9

McEachern era disteso a letto. La stanza era buia, ma lui non dormiva. Era disteso accanto alla signora McEachern, sicuro che fosse addormentata, pensando rapido e intento, pensando ‘Il vestito è stato indossato. Ma quando. Non può essere di giorno perché l’ho sempre sotto gli occhi, a parte il sabato pomeriggio. Ma il sabato pomeriggio potrebbe sempre andare nel fienile, togliersi la roba giusta che voglio che porti, nasconderla, e poi mettersi quegli indumenti di cui avrebbe bisogno soltanto come accessori del peccare’. Fu allora come se lo sapesse, gli fosse stato detto. Questo significava che gli indumenti venivano indossati in segreto e pertanto, con tutta probabilità, di notte. E se così era, si rifiutava di credere che il ragazzo avesse altro che uno scopo: la lussuria. Lui non aveva mai commesso un atto di lussuria, e non aveva mai mancato di rifiutarsi di ascoltare chiunque ne parlasse. Tuttavia, entro trenta minuti di intensa elucubrazione, seppe di quello che Joe andava facendo quasi quanto avrebbe potuto raccontargli lo stesso Joe, ad eccezione dei nomi e dei luoghi. Molto probabilmente non vi avrebbe creduto nemmeno dalla bocca di Joe, dato che quelli della sua sorta hanno di solito convinzioni circa i meccanismi e le messe in scena del male altrettanto ferme di quelle circa il bene. Per cui bigottismo e chiaroveggenza furono praticamente tutt’uno, solo che il bigottismo fu un po’ lento, perché quando Joe, scendendo giù lungo la sua corda, scivolò come un’ombra rapida davanti alla finestra aperta piena di luna dietro la quale McEachern era disteso a letto, McEachern lì per lì non lo riconobbe o forse non credette a quello che aveva visto, anche se vide la corda. E quando arrivò alla finestra Joe l’aveva già tirata via e l’aveva fissata, e si stava dirigendo verso il fienile. Mentre lo osservava dalla finestra, McEachern provò qualcosa di simile al puro senso di oltraggio impersonale che non potrebbe non provare un giudice nel vedere un uomo che rischia l’ergastolo sporgersi per sputare sulla manica dell’agente di servizio in aula.

Nascosto nelle ombre della viottola a metà strada fra la casa e la strada, vedeva Joe all’imboccatura della viottola. Anche lui udì la macchina e la vide avvicinarsi, fermarsi, e Joe che ci saliva. Probabilmente non gli importava neanche chi altro ci fosse. Forse già lo sapeva, e il suo scopo era soltanto di vedere che direzione prendeva.

Forse era convinto di sapere anche quello, dato che la macchina sarebbe potuta andare quasi in qualsiasi direzione in una zona che era piena di possibili destinazioni, con tante strade che vi conducevano. Perché adesso tornò indietro verso la casa, camminando rapido, con quello stesso senso di puro oltraggio impersonale, come fosse talmente convinto che sarebbe stato guidato da un senso di oltraggio più grande e più puro da non aver neppure bisogno di mettere in dubbio le proprie facoltà personali. Con le sue pantofole in tessuto da tappeto, la camicia da notte infilata nei pantaloni e le bretelle ciondoloni, andò diritto come una freccia alla stalla, sellò il suo vecchio, forte cavallone bianco, e a un pesante galoppo rifece la viottola verso la strada, benché quando era uscito dallo spiazzo la signora McEachern dalla porta della cucina lo avesse chiamato. Svoltò nella strada a quel lento e ponderoso galoppo, tutti e due, uomo e animale, piegati un po’ rigidi in avanti come in una qualche distruttiva simulazione di terrificante velocità anche se la vera velocità era assente, quasi che in quella fredda, implacabile, rettilinea convinzione di onnipotenza e insieme di chiaroveggenza che condividevano, destinazione nota e velocità non fossero necessarie.

