5
Era mezzanotte passata. Sebbene fosse a letto da due ore, Christmas non si era ancora addormentato. Udì Brown prima di vederlo. Lo udì avvicinarsi alla porta e poi entrare incespicando, tenendosi ritto in silhouette con le braccia puntate contro gli stipiti. Respirava rumorosamente. Ritto fra le braccia puntate, Brown cominciò a cantare con una voce nasale e sdolcinata. Perfino il timbro prolungato della sua voce sembrava puzzare di whisky. «Piantala» disse Christmas. Non si mosse, né aveva alzato la voce. Tuttavia Brown smise immediatamente. Per un momento ancora rimase immobile nel vano della porta, tenendosi ritto con le braccia. Poi le lasciò andare e Christmas lo udì entrare incespicando nella stanza, e un momento dopo andò a sbattere contro qualcosa. Vi fu un intervallo, pieno di un pesante respiro faticoso. Poi, con un gran fracasso, Brown cadde sul pavimento, urtando la branda di Christmas e riempiendo la stanza di una idiota risata rumorosa.
Christmas si alzò dalla branda. Invisibile sotto di lui, Brown, disteso sul pavimento, rideva senza fare alcuno sforzo per alzarsi. «Piantala!» disse Christmas. Brown continuava a ridere. Christmas lo scavalcò e allungò la mano verso una cassetta di legno che serviva da comodino, sulla quale tenevano la lanterna e i fiammiferi. Non riusciva però a trovare la cassetta, e allora ricordò il rumore della lanterna che si infrangeva quando Brown era cascato. Si chinò, a cavalcioni di Brown, trovò il suo colletto e lo tirò fuori da sotto la branda; gli sollevò la testa e, a palmo aperto, cominciò a dargli dei brevi, forti schiaffi cattivi, finché Brown smise di ridere.
Brown era del tutto floscio. Christmas gli tenne su la testa, mandandolo al diavolo con una voce piatta come un bisbiglio. Lo trascinò fino all’altra branda e ve lo scaraventò sopra, a faccia in su. Brown ricominciò a ridere. Christmas gli piantò la mano aperta su naso e bocca, chiudendogli la mascella con la sinistra mentre con la destra riprendeva a colpirlo con quei colpi duri, lenti, misurati, come se glieli desse tenendo il conto. Brown smise di ridere. Si dibatteva. Sotto la mano di Christmas cominciò a fare un soffocato gorgoglio, dibattendosi. Christmas lo tenne fermo finché smise e rimase immobile. Allora Christmas allentò un po’ la presa. «Ti metti zitto, adesso?» disse. «Sì o no?».
Brown riprese a dibattersi. «Levami quella mano nera di dosso, te e il tuo maledetto sangue nero...». La mano si strinse di nuovo. Di nuovo Christmas lo colpì sulla faccia con l’altra mano. Brown cessò e si rimise fermo. Christmas allentò la presa. Dopo un momento Brown parlò, in tono astuto, non forte: «Sei un negro, giusto? L’hai detto te. Sei stato te a dirmelo. Ma io sono bianco. Sono un b...». La mano si strinse. Di nuovo Brown si dibatté, facendo un suono piagnucoloso sotto la mano, sbavando su quelle dita. Quando smise di dibattersi, la mano si allentò. Poi rimase immobile, respirando forte.
«Sì o no?» disse Christmas.
«Sì» disse Brown. Respirava rumorosamente. «Fammi respirare. Starò zitto. Lasciami respirare».
