LA VISTA DAL MINARETO
La controversia tra Erodoto e i suoi conterranei non riguarda l’esistenza o me-no degli dèi (probabilmente il nostro greco non avrebbe neanche potuto immaginare un mondo senza questi Esseri Supremi), ma quale dei due popoli abbia preso dall’altro i loro nomi e le loro immagini. I greci affermavano che i loro dèi erano parte integrante del loro mondo originario, dal quale derivavano, mentre Erodoto cerca di dimostrare che tutto il loro pantheon, o almeno buona parte di
esso, proviene dagli egiziani.
E qui, per rafforzare la propria posizione, ricorre a un argomento secondo lui incontrovertibile: quello del tempo, dell’anzianità e dell’età. Quale di queste due culture - chiede Erodoto - è la più antica: la greca o l’egiziana? E subito risponde: “In precedenza, con Ecateo il logografo che a Tebe esponeva la sua genealogia e ricollegava la sua discendenza paterna ad un dio come sedicesimo antenato, i sacerdoti di Zeus agirono nello stesso modo che con me, che pure non
avevo esposto la mia genealogia: fattomi entrare nell’interno di un tempio, mi enumeravano mostrandomeli dei colossi di legno, tanti quanti ho detto, in numero
di 345”?9 (Spiegazione: Ecateo è un greco e i colossi, ognuno dei quali simboleggia una generazione, sono egiziani.) “Ebbene, miei cari greci,” sembra dire Erodoto, “la nostra genealogia conta appena quindici generazioni, quella degli egiziani trecentoquaranta-cinque. Chi avrà preso gli dèi dall’altro, se non noi dagli egi-
ziani, popolo tanto più antico di noi?” Per dimostrare con maggiore evidenza ai
connazionali l’abisso storico-temporale che divide le due nazioni, aggiunge: se tre generazioni umane equivalgono a cento anni, trecento generazioni umane equivalgono a diecimila. E cita l’opinione dei sacerdoti egiziani, secondo i quali in tutto questo tempo non è apparso nessun nuovo dio in forme antropomorfiche. Quindi, sembra concludere Erodoto, gli dèi che consideria-mo nostri esistevano in Egitto già oltre diecimila anni fa.
Se si dà ragione a Erodoto e si riconosce che non solo gli dèi, ma l’intera cultura è arrivata in Grecia (leggi in Europa) dall’Egitto (leggi dall’Africa), si può impostare una teoria sulle radici non europee della cultura europea (questione sulla quale peraltro si discute da duemilacinquecento anni con forti coinvolgimenti ideologici ed emotivi). Ma invece di addentrarci su questo pericoloso terreno minato, teniamo conto di un fatto: i rapporti tra le numerose culture e civiltà che, nel mondo di Erodoto, convivono l’una accanto all’altra, sono quanto mai differenziati. Si assiste a casi di civiltà in conflitto, ma anche di civiltà che mantengono tra loro rapporti di scambio e di prestiti reciproci, arricchendosi a vicenda. Ci sono addirittura civiltà che un tempo si sono combattute e che ora collaborano, magari per ritrovarsi, domani, sul piede di guerra. In una parola, per Erodoto la pluralità culturale del mondo è un tessuto vivo e pulsante dove niente è dato e stabilito una volta per tutte, ma che continuamente si trasforma creando nuove relazioni e contesti.
In una sera del 1960, dall’aereo che scende sul Cairo vedo per la prima volta il Nilo. A quell’ora e visto dall’alto, il fiume ricorda un lucido tronco nero ramificato, circondato dalle ghirlande delle luci stradali e dai rosoni luminosi delle piazze piene di traffico.
In questo periodo II Cairo è il centro del movimento di liberazione del Terzo Mondo: vi risiedono molti uomini destinati a diventare presidenti di nuovi stati nonché numerosi partiti anticolonialisti asiatici e africani.
Il Cairo è anche la capitale della Repubblica Araba Unita, nata due anni prima dall’unione dell’Egitto e della Siria, di cui è presidente il quarantaduenne colonnello Gamal Abder Nasser: un egiziano alto e massiccio, figura autorita-ria e carismatica. Nel 1952 Nasser, all’età di trentaquattro anni, aveva guidato un colpo di stato militare detronizzando il re Faruk; quattro anni dopo, ormai come
presidente, aveva assunto il comando dell’Egitto. Per molto tempo aveva dovuto lottare contro una forte opposizione interna: da un lato i comunisti, dall’altro i Fratelli Musulmani, un’organizzazione clandestina di fondamentalisti e terroristi islamici. Contro entrambe queste forze Nasser manteneva corpi di polizia d’ogni genere.