Cavalcando a quello stesso passo arrivò dritto al posto che cercava e che, in piena notte e con quasi mezza contea dove cercarlo, riuscì a trovare, quantunque non fosse poi tanto distante. Aveva fatto neanche quattro miglia quando davanti a sé udì della musica e poi vide a lato della strada delle luci in una scuola, un edificio composto da un unico locale. Sapeva dov’era l’edificio, ma non aveva né ragione né modo di sapere che vi si sarebbe tenuto un ballo. Tuttavia cavalcò dritto fin lì, in mezzo alle ombre irregolari di macchine parcheggiate, calessini, cavalli e muli sellati che riempivano il boschetto tutt’intorno alla scuola, e smontò quasi prima che il cavallo si fermasse. Non lo legò neppure. Scese, e con quelle sue pantofole, le bretelle ciondoloni, la sua testa tonda e la corta barba indignata, corse verso la porta aperta e le finestre aperte da dove veniva la musica e dove, nella luce al kerosene, in una certa ordinata confusione passavano delle ombre.

Forse, ammesso che stesse pensando, era convinto di essere stato guidato, e adesso, entrando nella sala, di venire spinto da un qualche militante Michele in Persona. Evidentemente i suoi occhi non rimasero neanche per un istante abbagliati dalla luce improvvisa e da tutto il movimento mentre si buttava in mezzo a corpi dalle teste girate, e seguìto da una scia di stupore e di incipiente pandemonio correva verso il giovane che per sua libera scelta aveva adottato e aveva tentato di tirar su come era convinto fosse giusto. Joe e la cameriera stavano ballando e Joe non l’aveva ancora visto. La donna lo aveva visto soltanto una volta, ma forse lo ricordava o forse la sua apparizione fu sufficiente. Cessò di ballare e sul viso le comparve un’espressione molto simile all’orrore, che Joe vide e si girò. Mentre si girava, McEachern fu loro addosso. Neppure McEachern aveva visto la donna più di una volta e molto probabilmente in quell’occasione non l’aveva guardata, così come aveva sempre rifiutato di ascoltare quando gli uomini parlavano di fornicazione. Eppure andò diritto verso di lei, per il momento ignorando Joe. «Via di qui, Gezabele!» disse. La sua voce tuonò nel silenzio sconvolto, i visi allibiti tutt’intorno sotto le lampade a kerosene, nella musica che era cessata, nella serena notte illuminata dalla luna della giovane estate. «Via di qui, meretrice!».

Forse a lui non sembrò di essersi mosso in fretta o che la sua voce fosse alta. Molto probabilmente si vedeva immobile, giusto e come di roccia e senza né urgenza né collera, mentre da ogni parte la lordura e la debolezza dell’umanità ribollivano in un lungo sospiro di terrore intorno al vero rappresentante dell’irato Trono vendicativo. Forse non furono neppure le sue mani a cercare di colpire il viso del giovane che aveva nutrito e vestito e al quale aveva dato riparo fin da quando era bambino. E forse quando il viso scansò il colpo e riapparve non era più il viso di quel bambino. Ma lui non poteva certo meravigliarsene, perché non era il viso di quel bambino che gli interessava: era il volto di Satana, che conosceva altrettanto bene. E quando, fissando quel volto, gli andò incontro con la mano ancora levata, è probabile lo facesse con l’impetuosa e sognante esaltazione di un martire già assolto, verso il calare della seggiola che Joe roteava verso la sua testa, e il nulla. Forse il nulla lo sorprese un po’, ma non molto e non per molto.

 

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Poi per Joe tutto fuggì via, ruggendo, morendo, lasciandolo al centro della sala, la seggiola fracassata stretta in mano, a guardare per terra il suo padre adottivo. McEachern giaceva sulla schiena. Aveva un’aria del tutto serena, adesso. Sembrava dormisse: ottuso, indomabile anche nel riposo, il sangue sulla fronte anch’esso calmo e sereno.

Joe respirava forte. Lo udiva, il respiro, e udiva anche qualcos’altro, sottile, stridulo, distante. Sembrò ascoltarlo a lungo prima di riconoscerlo come una voce, una voce di donna. Guardò e vide due uomini che la trattenevano e lei che si divincolava e si dibatteva, i capelli tutti scossi in avanti, il viso bianco contorto e brutto sotto le macchie di belletto violento, la bocca un forellino dentellato pieno di strilli. «Chiamarmi meretrice!» gridava, contorcendosi contro quelli che la trattenevano. «Quel vecchio figlio di puttana! Lasciatemi andare! Lasciatemi andare!». Poi la sua voce cessò ancora di fare parole e si mise a strillare; lei si divincolava e si dibatteva, tentando di mordere le mani di quelli che lottavano con lei.

