LA MEMORIA SULLE STRADE DEL MONDO

 

 

Tornato in Polonia, cambiai redazione. Venni assunto dall’Agenzia di Stampa Polacca. Il fatto che fossi stato in Cina indusse il mio nuovo capo, Michal Hofman, a considerarmi specializzato in questioni dell’Estremo Oriente e ad affidarmi automaticamente quel settore: stavolta si trattava del Sudest asiatico e delle sue mire sulle innumerevoli isole sparse nel Pacifico.

 

 

Tutti noi sappiamo poco di tutto, ma dei paesi che mi erano stati assegnati non

sapevo assolutamente niente. La notte sgobbavo per aggiornarmi sulle guerri-glie nelle giungle della Birmania e della Malaysia, sulle rivolte a Sumatra e Celebes e sui ribelli moro nelle Filippine. Il mondo ricominciava a sembrarmi un argomento sconfinato, impossibile da approfondire e dominare. Oltretutto, dovendo passare le giornate in redazione, avevo poco tempo per studiare: a ogni

istante e dai più svariati paesi arrivavano telegrammi che bisognava leggere, tradurre, tagliare e redigere prima di trasmetterli ai giornali e alla radio.

 

 

Sull’onda delle notizie che quotidianamente ricevevo da Rangoon, Singapore, Hanoi, Manila e Bandung, il mio viaggio nei paesi asiatici, iniziato in India e in Afghanistan e poi continuato in Giappone e in Cina, proseguiva ininterrotto.

Sotto il vetro della scrivania avevo disteso una carta geografica (risalente a prima della guerra) sulla quale cercavo spesso con un dito nomi quali Phnom Penh, Surabaja, le Isole

 

 

Salomone o l’introvabile Laoag, dove era appena avvenuto un attentato contro una

Personalità Importante o era scoppiato uno sciopero nelle piantagioni di caucciù. Mi spostavo mentalmente da un punto all’altro, cercando di immaginare luoghi e avvenimenti.

 

 

Ogni tanto, quando di sera la redazione si svuotava e il corridoio si faceva silenzioso, tentavo di sgombrare la mente dai conflitti a fuoco, dagli attentati e dalle esplosioni che dilaniavano la vita di paesi per me sconosciuti tirando fuori dal cassetto le Storie di Erodoto.

 

 

Erodoto inizia la sua narrazione con una frase di spiegazione sui motivi che l’hanno indotto a scriverla:

“Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e, inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro”. In questa frase sta la chiave del libro. Innanzitutto Erodoto ci informa di aver condotto delle ricerche (personalmente preferirei dire “indagini”). Oggi sappiamo che vi dedicò l’intera vita, una vita - per quei tempi - relativamente lunga. Per quale ragione? Come mai, da giovane, prese una decisione del genere? Erano indagini compiute su suggerimento o per conto di qualcuno? Lavorava forse per un potente?

Per un consiglio di anziani? Per un oracolo? A chi e a che cosa servivano?

 

 

O forse faceva tutto da solo, divorato dalla febbre del conoscere, incalzato da un’ansia inesplicabile e oscura? Era uno spirito indagatore innato, una di quelle menti sempre in effervescenza, che sfornano a getto continuo domande che

tolgono il sonno? E se davvero soffriva di questa (peraltro comune) curiosità ossessiva, come aveva fatto per appagarla?

 

 

Erodoto ammette di essere ossessionato dalla memoria. Sa che la memoria è qualcosa di fragile, instabile, addirittura illusorio. Che i dati in essa contenuti possono svanire senza

lasciare traccia. Tutta la sua generazione, tutti gli uomini di quel mondo sono ossessionati dalla stessa paura. Senza memoria non si vive: ma la memoria, pur innalzando l’uomo al di sopra dell’animale e determinando la conformazione della

sua anima, è inafferrabile e traditrice. È questo a rendere l’uomo così insicuro di sé. “Aspetta un momento: era il…” “Ma sì! E stato nel… Aspetta, quando è stato?” Non ricordiamo più e dietro a questo non ricordare si spalanca la zona dell’ignoranza, ossia della non esistenza.

 

 

L’uomo moderno non si preoccupa della sua memoria, attorniato com’è dalla memoria immagazzinata. Ha tutto a portata di mano: enciclopedie, manuali, dizionari, compendi. Biblioteche e musei, librerie antiquarie e archivi.