La mattina mi alzai per recarmi in centro, situato a grande distanza. Abitavo in un albergo di Zamalek, un quartiere borghese benestante, una volta riservato agli stranieri e ora popolato da gente d’ogni genere. Sapendo che la mia valigia sarebbe stata perquisita, decisi di portarmi dietro la bottiglia vuota di birra Pilsner e di disfarmene strada facendo (a quell’epoca Nasser, musulmano fervente, conduceva una campagna contro l’alcol). La avvolsi in un sacchetto di
carta grigia e uscii in strada. Malgrado l’ora mattutina, il caldo era già soffocante.
Mi guardai intorno alla ricerca di un cestino. Incrociai lo sguardo del guardiano, seduto su uno sgabello davanti al portone dal quale ero uscito. Mi osservava. Meglio non buttarla via sotto i suoi occhi, mi dissi. Era capace di frugare nel cestino, tirarla fuori e denunciarmi al poliziotto dell’albergo.
Poco più in là c’era una cassa vuota. Stavo già per gettarvi la bottiglia, quando vidi due uomini vestiti di lunghe galabije bianche che, senza smettere di
chiacchierare, mi guardavano con curiosità. Se l’avessi buttata mi avrebbero sicuramente visto, a parte il fatto che la cassa non era destinata alla spazzatura. Quindi tirai dritto finché non vidi un cestino; ma
nello stesso istante vidi anche un arabo, seduto davanti a un portone, che mi fissava. “No,” mi dissi, “non posso rischiare, quello si è già insospettito.” E
così continuai a camminare come se niente fosse, il sacchetto grigio stretto nella mano.
Più avanti c’era un incrocio e, al centro, un poliziotto con fischietto e manganello. A uno degli angoli, seduto su uno sgabello, un uomo mi guardava. Il suo unico occhio mi fissava con tale intensità e insistenza da comunicarmi un senso di disagio e addirittura farmi temere che l’uomo mi ordinasse di mostrargli il contenuto del sacchetto. Affrettai il passo per uscire dal suo campo visivo, tanto più che avevo intravisto a poca distanza un cestino per la spazzatura. Purtroppo c’era seduto accanto un uomo anziano che mi guardava.
Ora la strada svoltava ma, girato l’angolo, la situazione restava la stessa.
Impossibile sbarazzarsi della bottiglia: ovunque guardassi, incontravo immancabilmente uno sguardo che mi puntava. In strada passavano macchine, gli
asini trainavano carretti carichi di merci, un branco di cammelli avanzava co-me sui trampoli, ma tutto questo accadeva in secondo piano, al di fuori di me che procedevo guidato dagli sguardi di persone che, in piedi o più spesso sedute, osservavano le mie mosse. Sempre più nervoso e fradicio di sudore, temevo che il
sacchetto di carta bagnato si strappasse lasciando cadere per terra la bottiglia e attirando ulteriormente l’attenzione. Non sapendo che fare, tornai all’albergo e rimisi la bottiglia nella valigia.
Era già notte quando osai riportarla fuori. Di notte la situazione migliorava.
La ficcai in un cestino e finalmente andai a dormire contento.
Adesso, girando per la città, cominciavo a osservare le strade più attentamente.
Avevano tutte occhi e orecchi. Qua un sorvegliante, là un guardiano, più oltre una figura immobile su una sedia a sdraio, un po’ più avanti uno sfaccendato che
si guardava attorno. Quelle persone non facevano niente di preciso, ma i loro occhi formavano una fitta rete di osservazioni incrociate che copriva l’intero spazio stradale, dove tutto quel che accadeva veniva tempestivamente colto al volo e osservato. Osservato e riferito.
Un tema interessante: gente inutile al servizio della violenza. Una società sviluppata, stabile e organizzata forma un insieme di ruoli ben precisati: ma un concetto del genere è impensabile nella maggior parte del Terzo Mondo. Interi quartieri sono popolati da un’umanità informe, fluida, priva di una collocazione e di una destinazione precise. Da un momento all’altro e per una ragione qualsiasi, questa gente può trasformarsi in un assembramento, in una folla che ha la sua idea su tutto e tempo per tutto, desiderosa di partecipare a qualcosa e di significare qualcosa, ma che nessuno considera e di cui nessuno ha bisogno.
