ONORI PER LA TESTA DI ISTIEO

 

 

Lasciata Persepoli, lascio adesso Teheran e, con un salto di vent’anni, ritorno in Africa. Strada facendo, però, devo ancora soffermarmi (mentalmente) nel mondo

greco-persiano di Erodoto, perché su di esso cominciano ad addensarsi grosse nubi.

 

 

Ecco qual è la situazione.

 

 

Dario non riesce a sconfiggere gli sciti che fermano lui, asiatico, alle soglie dell’Europa. Non solo si rende conto di non potercela fare, ma viene preso dal terrore di essere inseguito e sconfitto. Con il favore delle tenebre inizia dunque una ritirata che in realtà è una fuga, pensando solo ad abbandonare la Scizia e a rientrare quanto prima in Persia. Appena Dario e il suo immenso esercito cominciano a ritirarsi, gli sciti cominciano a inseguirli.

 

 

Per Dario non c’è che una via di fuga: il ponte sul Danubio costruito all’inizio dell’invasione. A guardia del ponte stanno gli ioni (greci dell’Asia Minore che ai tempi di Erodoto si trovava sotto la dominazione persiana).

 

 

Ed ecco come si giocano le sorti del mondo. Gli sciti, che conoscono le scorciatoie e viaggiano su cavalli veloci, raggiungono il ponte prima dei persiani con l’intenzione di tagliare loro la strada del ritorno. Invitano quindi gli ioni a distruggere il ponte in modo che gli sciti sconfiggano Dario e gli ioni stessi tornino liberi.

 

 

Udita la proposta, a prima vista vantaggiosa, gli ioni tengono consiglio. Il primo a prendere la parola è Milziade, il quale dice: “D’accordo, facciamo subito tagliare il ponte!” riscuotendo il plauso generale (al consiglio non partecipano gli ioni, ma i cosiddetti tiranni che, in pratica, sono degli alter ego di Dario, imposti alla popolazione). Il secondo a parlare è Istieo di Mileto: “di parere opposto era Istieo di Mileto, il quale disse che ora grazie a Dario ciascuno era signore di una città, ma che, abbattuta la potenza di Dario, né egli stesso sarebbe stato in grado di dominare sui Milesi né alcun altro sui suoi sudditi: ciascuna delle città avrebbe infatti deciso di essere retta da un governo democratico piuttosto che da un tiranno. Quando Istieo ebbe esposto questo parere, subito tutti lo condivisero, mentre prima preferivano quello di Milziade” J2

 

 

I tiranni non hanno torto a cambiare opinione: infatti si sono resi conto che se Dario perderà il trono (e presumibilmente la testa), il giorno dopo toccherà a loro perdere il posto (e la testa). Per cui danno a intendere agli sciti di voler distruggere il ponte, ma in realtà lo conservano, consentendo a Dario di rientrare tranquillamente in Persia.

 

 

Dario apprezza il ruolo storico svolto da Istieo in un momento tanto cruciale, e

in ricompensa gli concede tutto ciò che l’altro gli chiede. Ma anziché mantenerlo nella carica di tiranno di Mileto, se lo porta dietro a Susa, capitale persiana, in veste di consigliere. Istieo è cinico e ambizioso: quelli come lui è meglio tenerli d’occhio, tanto più ora che si è conquistato la fama di salvatore dell’impero. Un impero che, senza il suo intervento sul Danubio, probabilmente non esisterebbe più.

 

 

Ma per Istieo non tutto è perduto. A capo di Mileto, principale città della Ionia, viene posto il suo fedele genero Aristagora, anche lui ambizioso e avido di potere. Tutto ciò accade mentre tra gli ioni sottomessi comincia a serpeggiare lo scontento, se non addirittura l’opposizione alla dominazione persiana. Suocero e genero sentono istintivamente che è il momento di approfittare del vento favorevole.

 

 

Ma come mettersi d’accordo, come stabilire un piano d’azione? Per andare da Susa

(dove risiede Istieo) a Mileto (sede di Aristagora) un messo impiega tre mesi di tappe forzate, oltretutto passando per deserti e montagne. Ed è appunto di questa via, l’unica per mantenersi in contatto, che si serve Istieo: “Accadde che contemporaneamente gli giungesse anche da Susa da parte di Istieo il messaggero dalla testa segnata, che annunziava ad Aristagora di ribellarsi al re. Infatti Istieo, volendo dare ad Aristagora l’ordine di ribellarsi, non aveva alcun altro modo per annunziarglielo con sicurezza, essendo le strade sorvegliate; allora, fatta rasare la testa al più fido degli schiavi, vi impresse dei segni e aspettò che ricrescessero i capelli. Non appena ricrebbero, lo spedì a Mileto, non comandandogli nuli’altro se non che, quando giungesse a

Mileto, dicesse ad Aristagora di fargli radere i capelli e di guardare la sua testa: i segni impressi ordinavano, come già prima ho detto, la rivolta. Istieo fece questo perché s’affliggeva assai d’essere trattenuto a Susa” f^