Cassette audio e cassette video. Internet. Riserve inesauribili di parole, di suoni e di immagini conservate in case, magazzini, cantine e soffitte. Se è un bambino, gli insegna tutto la sua maestra, se è uno studente, ricorre al professore.

 

 

Nessuna, o quasi nessuna di tali istituzioni esisteva ai tempi di Erodoto.

L’uomo sapeva soltanto ciò che la sua memoria riusciva a trattenere. Alcuni ra-ri eletti imparavano a scrivere su rotoli di papiro e tavolette d’argilla. Ma gli altri? La cultura è sempre stata un’occupazione aristocratica. Cigni volta che si scosta da questo principio, perisce.

 

 

Nel mondo di Erodoto l’unico (o quasi l’unico) depositario della memoria è l’uomo. Se si vuole conoscere ciò che è stato memorizzato, bisogna consultare l’uomo. Se quest’uomo vive lontano dobbiamo metterci in cammino, raggiungerlo e, una volta trovato, sederci ad ascoltare ciò che ha da dirci. Ascoltare, memorizzare, magari annotare. È così che nasce un reportage.

 

 

Erodoto, quindi, viaggia per il mondo, incontra altri uomini e ascolta quello che hanno da dirgli. Raccontano chi sono, narrano la propria storia. Ma come fanno a sapere chi sono? Per averlo sentito dire da altri, in primo luogo dai propri antenati. Allo stesso modo che quelli hanno trasmesso loro la propria conoscenza, loro la trasmettono ad altri. La conoscenza assume la forma di racconti. Ci si siede attor-

 

 

no al fuoco e si racconta. In seguito quei racconti verranno chiamati miti e leggende, ma nel momento in cui li si narra o li si ascolta, si è convinti che si tratti della pura verità, della realtà più assoluta.

 

 

La gente ascolta, il fuoco arde, qualcuno aggiunge altra legna. La luce e il calore del fuoco ravvivano il pensiero, stimolano l’immaginazione. Lo scorrere di quei racconti è quasi inconcepibile senza un fuoco, una lucerna o una can-dela che rischiarino la casa. La luce del fuoco attira e unisce il gruppo, libera energie positive. Fiamma e comunità. Fiamma e storia. Fiamma e memoria.

Eraclito, più anziano di Erodoto, considerava il fuoco la sostanza primigenia, l’inizio di ogni materia: come il fuoco, dice Eraclito, tutto è in perpetuo movimento, tutto si spegne per nuovamente infiammarsi. Tutto scorre, ma nello

scorrere si trasforma. Lo stesso accade alla memoria. Alcune immagini si spengono, sostituite da nuove. Con la differenza che le nuove non sono più uguali a quelle di prima: come non ci si bagna due volte nello stesso fiume, così è impossibile che una nuova immagine sia identica alla precedente.

 

 

Questa legge dell’eterno scorrere Erodoto la comprende benissimo e vuole opporsi alla sua natura distruttrice, affinché “le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate”.

 

 

Ci vuole un bel coraggio, una bella consapevolezza della propria importanza e della propria missione per dichiarare di stare facendo qualcosa da cui dipende che “le imprese degli uomini non siano dimenticate”. Le imprese degli uomini!

Come faceva a conoscere l’esistenza di una cosa del genere? Il suo predecessore, Omero, aveva descritto la storia di una sola guerra, quella di Troia, seguita dalle avventure di un viaggiatore solitario, Ulisse. Ma “le imprese degli uomini”? Siamo di fronte a un modo di pensare nuovo, a un nuovo concetto, a

nuovi orizzonti. Con questa frase Erodoto non si presenta come uno scriba, come

un oscuro provinciale innamorato della sua polis, patriota di una delle piccole città-stato di cui si compone la Grecia del tempo. No. L’autore delle Storie esordisce subito come un visionario del mondo, un

creatore capace di pensare su scala planetaria: in una parola, come il primo globalista della storia.

 

 

Naturalmente la mappa del mondo che Erodoto ha davanti o che cerca di immaginare

è diversa da quella con cui abbiamo a che fare oggigiorno. Il suo è un mondo molto più piccolo del nostro, che ha il proprio centro nelle montuose e (allora) boscose terre intorno all’Egeo. A occidente c’è la Grecia, a oriente la Persia.