Non c’è dittatura che non approfitti di questo magma inoperoso che rende inutile mantenere un costoso corpo di polizia di ruolo. Basta assoldare questi individui che vivono senza uno scopo e dare loro la sensazione di servire a qualcosa.
I vantaggi di una simile alleanza sono reciproci: l’uomo della strada asservito alla dittatura comincia a considerarsi una parte del potere, una persona importante e significativa. Senza contare che, avendo di solito sulla coscienza piccoli furti, risse e imbrogli, lui ottiene l’impunità mentre la dittatura ottiene con poca spesa, anzi quasi gratis, uno zelante e onnipresente agente segreto. Ma chiamarlo agente è eccessivo: si tratta semplicemente di qualcuno che, per farsi notare dal potere, si mette in vista facendo capire di essere disponibile per qualunque servizio.
Un giorno, mentre uscivo dall’albergo, uno di questi individui (che fosse del luogo lo dedussi dal fatto che stava sempre fermo nello stesso posto come-se quella fosse la sua zona d’operazioni) mi fermò proponendomi di portarmi a visitare una vecchia moschea. Di solito tendo a fidarmi: la diffidenza
sarà un sintomo di buon senso, ma è anche un difetto del carattere. Il fatto che la spia, anziché ordinarmi di seguirlo al commissariato, mi avesse proposto la moschea, mi dette un tale senso di sollievo e addirittura di contentezza che accettai senza pensarci due volte. Era cortese, indossava abiti puliti e parlava discretamente l’inglese. Mi disse di chiamarsi Ahmed. “Io Ryszard,” risposi, “ma
tu chiamami pure Richard, è più facile.”
Prima un pezzo di strada a piedi. Poi un lungo tragitto in autobus. Scendiamo in
un vecchio quartiere. Stradine strette, piazzette, vicoli ciechi, muri sbilenchi, passaggi angusti, pareti d’argilla grigiastra, tetti in lamiera ondulata. Qua e là delle porte, ma tutte chiuse, sbarrate per l’eternità. Non un’anima. Ogni tanto sfreccia come un’ombra una figura di donna o spunta un
gruppetto di bambini che, spaventati dal grido di Ahmed, filano via di corsa.
Arriviamo a un pesante portone di metallo sul quale Ahmed batte una specie di
codice. All’interno risuona uno strascicare di sandali, poi lo stridio della chiave nella serratura. Ci apre un guardiano di età e aspetto indefiniti, che scambia qualche parola con Ahmed. Attraverso una piccola corte chiusa ci conduce
alla porta del minareto, mezza sprofondata nel terreno. È aperta: i due mi fanno segno di entrare. L’interno è buio, ma si intuisce il profilo di una scala a chiocciola addossata alla parete, che ricorda la ciminiera di una fabbrica.
Guardando verso l’alto, si intravede un puntino chiaro, come un pallido astro lontano: il cielo.
“We go!” esclama Ahmed con voce tra l’invitante e il perentorio. Poco prima mi
ha promesso che dall’alto del minareto vedrò tutta II Cairo. “Great wiew!” ha assicurato. Ci mettiamo in moto. Da principio la cosa si presenta male: la scala è angusta e scivolosa, con i gradini coperti di sabbia e intonaco. Il peggio è che non esistono ringhiere corrimano o corde cui attaccarsi.
Pazienza. Saliamo.
Saliamo e saliamo.
L’essenziale è non guardare in giù. Né in giù né in su. Bisogna guardare dritto davanti a sé, fissando il punto più vicino, ossia lo scalino all’altezza degli occhi. Abolire l’immaginazione, principale responsabile delle paure. Ci vorrebbero una tecnica yoga, un nirvana, un tantra, un karma, un moksa che consentano di non pensare, non sentire e non essere.
Pazienza. Saliamo.
Saliamo e saliamo.
La scala è buia e stretta. Ripida e tortuosa. Dall’alto di questi minareti (quelli in funzione), i muezzin invitano i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno. Sono richiami prolungati, cantilenanti, talvolta anche molto belli: elevati, emozionanti, romantici. Nel nostro caso, tuttavia, niente indicava che il minareto fosse in funzione. Era un luogo abbandonato da anni, odorante di stantio e di polvere accumulata.