 

 

Aristagora comunica l’ordine di Istieo ai suoi compagni, che si dichiarano favorevoli alla rivolta. Vista la superiorità dei persiani sugli ioni, Aristagora va in cerca di alleati al di là del mare. Prima, per nave, raggiunge Sparta. Qui regna Cleomene che, pur essendo, come riferisce Erodoto, malato di

mente e quasi irresponsabile, in questo caso dimostra una certa dose di perspicacia e buon senso. Sentendo parlare di una guerra contro un sovrano che

regna su tutta l’Asia e risiede a Susa, chiede giustamente quanto sia lontana questa Susa. “Aristagora, che per il resto era scaltro e poteva ben ingannare l’altro, in questo commise un errore: che non avrebbe dovuto dire la verità se voleva trascinare in Asia gli Spartani; invece gli rispose che il viaggio era di tre mesi. Allora l’altro, troncandogli il resto del discorso che Aristagora si preparava a fare intorno al viaggio, gli disse: ‘Ospite di Mileto, allontanati da Sparta prima del tramonto del sole: tu non fai alcuna proposta favorevole agli Spartani, se vuoi condurli a tre mesi di strada dal mare’. Cleomene, detto ciò, se ne andò a casa.“74

 

 

Così congedato, Aristagora si reca ad Atene, la più potente delle città greche. Qui cambia tattica e, anziché parlare con un solo capo, si rivolge alla folla (mettendo in atto la seconda legge di Erodoto, vale a dire che è più facile ingannare molti che uno solo) invitando gli ateniesi ad aiutare gli ioni. ” Gli Ateniesi dunque, persuasi, decisero di mandare venti navi in aiuto agli Ioni […] Queste navi furono principio di sciagure per i Greci e per i Barbari. “75 Vale a dire che segnarono l’inizio della grande guerra greco-persiana.

 

 

Ma prima che si arrivi a tanto, accadono alcuni eventi di minore portata. Il primo è la rivolta degli ioni che, dopo anni di lotta, i persiani soffocheranno nel sangue. Eccone alcune scene.

 

 

Scena numero uno. Sostenuti dagli ateniesi, gli ioni occupano e incendiano Sardi

(seconda città persiana dopo Susa).

 

 

Scena numero due (famosa). Dopo un certo tempo, ossia dopo due o tre mesi, Dario, re dei persiani, viene informato del fatto. “Si dice che dapprima, appena lo seppe, senza tener alcun conto degli Ioni, poiché ben sapeva che non impunemente si erano ribellati, chiedesse chi erano gli Ateniesi; e poi, saputolo, chiedesse un arco e, presolo e accostatovi un dardo, lo scagliasse verso il cielo e mentre fendeva l’aria esclamasse: ‘O Zeus, che mi riesca di vendicarmi degli Ateniesi!’, detto ciò, ordinò ad uno dei servi che ogni volta che gli veniva imbandito il pranzo gli dicesse per tre volte: ‘Signore, ricordati degli Ateniesi ‘. “76

 

 

Scena numero tre. Dario manda a chiamare Istieo sul quale comincia a nutrire sospetti, visto che è stato suo genero Aristagora a guidare la rivolta ionica.

Istieo nega tutto, mentendo per la gola: “O re, quali mai parole hai pronunziato, che io abbia consigliato un’impresa dalla quale potesse sorgere per

te un fastidio?”. Incolpa il re di averlo portato a Susa: se Istieo fosse rimasto nella Ionia, nessuno si sarebbe ribellato a Dario. “Ora dunque, al più presto, lascia che io parta per la Ionia, perché possa rimettere ogni cosa nello stesso stato di prima e possa darti nelle mani il governatore di Mileto che ha macchinato tale impresa”?1 Dario, convinto, lo lascia andare, ordinandogli che, una volta compiuto quello che gli ha promesso, faccia ritorno a Susa.

 

 

Scena numero quattro. Nel frattempo la guerra tra ioni e persiani procede con alterne fortune; poco per volta però i persiani, più forti e numerosi, prendono il sopravvento. Rendendosi conto di ciò Aristagora, genero di Istieo, decide di abbandonare la lotta e addirittura di fuggire dalla Ionia. Erodoto ha per lui parole di disprezzo: “Aristagora diMileto - era infatti, come dimostrò, non molto coraggioso, egli che dopo aver sconvolta la Ionia e aver provocato sì grandi avvenimenti meditava la fuga - vedendo questo, e poiché d’altra parte gli

parve anche impossibile vincere il re Dario, convocati i suoi seguaci, tenne consiglio, dicendo che sarebbe stato meglio per loro avere un qualche luogo di rifugio in caso fossero scacciati da Mileto’”. I presenti si consigliano sul da farsi. Alla fine Aristagora “presi con sé tutti quelli che lo desideravano, fece rotta verso la Tracia e prese possesso del paese verso cui era partito. Muovendo da questo, però, Aristagora stesso e il suo esercito vennero distrutti per opera dei Traci’

