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Alla luce della candela, nella morbida luce che dall’alto cadeva sulla morbida, sciolta presenza di una donna che si preparava per andare a dormire, non sembrava avere molto più di trent’anni. Quando la vide alla luce del giorno capì che ne aveva più di trentacinque. In seguito lei gli disse di averne quaranta. ‘Il che vuol dire o quarantuno o quarantanove, da come l’ha detto’ pensò lui. Ma non fu quella prima sera che glielo disse, né per molte di quelle successive.
Gli raccontava assai poco, comunque. Parlavano assai poco, e quando lo facevano era per caso, anche dopo che aveva preso a dividere il suo letto di zitella. A volte era quasi convinto che non parlassero affatto, di non conoscerla per niente. Era come se ci fossero due persone: quella che di tanto in tanto vedeva di giorno, e che guardava mentre si scambiavano parole che non dicevano assolutamente niente perché né cercavano di dire qualcosa né intendevano farlo; l’altra, con la quale giaceva la notte e che neppure vedeva, e con la quale neppure parlava.
Anche dopo un anno (adesso lavorava alla segheria), se mai la vedeva di giorno era al sabato pomeriggio o alla domenica, oppure quando saliva su alla casa per il cibo che lei gli preparava e gli lasciava sul tavolo di cucina. Di tanto in tanto lei veniva in cucina, per quanto non restasse mai mentre lui mangiava, e a volte gli veniva incontro sulla veranda sul retro, dove nei primi quattro o cinque mesi da quando aveva preso a stare nella casupola giù sotto la casa rimanevano in piedi per un po’ a fare due chiacchiere come due estranei. Rimanevano sempre in piedi: lei con uno di quei suoi vestiti da casa di cotonina che aveva in numero apparentemente infinito, o altre volte con una cuffia come una di campagna, e lui adesso con una camicia bianca pulita e i pantaloni di serge adesso stirati una volta alla settimana. Mai che si sedessero a parlare. Lui non l’aveva mai vista seduta, tranne una volta quando aveva guardato dentro una finestra al pianterreno e l’aveva vista seduta a uno scrittoio, che scriveva. Ed era stato un anno dopo aver notato, senza particolare curiosità, quanta posta ricevesse e quanta ne spedisse, e che nella tarda mattinata era sempre seduta a quel vecchio, logoro scrittoio con l’alzata a scomparsa tutto graffiato, in una di quelle stanze al pianterreno poco usate e poco ammobiliate, a scrivere e scrivere, che era venuto a sapere che quelli che lei riceveva erano documenti ufficiali o privati con cinquanta diversi timbri postali, e che quelle che spediva erano risposte – consigli, di carattere commerciale o finanziario o religioso, a rettori, insegnanti e amministratori, e consigli d’ordine pratico e personale a giovani studentesse e anche a diplomate d’una dozzina di scuole e di istituti superiori per negri sparsi in tutto il Sud. Di tanto in tanto si assentava da casa per tre o quattro giorni di fila, e benché lui ormai potesse vederla ogni notte a suo piacimento, passò un anno prima che venisse a sapere che lei visitava quelle scuole di persona per parlare agli insegnanti e agli studenti. I suoi affari erano gestiti da un avvocato negro di Memphis che faceva parte del consiglio d’amministrazione di una di quelle scuole, e nella cui cassaforte, insieme al suo testamento, erano depositate le disposizioni, scritte di suo pugno, riguardo a che fare del suo corpo dopo la morte. Quando lui venne a saperlo capì l’atteggiamento della città nei suoi confronti, pur sapendo che la città non era al corrente di tutto ciò di cui era al corrente lui. Si disse: ‘Qui, allora, nessuno verrà a darmi fastidio’.
Un giorno si rese conto che lei non lo aveva mai invitato a entrare nella casa vera e propria. Non era mai andato oltre la cucina, dove era entrato di propria iniziativa, e pensò, ghignando, ‘Mica può tenermene fuori. E mi sa che lo sa anche lei’. E non era mai entrato in cucina di giorno se non quando veniva a prendere il cibo che lei gli preparava e gli metteva sulla tavola. E quando entrava in casa di notte era come quando c’era entrato quella prima notte; si sentiva come un ladro, un rapinatore, anche mentre saliva su nella camera dove lei lo aspettava. Anche dopo un anno, era come se ogni volta entrasse di soppiatto per depredarla di nuovo della sua verginità. Era come se ogni rotazione dell’oscurità lo vedesse messo di fronte alla necessità di depredare ancora una volta quello che aveva già depredato – o che mai aveva depredato né mai sarebbe riuscito a depredare.
A volte era proprio in questi termini che ci pensava, ricordando quella resa dura, senza una lacrima, senza alcuna autocommiserazione, quasi da uomo. Un riserbo spirituale rimasto intatto così a lungo da immolarsi per puro istinto di conservazione; nella sua fase fisica aveva la forza, e la forza d’animo, di un uomo. Una doppia personalità: una, la donna che appena vista alla candela levata in alto (o forse al suono stesso dell’avvicinarsi delle pantofole) gli aveva aperto davanti, fulmineo come un paesaggio alla luce d’un lampo, un orizzonte fisico di sicurezza e di sensualità se non proprio di piacere; l’altra, i muscoli ben esercitati d’un uomo e lo stesso modo di pensare d’un uomo, altrettanto ben esercitato, nato dal retaggio e dall’ambiente, contro il quale fino all’ultimo istante lui aveva dovuto lottare. Non c’era stato alcun femmineo vacillare, nessuna falsa modestia a cercar di nascondere un ovvio desiderio e l’intenzione, alla fine, di soccombere. Era come se si fosse battuto fisicamente con un altro uomo per un qualcosa che in realtà non aveva alcun vero valore né per l’uno né per l’altro, e per il quale entrambi si battevano soltanto per principio.