E qui tocchiamo subito il nocciolo del problema: appena Erodoto cresce e comincia a capire qualcosa, si accorge che quel mondo è diviso in Oriente e Occidente e che le due zone sono in conflitto tra loro.

 

 

La domanda che subito affiora alle sue labbra, come a quelle di qualsiasi individuo pensante, è: “Per quale ragione?”. La stessa domanda che risuona nel proemio del suo capolavoro: “le ricerche di Erodoto di Alicarnasso […] per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro”.

 

 

Eccoci al punto. Una domanda che angoscia e tormenta l’umanità da migliaia di

anni e che, dai primordi fino a oggi, si ripresenta sempre uguale: perché gli uomini si combattono? Che cosa li spinge? Che mire hanno? Che cosa li guida? Che cosa hanno in mente? Domande, sempre domande. Ed Erodoto dedica la sua laboriosa, la sua instancabile vita a rispondervi. Con il particolare che, alle questioni generali e astratte, preferisce di solito i fatti concreti, gli eventi che si svolgono sotto i suoi occhi, la cui memoria ancora vive o comunque sopravvive, sia pure sbiadita. In una parola, Erodoto concentra la sua attenzione e le sue indagini sulle domande: “Perché la Grecia (leggi l’Europa) è in guerra contro la Persia (leggi l’Asia)? Perché il mondo occidentale (l’Europa) e quello orientale (l’Asia) combattono tra loro una battaglia all’ultimo sangue? E sempre stato così? Sarà sempre così?”.

 

 

Tutto questo lo intriga, lo assorbe, non gli basta mai. Erodoto ci appare un uomo ossessionato da un’idea che non gli dà pace. Un irrequieto che non riesce a stare fermo, sempre in movimento e che, dovunque arrivi, porta un clima di agitazione e inquietudine. Alla gente (di solito la più numerosa) che non ama uscire di casa e avventurarsi fuori dalle mura di

cinta, questi eterni irrequieti fanno l’effetto di essere degli strampalati, degli invasati o, addirittura, dei folli.

 

 

Forse era così che i contemporanei vedevano Erodoto. Lui non ne parla. Ma poteva, uno come lui, badare a cose del genere, occupato com’era, prima, nei preparativi del viaggio, poi, a viaggiare e, infine, a selezionare e riordinare i materiali riportati? Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima

e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile.

 

 

Non sappiamo a quale titolo viaggiasse Erodoto. In qualità di mercante (occupazione preferita dei levantini)? No, visto che non si interessava ai prezzi, alle merci e ai mercati. Come diplomatico? Una professione che a quel tempo non esisteva. Come spia? Ma di quale stato? Come turista? Nemmeno.

I

turisti viaggiano per riposarsi, mentre per Erodoto il viaggio è un lavoro: fa il reporter, l’antropologo, l’etnografo e lo storico. E il tipico viandante -

come si dirà nell’Europa del Medioevo - l’uomo sempre in cammino. Ma questo suo errare non è uno spensierato vagabondaggio di luogo in luogo: i viaggi di Erodoto sono mirati, servono a conoscere il mondo e i suoi abitanti e poi descriverli. Descrivere soprattutto “le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari”.

 

 

Questo il proposito originario. Ma via via che i viaggi aumentano, il mondo gli

cresce tra le mani, si moltiplica e ingigantisce. Scopre che al di là dell’Egitto c’è la Libia e, dietro di essa, la terra degli etiopi, ossia l’Africa; che a oriente, oltrepassata la grande Persia (il che richiede oltre tre mesi di marcia veloce), ci sono l’altera e inaccessibile Babilonia nonché la sconfinata patria degli indii; che a occidente il Mediterraneo si spinge lontano, fino ad Abila e alle Colonne d’Ercole, dopodiché si dice vi sia un altro mare; che anche a

 

 

settentrione vi sono mari, steppe e boschi abitati da innumerevoli popoli sciti.

