STIAMO NELLE TENEBRE, CIRCONFUSI DI LUCE
Non sempre sceglievo Erodoto come compagno di viaggio. Spesso partivo talmente
in fretta da non avere il tempo di pensare al mio greco. Altre volte, pur essendomi portato dietro il libro, ero così preso dal lavoro e così sfinito dalla calura tropicale che non avevo né la forza né la voglia di rileggere certe parti, come la fondamentale discussione sul potere tra Otane, Megabizo e Dario, o la descrizione degli etiopi insieme ai quali Serse si preparava a conquistare la Grecia. “Gli Etiopi, vestiti di pelli di pantera e di leone, avevano archi fatti di rami di palma, lunghi non meno di quattro cubiti, e inoltre frecce di canna piccole, e invece di ferro c’era sulla punta una pietra aguzza lavorata […] per di più portavano lance e in cima c’era un corno di gazzella appuntito al posto della punta di ferro; avevano anche clave guarnite di chiodi. Andando in battaglia, del corpo metà lo spalmavano di gesso, l’altra metà di minio. “160
dopo aver trucidato gli uomini rimasero in balia del vento e delle onde finché non giunsero al paese dei Cremni, nella palude Meotide. I Cremni sono del paese
degli Sciti liberi. Allora le Amazzoni, sbarcate, si diressero verso l’abitato; imbattutesi per prima cosa in un armento di cavalli se ne impadronirono e, salite a cavallo, misero a sacco il paese degli Sciti. Gli Sciti non sapevano rendersi conto della cosa poiché non ne conoscevano né lingua né vesti né stirpe
e si chiedevano meravigliati donde fossero venute e credevano che fossero uomini nella prima giovinezza e combatterono contro di loro. Dopo la battaglia gli Sciti si impadronirono dei cadaveri e così si accorsero che erano donne”.161
Decidono quindi di non ucciderle, ma di mandare un ugual numero di uomini più giovani ad accamparsi nelle loro vicinanze. ” Gli Sciti decisero così, poiché volevano aver figli da quelle donne. I giovani inviati fecero ciò che era stato loro ordinato. Ma le Amazzoni, quando compresero che non erano venuti per far
loro del male, li lasciarono in pace, e un campo si accostava all’altro sempre più […] Verso mezzogiorno le Amazzoni facevano questo: si sparpagliavano a una
a una, a due a due, lontano le une dalle altre, per soddisfare i loro bisogni.
Quando se ne accorsero, anche gli Sciti fecero lo stesso. Un giorno uno si accostò a una di esse isolata, e l’Amazzone non lo respinse, ma gli permise di unirsi a lei. La donna parlare non potè- che non si comprendevano a vicenda -
ma
con la mano gli fece capire di venire il giorno seguente allo stesso luogo e di condurre un altro, significando con cenni che dovevano essere in due e che es-sa avrebbe condotto un’altra. Il giovane al ritorno disse questo agli altri, e il giorno seguente andò al luogo fissato conducendo un compagno e trovò l’Amazzone che l’attendeva con un’altra. Gli altri giovani allora quando seppero questo si diedero ad ammansire le Amazzoni. “162
Anche se lasciavo passare anni senza aprire le Storie, pensavo spesso al loro autore. Dopo essere stato una persona viva e reale, era caduto nell’oblio per duemila anni. Oggi, do-
pò tanti secoli, tornava a vivere, perlomeno per me. Gli avevo dato l’aspetto e le caratteristiche che più mi piacevano. Ormai quello era il mio Erodoto e, in quanto tale, lo sentivo vicino, uno che parlava la mia stessa lingua e con il quale mi intendevo al volo.
Quando stavo sulla riva del mare, mi sembrava di vederlo arrivare, posare il bastone, scrollare la sabbia dai calzari e subito attaccare discorso. Doveva essere uno di quei chiacchieroni sempre a caccia di chi li stia a sentire e che non possono vivere senza un uditorio. Uno di quei comunicatori nati, sempre in
moto, sempre in agitazione, che appena vedono o sentono qualcosa devono subito
trasmetterla agli altri, incapaci di tenerla per sé. E la loro missione, la loro passione: andare, partire, appurare la verità e trasmetterla al mondo.
Questo genere di fervore non è molto diffuso. L’uomo comune non è particolarmente curioso. Visto che ormai è al mondo, gli tocca arrangiarsi: ma meno fatica gli costa, meglio è. Conoscere il mondo richiede uno sforzo che assorbe tutte le facoltà dell’uomo. La maggior parte della gente sviluppa piuttosto le facoltà opposte: la capacità di guardare senza vedere e di sentire senza ascoltare. Quindi l’apparizione di un tipo come Erodoto, posseduto dalla passione, dalla smania, dalla fissazione di conoscere, e oltretutto intelligente e con il dono dello scrivere, diventa un evento di portata storica.