Quando la rivide pensò, ‘Mio Dio. Quanto poco ne so delle donne. E dire che credevo di saperne tanto’. Era esattamente il giorno dopo; guardandola, sentendola che gli parlava, fu come se ciò che meno di dodici ore di memoria davano per vero potesse non essere mai successo, e pensò Sotto il vestito non può nemmeno essere fatta in maniera che possa essere successo Ancora non aveva incominciato a lavorare alla segheria. La maggior parte della giornata la passava sdraiato sulla branda che lei gli aveva imprestato, nella casupola che gli aveva dato da viverci, a fumare, le mani dietro la testa. ‘Mio Dio’, pensava, ‘era come se io fossi la donna e lei l’uomo’. Ma neanche questo era vero. Perché lei aveva fatto resistenza fino all’ultimo. Ma non era la resistenza di una donna, quella resistenza che, se genuina, non può essere sopraffatta da nessuno uomo per la semplice ragione che la donna non rispetta le regole della lotta fisica. Lei invece aveva opposto una resistenza leale, seguendo la regola secondo la quale, raggiunto un certo punto critico, una persona era sconfitta, fosse o no venuta meno la resistenza. Quella sera lui attese finché non vide la luce in cucina spengersi e poi accendersi su nella sua camera. Andò alla casa. Non ci andò impaziente, ma con una rabbia gelida. «Gliela farò vedere» disse ad alta voce. Non cercò di far piano. Entrò in casa spavaldo, e salì la scale; lei lo udì subito. «Chi è?» disse. Ma il tono non era allarmato. Era ancora vestita, stava voltandosi, guardava la porta mentre lui entrava. Ma non gli parlò. Semplicemente, lo guardò mentre lui si avvicinava al tavolo, soffiava e spengeva la lampada, pensando, ‘Adesso scapperà’. Così scattò verso la porta, per tagliarle la strada. Ma lei non fuggì. La trovò nel buio esattamente dove la luce l’aveva persa, nella stessa posizione. Cominciò a strapparle i vestiti. Le parlava con una voce tesa, dura, bassa: «Te la farò vedere! Gliela farò vedere, a ’sta puttana!». Lei non fece alcuna resistenza. Era quasi come se lo aiutasse, muovendo appena le membra quando fu il momento dell’aiuto finale. Sotto le sue mani, tuttavia, il corpo avrebbe potuto essere quello di una donna morta non ancora irrigidita. Ma lui non desisté; benché le sue mani fossero dure e pressanti, era soltanto per la rabbia. ‘Almeno ne ho fatto una donna’ pensava. ‘Adesso mi odia. Almeno questo gliel’ho insegnato’.
Il giorno dopo rimase di nuovo sdraiato tutto il giorno sulla sua branda nella casupola. Non mangiò niente; nemmeno andò in cucina a vedere se gli aveva lasciato del cibo. Attendeva il tramonto, il crepuscolo. ‘Poi me ne vado’ pensava. Non si aspettava di rivederla più. ‘Meglio andarsene’ pensava. ‘Non darle il modo di cacciarmi anche dalla sua casupola. Se non altro, questo. Nessuna bianca me l’ha mai fatto. Solo una negra m’ha dato il benservito, m’ha buttato fuori’. Così rimase lì sdraiato sulla branda a fumare, attendendo il tramonto. Dalla porta aperta guardò il sole calare, allungarsi, e farsi di rame. Il rame poi scolorì nel lilla, il lilla scolorito del pieno crepuscolo. Poi sentì le rane, e le lucciole cominciarono a vagare, incerte, al di là della cornice della porta aperta, facendosi più luminose con lo scolorire del crepuscolo. Allora si alzò. Non possedeva nient’altro che il rasoio; una volta che se lo fu messo in tasca, era pronto per un viaggio di un miglio come di mille, ovunque la strada con i suoi impercettibili angoli scegliesse di aprirsi. E tuttavia, quando si avviò, fu verso la casa. Fu come se, appena scoprì che era là che i suoi piedi intendevano andare, li lasciasse fare, come lasciandosi portare, dandosi per vinto, pensando D’accordo D’accordo lasciandosi portare, lasciandosi trasportare nel crepuscolo, su fino alla casa e alla veranda sul retro e alla porta dalla quale sarebbe entrato, che non era mai chiusa a chiave. Ma quando vi appoggiò la mano, non si aprì. Forse in quel momento né la mano né il crederci ci credettero; sembrò rimanere immobile, in silenzio, non ancora pensando, a osservare la propria mano che scuoteva la porta, sentendo all’interno il rumore del chiavistello. Si allontanò in silenzio. Ancora non era furioso. Andò alla porta della cucina. Si aspettava che anche quella fosse chiusa a chiave. Ma non si rese conto, finché scoprì che non lo era, che avrebbe voluto lo fosse. Quando scoprì che non era chiusa a chiave, fu come un insulto. Fu come se un nemico sul quale aveva riversato la più terribile violenza e le più terribili contumelie se ne stesse lì immobile, illeso e indenne, a contemplarlo con un assorto, insopportabile disprezzo. Quando entrò in cucina, non si avvicinò alla porta che dava nella casa vera e propria, la porta alla quale lei era apparsa con la sua candela la notte in cui per la prima volta l’aveva vista. Andò direttamente alla tavola dove lei gli aveva messo il cibo. Non ebbe bisogno di vederlo. Lo videro le sue mani; i piatti erano ancora tiepidi, pensando Messo qui per il negro. Per il negro
Sembrò osservare la propria mano come da lontano. La osservò prendere un piatto, sollevarlo, farlo roteare all’indietro, e tenerlo così mentre lui respirava lento e profondo, meditando assorto. Udì la propria voce dire forte, come se stesse giocando a un qualche gioco: «Pancetta», e guardò la propria mano tirarsi indietro e scaraventare il piatto a infrangersi contro la parete, la parete invisibile, aspettando che il fragore cessasse e il silenzio finisse di rifluire prima di prenderne su un altro. Tenne quel piatto in equilibrio, annusando. Questo qui richiese un po’ di tempo. «Fagioli o verdura?» disse. «Fagioli o spinaci?... D’accordo. Diciamo fagioli». Lo scaraventò, con forza, e aspettò che il fragore venisse meno. Sollevò il terzo piatto. «Qualcosa con delle cipolle» disse, pensando È divertente. Perché non ci ho pensato prima? «Robaccia di donna». Lo scaraventò, lento e con forza, sentendo il fragore, in attesa. Adesso udì qualcos’altro: passi dentro casa, che si avvicinavano alla porta. ‘Stavolta avrà la lampada’ pensò, pensando Se adesso guardassi, vedrei la luce sotto la porta mentre la sua mano ruotava all’indietro adesso è arrivata quasi alla porta «Patate» disse alla fine, in tono deciso, definitivo. Non si volse a guardare, neanche quando udì armeggiare al chiavistello e la porta spalancarsi dall’interno, e la luce cadde su di lui, immobile col piatto levato. «Sì, sono patate» disse lui, col tono intento e immemore di un bambino che gioca da solo. Quel fragore lui lo vide e lo sentì. Poi la luce se ne andò; di nuovo udì la porta richiudersi, di nuovo udì il chiavistello. Ancora non si era voltato a guardare. Prese su l’altro piatto. «Barbabietole» disse. «E poi le barbabietole non mi piacciono».