 

 

Fu Anassimandro di Mileto (bella città dell’Asia Minore), più anziano di Erodoto, il primo a redigere una mappa del mondo. Per lui la terra era una specie di cilindro circondato dai cieli, sulla cui superficie superiore abitano gli uomini. Ugualmente distante da tutti i corpi celesti, galleggia sospesa nell’aria. In quell’epoca nascono altre mappe del mondo nelle quali la terra è una piatta superficie ovale, circondata da ogni lato dalle acque del gran fiume Okeanos. Okeanos non è solo il confine della terra, ma anche la sorgente di tutti i fiumi del mondo.

 

 

Un mondo il cui centro erano il Mare Egeo, le sue coste e le sue isole. È da qui che Erodoto parte per le sue spedizioni. Quanto più si allontana verso i confini della terra, tanto più spesso incontra qualcosa di nuovo. È il primo a scoprire la pluralità culturale del mondo. Il primo a convincersi che ogni cultura ha il diritto di essere accettata e capita, e che, per capirla, bisogna prima conoscerla. In che cosa si differenziano le culture? Innanzitutto nei costumi: dimmi come vesti, come ti comporti, che usanze segui, quali dèi veneri e ti di-rò chi sei. L’uomo non solo crea una cultura e la abita, ma anche la porta in sé: l’uomo è la cultura.

 

 

Per quante cose sappia sul mondo, Erodoto non sa tutto. Non ha mai sentito parlare della Cina o del Giappone; ignora l’Australia e l’Oceania; non intuisce l’esistenza e il fiorire del grande continente americano. Non sa niente di preciso nemmeno sull’Europa occidentale e settentrionale. Il mondo di Erodoto è il Mediterraneo mediorientale, un solare mondo di mari e laghi, di alte montagne e verdi vallate, di olivi e vigneti, di maiali e agnelli. Una serena Arcadia che di tanto in tanto si inonda di sangue.

-

ASCESA E CADUTA DI CRESO

 

 

Nel tentativo di rispondere a quella che per lui è la domanda fondamentale, ossia come sia nato il conflitto tra Oriente e Occidente e quali siano i motivi della loro reciproca ostilità, Erodoto manifesta un’estrema cautela. Anziché pretendere di saperlo, si tiene nell’ombra e fa rispondere gli altri. Gli altri, in questo caso, sono i ” dotti persiani”. Secondo i dotti persiani, dice Erodoto, i responsabili del conflitto mondiale tra Oriente e Occidente non furono né i greci né i persiani, ma un terzo popolo: gli intraprendenti fenici, grandi professionisti del commercio. Furono loro i primi a rapire le donne, prassi che scatenò il conflitto globale.

 

 

Nel porto greco di Argo i fenici rapiscono la figlia del re, di nome Io, e la portano per nave in Egitto. Subito dopo alcuni greci, approdati a Tiro in Fenicia, rapiscono la figlia del re, Europa. Altri greci rapiscono la figlia del re di Colchide, Medea. Poi Alessandro di Troia rapisce Elena, moglie del re greco Menelao e la conduce a Troia. Per rivalsa, i greci attaccano Troia.

Scoppia una grande guerra le cui vicende vengono immortalate da Omero.

 

 

Erodoto riporta il commento dei dotti persiani:

“Ora, il rapire donne è considerata azione da malfattori, ma il darsi cura di vendicarle è azione da dissennati, mentre da saggi è il non preoccuparsene, perché è chiaro che se non avessero voluto non sarebbero state rapite”. E, a riprova, cita la questione della regina greca Io secondo il punto di vista dei

fenici: “affermano infatti che non furono loro che, ricorrendo al ratto, la portarono in Egitto, ma che ad Argo essa ebbe una relazione con il comandante della nave, e che quando si accorse di essere incinta, vergognandosi dei genitori, essa stessa di sua volontà si imbarcò insieme coi fenici per non essere scoperta”.9

 

 

Come mai Erodoto inizia la sua grande descrizione del mondo da una futile (secondo i dotti persiani) storia di donne rapite? Ma perché rispetta la legge del mercato mediale: per vendere una storia bisogna renderla interessante, anzi piccante, metterci il brivido della trasgressione. Condizioni cui le storie delle donne rapite rispondono a meraviglia.