La caratteristica principale di persone del genere è di essere delle spugne che assorbono facilmente qualsiasi cosa e altrettanto facilmente l’abbandonano.
Non
tengono dentro niente oltre un certo periodo e, poiché la natura non sopporta il
vuoto, devono sempre trovare nuove cose da scoprire, approfondire e assimila-re.
La mente di Erodoto non è in grado di limitarsi a un solo evento o a un solo paese. E sempre in moto, sempre a caccia. Il fatto appurato e stabilito il giorno prima oggi non lo interessa più: deve subito rimettersi in cammino (partire), procedere, andare oltre.
Non si sa esattamente che cosa spinga l’uomo a girare il mondo. La curiosità?
Il
desiderio di avventura? Il continuo bisogno di essere stupito? Chi perde la capacità di stupirsi è un uomo interiormente morto. Chi considera tutto un déjà
vu e non riesce a stupirsi di niente, ha perso la cosa più preziosa, l’amore per la vita. Erodoto è l’esatto contrario. Nomade infaticabile, sempre in movimento, sempre concentrato, sempre pieno di idee, di ipotesi e di progetti. Sempre in viaggio. Le rare volte in cui sta a casa (ma dov’è la sua casa?) è perché è appena tornato da una spedizione oppure sta per intraprenderne un’altra. Per lui
il viaggio è uno sforzo, un’indagine per arrivare a conoscere tutto: la vita, il mondo, se stesso.
Nella mente ha sempre fissa la mappa del mondo, una mappa che è lui stesso a creare, modificare, completare. Un quadro vivente, un caleidoscopio in movimento, uno schermo luminoso dove accade continuamente qualcosa: gli egiziani
costruiscono le piramidi, gli sciti vanno alla caccia
Queste persone, così utili agli altri, in realtà sono infelici perché sostanzialmente sole. Certo, nella loro continua ricerca di altra gente, scoprono spesso in questo o quel paese persone simili a loro, di cui sanno tutto e che conoscono a fondo. Poi, una mattina, si svegliano sentendo che niente più
li lega a quella gente e che niente li trattiene dall’andarsene anche il giorno stesso. Di colpo sentono il richiamo di altri lidi e altre genti, e ciò che ancora ieri li appassionava oggi è diventato insipido e insignificante.
Non si legano profondamente a niente, non mettono mai radici. La loro em-patia è sincera ma superficiale. A chiedere loro quale tra i paesi visitati preferiscano, non sanno che cosa rispondere. Quale? Un po’ tutti, visto che in ognuno c’è qualcosa di interessante. In quale vorrebbero tornare? Nuovo imbarazzo: non se lo sono mai chiesto. Quello che sicuramente vogliono è ripartire, tornare in pista. In fondo desiderano solo viaggiare.
j
grossa, i fenici rapiscono le donne e Feretime, regina di Cirene, fa una brutta morte: “Feretime […] morì di mala morte; ancor viva brulicava di vermi…
“.163
La mappa di Erodoto comprende la Grecia e Creta, la Persia e il Caucaso, l’Arabia e il Mar Rosso. Mancano la Cina, le due Americhe e il Pacifico. Erodoto non sa con certezza che forma abbia l’Europa e si interroga anche sull’origine del suo nome. uInvece a nessuno è chiaramente noto, né dalla parte d’oriente, né
da quella di settentrione, se l’Europa sia cinta dalle acque: ma per lunghezza si sa che si estende lungo entrambe le altre due parti […] nessuno degli uomini sa […] donde ha preso il nome che ha, né è noto chi fu che glielo im-Del futuro non si preoccupa: il domani è semplicemente un altro oggi. Lo interessa l’ieri, il passato che scompare: ha paura che ne svanisca la memoria e che vada perduto. Ciò che ci rende uomini e ci distingue dagli animali è la nostra capacità di narrare storie e miti: condividere storie e leggende rafforza il senso di comunità, unica condizione nella quale l’uomo può vivere. Mancano ancora duemila anni alla comparsa dell’individualismo, dell’egocentrismo e del dottor Freud, Per il momento, la sera la gente si riunisce in grandi tavolate davanti al fuoco o sotto un albero, meglio se in vicinanza del mare, per mangiare, bere vino e chiacchierare. Alle chiacchiere si intrecciano racconti e storie d’ogni genere. Se per caso capita un viandante di passaggio, lo si invita a sedersi e ascoltare. Il giorno dopo il viandante riparte per altri luoghi dove verrà ugualmente bene accolto. Una dopo l’altra, le serate si accumulano e se il viandante ha buona memoria (e quella di Erodoto doveva essere prodigiosa) mette
insieme un patrimonio di storie. Questa fu una delle fonti alle quali attinse il nostro greco. La seconda fu ciò che vedeva. La terza, ciò che pensava.