Christmas allentò la presa ma non tolse la mano. Sotto di essa Brown respirava più facilmente, il respiro andava e veniva più facile, con meno rumore. Ma Christmas non tolse la mano. Rimase immobile sopra il corpo supino, col respiro di Brown alternativamente caldo e freddo sulle sue dita, pensando tranquillo Qualcosa mi succederà. Farò qualcosa Senza togliere la sinistra dalla faccia di Brown avrebbe potuto allungare la destra fino alla sua branda, fino al guanciale, sotto il quale c’era il suo rasoio con quella lama di quindici centimetri. Ma non lo fece. Forse la mente era già andata abbastanza avanti nell’oscurità da dirgli Non è quello giusto Comunque non si allungò a prendere il rasoio. Dopo un po’ tolse la mano dalla faccia di Brown. Ma non se ne andò. Restò lì immobile in piedi accanto alla branda, col suo respiro così silenzioso, così calmo, che neanche lui lo udiva. Anch’egli invisibile, Brown adesso respirava più calmo, e dopo un po’ Christmas tornò a sedersi sulla sua branda e, a tentoni, tirò fuori una sigaretta e un fiammifero dai pantaloni appesi alla parete. Alla luce del fiammifero Brown fu visibile. Prima di accendere la sigaretta, Christmas alzò il fiammifero e lo guardò. Giaceva sulla schiena, stravaccato, una gamba che pendeva fino al pavimento. La bocca era aperta. Mentre Christmas stava guardando, Brown cominciò a russare.
Christmas accese la sigaretta e fece schizzare il fiammifero verso la porta aperta, osservando la fiammella svanire a mezz’aria. Poi rimase in attesa del leggero suono da nulla che il fiammifero spento avrebbe fatto quando cadeva sul pavimento; e poi gli sembrò di averlo udito. Poi, seduto sulla branda nella stanza buia, gli sembrò di udire una miriade di suoni non più forti di quello – voci, mormorii, bisbigli: di alberi, dell’oscurità, della terra; di gente: la sua propria voce; altre voci evocative di nomi, di tempi, di posti – dei quali tutta la vita era stato consapevole senza saperlo, che erano la sua vita, pensando Forse Dio e io neanche lo sapevo La vedeva come una frase stampata, nata completa e già morta Dio ama anche me come le logore lettere scolorite di un manifesto vecchio d’un anno Dio ama anche me.2
Finì la sigaretta senza averla toccata con le dita una sola volta. La fece schizzare verso la porta. A differenza del fiammifero, non svanì a metà volo. La osservò balenare capitombolando per aria fuori della porta. Si sdraiò sulla branda, le mani dietro la testa, come fa uno che non si aspetta di addormentarsi, pensando Sono a letto dalle dieci e ancora non mi sono addormentato. Non so che ore sono ma è passata la mezzanotte e ancora non ho dormito «È perché si è messa a pregarmi addosso» disse. Aveva parlato ad alta voce, la sua voce improvvisa e alta nella stanza buia, sopra il russare ubriaco di Brown. «È per questo. Perché si è messa a pregarmi addosso».
Si alzò dalla branda. I piedi nudi non fecero rumore. Rimase immobile nell’oscurità, con indosso solo la biancheria. Sull’altra branda, Brown russava. Per un momento Christmas rimase immobile, la testa girata verso quel suono. Poi andò verso la porta. Scalzo e neanche vestito, uscì dalla casupola. Fuori c’era un po’ di chiarore. In alto le lente costellazioni ruotavano, le stelle delle quali per trent’anni era stato consapevole senza che per lui nemmeno una di esse, con la sua brillantezza o la sua posizione, avesse un nome o significasse alcunché. Davanti a sé, sopra una fitta massa d’alberi, vedeva un comignolo e uno degli abbaini della casa. La casa era oscura e invisibile. Non una luce si accese né un suono ne uscì quando lui si avvicinò e si fermò sotto la finestra della stanza dove lei dormiva, pensando Se anche lei è addormentata. Se è addormentata Le porte non erano mai chiuse a chiave, e c’era un tempo quando, a qualsiasi ora fra il buio e l’alba il desiderio lo prendesse, entrava in casa, saliva nella sua camera, e nell’oscurità arrivava sicuro al suo letto. A volte era sveglia e lo aspettava, e diceva il suo nome. Altre volte la svegliava con la sua dura mano brutale, e a volte la prendeva con la stessa dura brutalità prima che fosse del tutto sveglia.