 

 

Erodoto vive a cavallo tra due epoche, quando ancora impera la tradizione della trasmissione orale, ma già si affaccia l’era della storia scritta. È probabile che il ritmo di vita e di lavoro di Erodoto fosse più o meno il seguente: dopo un lungo viaggio, durante il quale raccoglieva materiale, tornava a casa e cominciava a girare per le città greche, organizzando, per così dire, delle serate d’autore, nelle quali narrava le esperienze, le impressioni e le osservazioni ricavate dai suoi vagabondaggi. Non è escluso che da quegli incontri traesse anche di che vivere e, soprattutto, di che pagarsi un nuovo viaggio: era quindi nel suo interesse attirarvi più gente possibile. E con che mezzo, se non con quello di esordire da un argomento d’effetto, capace di avvincere l’uditorio? Nell’opera di Erodoto ricorrono continuamente temi destinati a emozionare e sorprendere il pubblico che, senza quel richiamo, si sarebbe rapidamente annoiato, disertando la sala e lasciando l’oratore a mani vuote.

 

 

Ma le storie delle donne rapite non erano solo pettegolezzi pruriginosi su argomenti piccanti. Fin dall’inizio delle sue indagini, infatti, lo scrittore cerca di abbozzare la sua prima legge storica. Un’ambizione dovuta al fatto che,

avendo messo insieme un’infinità di materiali di ogni epoca e luogo, Erodoto desiderava raccogliere sotto un denominatore comune quella congerie di fatti apparentemente esorbitante e caotica. Ma come si fa a stabilire un principio del

genere? Semplice,

 

 

dice Erodoto. Basta rispondere alla domanda: chi è stato il primo a cominciare?

Chi fu il primo a recare offesa? Con questa domanda davanti agli occhi sarà più

facile muoversi nei tortuosi meandri della storia e rendersi conto delle ragioni e delle forze che la governano.

 

 

Il fatto stesso di stabilire e di introiettare una legge del genere è un evento fondamentale, dato che nel mondo di Erodoto (nonché in varie comunità o-dierne) vige la secolare legge della vendetta, della rivalsa, dell’occhio per occhio. La vendetta non è solo una legge, ma un dovere. Chi non vi adempie viene male-detto dalla famiglia, dal clan, dalla comunità. Un dovere che non incombe solo sul membro della tribù offesa: a rispettarla sono tenuti anche gli dèi, e perfino l’anonimo Fato, al di sopra del tempo.

 

 

Qual è la funzione della vendetta? La paura di un’orrenda e inevitabile ritorsione dovrebbe trattenere gli uomini dal commettere atti malvagi e dan-nosi per il prossimo. Dovrebbe agire da freno, da voce della ragione. Se tuttavia si rivela inefficace e qualcuno si macchia di una colpa, il suo gesto mette in moto una catena di vendette capace di protrarsi per generazioni o addirittura per secoli.

 

 

Nel meccanismo della vendetta si annida una sorta di cupo fatalismo, un che di

inevitabile e irrevocabile. Quando, di punto in bianco, veniamo colpiti da una disgrazia che non riusciamo a spiegarci e a giustificare, significa che siamo stati raggiunti dalla vendetta per un delitto commesso da un nostro antenato vissuto dieci generazioni fa e di cui neanche conoscevamo l’esistenza.

 

 

La seconda legge di Erodoto, riguardante non solo la storia, ma anche la vita dell’uomo, dice: la fortuna umana non sta mai ferma nello stesso luogo. Una verità che il nostro greco dimostra descrivendo le drammatiche e strazianti sorti del re dei lidi, Creso, simili a quelle del biblico Giobbe, di cui Creso è forse stato il prototipo.

 

 

La Lidia, sua patria, era un potente stato asiatico situato

tra la Grecia e la Persia. Qui, nei suoi palazzi, Creso aveva accumulato grandi ricchezze, montagne d’oro e d’argento per le quali era famoso nel mondo e che volentieri mostrava ai suoi ospiti. Ciò accadeva verso la metà del VI secolo a.C, una ventina d’anni prima della nascita di Erodoto.

 

 

Un giorno, a Sardi, capitale della Lidia, “giunsero […] tutti gli altri saggi dell’Eliade che vivevano allora, e fra essi anche Solone d’Atene”10 (il poeta, padre della democrazia ateniese e celebre per la sua saggezza). Creso riceve personalmente Solone, ordinando ai servi di mostrargli i propri tesori. Convinto che la loro vista abbia abbacinato l’ospite, Creso dice: “or dunque, mi venne il desiderio di chiederti se tu vedesti già qualcuno più felice di tutti gli altri.

