26
Nella vita, anche le cose migliori,
quelle che sembrano sempre andare per il verso giusto,
sono giuste perché qualcuno le aggiusta, continuamente.
E non si potrebbe aggiustare nulla,
nella vita, se prima non si fosse rotto.
“La locanda dell'Ultima Solitudine” Alessandro Barbaglia
Le ruote dell'aereo si arpionarono alla pista. Appoggiata con la testa all'oblò, le lacrime scendevano ai lati del viso bagnandolo. Janet strinse la mano alla mia. La ritrassi e mi rannicchiai su me stessa.
I miei si erano scusati per la loro interferenza, loro volevano aiutarmi e, in effetti lo fecero, capii quanto le basi di quella relazione fossero instabili.
Il cuore era andato in frantumi nello stesso momento in cui lo avevo lasciato. Soffrivo, ma in quel momento sapevo che era la scelta giusta. Lui non avrebbe mai sacrificato sé stesso per noi. Mai avrei potuto pensare che la storia più importante della mia vita potesse finire a causa della mia ricca e ingombrante famiglia.
Loro, che avevano cercato di preservarmi da tutti i mali del mondo, ne avevano causato uno di dimensioni astronomiche.
Avevo deciso di cambiare.
I giorni si susseguirono in una grigia monotonia.
In ufficio tutti avevano notato il mio cambio d'umore, per non parlare del mutismo nel quale ero piombata, ma nessuno poteva immaginare il vero motivo.
La mia esistenza continuava nel dubbio che avessi compiuto l'errore più grande della vita.
Non c'era momento in cui non pensassi a lui, ai giorni trascorsi insieme, ai baci e alle notti passate a rotolarci tra le lenzuola. Di tutto quello conservavo i ricordi che continuavano a essere indelebili.
La mia casa era un campo minato da grandi scatole. Tutto era pronto per il trasloco. Tramite un'amica di mia madre, avevo trovato un appartamento a Londra. Con riluttanza, per i rimanenti giorni, dovetti trasferirmi a casa dei miei. Non gli rivolgevo la parola da quando eravamo tornati, loro ci soffrivano molto, ma nessuno osò dirmi niente. Si comportavano in modo stucchevole riempiendomi di coccole.
Io avevo bisogno solo di un suo abbraccio.
Mi ripetevo che il giorno seguente sarei stata meglio, ma, al mio risveglio, constatavo che era sempre peggio.
Per ironia della sorte ero dimagrita senza nessuno sforzo. Il mio proverbiale appetito era sparito di colpo quel giorno a Portishead.
Avevo scaricato sul PC le foto del nostro viaggio. Ogni scatto era una pugnalata al petto.
Dimenticare.
Facile a dirsi, ma il cuore non ne voleva sapere.
* * *
Era il mio ultimo giorno nell'ufficio di Milano. Finalmente avrei finito di recarmi in quel posto pieno di ricordi dolorosi. Vedevo in ogni angolo i suoi smeraldi che mi scrutavano. A volte potevo sentire la sua voce che urlava il mio nome.
Saltai la pausa pranzo e andai da Viviana che mi accolse con un sorriso. «Domani è il gran giorno, andrai alla sede di Londra.» Lei sperava che vedendolo avrei cambiato idea.
«Volevo parlarti di questo.» Appoggiai sulla sua scrivania una busta. «Domani partirò, ma non per Londra.»
Lei sgranò gli occhi e prese la lettera, gli occhi si muovevano veloci riga dopo riga. Mi guardò sbigottita.
«Che diavolo significa? Non puoi fare questo. Non ti puoi licenziare di punto in bianco.»
Strinsi i pugni. «Certo che posso!» Erano giorni che trattenevo la rabbia, rabbia che controllavo plasmandola come plastilina, ma che era pronta a scoppiare.
Afferrò il telefono e compose un numero. «Vieni subito nel mio ufficio.» Chiuse la comunicazione e si rivolse di nuovo a me. «Ti rendi conto di quello che stai facendo?»
«Certo che lo so, ed è per questo che vado via.» La guardai sfidandola.
«Quando lui lo saprà andrà su tutte le furie, non te lo lascerà fare.»
«Al diavolo lui e al diavolo tutti!»
Era nella mia vita che chiunque, in quei giorni, amava intromettersi e, sempre per l'intromissione di qualcuno, la mia esistenza era andata in frantumi in pochi secondi.
«Non ha mosso nemmeno un dito», conclusi.
«Tu non gliene hai dato la possibilità, lo hai sbattuto fuori dalla tua vita così velocemente da non fargli capire niente. Lui ti sta aspettando.» Le parole di Viviana facevano più male del sale sulle ferite ancora aperte. Nel mio cuore c'era uno squarcio che difficilmente si sarebbe rimarginato. «Smettila di fare la bambina capricciosa, che cosa speravi? Che mollasse tutto dall'oggi al domani? Lui è una persona sensata, non un sognatore come te.» Mi puntava il dito contro, in quel momento glielo avrei staccato con un morso. Sentimmo aprire la porta e ci bloccammo, Alberto fece il suo ingresso.