Il giorno dopo andò a lavorare alla segheria. Cominciò a lavorare di venerdì. Ormai era da mercoledì sera che non metteva un boccone in bocca. Avendo fatto lo straordinario il sabato pomeriggio, non riscosse fino a sera. Il sabato sera, per la prima volta in tre giorni, mangiò in una trattoria in città. Non tornò alla casa. Per un pezzo, quando usciva dalla casupola o vi rientrava, neanche guardò in quella direzione. Di lì a sei mesi, dalla casupola alla segheria aveva finito col tracciare un suo sentiero privato che correva quasi diritto, evitava ogni abitazione, entrava subito nel bosco e andava diritto e ogni giorno sempre più definito e preciso fino alla pila di segatura dove lui lavorava. E sempre, quando alle cinque e mezzo la sirena fischiava, lo rifaceva per tornare alla casupola a cambiarsi e mettersi la camicia bianca e gli scuri pantaloni di serge pieni di grinze, prima di farsi a piedi le due miglia fino in città per andare a mangiare, come se si vergognasse della tuta. O forse non era vergogna, anche se probabilmente non avrebbe saputo dire che lo era, come non avrebbe saputo dire che non lo era.
Non faceva più attenzione a non guardare verso la casa; e neppure la guardava apposta. Per un po’ fu convinto che lei lo avrebbe mandato a chiamare. ‘Farà lei il primo passo’ pensava. Ma lei non lo faceva, quel passo; dopo del tempo lui si convinse che ormai non se lo aspettava più. Tuttavia la prima volta che decise di guardare verso la casa, avvertì con sorpresa una vampata e un tuffo al cuore; allora si rese conto di avere sempre avuto paura che lei fosse là in vista, che fosse sempre stata là a tenerlo d’occhio con quell’immobile, perspicuo disprezzo; ebbe come la sensazione di sudare, di avere superato una prova. ‘È passato’ pensò. ‘Me lo sono messo alle spalle’. Così quando un giorno la vide davvero, non vi fu sorpresa. O comunque non vi fu nessuna vampata e tuffo al cuore quando alzò gli occhi per puro caso, e la vide nel cortile sul retro, col vestito grigio e la cuffia. Non avrebbe saputo dire se lo guardava già da un po’ o se lo avesse visto o se adesso lo stesse guardando oppure no. ‘Tu lasci in pace me e io lascio in pace te’ pensò, pensando L’ho sognato. Non è successo. Non ha niente sotto il vestito per cui possa esser successo
Aveva cominciato a lavorare in primavera. In settembre, una sera tornò a casa, entrò nella casupola, e si fermò di botto, sbalordito. Lei era lì, seduta sulla branda, che lo guardava. Era a capo scoperto. Non l’aveva mai veduta così, anche se nell’oscurità aveva sentito sul cuscino scuro l’abbandono dei capelli sciolti, non ancora scarmigliati. Ma non li aveva mai visti, e rimase a fissarli, e a fissare solo quelli, mentre lei lo osservava; improvvisamente si disse, nell’istante in cui riprendeva a muoversi: ‘Sta cercando. Me l’aspettavo che ci fosse del grigio Sta cercando di essere una donna e non sa come si fa’. Pensando, capendo È venuta per parlarmi Due ore dopo lei stava ancora parlando; erano seduti fianco a fianco sulla branda nella casupola ormai buia. Gli disse che aveva quarantun anni e che era nata in quella casa e che da allora era sempre vissuta lì. Che non era mai stata via da Jefferson per più di sei mesi alla volta e sempre a distanza di lunghi intervalli, mesi pieni di nostalgia per quelle nude pareti di assi inchiodate, la terra gli alberi e i cespugli che costituivano il posto che per lei e per i suoi era una terra straniera; ancora adesso quando parlava, dopo quarant’anni, fra le consonanti slabbrate e le vocali piatte della terra dove era stata scagliata la sua vita, il New England si percepiva chiaro come nella parlata della sua gente, che mai aveva lasciato il New Hampshire e che lei aveva visto forse tre volte in vita sua, in tutti i suoi quarant’anni. Seduto accanto a lei sulla branda scura mentre la luce moriva e alla fine la sua voce usciva dal nulla, continua, interminabile, impostata quasi come la voce di un uomo, Christmas pensava, ‘È come tutte le altre. Che abbiano diciassette anni o quarantasette, quando alla fine arrivano a arrendersi del tutto, sarà sempre con le parole’.