Questo due anni prima, due anni oramai alle loro spalle, pensando Forse è qui che sta l’offesa. Forse credo di essere stato ingannato, fregato. Che mi ha mentito sulla sua età, su quello che succede alle donne a una certa età Disse ad alta voce, solo nell’oscurità sotto la finestra buia: «Non doveva cominciare a pregarmi addosso. Sarebbe andata bene se non cominciava a pregarmi addosso. Non era colpa sua se è diventata troppo vecchia e inutile. Ma doveva pensarci, prima di mettersi a pregarmi addosso». Cominciò a maledirla. Se ne stava lì sotto la finestra buia a maledirla con lente, calcolate oscenità. Non guardava la finestra. In quella neppure semioscurità era come se osservasse il proprio corpo, ne osservasse il lento rotolare lascivo in un bisbiglio di sconcezze da fogna come il cadavere d’un annegato in una densa pozza stagnante di più che acqua. Si toccò con i palmi delle mani, forte, passandosi forte le mani su per l’addome e per il torace sotto la maglia. Era tenuta insieme da un unico bottone, su in alto. Una volta la sua biancheria li aveva tutti, i bottoni. C’era una donna che glieli attaccava. Era stato un periodo, era durato per un certo periodo. Poi quel periodo finì. Dopodiché, lui si mise a sottrarre la sua biancheria dal bucato di famiglia prima che lei potesse prenderla e rimpiazzare i bottoni mancanti. Quando lei lo aggirava, lui si concentrava e cercava di ricordare quali erano i bottoni mancanti che erano stati riattaccati, e con la fredda, esangue concentrazione di un chirurgo, col suo temperino tagliava via i bottoni che lei aveva appena rimpiazzato.
La mano destra scorse fluida e veloce come aveva sempre fatto la lama del coltello su per l’apertura della maglia. Di taglio, dette al bottone rimasto un rapido colpo leggero. L’aria scura alitò su di lui mentre la maglia gli scivolava giù sulle gambe, alitò fluida, la fredda bocca dell’oscurità, la fresca lingua morbida. Riprendendo a muoversi, sentì l’aria scura come acqua; sentì sotto i piedi la rugiada come non aveva mai sentito la rugiada. Passò oltre il cancello scardinato e si fermò sul bordo della strada. Le erbacce d’agosto gli arrivavano alle cosce. Sulle foglie e sugli steli posava un mese di polvere di carri che passavano. La strada correva davanti a lui. Era un po’ più pallida dell’oscurità di alberi e terra. In una direzione c’era la città. Nell’altra, la strada saliva per una collina. Dopo un po’ di tempo una luce cominciò a crescere al di là della collina, definendola. Poi udì la macchina. Non si mosse. Restò lì fermo con le mani sui fianchi, nudo, immerso fino alle cosce nelle erbacce, mentre l’automobile superava il colmo della collina e si avvicinava, i fari puntati su di lui. Guardò il proprio corpo uscire bianco dall’oscurità come una stampa Kodak che emergesse dal liquido. Guardò dritto nei fari mentre la macchina sfrecciava oltre. Ne volò indietro l’acuto stridulo di una donna che strillava. «Bastardi di bianchi!» urlò lui. «Mica sarà la prima delle vostre puttane a vedere...». Ma la macchina era passata. Non c’era nessuno che sentisse, che ascoltasse. Era passata, risucchiandosi dietro la propria polvere e la propria luce, risucchiando con sé il grido che svaniva della donna bianca. Aveva freddo, adesso. Era come se fosse venuto lì solo per essere presente a un qualcosa di definitivo, e questo qualcosa adesso aveva avuto luogo e lui era di nuovo libero. Ritornò verso la casa. Si fermò a cercare sotto la finestra buia, trovò la sua maglia e se la mise. Non c’erano più bottoni, adesso, e mentre tornava alla casupola dovette tenerla chiusa con la mano. Già udiva il russare di Brown. Per un po’ rimase fermo fuori della porta, immobile, in silenzio, ascoltando i lunghi, aspri respiri irregolari che finivano sempre in un gorgoglio soffocato. ‘Devo avergli fatto più male al naso di quanto immaginassi’ pensò. ‘Maledetto figlio di puttana’. Entrò e si avvicinò alla sua branda, preparandosi a distendersi. Era sul punto di buttarsi giù quando si interruppe, si fermò, mezzo reclino. Forse il pensiero di giacere lì fino all’alba, con quell’ubriaco che russava nel buio e gli intervalli pieni di quella miriade di voci, era più di quanto potesse sopportare. Perché si rialzò a sedere e frugò piano sotto la sua branda, e trovò le scarpe, se le infilò, e prese dalla branda l’unica coperta di misto cotone in cui consisteva il suo corredo, e uscì dalla casupola. A trecento metri di distanza c’era la stalla. Veniva giù a pezzi e erano trent’anni che non c’era più stato un cavallo, eppure fu verso la stalla che si avviò. Camminava piuttosto rapido. Adesso stava pensando, pensando ad alta voce, «Perché diavolo voglio odore di cavallo?». Poi disse, brancolando: «È perché non sono donne. Perfino una cavalla è una specie d’uomo».