Sempre reggendo la sedia fracassata, Joe andò verso di lei. Lungo le pareti, stretti gli uni agli altri, ammassati, gli altri lo fissavano: le ragazze in rigidi colori sbiaditi e calze e tacchi ordinati per posta; gli uomini, giovani nei loro vestiti duri come tavole e tagliati male, anche quelli ordinati per posta, con dure mani rovinate e occhi che già rivelavano un retaggio di paziente meditare su solchi senza fine e lente terga di muli. Joe si mise a correre, brandendo la seggiola. «Laciatela andare!». Subito lei cessò di dibattersi e riversò su di lui la furia, gli strilli, come se l’avesse appena visto, si fosse appena resa conto che c’era anche lui.

«E tu! Sei stato tu a portarmi qui. Maledetto bastardo d’uno zotico. Bastardo! Figli di puttana tutti e due. Mettermelo addosso a me, che mai e poi mai ho visto...». Joe non sembrava avercela con nessuno in particolare, e il suo viso era del tutto calmo sotto la sedia levata. Gli altri si fecero da parte e la lasciarono andare, anche se lei continuava a divincolare le braccia come se ancora non se ne fosse resa conto.

«Levatevi di torno!» urlò Joe. Si girò di scatto, roteando la seggiola; tuttavia il viso era ancora assolutamente calmo. «Indietro!» disse, benché nessuno si fosse mosso verso di lui. Tutti erano immobili e silenziosi come l’uomo sul pavimento. Lui, roteando la sedia, indietreggiava verso la porta. «State indietro! L’avevo detto che un giorno o l’altro l’avrei ammazzato! Gliel’avevo detto!». Roteava la sedia davanti a sé, il viso calmo, indietreggiando verso la porta. «Che nessuno di voi si muova, adesso» disse, continuando a guardare senza sosta le facce che avrebbero potuto essere tante maschere. Poi gettò via la seggiola, si girò di scatto e con un balzo fu fuori nella morbida luce della luna chiazzata di ombre. Raggiunse la cameriera mentre lei stava salendo nella macchina con cui erano venuti. Joe ansava, eppure anche la sua voce era calma: un viso addormentato che respirava forte quanto bastava a emettere suoni: «Torna in città» disse. «Sarò lì appena ho...». Non sembrava accorgersi di quello che diceva né di quello che stava succedendo; quando la donna si girò all’improvviso nel vano della portiera e cominciò a colpirlo in faccia lui non si mosse, la voce non cambiò: «Sì. Va bene. Sarò lì appena ho...». Poi si girò e corse via, mentre lei ancora tentava di colpirlo.

Non poteva sapere dove McEachern avesse lasciato il cavallo, né per certo se era davvero lì. Tuttavia corse diritto verso di esso, con un po’ della completa fede del suo padre adottivo nell’infallibilità degli eventi. Vi saltò sopra e lo girò verso la strada. La macchina aveva già svoltato. Vide i fanalini di coda diminuire, e sparire.

Il vecchio, forte cavallo da lavoro si avviò verso casa al suo lento, regolare piccolo galoppo. Sulla sua groppa, il giovane cavalcava leggero, si teneva leggero in equilibrio, piegato forte in avanti, forse in quel momento esultando come aveva fatto Faust per essersi ormai messo alle spalle una volta per tutte i Non Dovrai, per essersi infine liberato dell’onore e della legge. Col movimento, il dolce sudore aspro del cavallo soffiava via, sulfureo; il vento invisibile volava via. Gridò a tutta voce, «L’ho fatto! L’ho fatto! L’avevo detto a tutti che l’avrei fatto!».

Svoltò nella viottola, e alla luce della luna cavalcò senza rallentare fino a casa. Aveva pensato che sarebbe stata buia, ma non lo era. Non si fermò; la corda ben nascosta era adesso una parte della sua vita passata come lo erano l’onore e la legge, e così la vecchia tediosa che da tredici anni era uno dei suoi nemici e adesso era lì sveglia che l’aspettava. Nella camera sua e di McEachern c’era una lampada accesa, e lei era sulla porta, con uno scialle sopra la camicia da notte. «Joe?» disse. Lui veniva avanti per l’andito, in fretta. Il suo viso era quello che McEachern aveva visto mentre la sedia calava. Forse lei ancora non lo vedeva bene. «Cosa succede?» disse. «Il babbo ha preso il cavallo e se ne è andato. Ho sentito...». Poi vide il suo viso. Ma non ebbe neanche il tempo di fare un passo indietro. Non la colpì; la mano sul braccio di lei fu quasi gentile. Fu solo affrettata, per toglierla di mezzo, toglierla dalla porta. La spinse da parte come avrebbe potuto fare con una tenda tirata sulla porta.