Non so se per la fatica o per un vago ma crescente senso di paura, cominciai a sentirmi stanco e rallentai il passo. Ahmed prese a incalzarmi.
“Up! Up!” diceva, standomi dietro e bloccandomi ogni possibilità di ritirata e di fuga. Non potevo voltarmi e aggirarlo: di fianco a noi si apriva il vuoto.
Pazienza, pensai, andiamo avanti.
Saliamo e saliamo.
Ormai quei gradini senza ringhiera né corde avevano raggiunto una tale altezza che qualsiasi movimento brusco dell’uno avrebbe fatto precipitare anche l’altro.
Eravamo saldati in un paradossale corpo a corpo che garantiva l’immunità: chi avesse toccato l’altro, sarebbe precipitato a sua volta senza speranza.
Ma quell’assetto simmetrico doveva presto modificarsi a mio svantaggio. In cima
alle scale, un esiguo terrazzo circondava torno torno il minareto: il posto del muezzin. Di solito questi terrazzi sono protetti da parapetti in muratura o da ringhiere di metallo. Qui la ruggine dei secoli doveva averli distrutti, perché la stretta sporgenza del muro non era riparata da alcuna barriera. Ahmed mi spinse dolcemente all’esterno e, comodamente appoggiato a un’apertura del muro,
disse:
“Gwe me your money!”.
Fissando il cielo per evitare di guardare in basso, infilai cautamente la mano in tasca e lentamente, molto lentamente, estrassi il portafoglio. Lui lo prese senza una parola, si girò e cominciò a scendere.
Ora la cosa più difficile era ogni centimetro intercorrente tra la terrazza sul vuoto e il primo gradino delle scale - uno spazio di neanche un metro. Poi l’inferno della discesa con le gambe molli, paralizzate, pesanti come il piombo.
Il guardiano mi aprì la porta. Alcuni bambini, la guida più sicura in quel tipo di vicoli, mi accompagnarono al taxi.
Rimasi ancora qualche giorno a Zamalek. Ogni mattina mi recavo in città per la
stessa strada e ogni mattina incontravo Ahmed. Stava sempre nello stesso posto, di guardia alla sua zona.
Mi guardava con una faccia assolutamente inespressiva, come se non ci fossimo mai incontrati.
Anch’io, probabilmente, lo guardavo senza espressione, come se non ci fossimo mai incontrati.
IL CONCERTO DI ARMSTRONG
Khartum, Aba, 1960
Uscendo dall’aeroporto di Khartum avevo chiesto al tassista di portarmi all’Hotel Victoria ma quello, senza una parola di spiegazione o di giustificazione, mi aveva portato al Grand.
“Fanno sempre così” mi disse un libanese del posto. “Per loro ogni bianco che arriva in Sudan è un inglese e, in quanto tale, deve per forza scendere al Grand. Guardi però che, come punto d’incontro, non è male: la sera vengono tutti
qui.
Tirando fuori con una mano la valigia dal bagagliaio, l’autista aveva disegnato con l’altra un semicerchio per spiegarmi la vista di cui avrei goduto. “Blue Nile!” aveva detto con orgoglio. Guardai il fiume sotto di noi: ampio, grigioverde, scorreva veloce. La lunga terrazza ombrosa dell’albergo dava appunto sul Nilo, separata da un largo viale bordato da vecchi fichi frondosi.
Nella stanza dove il portiere mi accompagnò frusciava un ventilatore fissato al soffitto, ma le sue pale, anziché rinfrescare l’aria rovente, si limitavano a spostarla. Qui si muore dal caldo, pensai, e decisi di andare in città. Non sapevo quel che facevo. Dopo un centinaio di metri, mi resi conto di essere in trappola. Dal cielo scendeva un fuoco che inchiodava all’asfalto. La testa mi pulsava, facevo fatica a respirare. Sentii che non potevo andare avanti, ma nello stesso tempo mi resi conto che non avevo neanche la forza di tornare al-ili
l’albergo. Fui preso dal panico: se non fossi immediatamente andato all’ombra, sarei morto di insolazione. Cominciai a guardarmi ansiosamente intorno: ero l’unico essere in movimento in tutto il quartiere, attorno a me tutto era fermo, morto, sprangato. Non un uomo, non un animale.
Oh Dio. E adesso?
Il sole mi martellava la testa a colpi di maglio. L’albergo era troppo lontano.