C’erano periodi in cui le storie del passato mi attiravano più del mio lavoro di corrispondente e reporter. Accadeva nei momenti in cui mi sentivo stanco del presente. Tutto si ripeteva all’infinito. In politica: giochi sporchi, sotterfugi e menzogne. Nella vita quotidiana: miseria e disperazione. La divisione del mondo in Oriente e Occidente: sempre la stessa.
Allo stesso modo che una volta avevo desiderato varcare le frontiere dello spazio, adesso mi affascinava varcare le frontiere del tempo.
Temevo di cadere nella trappola del provincialismo. Quello del provincialismo è
un concetto che siamo abituati ad associare allo spazio. Provinciale è colui che pensa in termini di un ambiente ristretto e marginale, al quale attribuisce un significato universale. T.S. Eliot ci mette in guardia contro un altro tipo di provincialismo, quello del tempo. “Nella nostra epoca,” scrive nel saggio su Virgilio del 1944, “in cui la gente tende sempre di più a confondere la saggezza con il sapere e il sapere con l’informazione, e in cui cerca di risolvere i problemi esistenziali in termini meccanicistici, nasce un nuovo tipo di provincialismo che forse merita un nome nuovo. E un provincialismo relativo non
allo spazio bensì al tempo, che considera la storia una pura e semplice cronaca degli accorgimenti umani i quali, una volta compiuta la loro funzione, sono finiti nella spazzatura; un provincialismo secondo il quale il mondo è una proprietà esclusiva dei vivi, dove i morti non detengono quote di mercato. Il rischio di questo genere di provincialismo è che tutti quanti noi, popoli del pianeta, diventiamo provinciali in blocco e che a chi non è d’accordo non resti altra scelta che diventare eremita. “165
Esistono quindi i provinciali dello spazio e i provinciali del tempo. Basta un mappamondo per dimostrare ai primi quanto siano ciechi e fuorviati dal loro provincialismo; basta una pagina di storia, comprese le Storie di Erodoto, per dimostrare ai secondi che il presente è sempre esistito. La storia è un ininterrotto succedersi di presenti e per la gente di
allora le storie più antiche erano quelle che sentivano più attuali e vicine.
Per difendermi dal provincialismo del tempo, partivo per il mondo sotto l’esperta e intelligente guida di Erodoto. Abbiamo viaggiato insieme per anni.
Benché sia preferibile viaggiare da soli, penso che non ci siamo disturbati a vicenda: oltre ai duemilacinquecento anni di distanza, tra noi si frapponeva anche la soggezione che provavo nei suoi confronti. Per quanto Erodoto trattasse tutti in modo cortese e alla mano, per me era sempre un gigante.
I miei viaggi si svolgevano quindi in due dimensioni: una temporale (l’antica Grecia, la Persia e gli sciti) e una spaziale (il mio lavoro in Africa, in Asia e nell’America Latina). Il passato sopravviveva nel presente e le due dimensioni confluivano, creando un flusso ininterrotto di storia.
Ma era giusto quel mio tentativo di rifugiarmi nella storia passata? Che senso aveva, visto che prima o poi si finisce sempre per ritrovare quello da cui ci sembra di essere fuggiti?
Erodoto ci appare invischiato in un dilemma insolubile: da un lato consacra la vita al tentativo di conservare la verità storica, “perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate”. Dall’altro, la fonte principale da cui
attinge le sue notizie non è la storia reale, ma la storia riferita, quindi ricordata in modo selettivo e vista attraverso il prisma personale e arbitrario di chi la riferisce. Non la storia come obiettivamente è stata, ma come i suoi interlocutori vorrebbero che fosse. E una contraddizione ineliminabile: per quanto proviamo a minimizzarla o attenuarla, avremo sempre a che fare con la soggettività e con la sua azione deformante. Il nostro greco, che se ne rende conto, si premunisce ripetendo in continuazione: “a quanto mi dicono”, “a quanto
narrano” e “di ciò esistono varie versioni”, Non abbiamo mai a che fare con la verità storica, ma con una storia narra-ta e rappresentata a seconda di come la gente crede che sia stata.