Egli gli pose questa domanda ritenendo di essere l’uomo più felice di tutti” }l

Ma anziché adularlo, Solone cita i nomi di alcuni ateniesi morti eroicamente e aggiunge: “O Creso, tu fai domande sulle vicende umane a me che so che la divinità è invidiosa e perturbatrice. Nel corso del tempo molte cose si hanno da

vedere che non si vorrebbe e molte anche da soffrire. A 70 anni infatti io pongo il limite della vita per un uomo. Questi 70 anni danno 25.200 giorni […] Ora, di tutti questi giorni […] un giorno non porta assolutamente niente di simile all’altro. Stando dunque così le cose, o Creso, l’uomo è in balia degli eventi.

A me certo pare che tu sia assai ricco e re di molte genti; ma quel che tu m’hai chiesto io non te lo posso dire, prima di aver saputo se hai finito felicemente la vita […] Ma prima che sia morto attendiamo, e non chiamiamolo felice, ma fortunato […] Di tutte le cose bisogna guardare come andranno a finire: che molti il dio, dopo aver lasciato loro intravedere la felicità, li ha poi abbattuti fin dalle fondamenta” }2

 

 

In effetti, dopo la partenza di Solone la vendetta divina si abbatte pesantemente su Creso per punirlo di essersi ritenuto il più felice degli uomini. Creso ha due figli: il prestante Atys e un altro, sordomuto. Per quanto il padre custodisca e protegga Atys come la pupilla dei suoi occhi, questi, in modo del tutto involontario e casuale, viene ucciso durante una

battuta di caccia da un certo Adrasto, ospite di Creso. Resosi conto di ciò che ha fatto, Adrasto è sconvolto. Durante il funerale di Atys aspetta che intorno al tumulo non ci sia più nessuno e poi, “‘riconoscendo di essere il più sventurato di quanti uomini egli conosceva, si uccise sulla tomba”11’

 

 

Dopo la morte del figlio, Creso trascorre due anni di lutto stretto. In quel medesimo tempo nella vicina Persia il governo passa al grande Ciro, grazie al quale la potenza persiana aumenta rapidamente. Creso, temendo che Ciro diventi troppo potente e minacci la Lidia, progetta di prevenire un’eventuale aggressione persiana e di colpire per primo.

 

 

L’usanza del tempo vuole che i potenti prima di prendere una decisione importante consultino gli oracoli. Nella Grecia di allora gli oracoli sono numerosi, ma il più importante di tutti risiede a Delfi, in un santuario posto sul fianco di un’alta montagna. Per ottenere un vaticinio favorevole, occorre propiziarsi con lauti doni il dio delfico. Creso organizza una gigantesca colletta di offerte.

 

 

Fa immolare tremila capi di bestiame.

 

 

Fa fondere pesanti verghe d’oro e fabbricare oggetti d’argento.

 

 

Fa erigere un grande rogo e vi brucia letti dorati e argentati, vesti e tuniche di porpora.

 

 

“E a ciascuno dei Lidi impose di sacrificare quel che pote-

 

 

“14

 

 

va. LH

 

 

Vediamo mentalmente il numeroso e sottomesso popolo dei lidi avanzare verso il luogo dove arde il gran rogo e gettare nel fuoco quello che ha di più caro: gioielli d’oro, recipienti sacri e domestici, vesti festive e abiti di tutti i giorni.

 

 

Di solito le opinioni espresse dagli oracoli e trasmesse a coloro che ne hanno sollecitato il verdetto sono estremamente ambigue e confuse. Si tratta di testi composti in modo che, in caso di errore (e succedeva spesso), il vaticinante possa cavarsela senza perdere la faccia. E tuttavia, da millenni, la gente continua ad ascoltare trepidante i responsi di in-ersia. Qui, nei suoi palazzi, Creso aveva

ricchezze, montagne d’oro e d’argento

oso nel mondo e che volentieri mostrava

ccadeva verso la metà del VI secolo a.C,

prima della nascita di Erodoto.