«È a un ballo» disse. «Togliti di mezzo, vecchia». Lei si girò, stringendosi lo scialle con una mano, l’altra contro la porta per tenersi in equilibrio, guardandolo attraversare la stanza e cominciare a correre su per le scale che salivano al sottotetto. Senza arrestarsi lui si voltò a guardarla, e lei vide i suoi denti che scintillavano alla luce della lampada. «A un ballo, hai capito? Non è che stia ballando, però». Rise, guardandosi indietro, nella lampada; poi girò testa e riso, correndo su per le scale, scomparendo mentre correva, scomparendo verso l’alto dalla testa in giù come se corresse a capofitto e ridendo entro qualcosa che lo obliterava come un disegno a gesso che venisse cancellato da una lavagna.

Lei lo seguì, arrancando su per le scale. Si mise a seguirlo appena lui l’ebbe oltrepassata, quasi che quella implacabile urgenza che aveva portato via il marito fosse tornata indietro come un mantello sulle spalle del ragazzo e di nuovo fosse stata passata da lui a lei. Si trascinò su per le scale anguste, afferrandosi al corrimano, stretta nello scialle. Non parlava, non lo chiamava. Era come un fantasma che ubbidisse al comando mandatogli dal padrone assente. Joe non aveva acceso la sua lampada. La stanza però era piena del bagliore riflesso della luna, e molto probabilmente anche senza di quello lei avrebbe capito che cosa stava facendo. Si tenne ritta contro la parete, la mano a tentoni finché ebbe raggiunto il letto e ci si lasciò cadere, seduta. Le ci era voluto un po’ di tempo, perché quando guardò dove c’era l’asse malferma, lui si stava già avvicinando al letto dove la luce della luna cadeva direttamente, e lo guardò svuotare sul letto la scatola di latta, raccogliere nel palmo il monticello di spiccioli e di banconote, e ficcarseli in tasca. Soltanto a quel punto la guardò dov’era seduta, un po’ riversa all’indietro, adesso, che si reggeva con un braccio e con l’altra mano stringeva lo scialle. «Non te l’ho chiesto» le disse. «Ricordatelo. Non l’ho chiesto, perché avevo paura che me l’avresti dato. L’ho preso e basta. Non dimenticartelo». Stava già voltandosi quasi prima che la sua voce cessasse. Lo guardò entrare nella luce della lampada che cadeva su per le scale, scendendo. Scomparve alla vista, ma lo udiva ancora. Lo udì di nuovo nell’andito, veloce, e dopo un po’ udì di nuovo il cavallo, al galoppo; e dopo un po’ il rumore del cavallo cessò.

 

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Un orologio da qualche parte batteva l’una quando Joe spronò il vecchio cavallo ormai spento per la strada principale della città. Da un pezzo il cavallo ansimava forte, ma Joe lo manteneva a un trotto incespicante con un grosso bastone che cadeva ritmico sul groppone. Non era una frusta: era un pezzo di un manico di scopa che era stato piantato nell’aiuola della signora McEachern davanti alla casa perché ci crescesse qualcosa. Benché il cavallo stesse ancora facendo finta di galoppare, non andava molto più veloce di quanto potesse andare un uomo. Anche il bastone si levava e cadeva con la stessa spenta, terribile lentezza, il giovane piegato in avanti come se non sapesse che il cavallo era ormai allo stremo, o forse come per sollevare e spingere sempre avanti l’animale sfinito, i cui zoccoli lenti risuonavano vuoti e regolari per la strada deserta e rischiarata a macchie dalla luna. Faceva – cavallo e cavaliere – uno strano effetto come di sogno, come un film al rallentatore, andando a quel galoppo regolare e cascante giù per la strada e verso il vecchio angolo dove lui era solito attendere, meno pressante forse ma non meno impaziente, e più giovane.