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Dormì meno di due ore. Quando si svegliò stava appena albeggiando. Avvolto in quell’unica coperta, disteso sul tavolato sconnesso della tetra caverna avvallata, acre della polvere sottile di fieno defunto e con quel tanto di ammoniaca delle vecchie stalle deserte e senza vita, dalla finestra vuota della parete di levante scorgeva il giallo chiaro del cielo e, su in alto, la pallida stella mattutina della piena estate.
Si sentiva abbastanza riposato, come se avesse dormito otto ore di seguito. Era stato un sonno inaspettato, dato che non si era aspettato di dormire affatto. Con di nuovo ai piedi le scarpe slacciate e la coperta ripiegata sotto il braccio, scese rapido la scala perpendicolare tentando con i piedi i marci pioli invisibili, calandosi da piolo a piolo con un braccio solo. Emerse nel grigio e giallo dell’alba, nel freddo pulito, respirandolo a fondo.
Adesso la casupola si stagliava netta contro il levante che cresceva, e così il folto d’alberi entro il quale la casa, a parte il comignolo, restava nascosta. L’erba alta era carica di rugiada, e le scarpe si bagnarono subito. Il cuoio era freddo ai piedi; contro le gambe nude, i fili d’erba bagnati erano come frustate di ghiaccioli flessibili. Brown aveva cessato di russare. Quando Christmas entrò, lo vide alla luce della finestra di levante. Respirava in silenzio, adesso. ‘Passata la sbornia, adesso’ pensò Christmas. ‘Passata la sbornia e non lo sa. Povero bastardo’. Guardò Brown. ‘Povero bastardo. Quando si sveglia e scopre di essere sobrio un’altra volta, si infurierà. Gli ci vorrà anche un’ora per riprendersi la sbornia’. Posò la coperta e si vestì, con i pantaloni di serge, la camicia bianca ormai un po’ sporca, il fiocchetto. Fumava. Inchiodato alla parete c’era un pezzo di specchio. Mentre si annodava il fiocchetto, guardò la sua faccia oscura in quella scheggia. Il cappello rigido pendava da un chiodo. Non lo tirò giù. Da un altro chiodo prese invece un berretto di stoffa, e dal pavimento sotto la sua branda una rivista di quelle che in copertina hanno o ragazze mezze svestite o uomini che si prendono a pistolettate. Da sotto il guanciale della branda prese il suo rasoio e un pezzo di sapone per barba, e se li mise in tasca.