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Calvin Burden era figlio di un pastore di nome
Nathaniel Burrington. Il minore di dieci figli, all’età di dodici
anni, prima di saper scrivere il suo nome (o di volerlo scrivere,
come era convinto suo padre), fuggì di casa imbarcandosi su una
nave. Fece il viaggio fino in California, doppiando il Capo Horn, e
si convertì al cattolicesimo; per un anno visse in un monastero.
Dieci anni più tardi raggiunse il Missouri da ovest. Tre settimane
dopo il suo arrivo sposò la figlia di una famiglia di origine
ugonotta che era emigrata dalla Carolina passando dal Kentucky. Il
giorno dopo il matrimonio disse, «Sarà bene che metta la testa a
partito». Cominciò a mettere la testa a partito quel giorno stesso.
La celebrazione del matrimonio era ancora in corso, e il suo primo
passo fu quello di rinnegare formalmente il proprio legame con la
Chiesa cattolica. Lo fece in un saloon, insistendo che tutti i
presenti lo stessero a sentire ed esponessero le loro obiezioni;
insistette parecchio che vi fossero delle obiezioni, anche se non
ce n’erano; cioè, fino a quando fu portato via dagli amici. Il
giorno seguente disse che comunque l’aveva detto sul serio; che non
voleva far parte di una chiesa piena di schiavisti mangiarane.
Questo accadeva a Saint
Louis. Comprò una casa in quella città, e un anno dopo era padre. A
quel punto disse che da un anno aveva rinnegato la Chiesa cattolica
per il bene dell’anima di suo figlio; il bambino era appena nato
che si mise a indottrinarlo con la religione dei suoi antenati del
New England. Non c’era nessun luogo di culto unitariano a portata
di mano, e Burden non era in grado di leggere la Bibbia inglese.
Aveva però imparato a leggere in spagnolo dai preti in California,
e appena il bambino cominciò a camminare, Burden (adesso lo
pronunciava Burden e non Burrington, dato che non sapeva sillabarlo
e erano stati i preti a insegnargli a scriverlo così,
faticosamente, con una mano fatta più per una fune o il calcio di
un fucile o un coltello che non per una penna) cominciò a leggergli
il libro in spagnolo che si era portato dietro dalla California,
costellando il bel fluire sonoro di misticismo in lingua straniera
di aspre, estemporanee dissertazioni composte per metà dalla tetra
logica esangue che ricordava da suo padre nelle interminabili
domeniche del New England, e per metà di minacce d’immediato,
tangibile zolfo e fuoco infernale delle quali qualsiasi predicatore
itinerante metodista di campagna sarebbe andato fiero. Erano sempre
soli in quella stanza: l’alto, scarno uomo del nord, e il bimbetto
scuro e vivace che aveva ereditato la struttura e il colorito della
madre, come due persone di razza diversa. Quando il bambino aveva
più o meno cinque anni, Burden uccise un uomo nel corso di una
discussione sulla schiavitù e dovette prendere la famiglia e
andarsene, lasciare Saint Louis. Si trasferì verso ovest, «per
togliersi di torno i democratici», disse.
L’insediamento dove si trasferì consisteva in uno spaccio, nella bottega di un fabbro ferraio, una chiesa e due saloon. Lì Burden passava buona parte del suo tempo a parlare di politica e, con la sua voce aspra e forte, a maledire la schiavitù e i proprietari di schiavi. La sua reputazione l’aveva seguito e si sapeva che portava una pistola, e le sue opinioni venivano accolte senza commenti, se non altro. A volte, specialmente il sabato sera, tornava a casa ancora pieno di whisky liscio e dell’eco del suo farneticare. Poi svegliava il figlio (la madre ormai era morta e c’erano tre figlie, tutte con gli occhi celesti) duramente, con la mano. «Io due cose ti insegnerò a odiare,» diceva «o ti spello vivo. E queste cose sono l’inferno e la schiavitù. Mi senti?».
«Sì» diceva il ragazzo. «Come faccio a non sentirti? Va’ a letto e lasciami dormire».
Non era uno che faceva proseliti, non era un missionario. Tranne che per qualche occasionale episodio da poco, nessuno dei quali ebbe conseguenze fatali, si limitava al sangue del proprio sangue. «Che vadano al loro inferno, quegli ignoranti» diceva ai suoi figli. «Ma a voi quattro, finché mi regge il braccio, l’amore di Dio a forza di botte ve lo ficco in testa». Questo la domenica, tutte le domeniche, quando, lavati e ripuliti, i bambini in cotonina o in denim e il padre nella sua redingote di panno nero rigonfia sulla pistola nella tasca posteriore, e la camicia pieghettata, senza colletto, che ogni sabato la bambina più grande lavava bene come aveva sempre fatto la madre, si riunivano nel salotto spoglio e pulito dove Burden leggeva ad alta voce dal libro, un tempo dorato e ornato di stemmi, in quella lingua che nessuno di loro capiva. Andò avanti così fino al giorno in cui suo figlio fuggì di casa.