Adesso il cavallo neanche trottava, le zampe rigide, l’ansimo profondo, faticoso e rauco, ogni respiro un gemito. Il bastone continuava a cadere; come l’avanzare del cavallo rallentava, il ritmo del bastone cresceva in proporzione inversa. Ma il cavallo rallentò, sbandando verso il marciapiede. Joe strattonò la testa, continuando a colpirlo, ma l’animale rallentò lungo il marciapiede e si fermò, chiazzato di luna, la testa abbassata, tremando, il respiro quasi come una voce umana. Il cavaliere però ancora si piegava in avanti sulla sella ferma, nella posa di una terribile velocità, bastonando il cavallo sul groppone. Tranne che per il levarsi e il ricadere del bastone e il respirare lamentoso dell’animale, potevano essere una statua equestre smarritasi lontana dal piedistallo e venutasi a fermare in una posa di totale spossatezza in una strada silenziosa e deserta chiazzata e macchiata dalle ombre della luna.

Joe smontò. Si avvicinò alla testa del cavallo e cominciò a strattonarlo, come se potesse rimetterlo in moto con la forza per poi saltargli in groppa. Il cavallo non si mosse. Joe desisté; sembrò piegarsi un po’ verso il cavallo. Di nuovo erano immobili: l’animale esausto e il giovane, faccia a faccia, le teste vicinissime, come scolpiti in una posa di ascolto o di preghiera o di consulto. Poi Joe levò il bastone e si mise a percuotere il cavallo sulla testa immobile. Lo percosse senza smettere finché il bastone si ruppe. Continuò a colpirlo con un moncone non più lungo della sua mano. Ma forse si rese conto che non gli stava infliggendo alcun dolore, o forse alla fine il braccio si stancò, perché gettò via il bastone, si girò e si voltò di scatto, già correndo. Non si guardò indietro. Rimpicciolendo, con la camicia bianca che pulsava e svaniva nelle ombre della luna, uscì correndo dalla vita del cavallo, completamente, come se esso non fosse mai esistito.

Passò l’angolo dove di solito aspettava. Se lo notò, ammesso che ci pensasse, dovette dire Mio Dio quanto tempo. Quanto tempo fa è stato La strada curvava e diventava ghiaiosa. Aveva ancora un miglio da fare, per cui corse non veloce ma attento, regolare, il viso un po’ chino come se contemplasse la strada che stava pestando, i gomiti ai fianchi come un corridore ben allenato. La strada continuava a curvare, bianca di luna, fiancheggiata a grandi intervalli dalle nuove, terribili casette sparse nelle quali gente venuta ieri dal nulla e che domani se ne sarà andata nel nulla abita ai margini delle città. Erano tutte buie tranne quella verso la quale correva.

Raggiunse la casa e lasciò la strada, correndo, i passi regolari e forti nel tardo silenzio. Forse vedeva già la cameriera, con un vestito scuro da viaggio, il cappello e la valigia pronta, in attesa (come potessero andare da qualsiasi parte, in che modo potessero partire, probabilmente non ci aveva mai pensato). E forse anche Max e Mame, probabilmente svestiti – Max senza giacca o magari addirittura in camiciola, e Mame col suo kimono celeste –, tutti e due a darsi da fare, allegri, rumorosi, come fa la gente quando qualcuno è in partenza. Ma in realtà lui non stava pensando affatto, dato che non aveva mai detto alla cameriera di prepararsi a partire. Forse era convinto di averglielo detto, oppure che lei dovesse averlo capito, dato che quanto aveva appena fatto e i suoi piani immediati dovevano essergli parsi abbastanza semplici perché chiunque lo capisse. Forse era perfino convinto di averle detto che stava andando a casa a prendere dei soldi, quando lei era salita in macchina.