Intorno non una casa, non un andito, un tetto, un riparo qualsiasi. L’unica salvezza era un mango che cresceva a poca distanza e verso il quale mi trascinai a fatica.
Mi appoggiai al tronco e mi lasciai scivolare a terra, nell’ombra. In momenti come quello l’ombra è qualcosa di solido, il corpo la accoglie con la stessa avidità con cui le labbra riarse accolgono un sorso d’acqua. Dà sollievo, placa la sete.
Nel pomeriggio le ombre si allungano, cominciano a sovrapporsi, poi scuri-scono e infine diventano nere: arriva la sera. La gente sembra rinascere, riprende gusto alla vita, si saluta, chiacchiera, visibilmente contenta di essere sopravvissuta al cataclisma, vale a dire di aver superato un’altra giornata d’inferno. La città si anima, nelle strade appaiono le automobili, i negozi e i bar tornano a riempirsi di avventori.
A Khartum ero in attesa di due giornalisti cechi con i quali dovevo partire per il Congo. Un Congo in fiamme, sconvolto dalla guerra civile. Ero preoccupato: i cechi, in arrivo dal Cairo, non si facevano vivi. Di giorno era impossibile girare nella città arroventata e in camera non si resisteva dal caldo. Anche la terrazza dell’albergo era da evitare: ogni minuto arrivava qualcuno a chiedermi chi ero, da dove venivo, come mi chiamavo e che cosa ero venuto a fare. Per lavoro? Forse per comprare una piantagione? No? E dove avevo intenzione di andare? Ero solo o avevo famiglia? Quanti figli? Che cosa facevano? Ero mai stato in Sudan? Che me ne pareva di Khartum? E del Nilo? E del mio albergo?
E
della mia camera?
Domande a non finire. I primi giorni rispondevo educatamente, pensando che quell’interessamento fosse una forma di cortesia per l’ospite. Se invece si trattava di informatori della polizia, meglio non irritarli. A interrogarmi non erano mai le stesse persone, ogni giorno ne arrivavano di nuove. Gli uni mi passavano agli altri come il testimone nella staffetta.
Tuttavia due di loro, sempre in coppia, avevano cominciato a ritornare con una
certa regolarità. Erano due studenti molto simpatici e, in quanto studenti, sempre a spasso, visto che il capo della giunta militare, generale Abboud, aveva chiuso l’università, nido di agitazioni e rivolte.
Un giorno, guardandosi intorno con cautela, mi chiesero qualche sterlina per comprare dell’hashish, proponendomi di andare a fumarcelo insieme nel deserto.
Come reagire a una proposta del genere?
Non avevo mai fumato hashish in vita mia: chissà che sensazioni si provavano?
E
se fossero stati poliziotti che volevano arrestarmi per spillarmi soldi o per deportarmi? Proprio ora che mi si prospettava un viaggio così affascinante?
Tremando al pensiero di quello che poteva succedere, optai per l’hashish e sganciai i soldi.
La sera presto vennero a prendermi con una Land Rover scoperta, tutta am-maccata e con un unico faro, potente come un riflettore dell’antiaerea. Davanti a esso l’impenetrabile muro della tenebra tropicale si schiudeva il tempo necessario a lasciar passare la macchina e subito le si richiudeva alle spalle: non fosse stato per gli scossoni sulle buche, sembrava quasi di stare fermi al chiuso.
Viaggiammo per circa un’ora. Ormai l’asfalto, peraltro sconnesso e malridotto, era finito; avanzavamo su una pista desertica, fiancheggiata qua e là da grossi massi che sembravano fusi nel bronzo. Davanti a uno di essi il guidatore svoltò ad angolo retto, continuò per qualche minuto e infine frenò bruscamente. Eravamo sull’orlo di una scarpata in
fondo alla quale, sotto la luna, si intravedevano i riflessi argentei del Nilo.
Un paesaggio essenziale - il deserto, il fiume e la luna - che riassumeva in sé il mondo intero.
Uno dei sudanesi estrasse dalla borsa una bottiglia piatta di White Horse, già consumata per metà, della quale ci toccò un sorso ciascuno. Poi arrotolò con cura due grosse canne. Una la dette al compagno, l’altra a me. La luce del fiammifero fece emergere improvvisamente dalla notte la sua faccia scura e gli occhi lucidi che mi fissavano con un pensiero segreto. Forse mi ha dato del veleno, mi dissi. Non ricordo se pensai al veleno o a una sostanza diversa, perché in realtà ero già partito per un altro mondo dove niente aveva più peso e
tutto era in movimento. Un tenero dondolio che mi cullava morbidamente.