Quando lasciò la casupola era quasi giorno. Gli uccelli erano in pieno coro. Questa volta volse le spalle alla casa. Proseguì oltre la stalla e uscì nel pascolo dietro di essa. Ben presto le scarpe e le gambe dei pantaloni furono fradici di rugiada grigia. Si fermò, si arrotolò i pantaloni fino ai ginocchi, con cura, e proseguì. In fondo al pascolo cominciava il bosco. Qui la rugiada non era così pesante, e si srotolò i pantaloni. Di lì a poco arrivò a un valloncello dove nasceva una sorgente. Posò la rivista, raccolse degli stecchi e della sterpaglia secca, accese un fuoco e si mise a sedere contro un albero, i piedi verso la fiamma. Dopo un po’ le scarpe bagnate cominciarono a fumare. Poi sentì il calore salirgli su per le gambe, e poi d’un tratto aprì gli occhi e vide il sole alto e il fuoco completamente spento, e capì di aver dormito. ‘Mi pigli un accidente’ pensò. ‘Mi pigli un accidente se non ho dormito un’altra volta’.
Stavolta aveva dormito più di due ore perché il sole batteva proprio sulla sorgente, scintillando e balenando sull’acqua incessante. Si alzò, stirando la schiena rattrappita e intorpidita, svegliando i muscoli informicoliti. Tirò fuori di tasca il rasoio, lo spazzolino, il sapone. Inginocchiato al bordo della sorgente si rase, usando la superficie dell’acqua come specchio, affilando il lungo rasoio luccicante sulla scarpa.
Nascose gli arnesi da barba e la rivista in un cespuglio e si rimise il fiocchetto. Adesso, lasciando la sorgente, prese una direzione che lo allontanava dalla casa. Quando raggiunse la strada, ne distava mezzo miglio. Poco più avanti c’era un negozietto con davanti una pompa della benzina. Entrò nel negozio e una donna gli vendette dei cracker e una scatoletta di carne. Tornò alla sorgente, al fuoco spento.
Mangiò la sua colazione con la schiena contro l’albero, leggendo la rivista mentre mangiava. In precedenza aveva letto soltanto una storia; adesso cominciò la seconda, leggendo la rivista da cima a fondo come se fosse un romanzo. Ogni tanto alzava lo sguardo dalla pagina, masticando, e guardava le foglie chiazzate di luce che formavano un arco sopra il fossato. ‘Forse l’ho già fatto’ pensava. ‘Forse ora non sta più aspettando di esser fatto’. Gli sembrava di vedere il giorno giallo aprirsi pacifico davanti a lui, senza urgenza, come un corridoio, un arazzo, in un chiaroscuro immobile. Gli sembrava che mentre lui se ne stava lì seduto, il giorno giallo lo stesse contemplando assonnato, come un gatto giallo che sonnecchiasse, prono. Poi riprendeva a leggere. Voltava le pagine una dopo l’altra, regolarmente, benché ogni tanto indugiasse su di una pagina, un rigo, forse una parola. Allora non alzava gli occhi. Non si muoveva, apparentemente arrestato e reso immoto da una singola parola forse non ancora impressasi, tutto il suo essere sospeso in uno spazio calmo e soleggiato da quella singola, banale combinazione di lettere, sì che appeso immobile e senza peso fisico, sembrava osservare il lento fluire del tempo sotto di sé, pensando Tutto quello che volevo era solo un po’ di pace pensando, ‘Non doveva cominciare a pregarmi addosso’.
Quando arrivò all’ultima storia smise di leggere e contò le pagine che restavano. Poi guardò il sole e riprese a leggere. Adesso leggeva come uno che camminando per una strada si mettesse a contare le fessure nel marciapiede, fino all’ultima pagina, l’ultima parola finale. Allora si alzò, accese un fiammifero e lo avvicinò alla rivista, e pazientemente lo spinse avanti finché si consumò. Con gli arnesi per la barba in tasca si avviò giù per il fossato.