 

 

irdi, capitale della Lidia, “giunsero’ […]

 

 

dell’Eliade che vivevano allora, e fra essi

?«<?“10 (il poeta, padre della democrazia

per la sua saggezza). Creso riceve perso-srdinando ai servi di mostrargli i propri

ie la loro vista abbia abbacinato l’ospite,

nque, mi venne il desiderio di chiederti se

:uno più felice di tutti gli altri. Egli gli po-

 

 

% ritenendo di essere l’uomo più felice di

darlo, Solone cita i nomi di alcuni ateniesi : e aggiunge: “0 Creso, tu fai domande sul-i me che so che la divinità è invidiosa e perso del tempo molte cose

si hanno da vedere e e molte anche da soffrire. A 70 anni infat-‘te della vita per un uomo. Questi 70 anni mi […] Ora, di tutti questi giorni […] un assolutamente niente di simile all’altro. m le cose, o Creso, l’uomo è in balia degli > pare che tu sia assai ricco e re di molte gen-m’hai chiesto io non te lo posso dire, prima hai finito felicemente la vita […] Ma prima udiamo, e non chiamiamolo felice, mafortu-le cose bisogna guardare come andranno a fi-dio, dopo aver lasciato loro intravedere lafe-battutifin dalle fondamenta” )2 o la partenza di Solone la vendetta divina si lente su Creso per punirlo di essersi ritenu-;gli uomini. Creso ha due figli: il prestante ordomuto. Per quanto il padre custodisca e >me la pupilla dei suoi occhi, questi, in mo-•lontario e casuale, viene ucciso durante una

battuta di caccia da un certo Adrasto, ospite di Creso. Resosi conto di ciò che ha fatto, Adrasto è sconvolto. Durante il funerale di Atys aspetta che intorno al tumulo non ci sia più nessuno e poi, “riconoscendo di essere il più sventurato di quanti uomini egli conosceva, si uccise sulla tomba.“13

 

 

Dopo la morte del figlio, Creso trascorre due anni di lutto stretto. In quel medesimo tempo nella vicina Persia il governo passa al grande Ciro, grazie al quale la potenza persiana aumenta rapidamente. Creso, temendo che Ciro diventi troppo potente e minacci la Lidia, progetta di prevenire un’eventuale aggressione persiana e di colpire per primo.

 

 

L’usanza del tempo vuole che i potenti prima di prendere una decisione importante consultino gli oracoli. Nella Grecia di allora gli oracoli sono numerosi, ma il più importante di tutti risiede a Delfi, in un santuario posto sul fianco di un’alta montagna. Per ottenere un vaticinio favorevole, occorre propiziarsi con lauti doni il dio delfico. Creso organizza una gigantesca colletta di offerte.

 

 

Fa immolare tremila capi di bestiame.

 

 

Fa fondere pesanti verghe d’oro e fabbricare oggetti d’argento.

 

 

Fa erigere un grande rogo e vi brucia letti dorati e argentati, vesti e tuniche di porpora.

 

 

“E a ciascuno dei Lidi impose di sacrificare quel che pote-

 

 

“14

 

 

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Vediamo mentalmente il numeroso e sottomesso popolo dei lidi avanzare verso il luogo dove arde il gran rogo e gettare nel fuoco quello che ha di più caro: gioielli d’oro, recipienti sacri e domestici, vesti festive e abiti di tutti i giorni.

 

 

Di solito le opinioni espresse dagli oracoli e trasmesse a coloro che ne hanno sollecitato il verdetto sono estremamente ambigue e confuse. Si tratta di testi composti in modo che, in caso di errore (e succedeva spesso), il vaticinante possa cavarsela senza perdere la faccia. E tuttavia, da millenni, la gente continua ad ascoltare trepidante i responsi di in-

 

 

“Presolo, i Persiani lo condussero dinanzi a Ciro. E questi, fatto innalzare un grande rogo, fece salire su di esso Creso avvinto in ceppi e accanto a lui 14

giovani lidi, avendo in animo di sacrificare a qualcuno degli dèi tali primizie del bottino, o volendo compiere un voto, o anche, sapendo che Creso era pio, lo

fece salire sul rogo proprio per vedere se qualche divinità lo avrebbe salvato dall’essere bruciato vivo […] e a Creso mentre stava sul rogo venne in mente […] la sentenza di Solone, quasi gli fosse stata detta per ispirazione divina, che nessuno dei viventi è felice. A questo pensiero, dopo lungo silenzio, sospirò e gemette e per tre volte invocò il nome: ‘Solone/’”.15

 

 

Ciro, accanto al rogo, comanda agli interpreti di chiedere a Creso chi stia invocando e perché. Creso risponde, ma intanto il rogo comincia a divampare.