E questa verità è forse la massima scoperta di Erodoto.
Ad Alicarnasso, città natale di Erodoto, giunsi su un piccolo battello dall’isola di Kos. A metà strada il vecchio marinaio ammainò la bandiera greca e
la sostituì con quella turca. Erano entrambe lacere, stinte e sgualcite.
La cittadina si stendeva in fondo al golfo verdeazzurro, pieno di yacht in disarmo per l’autunno. Il poliziotto al quale chiesi la strada per Alicarnasso corresse il nome in Bo-drum, secondo l’attuale dizione turca. Era gentile e comprensivo. Nel piccolo albergo a buon mercato in riva al mare, il ragazzo della reception, afflitto da una periostite, aveva la guancia talmente gonfia di pus da far temere che scoppiasse da un momento all’altro. Cercai prudentemente di stargli alla larga. Nella misera stanza al primo piano porta, finestra e armadio non volevano saperne di chiudersi, il che mi fece subito sentire a casa mia. Per colazione ricevetti dell’ottimo caffè turco al cardamomo, pita, formaggio di capra, cipolla e olive.
Imboccai la strada principale della cittadina, bordata di palme, ficus e azalee.
Lungo il golfo alcuni pescatori vendevano il pescato del mattino. Sbattevano i pesci saltellanti su un tavolaccio grondante d’acqua, spaccavano loro la testa con il peso della bilancia, li sventravano in un lampo e con gesto solenne lanciavano le interiora nel golfo, brulicante di pesci a caccia di avanzi. Gli stessi pesci che, il mattino dopo, i pescatori tiravano su con le reti per gettarli sul tavolo scivoloso, pronti per il coltello. In tal modo la natura, mangiandosi la coda, nutriva se stessa e gli uomini.
A metà strada, su un alto promontorio, sorge il castello di San Pietro, risalente ai tempi dei crociati. Contiene un insolito Museo di archeologia sottomarina dove sono esposti i
pezzi recuperati dai sommozzatori nell’Egeo. La prima a colpirci è una grande collezione di anfore. Le anfore sono note da cinquemila anni. Aggraziate e sottili, con lunghi colli di cigno, univano la raffinatezza della forma alla resistenza del materiale - argilla cotta e pietra. Servivano a trasportare olio e vino, miele e formaggio, grano e frutta ed erano diffuse in tutto il mondo antico, dalle Colonne d’Ercole all’India e alla Colchide. Il fondo dell’Egeo è costellato di frammenti d’anfora, ma anche di anfore intere, forse ancora piene di olio e di miele, posate sulle rocce sottomarine o sprofondate nella sabbia come mostri in agguato.
Ma i ritrovamenti dei sommozzatori sono solo una parte del mondo sommer-so.
Anch’esso, come quello in cui viviamo, abbonda di ricchezze. Isole sommerse con
città, villaggi, porti e pontili. Templi e santuari, statue e altari. Navi e miriadi di barche da pesca affondate. Velieri di mercanti e imbarcazioni pirata pronte ad assalirli. Sul fondo giacciono le galere fenicie e, nei pressi di Salamina, la grande flotta persiana, orgoglio di Serse. Innumerevoli mandrie di cavalli, greggi di pecore e capre. Boschi e campi coltivati. Vigneti e oliveti.
Il mondo di Erodoto.
Ma la parte più impressionante è l’anfratto buio e misterioso come una grotta dove, su tavoli, bacheche e ripiani, giacciono piccoli oggetti in vetro ripescati dal mare: coppe, ciotole, brocche, flaconi, calici. Finché la sala è aperta e inondata dalla luce del sole, non si vedono. Al calar della sera, quando si fa buio e le porte si chiudono, il custode gira l’interruttore.
All’interno degli oggetti si accende una piccola lampadina; i fragili vetri opachi rivivono, cominciano a rilucere, a schiarirsi, a pulsare. Sembra di stare nelle tenebre del fondo marino, a un banchetto di Poseidone, assistito da due dee che lo illuminano con lampade a olio.
Stiamo nelle tenebre, circonfusi di luce.
Tornai all’albergo. Al posto del ragazzo dolorante c’era una giovane turca dagli occhi neri. Alla mia vista assunse un’espressione in cui il sorriso professionale, destinato a invogliare i turisti, veniva tenuto a freno dall ‘obbligo religioso di non mostrare interesse per i maschi stranieri.