Dopo un tratto si allargava: un fondo liscio di sabbia bianca fra due ripide pareti digradanti soffocate da rovi e sterpaglie su fino in cima, fino alla cresta. Altri alberi si piegavano sul fossato, e da un lato, in una piccola cavità, c’era una massa di sterpaglie secche che la riempiva. Lui si mise a trascinare la sterpaglia da una parte, liberando la cavità e svelando una pala a manico corto. Con la pala cominciò a scavare nella sabbia che la sterpaglia aveva nascosto, esumando una dopo l’altra sei lattine col tappo che si avvitava. Non svitò i tappi. Mise le lattine sul fianco e col taglio affilato della pala le sfondò, la sabbia sotto di esse che scuriva via via che il whisky schizzava fuori e sgorgava, mentre l’assolata solitudine, l’aria stessa, si faceva fragrante di alcol. Le vuotò con scrupolo, senza fretta, il viso assolutamente freddo, quasi una maschera. Quando furono tutte vuote le ributtò nella buca e le seppellì come veniva veniva, poi ci ritrascinò sopra la sterpaglia e di nuovo nascose la pala. La sterpaglia nascose la chiazza ma non poteva nascondere l’odore, il puzzo. Di nuovo guardò il sole. Ormai era pomeriggio.
Alle sette di sera era in città, in un ristorante di una strada laterale, a mangiare la sua cena seduto su uno sgabello senza schienale a un bancone di legno reso liscio dall’uso, a mangiare.
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Alle nove era davanti alla bottega del barbiere, a guardare attraverso la vetrina l’uomo che si era preso come socio. Se ne stava lì immobile, le mani in tasca e il fumo della sigaretta che gli passava sul viso immobile, e il berretto portato, come la paglietta, a un angolo allo stesso tempo smargiasso e sinistro. Talmente freddo, talmente sinistro se ne stava lì, che Brown, dentro la bottega, in mezzo a tutte le luci, l’aria greve di lozione e di acqua saponata, gesticolando, la voce spessa, con i suoi sporchi pantaloni a righe rosse e la sporca camicia a colori, alzò gli occhi a mezza frase e coi suoi occhi da ubriaco guardò negli occhi dell’uomo al di là del vetro. Talmente immobile e sinistro che un ragazzino negro che se ne veniva strascicando i piedi su per la strada, fischiettando, vide il profilo di Christmas, smise di fischiettare, si scansò, e gli passò di dietro in silenzio, girandosi a guardare da sopra la spalla. Ma adesso anche Christmas si muoveva. Era come se si fosse soffermato lì quanto bastava perché Brown lo guardasse.
Proseguì, senza affrettarsi, allontanandosi dalla piazza. La strada, una strada silenziosa a tutte le ore, a quest’ora era deserta. Attraversando Freedman Town, il quartiere negro, portava giù alla stazione. Fossero state le sette avrebbe incrociato gente, bianchi come neri, diretta verso la piazza e il cinematografo; fossero state le nove e mezzo, la gente sarebbe stata di ritorno verso casa. Ma ancora il film non era finito, e adesso lui aveva la strada tutta per sé. Proseguì, passando davanti alle case dei bianchi, un lampione dietro l’altro, con le ombre pesanti delle foglie delle querce e degli aceri che gli scorrevano come brandelli di velluto nero sulla camicia bianca. Nulla può dare un senso di solitudine quanto un uomo grande e grosso che se ne va per una strada vuota. Eppure, per quanto non fosse né grosso né alto, lui non si sa come riusciva a sembrare più solo di un solitario palo del telefono in mezzo a un deserto. In quella larga strada vuota pensosa di ombre, dava l’impressione di un fantasma, di uno spirito allontanatosi dal suo mondo, e perdutosi.
Poi si ritrovò. Senza che se ne fosse reso conto, la strada aveva cominciato a scendere, e prima di accorgersene si trovò a Freedman Town, immerso nell’odore estivo e le voci estive di negri invisibili. Sembravano circondarlo, come voci incorporee che mormoravano parlavano ridevano in una lingua non sua. Come dal fondo di uno stretto pozzo nero, si vide accerchiato dalle forme vaghe di casupole illuminate a cherosene, tanto che gli stessi lampioni sembravano ancor più distanti l’uno dall’altro, come se la vita nera, il respiro nero avessero amalgamato la sostanza del respiro così che non soltanto le voci ma i corpi in movimento e la luce stessa non potevano non aggregarsi, fluidi e lenti, particella per particella, a ciò di cui erano parte, la ormai ponderabile notte indivisibile e una.