Un

po’ per compassione e un po’ per timore del castigo divino, Ciro ordina di spegnere al più presto le fiamme e di far scendere Creso e quelli che sono con lui. Ma per quanti tentativi si facciano, il fuoco è indomabile.

 

 

“Narrano […] che allora Creso […] poiché vedeva che tutti tentavano di spegnere il fuoco, ma non riuscivano più a fre-dovini e indovine, tale è il suo inestinguibile desiderio di conoscere il futuro. A quanto pare, neanche Creso ne è immune. Attende con impazienza il

ritorno dei messi inviati ai principali oracoli greci. Il responso dell’oracolo di Delfi dice: “Se marcerai contro i persiani, distruggerai un grande impero”.

Creso, desideroso di muovere guerra e accecato dall’impazienza di attaccare, interpreta la predizione nel modo seguente: “Se marcerai contro la Persia, la distruggerai”. La Persia (in questo, se non altro, aveva ragione) era in effetti un grande impero.

 

 

Creso dunque dichiara guerra ma la perde, distruggendo (secondo la predizione) il suo grande regno e finendo prigioniero dei nemici.

 

 

narlo, invocasse a gran voce Apollo […] Egli piangendo invocava il dio e dall’aria serena e senza vento si radunarono all’improvviso nubi e si scatenò un temporale e piovve con così grande violenza che il rogo si spense. Allora Ciro […] lo fece scendere dalla pira e gli chiese: ‘Creso, chi ti persuase a muovere in armi contro la mia terra e farti mio nemico invece che amico?’ E

quello rispose: ‘O re, questo io feci per la tua fortuna e per la mia disgrazia; ma colpevole di questo fu il dio dei Greci, che mi spinse alla guerra. Poiché nessuno è tanto privo di senno da preferire la guerra alla pace: che in questa i figli seppelliscono i genitori, in quella i genitori i figli. Ma forse a un dio piacque che queste cose andassero così’.

 

 

“[…] e Ciro, fattolo sciogliere, lo fece sedere accanto a sé e lo trattò con molto riguardo, e lo guardavano con ammirazione sia egli stesso che tutti coloro che lo circondavano. E quello, preso dai suoi pensieri, se ne stava silenzioso’\16

 

 

I due massimi sovrani dell’Asia - lo sconfitto Creso e il vittorioso Ciro -

siedono l’uno accanto all’altro fissando le braci del rogo sul quale, un attimo prima, uno dei due stava per immolare l’altro. È comprensibile che Creso, appena scampato da una morte tra atroci sofferenze e tuttora in stato di choc, interrogato da Ciro su che cosa egli possa fare per lui, si scagli contro gli dèi: “O signore, mi farai cosa molto grata se, mandandogli queste catene, mi lascerai chiedere al dio dei Greci, che io onorai sopra tutti gli dèi, se è sua abitudine ingannare gli uomini che gli fanno del bene”P

 

 

Una vera e propria bestemmia.

 

 

Non solo: ottenuto il consenso di Ciro, Creso “mandando alcuni Lidi a Delfi ordinò loro che, deposte le catene sulla soglia del tempio, chiedessero se il dio non si vergognava di avere con i suoi vaticini spinto Creso […] contro i Persiani […] e se è abitudine degli dèi greci essere ingrati” P

 

 

A questa domanda, la Pizia delfica risponderà con una frase destinata a diveni-re la terza legge di Erodoto:

 

 

“Sfuggire al fato è cosa impossibile anche per un dio. Creso

ha espiato il fallo del suo quarto antenato, il quale mentre era guardia del corpo degli Eraclidi, assecondando l’inganno di una donna, uccise il proprio signore e si impadronì del suo potere, che non gli spettava affatto. Pur essendosi il Lossia adoperato perché sotto i figli di Creso avvenisse la rovina di Sardi e non sotto Creso stesso, non era stato in grado di sviare le Moire […]

 

 

“Queste risposte la Pizia diede ai Lidi. Ed essi […] le riferirono a Creso. Ed egli uditele riconobbe che sua era la colpa e non del dio”P