Niente
più fretta, niente più violenza. Tutto era calma e silenzio. Una piacevole sensazione di sogno.
La cosa più straordinaria era l’assenza di gravità. Non quella goffa e sgraziata dei cosmonauti, ma un’assenza di gravità agile, aerea, elegante.
Non ricordo il momento in cui mi staccai da terra, ma ricordo perfettamente che
navigavo nello spazio buio. Buio e nello stesso tempo luminoso. Navigavo tra cerchi colorati che si dividevano, giravano e riempivano lo spazio, simili ai lievi cerchi rotanti usati dai bambini per l’hula-hoop.
Il piacere più intenso che provavo nel galleggiare era la sensazione di essermi liberato dal peso corporeo, dalla resistenza che solitamente mi si opponeva, dall’ostinata e costante fatica che incontravo a ogni passo. Scoprivo che il corpo non era più un nemico e che, sia pure per poco e in circostanze così eccezionali, poteva essermi amico.
Davanti a me vedevo il cruscotto della Land Rover e, con la coda dell’occhio, lo
specchietto laterale rotto. L’orizzonte era di un rosa intenso e la sabbia del deserto grigio grafite. Ai primi albori del giorno il Nilo assume una tonalità azzurro
chiaro. Seduto nella macchina scoperta, tremavo dal freddo. Avevo i brividi. A quell’ora nel deserto il gelo entra nelle ossa. Ma appena ripartimmo alla volta della città spuntò il sole e subito si fece caldo. La testa mi doleva da impazzire. Volevo solo dormire. Non muovermi. Non essere. Non vivere.
Due giorni dopo i sudanesi tornarono a sentire come stavo. Come stavo? “Ragazzi, mi chiedete pure come sto?” “Siamo venuti a sentire come stavi, perché è arrivato Armstrong. Domani dà un concerto allo stadio.”
Guarii all’istante.
Lo stadio, fuori città, era piccolo, piatto e capace di contenere al massimo cinquemila spettatori. Tuttavia solo la metà dei posti era occupata. Al centro del tappeto erboso sorgeva il podio fiocamente illuminato; per fortuna eravamo seduti abbastanza vicino per distinguere Armstrong e la sua piccola orchestra.
Era una serata calda e afosa e nell’entrare in scena Armstrong era già fradicio di sudore, visto che, oltre alla giacca, portava anche un cravattino a farfalla.
Salutò il pubblico sollevando la tromba d’oro; poi, parlando nello scassato microfono crepitante, si disse contento di poter suonare a Khartum; anzi non contento, ma felice - e scoppiò nella sua sonora e contagiosa risata che invitava il pubblico a imitarlo. Ma lo stadio manteneva un silenzioso riserbo, indeciso su come comportarsi. Percussioni e contrabbasso dettero il via e Armstrong attaccò con una canzone perfettamente intonata al luogo e al momento: Sleepy Time Down South. Nessuno di noi ricorda più quando abbia sentito Armstrong per la prima volta, ma in lui c’è qualcosa che ci fa credere di conoscerlo da sempre, e che, quando comincia a cantare, fa dire a tutti con convinzione: “Ma questo è Satchmo!”.
Sì, era lui, Satchmo. Cantò Hello Dolly, cantò What a Wonderful World e Moon
River. Cantò I Touch Your Lips and ali at once the Sparks Go Flying, those devil
lips, ma il pub-
blico restava silenzioso, senza applaudire. Non capivano le parole, oppure le canzoni contenevano un erotismo troppo diretto per il gusto musulmano?
Dopo ogni esecuzione, e anche mentre suonava e cantava, Armstrong si asciu-gava la faccia con un grande fazzoletto bianco. I fazzoletti venivano continuamente sostituiti da un apposito addetto, che sembrava accompagnare Armstrong nella tournée africana esclusivamente a quello scopo. Vidi poi che ne aveva una borsa piena.
Dopo il concerto la gente se ne andò alla svelta, sparendo nella notte. Ero sconvolto. Avevo sentito dire che ai concerti di Armstrong il pubblico andava in
visibilio, perdeva la testa, rasentava l’estasi. Ma allo stadio di Khartum non c’era stato alcun trasporto, malgrado il fatto che Satchmo avesse eseguito molti canti degli schiavi africani dell’America del Sud, dell’Alabama e della Louisiana, da cui lui stesso proveniva. Ma l’Africa di una volta e quella di oggi erano due mondi diversi, privi di un linguaggio comune, incapaci di intendersi e di comunicare emotivamente.