Adesso, immobile, il respiro faticoso, guardava con astio di qua e di là. Intorno a lui, nell’oscurità, al debole bagliore opprimente delle lampade a cherosene le casupole prendevano forma, nere. Da tutte le parti, anche dentro di lui, mormoravano le voci feconde e mature, incorporee, delle donne negre. Era come se lui e ogni altra vita in forma di uomo fossero stati riportati alla calda, umida Femmina primigenia. Si mise a correre, occhi furiosi, denti furiosi, l’inalazione fredda sui denti e sulle labbra secche, verso il primo lampione. Sotto di esso un viottolo stretto e tutto solchi girava e saliva fino alla strada parallela, uscendo da quel buco nero. Lui voltò, correndo, e si slanciò su per quella ripida salita, il cuore che gli martellava, su fino alla strada più in alto. Là si arrestò, ansando, guardandosi torvo tutt’intorno, il cuore che batteva forte come se ancora non potesse o non volesse credere che adesso l’aria era l’aria fredda e solida dei bianchi.
Poi si calmò. L’odore di negro, le voci negre, adesso erano dietro di lui, sotto di lui. Alla sua sinistra c’era la piazza, i lampioni a grappolo: bassi uccelli scintillanti in tremula sospensione su ali immobili. Alla sua destra i lampioni proseguivano, distanziati, inframmezzati da rami mordicchiati e immobili. Andò avanti, di nuovo a passo lento, allontanandosi dalla piazza, passando di nuovo davanti alle case dei bianchi. Anche qui c’era gente in veranda, oppure in poltrona sul prato; ma qui poteva camminare tranquillo. Ogni tanto li vedeva: teste controluce, una forma indistinta vestita di bianco; su una veranda illuminata, quattro persone sedute a un tavolino da gioco, i visi bianchi intenti e netti nella luce fioca, le braccia nude delle donne che lucevano lisce e bianche al di sopra delle futili carte. ‘Ecco tutto quello che volevo’ pensò. ‘Non sembrerebbe troppo da chiedere’.
Anche quella strada cominciò a scendere. Ma scendeva al sicuro. La sua calma camicia bianca e le sue ritmiche gambe scure morivano fra lunghe ombre che si ergevano squadrate, enormi contro le stelle di agosto: un magazzino del cotone, un bassa cisterna cilindrica come il torso di un mastodonte decapitato, una fila di carri merci. Attraversò le rotaie, i binari resi per un istante un doppio luccichio verde da un interruttore di scambio, poi di nuovo svaniti. Al di là delle rotaie cominciava il bosco. Lui però trovò subito il sentiero, che saliva fra gli alberi, con le luci della città che adesso ricominciavano a vedersi dall’altra parte della valle dove correva la ferrovia. Ma non guardò indietro finché non raggiunse la cresta della collina. A quel punto vide la città, il bagliore, le singole luci dove le strade si irradiavano dalla piazza. Vedeva la strada giù per la quale era venuto, e l’altra strada, quella che lo aveva quasi tradito; e più oltre, e ad angoli retti, il lontano bastione della città stessa, e nell’angolo in mezzo, il pozzo nero dal quale era fuggito col cuore come un tamburo e le labbra torve. Non una luce ne emanava, da là nessun respiro, nessun odore. Giaceva laggiù in fondo, nero, impenetrabile, con la ghirlanda delle sue tremule luci d’agosto. Poteva essere la cava originaria, l’abisso stesso.
