VARCARE LA FRONTIERA

 

 

Prima di partire per uno dei suoi viaggi inerpicandosi su sentieri rocciosi, navigando per mare, cavalcando per impervi territori asiatici; prima di imbattersi nei diffidenti sciti, scoprire le meraviglie di Babilonia e studiare i segreti del Nilo; prima di conoscere cento altri luoghi diversi e vedere mille cose incomprensibili, Erodoto appare brevemente nelle lezioni di storia greca tenute due volte alla settimana dalla professoressa Biezuriska-Malowist per gli studenti del primo anno dell’Università di Varsavia.

 

 

Appare e subito sparisce. Sparisce di colpo e in modo così radicale che, sfogliando dopo tanti anni gli appunti presi a lezione, non vi trovo il suo nome. Ci sono Eschilo e Pericle, Saffo e Socrate, Eraclito e Platone, ma non Erodoto. Eppure quegli appunti, nostra unica fonte di sapere, venivano redatti con la massima cura: la guerra era finita da appena cinque anni, la città giaceva in rovina, le biblioteche erano state incendiate e noi mancavamo completamente di libri e di manuali.

 

 

La professoressa parla con voce calma e uniforme. Dietro le grosse lenti i suoi attenti occhi scuri ci fissano con evidente curiosità. Seduta in cattedra sulla pedana sopraelevata, ha davanti a sé un centinaio di giovani la maggior parte dei qua-

 

 

li ignora che Solone fu un grand’uomo, quale fosse il motivo della disperazione di Antigone e in che modo Temistocle avesse chiuso in trappola i persiani.

 

 

A dire la verità, non sapevamo con esattezza neanche dove si trovasse la Grecia né che il paese così chiamato vantasse un passato talmente insolito ed eccezionale da meritare di studiarlo all’università. Eravamo figli della guerra: negli anni del conflitto le scuole erano chiuse e anche se qualcuna delle città principali aveva organizzato dei licei clandestini, gli studenti di quell’aula, quasi tutti provenienti da villaggi e da piccole città di campagna, erano digiuni di letture e di studi scolastici. Correva il 1951 e all’università si veniva ammessi senza esami. Bastava provenire dalla famiglia giusta: i figli di operai e di contadini erano quasi certi di ottenere il libretto. Le panche erano lunghe, a molti posti. L’affollamento ci costringeva a stringerci gli uni contro gli altri. Alla mia sinistra sedeva Z., un ragazzone cupo e taciturno originario del contado di Radom dove, mi raccontò, quando un neonato si ammalava lo curavano dandogli da ciucciare un pezzo di salsiccia secca. “Credi che faccia bene?” chiesi dubbioso. “Certo che sì” rispose con convinzione, e ripiombò nel silenzio. Alla mia destra sedeva W., dalla sottile faccia a becco. Ogni volta che il tempo cambiava si lamentava di dolori a un ginocchio, trafitto da una pallottola in uno scontro armato nei boschi. Ma contro chi combattesse e chi gli

avesse sparato, non volle dirmelo. Tra noi c’erano anche ragazzi di buona famiglia. Indossavano abiti puliti e di qualità, mentre le ragazze portavano i tacchi alti. Ma si trattava di rare eccezioni, di fenomeni isolati; a prevalere erano i miseri tessuti campagnoli, i cappotti militari smessi, i maglioni rattoppati e le gonne di cotonina.

 

 

La professoressa ci mostrava anche fotografie di opere d’arte antiche e di figure greche dipinte su vasi bronzei: splendidi corpi scultorei e nobili facce oblunghe dall’espressione mite. Appartenevano a un mondo mitico e sconosciu-

 

 

to

 

 

to. Un mondo di sole e d’argento, caldo e luminoso, abitato da snelli eroi e ninfe danzanti. Un mondo con il quale non sapevamo come regolarci. Guardando quelle foto Z. taceva cupamente, W. si massaggiava con una smorfia il ginocchio dolorante. Gli altri osservavano con attenzione ma anche con indifferenza, incapaci di immaginare un mondo così remoto e irreale. Non occorreva attendere che qualcuno si presentasse ad annunciare uno scontro tra civiltà. Lo scontro ormai era in atto da tempo, due volte alla settimana, in quell’aula dove avrei appreso che una volta era esistito un greco di nome Erodoto.