Il figlio si chiamava Nathaniel. Fuggì a quattordici anni e non tornò che sedici anni dopo, anche se due volte, in quel periodo, diede sue notizie tramite qualcuno. La prima volta fu dal Colorado, la seconda dal Vecchio Messico. Non fece sapere che cosa stava facendo, né in un posto né nell’altro. «Quando sono venuto via stava bene» disse il messaggero. Era il secondo; l’anno era il 1863, e il messaggero stava facendo colazione in cucina, buttando giù il cibo rapidamente ma con decoro. Le tre ragazze, le due più grandi ormai adulte, lo servivano, in piedi intorno al tavolo con i piatti pronti e la morbida bocca aperta, nel loro grezzo, pulito vestito lungo, il padre seduto di fronte al messaggero dall’altra parte del tavolo, la testa appoggiata all’unica mano. L’altro braccio l’aveva perduto due anni prima combattendo nel Kansas dove faceva parte di uno squadrone di guerriglieri irregolari a cavallo, e ormai la testa e la barba erano brizzolate. Ma era ancora vigoroso, e sul dietro la redingote si gonfiava ancora sul calcio della grossa pistola. «Ha avuto un piccolo guaio» disse il messaggero. «Ma stava sempre bene, dalle ultime che ho sentito».
«Guaio?» disse il padre.
«Ha ammazzato un messicano che lo accusava di avergli rubato il cavallo. Lo sa come sono quegli spagnoli coi bianchi, anche quando non ammazzano i messicani». Il messaggero bevve del caffè. «Ma mi sa che devono per forza essere un po’ severi, col Paese che si riempie di gente nuova e tutto quanto... Grazie, molto gentile» disse, mentre la maggiore gli faceva scivolare nel piatto un’altra pila di focacce di mais; «sissignora, ci arrivo, alla melassa... Dicono che non era affatto del messicano, quel cavallo. Che quello un cavallo non l’aveva mai avuto. Ma mi sa perfino gli spagnoli devono essere un po’ severi, con tutti questi dall’est che già stanno dando una brutta fama all’ovest».
Il padre fece un grugnito. «Ci scommetto. Se c’era qualche guaio, da quelle parti, ci scommetto che lui c’era dentro fino al collo. Glielo dica,» disse con violenza «se si lascia metter sotto da quei fifoni di preti, gli sparo io come se fosse un ribelle».
«Gli dica di tornare a casa» disse la maggiore. «È questo che gli deve dire».
«Sissignora» disse il messaggero. «Glielo dico di sicuro. Ora per un po’ vado in Indiana. Ma lo vedo appena torno. Glielo dico di sicuro. Ah, sì; quasi me lo dimenticavo. Diceva di dirvi che la donna e il bambino stanno bene».
«La donna e il bambino di chi?» disse il padre.
«Suoi» disse il messaggero. «Tante grazie, ancora. E arrivederci a tutti».
Udirono il figlio una terza volta prima di rivederlo. Lo udirono gridare un giorno davanti a casa, anche se era ancora a una certa distanza. Fu nel 1866. La famiglia si era di nuovo trasferita, un centinaio di miglia più a ovest, e al figlio c’erano voluti due mesi per trovarla, andando avanti e indietro col suo carro attraverso il Kansas e il Missouri, con due sacchetti di cuoio pieni di polvere d’oro, monete e gioielli dozzinali buttati sotto il sedile come un paio di scarpe vecchie, prima di trovare la capanna di zolle e arrivarci, gridando. Seduto su una seggiola davanti alla capanna c’era un uomo. «Quello è il babbo» disse Nathaniel alla donna seduta accanto a lui a cassetta. «Lo vedi?». Benché il padre fosse ancora sotto i sessanta, la vista aveva cominciato a calargli. Distinse il viso del figlio solo quando il carro si fu fermato e le sorelle eruppero strillando dalla porta. Allora Calvin si alzò in piedi; dette un lungo urlo tuonante. «Be’» disse Nathaniel; «eccoci qui».
Calvin diceva cose senza senso. Non faceva che urlare e imprecare. «Ti spello vivo!» ruggiva. «Ragazze! Vangie! Beck! Sarah!». Le sorelle erano già fuori. Sembrava che fossero ribollite fuori dalla porta con tutte le loro sottane come palloni su un torrente, con grida stridule sopra le quali la voce del padre tuonava e ruggiva. La sua giacca – la redingote della domenica o di un ricco o di un vecchio a riposo – adesso era aperta, e lui tirava qualcosa dalle parti della vita con lo stesso movimento e nella stessa posizione di chi stesse estraendo la pistola. Ma, con l’unica mano che aveva, stava soltanto tirandosi via la cintura di cuoio e ora, agitandola per aria, si fece largo framezzo lo stridulo, uccellesco svolazzare delle donne. «Te l’insegno io!» ruggiva. «Te l’insegno io a scappar via di casa!». La cinghia cadde due volte sulle spalle di Nathaniel. Cadde due volte e poi i due si abbrancarono.
Era per gioco, in un certo senso: una sorta di gioco mortale e sorridente serietà: il gioco di due leoni che potevano, o forse no, lasciare il segno. Si abbrancarono, la cinghia ferma: faccia a faccia, petto a petto, rimasero fermi: il vecchio con quel suo grigio viso scavato e quei pallidi occhi da New England, e il giovane che non gli somigliava affatto, col suo naso a becco e i sorridenti occhi bianchi. «Smettila» disse Nathaniel. «Non lo vedi chi ci sta guardando là sul carro?».
Finora nessuno aveva ancora guardato il carro. Seduti a cassetta c’erano una donna e un ragazzo sui dodici anni. Il padre dette uno sguardo alla donna; non ebbe nemmeno bisogno di guardare il ragazzo. Gli bastò guardare la donna, la bocca spalancata come se avesse visto un fantasma. «Evangeline!» disse. Somigliava talmente alla moglie defunta che avrebbe potuto essere la sua sorella. Il ragazzo, che ricordava sua madre a stento, si era presa in moglie una donna quasi identica.
«Quella è Juana» disse lui. «E quello lì con lei è Calvin. Siamo venuti a casa per sposarci».