Procedeva sicuro, nonostante gli alberi, nonostante l’oscurità. Nemmeno una volta perse il sentiero che neppure vedeva. Il bosco andava avanti per un miglio. Ne emerse su una strada, sotto i piedi la terra battuta. Adesso riusciva a vederci, il vago mondo che si distendeva, l’orizzonte. Qua e là fievoli finestre lucevano, ma per la maggior parte le casupole erano buie. Tuttavia il suo sangue ricominciò, riprese a parlare. Camminava rapido, al passo col sangue; sembrò rendersi conto che quel gruppo erano dei negri prima di vederli o udirli, prima ancora che diventassero vagamente visibili contro la polvere morente. Erano sei o sette, sparpagliati eppure vagamente appaiati; di nuovo, insieme al battere del proprio sangue, lo raggiunse il ricco mormorio di voci di donne. Lui camminava diritto nella loro direzione, camminava rapido. Lo avevano visto e si fecero da parte sul bordo della strada, le voci che cessavano. Anche lui cambiò direzione, piegando verso di loro come se intendesse passar loro sopra. In un unico movimento e come ubbidendo a un comando ricevuto, le donne si fecero indietro e si scansarono, girandogli intorno. Uno degli uomini le seguì come se stesse spingendole davanti a sé, guardandosi indietro mentre passava. Gli altri due si erano fermati in mezzo alla strada, di fronte a Christmas. Anche Christmas si era fermato. Nessuno sembrò muoversi, e tuttavia si avvicinarono, incombendo, come due ombre che avanzassero fluttuando. Lui fiutò negro; fiutò stoffa misera e sudore. La testa del negro, più alta della sua, sembrò piegarsi in avanti, uscendo dal cielo, contro il cielo. «È un bianco» disse senza volgere la testa, calmo. «Cosa vuoi, bianco? Cerchi qualcuno?». La voce non era minacciosa. Ma neppure servile.
«Vieni via, Jupe» disse quello che aveva seguito le donne.
«Chi cerchi, capo?» disse il negro.
«Jupe» disse una delle donne, la voce un po’ acuta. «Vieni via, ora».
Ancora per un momento le due teste, quella chiara e quella scura, sembrarono rimanere come sospese nell’oscurità, respirando l’una sull’altra. Poi la testa del negro parve fluttuare via; un vento leggero soffiò da qualche parte. Christmas, voltandosi lentamente, osservandoli dissolversi e di nuovo sparire nella strada pallida, scoprì di avere in mano il rasoio. Non era aperto. Non era per paura. «Puttane!» disse, ad alta voce. «Figli di puttana!».
Il vento soffiava scuro e fresco; anche attraverso le scarpe, la terra battuta era fresca. ‘Cosa diavolo mi prende?’ pensò. Rimise il rasoio in tasca e si fermò ad accendersi una sigaretta. Dovette umettare le labbra varie volte per tenere la sigaretta. Alla luce del fiammifero osservò le sue mani che tremavano. ‘Tutti questi problemi’ pensò. «Tutti questi maledetti problemi» disse ad alta voce. Levò gli occhi alle stelle, al cielo. ‘Devono essere quasi le dieci, ormai’ pensò; e poi, quasi nell’istante in cui lo pensava, sentì l’orologio del tribunale distante due miglia. Lenti, misurati, chiari, vennero i dieci colpi. ‘Le dieci’ pensò. ‘Ho sentito dieci colpi anche ieri sera. Poi undici. Poi dodici. Ma l’una non l’ho sentita. Forse era cambiato il vento’.
Quando stanotte sentì battere le undici se ne stava seduto con la schiena appoggiata contro un albero appena dentro il cancello scardinato, mentre dietro di lui ancora una volta la casa era buia e nascosta nel suo boschetto incolto. Stanotte non stava pensando Forse neanche lei sta dormendo Non stava pensando a nulla, ancora; il pensare non era cominciato, ancora; nemmeno le voci erano cominciate, ancora. Semplicemente se ne stava lì, senza muoversi, finché dopo un po’ sentì l’orologio a due miglia di distanza battere le dodici. Allora si alzò e si avviò verso la casa. Non andava rapido. Neanche allora pensò Qualcosa succederà. Qualcosa mi succederà
2. Riferimento a un manifesto con due bambini, uno bianco e uno nero, diffuso tra gli afroamericani negli anni Venti e Trenta.