 

 

Non sapevo ancora niente della sua vita e del fatto che avesse lasciato un libro così famoso. Un libro intitolato Storie e che, comunque, allora non avremmo potuto leggere, visto che in quel momento la sua traduzione polacca stava chiusa

in un armadio. Le Storie erano state tradotte nella metà degli anni quaranta del

Ventesimo secolo dal professor Seweryn Hammer, il quale aveva consegnato il dattiloscritto alla casa editrice Czytelnik. Ignoro i particolari, visto che l’intera documentazione è andata perduta; so però che nell’autunno del 1951

la

casa editrice aveva mandato la traduzione in tipografia. Se tutto fosse andato liscio, il libro sarebbe dovuto uscire nel 1952 e arrivare nelle mani di noi studenti giusto in tempo per i nostri studi di storia antica. Ma non andò così, perché la stampa venne improvvisamente sospesa. Impossibile, oggi, stabilire chi

avesse deciso in tal senso. Un censore? Suppongo di sì, ma non posso affermar-lo con certezza. Fatto sta che il libro venne stampato solo tre anni più tardi, alla fine del 1954, e comparve in libreria nel 1955.

 

 

Le ragioni di questo lungo intervallo tra l’invio del dattiloscritto in tipografia e l’apparizione delle Storie in libreria sono abbastanza intuibili.

L’intervallo corrisponde al periodo appena precedente e subito successivo alla morte di Stalin. Il dattiloscritto di Erodoto era finito in tipografia mentre le radio occidentali cominciavano a parlare di una grave malattia di Stalin. La gente ignorava i particolari ma, per paura di una nuova ondata di terrore, preferiva far buon viso a cattivo gioco, non esporsi, non fornire pretesti, aspettare che le acque si calmassero. L’atmosfera era tesa. I censori avevano raddoppiato la vigilanza.

 

 

Ma Erodoto? Che cosa c’entrava un libro scritto duemilacinquecento anni prima? E

invece c’entrava. A quel tempo, dalle nostre parti imperversava, contagiando l’intero modo di pensare, di vedere e di leggere, l’incubo dell’allusione. Non c’era frase dove non si potesse vedere qualcos’altro, un doppio senso, un doppio fondo, un significato nascosto, un elemento cifrato e scaltramente dissimulato.

Niente era letterale e univoco come nella realtà: da ogni cosa, da ogni gesto e da ogni parola emanava un ammicco allusivo, una complice strizzatina d’occhio.

Chi scriveva trovava difficoltà a raggiungere chi leggeva non solo perché spesso, strada facendo, la censura confiscava il testo, ma anche perché quando il testo arrivava finalmente al destinatario, questi vi leggeva qualcosa di completamente diverso da quanto c’era scritto. Il lettore continuava a chiedersi: “Che cosa, tra le righe, sta cercando di dirmi questo autore?”.

 

 

Immaginiamo che una persona ossessionata dall’allusione prenda in mano l’opera di Erodoto. Certo le allusioni non mancano. Le Storie si compongono di nove libri, ognuno dei quali ne è una vera e propria miniera. Poniamo che il lettore apra a caso il V libro. Che vi trova? Che a Corinto, dopo trent’anni di governo sanguinario, è morto un tiranno di nome Cipselo al quale succede il figlio Periandro, destinato a rivelarsi molto più sanguinario del padre. Agli inizi della sua dittatura Periandro, desideroso di apprendere quale sia il miglior sistema per mantenere il potere, invia al vecchio Trasibulo, tiranno di Mileto, un araldo incaricato di chiedergli che cosa occorra fare per mantenere i sudditi nella sottomissione e nel terrore.