I sudanesi mi riportarono in albergo. Ci sedemmo sulla terrazza per bere una limonata. Poco dopo una macchina accompagnò Armstrong. Si sedette con sollievo
al tavolino o, per meglio dire, si lasciò cadere sulla seggiola. Era grasso e massiccio, con larghe spalle spioventi. Il cameriere gli portò della spremuta d’arancia. Ne tracannò d’un fiato un bicchiere, subito seguito da un secondo e da un terzo. Sedeva stanco, silenzioso, a testa china. A quel tempo aveva sessant’anni e - cosa che ignoravo - era già malato di cuore. L’Armstrong in concerto e quello dopo il concerto erano due uomini diversi: il primo allegro, sereno, vivace, capace di cantare con voce potente e di estrarre un’ampia scala di tonalità dalla sua tromba; il secondo era appesantito, esausto, il volto spento e solcato di rughe.
Chi lascia le sicure mura di Khartum per avventurarsi nel deserto deve sapere che laggiù lo aspettano trappole micidiali. Tempeste di sabbia trasformano in continuazione la forma del paesaggio e spostano i punti di riferimento: il viaggiatore che, per effetto di queste irrequiete manovre della natura, smarrisce la strada, è destinato a perire. Il deserto è misterioso e può fare paura. Nessuno vi si avventura da solo, anche perché nessuno è in grado di portarsi dietro l’acqua necessaria a superare la distanza tra un pozzo e l’altro.
Nel suo viaggio in Egitto Erodoto, sapendo che tutt’intorno si stende il Sahara, si tiene prudentemente vicino al fiume senza mai allontanarsi dal Nilo. Il deserto significa sole infuocato e il fuoco è una bestia feroce capace di divorare ogni cosa: “da parte degli Egiziani poi si crede che il fuoco sia un animale vivo e che divori tutto ciò che tocca e che, una volta riempito di cibo, muoia poi assieme a ciò che ha divorato” .40 E, come esempio, racconta di quando
il re dei persiani Cambise, conquistato l’Egitto e diretto a sud per occupare l’Etiopia, spedì una parte dei suoi eserciti contro gli ammonii, un popolo che viveva nelle oasi del Sahara. Gli eserciti, partiti da Tebe, dopo sette giorni di marcia nel deserto raggiunsero una città chiamata Oasi. E lì si perdono le loro tracce: “ma da questo punto in poi, ad eccezione degli Ammonii stessi e di
quelli che da loro ne hanno sentito parlare, nessun altro è in grado di dire alcunché su di essi, poiché né giunsero fino al paese degli Ammonii né tornarono indietro. Anche questo viene narrato dagli stessi Ammonii: dopo che dalla città di Oasi attraverso il deserto mossero contro di loro e furono giunti circa a metà strada fra loro e Oasi, mentre consumavano il pasto spirò contro di loro un
vento del sud insolitamente impetuoso, e trascinando vortici di sabbia li seppellì, e in tal maniera scomparvero” f”1
Finalmente Dusan e Jarda, i due cechi che aspettavo, arrivarono. Partimmo immediatamente per il Congo. La prima località in territorio congolese era Aba,
un borgo lungo la
strada, addossato a un gigantesco muro verde: l’inizio della giungla, che si ergeva di colpo come una ripida montagna in mezzo alla pianura.
Ad Aba c’erano una stazione di benzina e qualche negozio, ombreggiati da portici
di legno mezzo marcio sotto i quali sedevano alcuni uomini inoperosi e immoti.
Si rianimarono solo quando ci fermammo a chiedere quale situazione avremmo trovato all’interno del paese e dove fosse possibile cambiare le sterline in franchi locali.
Erano una colonia di greci, simile a centinaia di analoghi insediamenti sparsi nel mondo fin dai tempi di Erodoto. Un tipo di insediamento sopravvissuto immutato fino a oggi.
Avevo in borsa la mia copia di Erodoto: nel partire la mostrai a uno dei greci che ci salutavano. Alla vista del nome sulla copertina sorrise, ma non riuscii a capire se lo facesse per esprimere il suo orgoglio, o per l’imbarazzo di non averlo mai sentito nominare.