Aveva il fiatone. «Che succede?»
«La pazza si licenzia!» Viviana sventolava la lettera davanti a lui con rabbia.
«Che cosa?»
«Diglielo anche tu che sta facendo una grossa cazzata.» Mi guardava esasperata.
Anche lui disse la sua. «Vicky, non puoi rinunciare a tutto per un uomo.» Era una congiura.
«Come credete che possa lavorare a Londra sapendo che lo incontrerò ogni giorno?»
Gli occhi di Alberto erano furenti. «A testa alta. Ecco come devi fare.»
«Io non ce la faccio. Domani parto per Palo Alto. Ho trovato lavoro in una società di software.»
Il coro dei miei amici era più che sconvolto. «Palo Alto?»
Viviana era disperata. «Non puoi andare così lontano, non pensi alla tua famiglia e a noi?»
«Scusate la brutalità, ma in questo momento non me ne frega un cazzo di nessuno, se non di me stessa.»
«Vicky la cosa è ancora troppo fresca, quando tutto si calmerà te ne pentirai.»
Sapevo che stavo correndo un grosso rischio, e forse lei aveva ragione. Mi rendevo conto che, forse, stavo sbagliando, che forse avrei dovuto chiamarlo, ma cosa avremmo potuto dirci più di quello che avevamo detto? In quel momento andare via era l'unica soluzione possibile.
«Sono a pezzi. Pezzi così piccoli da non riuscire nemmeno a incollarli. Devo ripartire da capo, mettere distanza da tutto. Vi prego, almeno voi, cercate di capirmi.»
Gli occhi bruciavano, la gola mi faceva male per il continuo trattenere il rospo che avevo dentro. Alberto allargò le braccia e mi venne incontro cingendomi. Mi lasciai vincere dall'emozione e dal dolore. Vivi ci guardava restando in disparte, lo sguardo arrabbiato si addolcì, si unì a noi e ci abbracciammo. Tre vecchi amici.
Lui non aveva più messo piede a Milano.
Non mi aveva mai cercata.
Mi aveva dimenticata.
Io non ci sarei mai riuscita.
Stavo mettendo migliaia di chilometri tra noi.
* * *
Quella sera la mia famiglia era riunita in salotto, presi un gran respiro e con coraggio parlai. «Domani il mio volo non sarà per Londra, andrò in California.»
Janet e papà strabuzzarono gli occhi, mia madre aveva ritrovato il suo solito autocontrollo e mi guardò con espressione dura. Mai parole di mia madre furono più determinanti nella mia vita. «Stai buttando alle ortiche la tua vita solo per orgoglio. Riflettici prima di fare una grossa cazzata.»
In risposta portai la valigia all'ingresso di casa.
Le parole di James risuonarono nella stanza. «Adesso basta! Vicky non puoi partire continuando a ignorare tutti.» Mi prese per le spalle. «Lo sappiamo che stai soffrendo, che la tua vita è passata dal paradiso all'inferno in un istante.» Il suo sguardo era dolce come lui. «È vero, i nostri genitori hanno fatto un passo falso, ma lo hanno fatto per aiutarti, magari avrebbero dovuto discuterne con te, invece di buttarsi alla cieca, ma questi siamo noi, una famiglia che ha sempre parlato per risolvere i propri problemi Questo silenzio è irreale. Ti prego perdonali e perdona anche lui.»
* * *
In aeroporto mio padre continuava tra le lacrime a implorarmi di non partire. Mia madre era rassegnata come James che mi teneva stretta a lui. Janet, nella sua natura di ansiosa, continuava a guardare l'orologio da polso e i tabelloni degli orari. Alla settima posizione delle partenze c'era il mio volo con destinazione San Francisco.
Viviana e Alberto mi raccontavano che in ufficio era scoppiata una bomba alla notizia del mio licenziamento. Li bloccai prima che potessero aggiungere altro. Non ne volevo più sapere.
La mia nuova vita stava per iniziare a migliaia di chilometri di distanza. Lontana da tutto e da tutti, ma soprattutto da lui che aveva spezzato il mio cuore dopo avermi dichiarato eterno amore. Come avevo potuto essere tanto stupida? Era ora di andare avanti.
Misi lo zaino in spalla e iniziai a salutare.
Mia sorella mi guardava con occhioni imploranti trattenendomi per la maglia. «Aspetta altri cinque minuti.»
Le toccai la pancia e salutai il mio nipotino. Mi staccai da lei imprimendo il suo profumo nella memoria. Mi abbracciai a mio fratello e ai miei amici. Papà scuoteva la testa incredulo, lo baciai sulla guancia e lui mi accarezzò dolcemente il viso. La sua piccola si stava staccando dal nido.