 

 

“Trasibulo” scrive Erodoto, “condusse l’inviato di Periandro fuori della città e, entrato in un campo seminato, insieme

con lui passava attraverso le messi interrogando e tornando a interrogare l’araldo sul motivo della sua venuta a Corinto, e intanto ogni volta che vedeva qualche spiga che sorpassasse le altre la recideva, e poi le gettava via, finché in tal modo ebbe distrutta la parte più bella e più alta della messe. Dopo aver attraversato il campo, senza aggiungere alcuna parola mandò via l’araldo.

Tornato l’araldo a Corinto, Periandro era curioso di conoscere il consiglio. Ma quello gli disse che Trasibulo non gli aveva dato nessun consiglio, e si meravigliava che l’avesse mandato lì da un uomo simile, che era così dissennato e danneggiava i suoi beni: ed espose quello che aveva visto fare da Trasibulo.

Periandro capì la cosa e, comprendendo che Trasibulo gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano, allora rivelò tutta la sua malvagità.

Periandro finì completamente tutto quel che Cipselo aveva lasciato, uccidendo e

scacciando”

 

 

E che dire del cupo, maniacalmente sospettoso Cambise? Quante allusioni e analogie in questo personaggio! Cambise, capo del grande regno persiano, governò tra il 529 eil522a.C.

 

 

“Ma Cambise […] impazzì […] Il primo atto malvagio lo commise contro il fratello Smerdi […] Questo primo delitto dicono che diede inizio alle scelleratezze di Cambise; poi in secondo luogo fece uccidere la sorella che l’aveva seguito in Egitto, la quale era anche sua moglie, e gli era sorella sia per parte materna che paterna […] un’altra volta senza adeguati motivi arrestati dodici dei più illustri Persiani li fece seppellire vivi con la testa in giù […] fece molte simili follie […] rimanendo a Menfi e aprendo antiche tombe e esaminando i cadaveri […] Subito Cambise adirato mosse contro gli Etiopi, senza aver ordinato preparativi per i viveri e senza aver riflettuto che si accingeva a marciare verso l’estremo confine della terra. Ma, pazzo e dissennato com’era […] si mise in marcia […] Ma prima che l’esercito avesse percorso la quinta parte del cammino, vennero loro a mancare tutti i viveri che avevano, e dopo i viveri vennero meno anche le bestie da soma, che furono mangiate. Se, visto questo, Cambise avesse mutato parere e avesse

condotto indietro l’esercito, dopo l’errore iniziale si sarebbe comportato da uomo saggio; invece, non tenendone alcun conto, andava sempre avanti. I soldati, finché ebbero la possibilità di prendere qualche cosa dalla terra, si mantennero in vita mangiando erba; ma quando giunsero al deserto, alcuni di essi compirono un’azione orribile: tratto a sorte un uomo su dieci di loro lo divorarono.

Cambise, informato di ciò, temendo che si mangiassero l’uno con l’altro, abbandonata la spedizione […] tornò indietro. “2

 

 

Come ho già detto, le Storie di Erodoto uscirono in libreria nel 1955, due an-ni dopo la morte di Stalin. L’atmosfera si era rasserenata, la gente respirava più liberamente. Era appena uscito un romanzo di Ehrenburg il cui titolo sarebbe diventato il simbolo dell’era che stava cominciando: II disgelo. A quel tempo per noi la letteratura era tutto. Vi cercavamo la forza di vivere, le direzioni da prendere, la rivelazione. Terminai gli studi e cominciai a lavorare in un giornale. Si chiamava “Sztandar Mlodych”.3 Nella mia qualità di principiante, seguivo soprattutto le Lettere al Direttore. Vi si denunciavano torti e miseria: mucche requisite dallo stato, villaggi senza corrente elettrica. Ora che la censura era meno severa non era più vietato dire che nel villaggio di Chodów era

stato aperto un negozio dove tuttavia non c’era mai nulla da comprare. Un bel progresso, rispetto al regime staliniano, sotto il quale era proibito dire che i negozi erano vuoti: i negozi erano per definizione sempre pieni di merce. Giravo da un villaggio all’altro, da una cittadina all’altra su carri di legno o su autobus scassati: le macchine private erano una rarità e anche le biciclette scarseggiavano.

