlo mandare con un agente ma forse riesco a convincere Kennedy a lasciarlo venire” e io ho detto “Lasciar venire chi?” e lui ha detto “Lucas. Burch” e io ho detto “Sì” e lui ha detto “Stasera? Andrebbe bene?” e io ho detto “Sì” e se ne è andato. È rimasto lì e basta, e poi se ne è andato». Mentre lui la guarda con quel che di disperato che hanno gli uomini alla presenza di lacrime di donna, lei comincia a piangere. Il bambino attaccato al petto, se ne sta lì seduta eretta a piangere, non forte, non a dirotto, ma con una tristezza rassegnata e disperata, senza nascondere il viso. «E lei qui che mi angustia se ho detto No oppure no e gli ho già detto No e lei che continua a angustiarmi e ormai lui se ne è già andato. E non lo rivedrò mai più». E lui lì seduto, e lei che alla fine china la testa, e lui si alza e rimane in piedi accanto a lei con la mano sulla sua testa china, pensando Grazie a Dio, che Dio m’aiuti. Grazie a Dio, che Dio mi aiuti
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Trovò il vecchio sentiero di Christmas che per il bosco arrivava fino alla segheria. Non sapeva che ci fosse, ma quando scoprì in che direzione correva, nella sua esultanza gli apparve come un auspicio. Le crede, ma vuole corroborare l’informazione per il semplice piacere di sentirla ripetere. Sono esattamente le quattro quando arriva alla segheria. Si informa all’ufficio.
«Bunch?» dice il contabile. «Qui non lo trova più. Ha mollato stamattina».
«Lo so, lo so» dice Hightower.
«Stato qui con la ditta sette anni, perfino il sabato pomeriggio. Poi stamattina è entrato e ha detto che mollava. Nessuna ragione. Ma è così che fanno questi zotici».
«Certo, certo» dice Hightower. «Sono brava gente, però. Brav’uomini, e anche le donne». Esce dall’ufficio. La strada per andare in città passa davanti al capannone della segheria, dove lavorava Byron. Lui conosce Mooney, il caposquadra. «Sento che Byron Bunch non è più con voi» dice, soffermandosi.
«Già» dice Mooney. «Ha mollato stamattina». Ma Hightower non sta ascoltando; gli uomini in tuta osservano quella trasandata, sgraziata figura non proprio familiare che guarda con una sorta di esultante interesse le pareti, le assi, i misteriosi macchinari la cui stessa natura e funzione non avrebbe mai potuto imparare o neanche capire. «Se vuole vederlo,» dice Mooney «mi sa che lo trova in paese al tribunale».
«Al tribunale?».
«Sissignore. Il gran giurì è convocato per oggi. Sessione speciale. Per incriminare quell’assassino».
«Certo, certo» dice Hightower. «E così se ne è andato. Certo. Un bravo giovanotto. Buona giornata, buona giornata, signori. Buona giornata a tutti». Prosegue, mentre gli uomini in tuta per un po’ continuano a guardarlo. Tiene le mani intrecciate dietro di sé. Va avanti a passi regolari, pensando con calma, sereno, triste: ‘Pover’uomo. Poveretto. Non c’è, non può esserci giustificazione quando un uomo toglie la vita a un altro; e meno di tutti un ufficiale della legge, uno che ha giurato di servire il suo prossimo. Se poi ciò viene sancito pubblicamente nella persona di un pubblico ufficiale eletto, il quale sa di non aver sofferto per mano della sua vittima, chiamatela come volete, come possiamo aspettarci che un individuo si trattenga quando è convinto di aver sofferto per mano della propria vittima?’. Continua a camminare; adesso è nella sua strada. Ben presto vede la sua siepe, il cartello; poi, di là del ricco fogliame di agosto, la casa. ‘E così se ne è andato senza venire a dirmi addio. Dopo tutto quello che ha fatto per me. Che mi ha portato. Sì: mi ha dato, mi ha ridato. Sembra proprio che mi dovesse toccare anche questo. E questo sarà tutto’.
Ma non è tutto. C’è qualcos’altro che gli è riservato.