Quella sera, dopo cena, con la donna e il bambino a letto, Nathaniel raccontò. Sedevano intorno alla lampada: il padre, le sorelle, il fratello che era tornato. Non c’erano pastori là dove si trovava, spiegò; solo preti e cattolici. «Così quando scoprimmo che il chico era in arrivo, lei cominciò a parlare di un prete. Io però mica volevo che un Burden venisse al mondo come un pagano. Così cominciai a guardarmi intorno, tanto per farla contenta. Ma fra una cosa e l’altra non riuscivo mai a andare a cercare un pastore, e poi il bambino arrivò e allora non c’era più fretta. Lei però continuava a preoccuparsi, coi suoi preti e così via, e così dopo un paio d’anni sentì dire che un certo giorno a Santa Fe ci sarebbe stato un pastore bianco. Allora facemmo i bagagli e ci mettemmo in viaggio, e arrivammo a Santa Fe giusto in tempo per vedere la polvere della diligenza che si portava via il pastore. Così restammo lì a aspettare, e dopo un altro paio d’anni ci fu un’altra possibilità, in Texas. Solo che questa volta mi trovai a dover dare una mano a dei Ranger5 che facevano un po’ di pulizia in una balera dove della gente aveva messo un vicesceriffo con le spalle al muro. Così quando lì è finito tutto abbiamo deciso di venire a casa e sposarci come si deve. E eccoci qui».
Il padre sedeva sotto la lampada, scarno, brizzolato, austero. Era stato ad ascoltare, ma l’espressione era pensosa, contemplativa, con una sorta di furiosa sonnolenza, un che di sconcertato e di offeso. «Un altro dannato Burden nero» disse. «La gente penserà che ho generato per uno schiavista. E adesso ci si mette anche lui». Il figlio ascoltava in silenzio, senza neppure tentare di dire a suo padre che la donna era una spagnola e non una Ribelle. «Dannati nanerottoli neri: nanerottoli perché schiacciati dal peso dell’ira di Dio, neri per via della schiavitù umana che ne macchia il sangue e la carne». Il suo sguardo era vago, fanatico, e convinto. «Ma ora li abbiamo liberati, neri e bianchi, tutti quanti. Ora si sbiancheranno. Fra cent’anni saranno di nuovo bianchi. E allora forse li lasceremo rientrare in America». Meditava, covando rabbia, immobile. «Per Dio,» disse a un tratto «però ha la costituzione d’un uomo, anche se ha l’aria di un nero. Per Dio, verrà su grande e grosso come il suo nonno; non una mezza tacca come il suo babbo. Avrà anche una fattrice nera e l’aria di un nero, ma verrà su grande e grosso».
Lei raccontò tutto questo a Christmas mentre sedevano sulla branda nella casupola sempre più buia. Non si muovevano da più di un’ora. Ormai lui non le vedeva più il viso; gli sembrava di ondeggiare lievemente, come su una barca alla deriva, sospinto dal suono della sua voce come da una pace incommensurabile e sonnolenta, evocativa di niente che avesse importanza, ascoltando appena. «Si chiamava Calvin, come il suo nonno, e era grande e grosso come il nonno, anche se era scuro come la gente della madre di suo padre e come sua madre. Lei non era mia madre; lui era solo il mio fratellastro. Il nonno era l’ultimo di dieci, mio padre l’ultimo di due, e Calvin fu l’ultimo di tutti». Aveva solo vent’anni quando fu ucciso nel paese a due miglia di lì da un ex proprietario di schiavi e combattente della Confederazione che si chiamava Sartoris, per una questione di voto dei negri.
Disse a Christmas delle tombe – quella del fratello, quella del nonno, quelle del padre e delle sue due mogli – sul poggetto di cedri nel pascolo a mezzo miglio dalla casa; ascoltando in silenzio, Christmas pensò, ‘Ah. Mi porterà a vederle. Mi toccherà andarci’. Ma lei non lo fece. Non le menzionò più, quelle tombe, dopo quella sera quando gli disse dov’erano e che se voleva poteva andare a vederle per conto suo. «E poi comunque non riusciresti neanche a trovarle» disse. «Perché quando quella sera riportarono a casa il nonno e Calvin, il babbo aspettò a seppellirli che fosse buio e poi nascose le tombe, livellando i tumuli e coprendoli con sterpaglia e altra roba».
«Le nascose?» disse Christmas.
Non c’era niente di delicato, di femminile, nessuna nota di dolente ricordanza nella voce di lei. «Perché non li trovassero. Non li tirassero fuori. Magari li facessero a pezzi». Continuò, la voce appena impaziente, chiarificatrice: «Ci odiavano, qui. Eravamo degli yankee. Stranieri. Peggio che stranieri: nemici. Profittatori. Con la Guerra ancora troppo vicina perché anche quelli che ne avevano buscate potessero avere un minimo di giudizio. Incitare i negri a ammazzare e violentare, lo chiamavano. Minacciare la supremazia bianca. Per cui immagino che il colonnello Sartoris diventò un eroe cittadino perché con due colpi della stessa pistola ammazzò un vecchio che aveva un braccio solo e un ragazzo che non aveva mai neanche votato una volta. Magari avranno anche avuto ragione. Non lo so».
«Oh» fece Christmas. «Sarebbero stati capaci di farlo? di tirarli fuori dopo che erano già stati ammazzati, dopo che erano già morti? Ma quando la smetteranno di odiarsi, gli uomini che hanno sangue diverso?».