Salì di corsa sulla veranda. Fino ad allora, anche durante i suoi bei giorni in quella casa, il suo impulso era sempre stato quello di sgattaiolare dalla strada nell’oscurità della veranda e nella casa stessa dove era atteso, quanto più rapido e più inosservato possibile. Bussò. C’era una lampada accesa nella camera di lei, e un’altra in fondo al corridoio, come si aspettava; e anche delle voci dietro le tende alle finestre, varie voci che percepiva più intense che allegre: anche questo se lo aspettava, pensando Forse pensano che non venga. Quel maledetto cavallo. Quel maledetto cavallo Bussò di nuovo, più forte, mettendo la mano al pomello, scuotendolo, premendo il viso contro il vetro della porta d’ingresso, che sul retro aveva una tendina. Le voci cessarono. Poi dall’interno della casa non venne più alcun rumore. Le due luci, la tenda illuminata della camera di lei e la tendina opaca all’ingresso, continuavano a mandare il loro bagliore regolare, come se improvvisamente tutti quelli che erano in casa fossero morti quando lui aveva toccato il pomello. Bussò di nuovo, quasi senza intervalli; stava ancora bussando quando la porta (nessuna ombra era caduta sulla tendina, e da dietro nessun passo si era avvicinato) sparì improvvisa e in silenzio da sotto la sua mano che bussava. Lui stava già superando la soglia come se fosse attaccato alla porta, quando Max ne emerse da dietro, bloccandola. Era completamente vestito, perfino col cappello in testa. «Bene bene bene» disse. La voce non era alta, e fu come se avesse rapidamente tirato Joe nell’ingresso, richiuso la porta e messa la serratura prima che Joe si rendesse conto di essere dentro. Tuttavia la sua voce aveva di nuovo quel che di ambiguo, quel che di cordiale del tutto vuoto e del tutto privo di piacere o di allegria, come un guscio, come un qualcosa che Max portasse davanti alla faccia e attraverso il quale guardasse Joe, un qualcosa che nel passato aveva fatto sì che Joe guardasse Max con un misto di perplessità e di rabbia. «Ecco Romeo, finalmente» disse Max. «Il dongiovanni di Beale Street». Poi parlò a voce un po’ più alta, dicendo Romeo molto forte. «Entra, vieni a conoscere la famiglia».

Joe sta già andando verso la porta che conosceva, di nuovo quasi correndo, se mai si era veramente fermato. Non dava ascolto a Max. Non aveva mai sentito parlare di Beale Street, quei tre o quattro isolati di Memphis al cui confronto Harlem è un set cinematografico. Joe non aveva fatto caso a nulla. Perché d’un tratto vide la bionda ferma in fondo al corridoio. Non l’aveva vista emergere, eppure quando lui era entrato il corridoio era deserto. E poi d’un tratto lei era lì, ferma. Era vestita, con una gonna scura, e in mano aveva un cappello. E appena oltre la soglia di una buia porta aperta accanto a lui c’era una pila di bagagli, parecchie valigie. Forse non le vide. O forse il guardare vide un’unica volta, più rapido del pensiero Non pensavo ce ne avesse tante Forse pensò allora per la prima volta che non avevano niente su cui viaggiare, pensando Come faccio a portarle tutte Ma non si fermò, già girandosi verso la porta che conosceva. Fu soltanto nell’atto di mettere la mano alla porta che si accorse del completo silenzio dall’altra parte, un silenzio che lui anche a diciotto anni sapeva che ci voleva più di una persona per farlo. Ma non si fermò; forse non si era neanche accorto che il corridoio era di nuovo deserto, che la bionda era di nuovo svanita senza che lui l’avesse vista o udita muoversi.

Aprì la porta. Adesso stava correndo; o meglio, come uno che correndo si preceda e preceda il rendersi conto, nell’istante in cui si arresta di botto. La cameriera sedeva sul letto come l’aveva vista seduta tante volte. Indossava il vestito scuro e il cappello, come si aspettava, come sapeva. Sedeva a capo chino, senza neanche guardare la porta quando si aprì, una sigaretta accesa in una mano immobile che nella sua immobilità appariva quasi mostruosa contro il vestito scuro. E nello stesso istante vide il secondo uomo. Non l’aveva mai visto prima di allora. Ma di questo non si rese conto, al momento. Fu soltanto più tardi che se ne ricordò, come ricordò la pila di bagagli nella stanza buia che per un istante aveva guardato mentre il pensiero andava più rapido del vedere.

Anche lo sconosciuto era seduto sul letto, e anche lui fumava. Il suo cappello era inclinato in avanti, così che l’ombra della tesa gli cadeva sulla bocca. Non era vecchio, ma neanche aveva un’aria giovane. Lui e Max avrebbero potuto essere fratelli nel senso in cui due bianchi capitati all’improvviso in un villaggio africano potrebbero sembrare fratelli a quelli che ci vivono. Il viso, il mento su cui la luce cadeva, era immobile. E che Max era lì fermo proprio alle sue spalle, nemmeno questo Joe sapeva. Come ne udiva voci senza capire che cosa dicevano, senza neanche ascoltare: Domandaglielo

Come fa a saperlo Forse udiva le voci. Ma probabilmente no. Probabilmente ancora non avevano più senso dello stridio degli insetti fuori della finestra chiusa, o delle valigie piene che aveva guardato e non aveva visto. Se l’è svignata subito dopo, ha detto Bobbie

Forse lo sa. Se possiamo, scopriamo almeno da cosa stiamo scappando

Benché Joe non si fosse mosso da quando era entrato, stava ancora correndo. Quando Max lo toccò sulla spalla, voltò la testa come se fosse stato fermato in piena corsa. Non si era neanche accorto che Max era lì nella stanza. Si voltò a guardarlo con una sorta di furioso fastidio. «Tira fuori, ragazzo» disse Max. «Sentiamo».