 

 

Talvolta, ma di rado, le piste mi conducevano in villaggi di frontiera. Via via che ci si avvicinava al confine, la terra si faceva deserta e la gente sempre più rara. Un vuoto che aumentava il mistero di quei paraggi e grazie al quale mi

resi conto che nelle zone di frontiera regnava il silenzio. Un mistero e un silenzio dai quali ero attratto e intrigato. Ero sempre tentato di scoprire che cosa ci fosse di là, dall’altra parte. Mi chiedevo che cosa si provasse nel varcare una frontiera. Che cosa si sentiva? Che cosa si pensava? Doveva essere un momento straordinariamente emozionante. Cosa c’era

dall’altra parte? Senza dubbio qualcosa di diverso. Ma diverso in che senso?

Che

aspetto aveva? A che cosa somigliava? Forse non somigliava a niente di ciò che conoscevo e per ciò stesso era inconcepibile, inimmaginabile? In fin dei conti il mio massimo desiderio, quello che più mi tentava e attraeva era di per sé estremamente modesto: la pura e semplice azione di varcare la frontiera.

Varcarla per subito tornare indietro: pensavo che ciò sarebbe bastato a placare quel mio inesplicabile e pur tuttavia prepotente bisogno psicologico.

 

 

Come fare? Nessuno dei miei compagni di scuola e di università era mai stato all’estero. Se qualcuno aveva un parente oltre frontiera, preferiva non pubblicizzare la cosa. Ce l’avevo con me stesso per quella strana fissazione, che comunque continuava a ossessionarmi.

 

 

Un giorno, nel corridoio della redazione, incontrai la mia capo redattrice. Era una bella bionda dai folti capelli divisi da una scriminatura e pettinati di lato. Si chiamava Irena Tarlowska. Fece qualche commento sui miei ultimi pezzi,

poi mi chiese che progetti avessi. Dopo avere elencato i villaggi dove dovevo recarmi e le questioni di cui mi sarei occupato, mi feci coraggio e aggiunsi: “Un giorno mi piacerebbe anche andare all’estero”. “All’estero?” rispose lei, stupita e leggermente spaventata, visto che a quei tempi le partenze per l’estero non erano certo all’ordine del giorno. “Ma dove? E a che fare?” chiese.

“Pensavo alla Cecoslovacchia” replicai. Londra e Parigi non mi tentavano, erano realtà che non cercavo di immaginare e che neanche mi interessavano. Quello che

volevo era semplicemente varcare una frontiera, quale che fosse: non mi premevano lo scopo, il traguardo, la meta, ma il mistico e trascendentale atto in sé di varcare la frontiera.

 

 

Passò un anno. Nella stanza dei reporter squillò il telefono. La capo redattrice mi convocava nel suo ufficio. “Sai” disse quando fui davanti alla sua scrivania, “ti mandiamo all’estero. In India.”

 

 

Sul momento restai senza fiato. Poi fui preso dal panico: dell’India non sapevo assolutamente nulla. Cercavo febbrilmente di farmi venire in mente un’associazione, un’immagine, un nome. Invano: non ne sapevo proprio niente.

(L’idea di mandarmici dipendeva dal fatto che la Polonia aveva da poco ricevuto la visita del primo presidente di un paese fuori del blocco sovietico, il leader indiano Jawaharlal Nehru. Tra i due paesi era stato gettato un ponte e i miei reportage avrebbero dovuto consolidare i legami.)