«Quando mai?». La voce di lei s’interruppe. Poi riprese: «Non lo so. Non so se li avrebbero tirati fuori oppure no. Io non ero ancora nata. Sono nata quattordici anni dopo che Calvin venne ucciso. Non so che cosa avrebbero potuto fare, degli uomini, allora. Ma il babbo era convinto che sarebbero stati capaci di farlo. Per cui nascose le tombe. E poi la madre di Calvin morì e lui la seppellì lassù, insieme a Calvin e al nonno. E così, senza che ce ne rendessimo conto, divenne come il nostro cimitero di famiglia. Forse mio padre non aveva in mente di seppellirla lì. Mi ricordo che la mia mamma (il babbo se la fece mandare dal New Hampshire dove ancora vivevano dei nostri parenti, poco dopo che morì la madre di Calvin. Capisci, qui era solo. Immagino che se non fosse stato per Calvin e per il nonno sepolti lassù, se ne sarebbe andato via) mi raccontò che quando la mamma di Calvin morì, il babbo una volta era stato sul punto di andarsene. Ma lei morì d’estate, e faceva troppo caldo per riportarla in Messico, dalla sua famiglia. Per cui la seppellì qui. Forse fu per questo che decise di restare. O forse fu perché ormai stava diventando troppo vecchio, e tutti gli uomini che avevano fatto la guerra stavano invecchiando e tutto sommato i negri non avevano violentato o ammazzato nessuno. Comunque, la seppellì qui. Dovette nascondere anche quella tomba, perché pensò che qualcuno avrebbe potuto vederla e si sarebbe potuto ricordare di Calvin e del nonno. Non poteva correre il rischio, anche se ormai era finito tutto, tutto passato, chiuso. E l’anno dopo scrisse al nostro cugino nel New Hampshire. Disse, “Ho cinquant’anni. Ho tutto quello di cui lei avrà bisogno. Mandami una brava donna come moglie. Non m’importa chi è, basta che sappia tenere casa e abbia almeno trentacinque anni”. Nella lettera mandò i soldi per il treno. Due mesi dopo arrivò mia madre e quello stesso giorno si sposarono. Quello fu un matrimonio veloce, per lui. L’altra volta gli ci erano voluti dodici anni per sposarsi, quella volta su nel Kansas quando lui, Calvin e la mamma di Calvin finalmente raggiunsero il nonno. Arrivarono a casa a metà settimana, ma per celebrare il matrimonio aspettarono fino alla domenica. Lo celebrarono all’aperto, giù in riva al torrente, con un vitello alla griglia e un barilotto di whisky, e tutti quelli che riuscirono a avvertire o che lo seppero vennero tutti. Cominciarono a arrivare il sabato mattina, e il predicatore venne il sabato sera. Le sorelle del babbo lavorarono tutto il giorno per fare un vestito da sposa e un velo per la mamma di Calvin. Fecero il vestito con dei sacchi per la farina, e il velo con una zanzariera che il gestore di un saloon aveva inchiodato sopra un quadro dietro il bancone. Se la fecero imprestare. Fecero perfino una specie di vestito da far mettere a Calvin. Aveva dodici anni, allora, e volevano che fosse lui a tenere gli anelli. Lui non voleva. Lo scoprì la sera prima, e il giorno dopo (l’intenzione era di celebrare il matrimonio verso le sei o le sette di mattina), dopo che tutti si erano alzati e avevano fatto la colazione, dovettero rimandare la cerimonia fino a che non avessero trovato Calvin. Alla fine lo trovarono, gli fecero mettere il vestito e celebrarono il matrimonio, la mamma di Calvin col vestito fatto in casa e il velo di zanzariera e il babbo coi capelli impomatati di grasso d’orso e gli stivali spagnoli coi rilievi che si era portato dietro dal Messico. Fu il nonno a accompagnare la sposa all’altare. Solo che mentre davano la caccia a Calvin lui ogni poco aveva fatto una puntata al barilotto del whisky, così quando venne il momento, invece di accompagnare la sposa all’altare si mise a fare un discorso. Attaccò con Lincoln e la schiavitù, e sfidò chiunque fra i presenti a negare che Lincoln e i negri e Mosè e i figli di Israele fossero tutti uguali, e che il Mar Rosso era solo il sangue che andava versato affinché la razza nera potesse attraversarlo e entrare nella Terra Promessa. Ci misero un bel po’ di tempo a farlo smettere in modo che il matrimonio potesse andare avanti. Dopo il matrimonio restarono circa un mese. Poi un giorno il babbo e il nonno andarono a est, a Washington, e ottennero un incarico dal governo per venire quaggiù a aiutare i negri liberati. Vennero tutti a Jefferson, eccetto le sorelle del babbo. Due si sposarono, e la più giovane andò a vivere con una delle altre, e il nonno, il babbo, Calvin e la mamma di Calvin vennero qui e comprarono la casa. E poi quello che probabilmente avevano sempre saputo che sarebbe successo successe davvero, e il babbo rimase solo finché arrivò la mamma dal New Hampshire. Non si erano mai visti, nemmeno in fotografia. Si sposarono il giorno stesso dell’arrivo di lei e due anni dopo nacqui io e il babbo mi chiamò Joanna come la madre di Calvin. Non credo neanche che lo volesse, un altro figlio. Non mi ricordo bene di lui. L’unica volta che lo ricordo come qualcuno, come una persona, fu quando mi prese e mi portò a vedere le tombe di Calvin e del nonno. Era una giornata luminosa, di primavera. Mi ricordo che non volevo andarci, senza neanche sapere dov’era che stavamo andando. Non volevo entrare sotto i cedri. Non so perché non volessi. Non potevo sapere che cosa c’era lì; avevo solo quattro anni, a quell’epoca. E anche se lo avessi saputo, non poteva essere una cosa che spaventasse una bambina. Penso che fosse qualcosa che aveva