«Sentiamo cosa?» disse Joe.

«Quel vecchio. Pensi di averlo fatto fuori? Sentiamo per bene. Non vorrai mettere Bobbie nei guai».

«Bobbie» disse Joe, pensando Bobbie. Bobbie Si girò, rimettendosi a correre; questa volta Max lo prese per la spalla, anche se non forte.

«Forza» disse Max. «Siamo tutti amici, qui, giusto? L’hai fatto fuori?».

«Fatto fuori?» disse Joe, in quel tono irritato di impazienza e di controllo, come se venisse trattenuto e interrogato da un bambino.

Lo sconosciuto parlò. «Quello che hai incoronato con la seggiola. È morto?».

«Morto?» disse Joe. Guardò lo sconosciuto. Nel farlo, vide di nuovo la cameriera e riprese a correre. Ora si mosse davvero. Si era completamente tolto dalla mente i due uomini. Si avvicinò al letto, armeggiando con la tasca, sul viso un’espressione insieme esaltata e vittoriosa. La cameriera non lo guardava. Non lo aveva guardato neanche una volta da quando era entrato, anche se molto probabilmente lui l’aveva del tutto dimenticato. Lei non si era mossa, la sigaretta in mano ancora accesa. Immobile, la mano sembrava una grande, morta, pallida fetta di carne da cucinare. Di nuovo qualcuno lo afferrò per la spalla. Era lo sconosciuto, adesso. Lo sconosciuto e Max erano fianco a fianco, e lo guardavano.

«Smettila di perder tempo» disse lo sconosciuto. «Se lo hai fatto fuori, dillo. Non durerà tanto, il segreto. Prima o poi, entro un mese lo verranno a sapere, fuori».

«Non lo so, vi dico!» disse Joe. Guardò dall’uno all’altro, irritato ma non ancora furibondo. «L’ho colpito. È andato giù. Gliel’avevo detto che un giorno o l’altro l’avrei fatto». Guardò dall’una all’altra delle immobili facce quasi identiche. Cominciò a divincolare la spalla da sotto la mano dello sconosciuto.

Max parlò. «Che cosa sei venuto a fare, allora?».

«Che cosa...» disse Joe. «Che cosa sono...» disse in un tono di stupore scoraggiato, fissando da una faccia all’altra con una sorta di esasperazione offesa eppure ancora paziente. «Che cosa sono venuto a fare? Sono venuto a prendere Bobbie. Cosa credete che... se sono andato fino a casa a prendere i soldi per sposarci...». Ancora una volta li ignorò, li dimenticò completamente. Con uno strattone si liberò e si volse verso la donna, di nuovo con quell’espressione immemore, esaltata e orgogliosa. Molto probabilmente in quell’istante i due uomini erano del tutto volati via dalla sua vita come due pezzi di carta. Molto probabilmente non si accorse neanche che Max andava alla porta a chiamare e un momento dopo entrava la donna bionda. Lui si piegava sul letto dove, immobile e a testa china, era seduta la cameriera, piegandosi su di lei, tirandosi fuori di tasca la massa di biglietti e di monete e buttandoglieli sul grembo e sul letto accanto a lei. «Ecco! Guardalo. Guarda. Ce l’ho. Lo vedi?».

Poi di nuovo il vento soffiò su di lui, come tre ore prima nella scuola fra tutti quei visi spalancati dei quali per un po’ si era dimenticato. Rimase lì in uno stato silenzioso e come di sogno, ritto, adesso, perché alzandosi all’improvviso la cameriera l’aveva urtato, e la vide, in piedi, raccogliere biglietti arrotolati e monete disperse e buttarli via; vide in silenzio il suo viso teso, la bocca che strillava, gli occhi che anch’essi strillavano. Aveva l’impressione di essere l’unico, di tutti quanti, ad essere calmo e tranquillo; che soltanto la sua voce fosse abbastanza tranquilla da risultare all’udito: «Vuoi dire che non vuoi?» disse. «Vuoi dire, non vuoi?».