In maniera goffa mi abbracciai a mia madre, lei e la sua mania di controllare tutto, ma non aveva fatto i conti con le variabili della vita. «Ti voglio bene», mi disse prima di staccarsi.
Feci i primi passi verso gli imbarchi facendomi largo tra la gente. Gettai un ultimo sguardo ai miei amici e ai miei familiari che mi salutavano agitando la mano, alzai la mia e ricambiai con un sorriso tirato sul volto. Mi rigirai determinata, prendendo posto tra la fila per passare i controlli con un groppo in gola e gli occhi che bruciavano.
«Victoria!»
Sentii urlare da lontano. Il cuore sussultò perdendo un battito. La voce che aveva affollato i miei sogni negli ultimi giorni, l'avrei riconosciuta tra mille. Mi girai piano per paura che fosse un'illusione. La folla si aprì e Christopher comparve in tutta la sua bellezza. I suoi grandi occhi mi cercavano tra la gente.
Mi girai verso mia sorella che indicava il tabellone degli arrivi urlando. «È appena atterrato.» Lei non sarebbe mai cambiata e per fortuna!
Lui si bloccò di colpo a qualche metro da me, i nostri occhi s'incatenarono. Arrivò a un palmo dal mio naso solo con una falcata, accompagnato dal fiatone per la corsa e l'espressione smarrita. Mi afferrò le mani e mi sciolsi all'istante.
Prese aria. «Ho sbagliato.» Vedevo il suo petto che si alzava e abbassava veloce. «Ho creduto che volessi tempo per riflettere. Oggi saresti dovuta atterrare a Londra e mi avresti trovato ad accoglierti per iniziare la nostra vita insieme.» Il suo respiro stava tornando regolare. «Ma tu sei più cocciuta di un mulo. Pensavi che avrei rinunciato a te? Sei pazza se credi questo, ti seguirò ovunque.» In mano sventolava un biglietto aereo. Con le nostre dita sempre intrecciate lui continuava a parlare. Io lo fissavo. Il corpo era un blocco di cemento. «Avrei dovuto afferrare la tua mano e venire via con te due settimane fa.» Ingoiò a vuoto. «In questi giorni ho capito tante cose: la prima è che non posso vivere senza di te. Mi manca il profumo della tua pelle, mi manca il modo in cui mi prendi in giro, mi manca il tuo pigiama di topolino con sotto la tua biancheria sexy e le tue improbabili pantofole.» Un sorriso spuntò sulle sue labbra insieme alla fossetta. «Mi manca ridere insieme a te per le tue stupide battute, mi mancano le tue labbra sulle mie, mi manchi tu. La seconda è che ti amo da impazzire.»
Lo ascoltavo incredula, incapace di dire qualsiasi cosa. Da una sacchetto che aveva in mano prese una scatola regalo, la mise tra le mie mani stringendole.
«Aprilo!»
Incuriosita, sciolsi il fiocco scoperchiando la scatola.
Fissai il contenuto basita, lo guardai negli occhi, mi sorrise, calde lacrime rigarono le guance mentre lui tirava fuori un diadema in plastica dorata e lo metteva sulla mia testa.
«Tu sei la mia principessa, io sono il tuo principe, le fiabe si avverano, devi crederci di nuovo, devi credere in me, in noi.» Mi diede un bacio sulla guancia. «Ti amo.»
L'intero aeroporto era fermo a fissarci. Tutto, intorno a noi, sembrava cristallizzato. Sentivo il fiato sospeso della gente.
Io stessa ero in apnea.
S'inginocchiò davanti a me, mi prese le mani, le sue erano gelide. In fondo, i miei genitori, i miei fratelli e i miei amici ci guardavano trattenendo il respiro e incrociando le dita.
«Sposami, principessa Victoria.»
Il mio organo pulsante stava scoppiando dentro il petto, milioni di farfalle battevano le ali dentro lo stomaco.
In un attimo la sofferenza di quelle settimane era svanita.
Gli buttai le braccia al collo. «Per sempre felici e contenti.»
Sentii la sua mano bloccare la mia e qualcosa scivolare al mio anulare. Abbassai lo sguardo, un solitario era apparso come per magia. Mi abbracciò stretta mentre mi faceva volteggiare.
Un applauso scrosciante, accompagnato da fischi assordanti, si levò dalla folla ancora immobilizzata a godersi lo spettacolo.
Se l'indomani avessi visto solo una di quelle scene su YouTube, lo avrei ucciso. Sarei stata la fidanzata-sposina-vedova più famosa al mondo.
Mi asciugai le lacrime. «Ti prego basta con tutta questa dolcezza, ho un picco glicemico.»
Intorno a noi la vita riprese a muoversi frenetica come sempre.
Qualche passo dietro di lui, potevo vedere i miei genitori che ci fissavano emozionati, mia sorella si asciugava gli occhi con le dita. I miei amici, invece, mi sorridevano mostrandomi il pollice all'insù.
Lui mi tirò verso gli imbarchi tenendo ben saldo il mio zaino.