a che fare col babbo, qualcosa che mi arrivava dal boschetto dei cedri, attraverso di lui. Un qualcosa che sentivo aveva messo addosso al boschetto dei cedri, e che quando fossi entrata lì, il boschetto avrebbe messo addosso a me così che non avrei mai potuto dimenticarmene. Non so. Ma lui mi ci fece entrare, e noi due lì fermi, e disse, “Ricordatelo. Il tuo nonno e il tuo fratello giacciono lì, trucidati non da un bianco ma dalla maledizione che Dio ha gettato su un’intera razza prima che il tuo nonno o il tuo fratello o io o te fossimo mai stati anche solo pensati. Una razza condannata alla maledizione di essere in eterno per la razza bianca la maledizione e la condanna per i suoi peccati. Ricordatelo. La sua condanna e la sua maledizione. In eterno. Mia. Di tua madre. Tua, anche se sei solo una bambina. La maledizione di ogni bambino bianco, mai nato o che nascerà. Nessuno può sfuggirla”. E io dissi, “Neanch’io?” e lui disse, “Neanche tu. Tu meno di tutti”. Vedevo e conoscevo negri da quando ero in grado di ricordare. Semplicemente, li guardavo come potevo guardare la pioggia, i mobili, o il cibo o il sonno. Ma dopo di allora mi parve di vederli per la prima volta non come persone ma come una cosa, un’ombra in cui vivevo io, vivevamo tutti noi, i bianchi, tutti gli altri. Pensavo a tutti i bambini che sarebbero venuti al mondo per l’eternità, bianchi, con quell’ombra nera che già gli cadeva addosso prima ancora che cominciassero a respirare. E mi sembrava di vedere quell’ombra nera in forma di croce. E sembrava che i bambini bianchi si dibattessero, ancora prima di cominciare a respirare, per cercare di sfuggire a quell’ombra che avevano non soltanto sopra ma anche sotto di sé, a braccia aperte come aperte erano le loro braccia, come se fossero inchiodate alla croce. Vedevo tutti i bambini che sarebbero mai venuti al mondo, quelli ancora non nati – una fila lunghissima con le braccia aperte, sulle loro croci nere. Allora non avrei saputo dire se lo vedevo oppure lo sognavo. Ma era terribile, per me. La notte piangevo. Alla fine lo dissi al babbo, tentai di dirglielo. Quello che volevo dirgli era che dovevo fuggire, scappare da sotto quella croce, altrimenti morivo. “Non puoi” disse lui. “Devi lottare, devi sollevarti. Ma per sollevarti, devi sollevare la croce insieme a te. Ma non potrai mai alzarla al tuo livello. L’ho capito, adesso, ma prima di venire qui non l’avevo capito. Ma scappare, non potrai mai. La maledizione della razza nera è la maledizione di Dio. Ma la maledizione della razza bianca è il negro che sarà in eterno l’eletto di Dio perché una volta Egli lo maledisse”». La sua voce cessò. Lucciole vagavano, attraversando il vago rettangolo della porta aperta. Alla fine Christmas disse:
«C’era qualcosa che ti volevo domandare. Ma mi sa che la risposta la so già, adesso».
Lei non si mosse. La sua voce era bassa. «Che cosa?».
«Perché tuo padre non ammazzò mai quel tale – come si chiama? Sartoris».
«Oh» fece lei. Poi fu di nuovo silenzio. Nel riquadro della porta le lucciole vagavano, vagavano. «Tu l’avresti fatto. L’avresti fatto, vero?».
«Sì» disse lui, subito, immediatamente. Poi capì che lei stava guardando verso la sua voce quasi come se potesse vederlo. La voce di lei adesso era quasi gentile da quanto era bassa, da quanto era calma.
«Tu non hai idea di chi fossero i tuoi genitori?».
Se avesse potuto vedere il suo volto l’avrebbe trovato cupo, pensoso. «Solo che uno dei due era in parte negro. Come ti dissi».
Lei continuava a guardarlo; fu la sua voce a dirglielo. Era calma, impersonale, interessata senza essere curiosa. «Come fai a saperlo?».
Per un po’ lui non rispose. Poi disse: «Non lo so». Di nuovo la sua voce s’interruppe; dal suono, lei si rese conto che stava guardando via, verso la porta. Il suo volto era cupo, immobile. Poi si scosse, e di nuovo parlò; la sua voce adesso aveva una sfumatura, non divertita e tuttavia beffarda, allo stesso tempo seria e sardonica: «Se non lo sono, mi venga un accidente se non ho buttato via un sacco di tempo».
Adesso era lei ad avere un che di meditabondo, quasi respirasse appena, e tuttavia senza alcuna autocommiserazione, senza niente di nostalgico: «Ci ho pensato. A perché il babbo non sparò al colonnello Sartoris. Penso che sia stato per via del suo sangue francese».
«Sangue francese?» disse Christmas. «Ma anche i francesi si arrabbieranno quando uno gli ammazza il padre e il figlio lo stesso giorno, no? Mi sa che tuo padre era religioso. Diventato predicatore, magari».
Per un po’ lei non rispose. Le lucciole vagavano; da qualche parte un cane abbaiò, morbido, triste, lontano. «Ci ho pensato» disse lei. «Era finito tutto, ormai. L’ammazzare in uniforme e con tanto di bandiere, e l’ammazzare senza uniformi e senza bandiere. E non è servito mai, né allora né dopo, a qualcosa di buono. Mai. E eravamo forestieri, stranieri, che la pensavano diversamente da quelli nella cui terra eravamo entrati senza che nessuno ce l’avesse chiesto o ci volesse. E lui era francese, mezzo francese. Abbastanza francese da rispettare in chiunque l’amore per la terra dove lui e i suoi erano nati, e da capire che uno non poteva fare a meno di agire come la terra dov’era nato l’aveva educato a agire. Penso che sia stato quello».
5. I Texas Rangers erano una forza paramilitare addetta alla vigilanza della frontiera con il Messico, caratterizzata da un forte razzismo anti-ispanico.