Era proprio come prima nella scuola: qualcuno che la teneva mentre lei si dibatteva, strillava, i capelli scompigliati dallo scuotersi e agitarsi della testa; il viso, perfino la bocca, a differenza dei capelli, immobili come la bocca morta in un viso morto. «Bastardo! Figlio di puttana! A mettermi nei guai, io che ti ho sempre trattato come se tu fossi un bianco. Un bianco!».

Ma molto probabilmente per lui era ancora soltanto del rumore, niente che venisse registrato: soltanto parte del grande vento. La fissava e basta, fissava quel viso che non aveva mai visto, dicendosi calmo (se a voce alta oppure no, non avrebbe saputo dirlo) con un lento stupore: Ma come, ho commesso un omicidio, per lei. Ho perfino rubato, per lei come se lo avesse appena udito, appena pensato, gli fosse stato appena detto che l’aveva fatto.

Poi anche lei sembrò volare via dalla sua vita sul grande vento come un terzo pezzo di carta. Joe cominciò ad agitare il braccio come se la mano stringesse ancora la sedia fracassata. La bionda era nella stanza già da un po’ di tempo. Lui la vide per la prima volta, senza sorpresa, come appena materializzata dall’aria sottile, immobile, con quella tranquillità dalla superficie di diamante che la investiva di una rispettabilità implacabile e calma come il bianco guanto levato di un poliziotto, non un capello fuori posto. Adesso indossava il kimono celeste sopra il vestito scuro da viaggio. Disse, calma: «Dategli una ripassata. Leviamoci di torno. A momenti qui arriva la polizia. Sapranno dove cercarlo».

Forse Joe non la sentì affatto, né sentiva la cameriera che strillava: «Me l’ha detto lui che era un negro! Quel figlio di puttana! E io che scopavo gratis un negro figlio di puttana per ritrovarmelo che mi mette nei guai con dei poliziotti di campagna. A un ballo di contadini!». Forse lui udiva soltanto il grande vento mentre, agitando la mano come se stesse ancora stringendo la sedia, si gettò in avanti contro i due uomini. Molto probabilmente non sapeva nemmeno che si stavano già muovendo verso di lui: quasi con la stessa esaltazione del suo padre adottivo si gettò in pieno e di propria volontà contro il pugno dello sconosciuto. Forse non avvertì nessuno dei due colpi, benché lo sconosciuto lo colpisse due volte in faccia prima che toccasse terra, dove, come l’uomo che aveva abbattuto, rimase disteso sulla schiena, del tutto immobile. Ma non aveva perduto i sensi perché gli occhi erano ancora aperti, e li guardavano sereni. Non c’era proprio nulla nei suoi occhi, né dolore né sorpresa. Ma a quanto pareva non era in grado di muoversi; restava lì disteso con un’espressione profondamente meditabonda, guardando su sereno verso i due uomini e la donna bionda sempre immobile, perfetta e levigata come una statua fusa. Forse non poteva neanche udire le loro voci, o forse sì, le udiva, e ancora una volta non avevano più senso del secco, continuo ronzare degli insetti fuori della finestra:

A sputtanarmi il più bel posticino che potessi avere

Doveva girarci alla larga, dalle puttane

È più forte di lui. C’è nato troppo vicino, a una

Davvero è un negro? Non si direbbe

È quello che ha detto a Bobbie una sera. Ma mi sa che anche lei non ne sa più di quanto ne sa lui. Questi bastardi campagnoli son capaci di essere qualsiasi cosa

Ora vediamo. Guardiamo se ha il sangue nero Disteso immobile, in pace, Joe osservò lo sconosciuto piegarsi in avanti, sollevargli la testa e dargli un’altra botta in faccia, questa volta con un breve colpo di taglio. Dopo un po’ si leccò un po’ il labbro, come un bambino che lecca un cucchiaio da cucina. Osservò la mano dello sconosciuto levarsi ancora. Ma non ricadde.

Basta così. Andiamo a Memphis

Solo un altro Joe stava lì disteso in silenzio e osservava la mano. Poi accanto allo sconosciuto c’era Max, anche lui chino in avanti. Ci vorrà un po’ più di sangue per esser sicuri

Sicuro. Mica ha da preoccuparsi. Anche questo è offerto dalla casa

La mano non cadde. Poi c’era anche la donna bionda. Teneva il braccio levato dello sconosciuto per il polso. Ho detto ora basta