Alla fine di quella conversazione che mi informava della mia partenza per il vasto mondo, la Tarlowska si avvicinò all’armadio, ne estrasse un grosso volume rilegato in tela gialla e me lo consegnò dicendo: “Questo da parte mia, per il viaggio”. Sul frontespizio, impressi a caratteri dorati, apparivano il nome dell’autore e il titolo: Erodoto, Storie.

 

 

Era un vecchio bimotore, un DC-3 reduce da ripetuti servizi al fronte, con le ali annerite dai gas di scarico e toppe sulla carlinga, che però volava. Con pochissimi passeggeri a bordo, anzi praticamente vuoto, volava verso Roma.

Emozionato, guardavo in basso attraverso il finestrino: era la prima volta che vedevo il mondo dall’alto, a volo d’uccello. Per me che non ero mai stato neanche in montagna, era un’esperienza vertiginosa. Sotto di noi scorrevano lentamente scacchiere multicolori, patchwork variegati, tappeti grigioverdi stesi a terra come per farli asciugare al sole. Presto però cominciò a imbrunire e in un attimo si fece buio.

 

 

“È sera” disse in polacco, ma con accento straniero, il mio vicino. Era un giornalista italiano che rientrava in patria, ricordo solo che si chiamava Mario. Quando gli raccontai la meta e lo scopo del mio viaggio, che era la prima

volta che andavo all’estero e che in realtà non avevo la più vaga idea di

quel che avrei fatto, si mise a ridere e rispose qualcosa come: “Non preoccuparti! “, promettendo di aiutarmi. Mi sentii un po’ meno sfiduciato.

Ne

avevo bisogno: stavo volando verso Occidente, quell’Occidente che mi avevano insegnato a temere come la peste.

 

 

Volavamo nelle tenebre (perfino le lampadine di bordo emanavano una luce fioca)

quando a un tratto la tensione che pervade ogni singola parte dell’aereo mentre i motori girano al massimo cominciò ad allentarsi e il rombo si fece più calmo e

disteso: stavamo per arrivare a destinazione. A un certo punto, Mario mi prese per il braccio e, indicandomi il finestrino, disse: “Guarda!”.

 

 

Guardai e rimasi di sasso.

 

 

Sotto di me, il vasto spazio notturno nel quale stavamo volando rigurgitava di luce. Una luce intensa, abbagliante, scintillante, vibrante. Sembrava che lì sotto ardesse una materia liquida la cui superficie lucente pulsasse di chiarore, si sollevasse e ricadesse, si dilatasse e si restringesse, tanto quel quadro luminoso era vibrante, mobile e carico di energia.

 

 

Era la prima volta che vedevo una città illuminata. Tutte le città e cittadine visitate fino ad allora erano orribilmente buie: non una vetrina illuminata, non una reclame a colori; anche i lampioni stradali, quando c’erano, facevano poca luce. Che bisogno c’era di luminarie? Lì, di notte, le strade erano deserte, le macchine rare.

 

 

A mano a mano che perdevamo quota, il panorama di luci cresceva e si in-grandiva a vista d’occhio. A un certo punto l’aereo urtò contro la pista in cemento, sferragliò e stridette. Eravamo arrivati. L’aeroporto di Roma, un grande blocco vetrato pieno di gente. Nella sera tiepida uscimmo nelle strade affollate e piene di movimento. Il chiasso, il traffico, le luci e i suoni agivano come una droga. A tratti non riuscivo più a capire dove fossi. Dovevo sembrare un selvaggio: frastornato, quasi intimorito, con gli occhi sgranati intenti a vedere, distinguere e afferrare ogni cosa.

 

 

La mattina dopo udii chiacchierare nella camera accanto. Riconobbi la voce di Mario. In seguito venni a sapere che c’era stata una discussione su come darmi un aspetto civile, visto il mio abbigliamento nel più puro stile Patto di Varsavia, edizione 1956. Indossavo un gessato in cheviot a vivaci righe grigioazzurre, con giacca doppiopetto a spalline squadrate e sporgenti, ampi pantaloni ricadenti e rovescia alta un palmo. Camicia in nylon giallo chiaro e cravatta verde a quadri. Ai piedi, massicci mocassini dalle grosse suole rigide.

 

 

In realtà lo scontro tra Oriente e Occidente non si svolgeva solo nei poligoni di tiro, ma in tutti i settori della vita. Se l’Occidente vestiva leggero, l’Oriente, per contrasto, vestiva pesante; se l’Occidente indossava abiti attillati, l’Oriente adottava la linea a sacco. Chi arrivava da Oltrecortina non aveva bisogno del passaporto, lo riconoscevano alla prima occhiata.

 

 

Cominciai a girare i negozi scortato dalla moglie di Mario. Per me quelle spedizioni erano vere e proprie scoperte. Tre cose, soprattutto, mi lasciavano di stucco. La prima, che i negozi fossero pieni, anzi rigurgitassero di merci ammassate su ripiani e banconi e straripanti in torrenti colorati sui marciapiedi, le strade e le piazze. La seconda, che le commesse non stessero sedute ma in piedi, gli occhi fissi sulla porta d’ingresso. Era strano che restassero in piedi in silenzio invece di sedersi a chiacchierare tra loro. Le donne hanno sempre tante cose da dirsi: litigi con il marito, problemi con i bambini, i vestiti da mettersi, la salute, l’arrosto bruciato. Quelle là, invece, davano quasi l’impressione di non conoscersi e comunque di non avere nessuna voglia di chiacchierare. La terza sorpresa stava nel fatto che i commessi rispondessero alle domande che ricevevano. Rispondevano con frasi complete e, alla fine, ti dicevano anche: grazie1.4 Ogni volta che la moglie di Mario chiedeva qualcosa, la ascoltavano con la massima attenzione come se si trattasse di rispondere a un quiz della televisione. Poi era tutto un risuonare dei fatidici: grazie1.

 

 

La sera mi azzardai a uscire da solo. Il mio albergo doveva trovarsi in una zona centrale, perché dalla vicina stazione Termini, lungo via Cavour, raggiunsi piazza Venezia per poi, attraverso vicoli e vicoletti, tornare nuovamente alla stazione. Non degnavo di un’occhiata le architetture, le

statue e i monumenti: mi affascinavano soprattutto i bar e i caffè. I marciapiedi traboccavano di tavolini con gente seduta a bere e chiacchierare, o semplicemente a guardare i passanti. Dietro stretti e alti banconi i barman mescevano bevande, preparavano cocktail, servivano caffè. Dappertutto si aggiravano camerieri, portando calici, tazze e bicchieri con un’abilità da giocolieri; l’unica volta che avevo visto qualcosa di simile era stato in un circo sovietico, quando il prestigiatore aveva fatto spuntare dal nulla un piatto di legno, un boccale di vetro e un gallo starnazzante.

 

 

Adocchiato un tavolino libero in uno dei bar, mi sedetti e ordinai un caffè.

Dopo qualche tempo mi accorsi che la gente mi sbirciava di sottecchi: indossavo un abito nuovo, con una candida camicia italiana e una cravatta a pois, ma evidentemente il mio aspetto, i gesti, il modo di stare seduto e di muovermi bastavano da soli a tradire la provenienza da un altro mondo. Capii che mi consideravano un diverso e, malgrado la gioia di trovarmi sotto lo splendido cielo romano, mi sentii spiacevolmente a disagio. Il vestito nuovo non riusciva a nascondere la mia formazione e il mio marchio d’origine. Mi trovavo in un mondo stupendo ma, come mi faceva notare quella gente, lì dentro ero un elemento estraneo.