 

 

Scena numero cinque. Congedato da Dario, Istieo si reca a Sardi e si presenta ad

Artaferne, satrapo di Sardi e nipote di Dario. A un certo punto il satrapo gli chiede: “Secondo te, per quale motivo si sono ribellati gli ioni?”. “Non ne ho idea” risponde evasivamente Istieo. Ma Artaferne ha mangiato la foglia: “Istieo, riguardo a questi avvenimenti le cose stanno così: questo calzare tu l’hai cucito, ma Aristagora se l’è calzato”?9

 

 

Scena numero sei. Istieo si rende conto che il satrapo sa tutto e che è inutile chiedere aiuto a Dario: ci vogliono tre mesi per mandare un messo a Susa, più altri tre perché quello ritorni con il salvacondotto del re; un totale di sei mesi, durante i quali Artaferne può fargli tagliare la testa quando gli pare.

Quindi, al calar della notte, fugge da Sardi verso il mare. Per raggiungerlo ci vogliono circa dieci giorni: c’è da supporre che Istieo corra con il cuore in gola, voltandosi continuamente per vedere se arrivino gli sbirri di Artaferne.

 

 

Dove dorme? Che cosa mangia? Mistero. Di certo si sa solo che vuole prendere il comando degli ioni nella guerra contro Dario. È la seconda volta che Istieo tradisce: la prima ha tradito la causa ionica per aiutare Dario, ora tradisce Dario per guidare gli ioni contro di lui.

 

 

Scena numero sette. Istieo arriva sull’isola di Chio, abitata dagli ioni (un’isola di una bellezza incredibile: avrei potuto contemplarne all’infinito il golfo e le montagne azzurre che si profilavano all’orizzonte. Questo dramma si svolge tutto sullo sfondo di panorami meravigliosi). Ma appena sbarcato, viene arrestato e messo in prigione dagli ioni, che lo sospettano di tramare ai loro danni per conto di Dario. Istieo nega, giurando di voler guidare la rivolta antipersiana. Alla fine riesce a convincerli e viene liberato, ma non ottiene alcun appoggio. Si sente isolato, i suoi piani di guerra contro Dario sembrano sempre più utopici, ma la sua ambizione non si placa. Sorretto dalla brama di potere e dalla passione del comando, Istieo continua a sperare. Chiede alla gente del luogo di aiutarlo a tornare a Mileto, di cui una volta è stato il tiranno. “Ma i Milesi, che volentieri s’erano liberati di Aristagora, non erano affatto propensi ad accogliere nel paese un altro tiranno, dopo che avevano gustato la libertà. E mentre di notte tentava di rientrare con la forza a Mileto Istieo fu ferito alla coscia da uno dei Milesi. Allora, quando si vide scacciato dalla sua patria, tornò indietro a Chio. E di qui, non essendo riuscito a persuadere i Chii a fornirgli delle navi, passò a Mitilene e persuase i Lesbia dargliene.“80 Il grande Istieo, colui che era stato governatore della famosa città di Mileto e in seguito si era seduto alla destra del Re dei Re, Dario, adesso erra di isola in isola alla ricerca di un rifugio, di una risposta, di un appoggio. Ma ogni volta viene messo in fuga, gettato in prigione, scacciato dalle porte della città, picchiato e ferito.

 

 

Scena numero otto. Istieo non si arrende, fa di tutto per restare a galla. Forse sogna ancora lo scettro, forse non ha ancora rinunciato ai suoi sogni di gloria.

Risulta comunque abbastanza convincente da persuadere gli abitanti di Lesbo a

dargli otto navi e, alla testa di questa flotta, fa vela su Bisan-zio. Qui “appostandosi cercavano di catturare le navi che uscivano dal Ponto, tranne quelle di quanti dichiaravano di esser pronti ad obbedire a Istieo” 8X

Nella sua progressiva discesa verso il basso, Istieo si è trasformato in una specie di pirata.

 

 

Scena numero nove. Istieo viene informato che Mileto, da dove era partita la rivolta degli ioni, è stata conquistata dai persiani. “I Persiani dopo che ebbero vinto gli Ioni nella battaglia navale assediarono Mileto per terra e per mare praticando scavi sotto le mura e impiegando ogni sorta di macchine da guerra la conquistarono da cima a fondo nel sesto anno dalla rivolta di Aristagora, e ridussero la città schiava.“82

 

 

(Per gli ateniesi la disfatta di Mileto è un colpo terribile. ” Quando Frinico, che aveva composto una tragedia sulla presa di Mileto, l’aveva rappresentata, il teatro scoppiò in pianto.”®’ Le autorità ateniesi impongono all’autore la draconiana multa di mille dracme, con la proibizione di rimetterla in scena.

L’arte doveva servire a distrarre e sollevare gli animi, non a mettere il dito nella piaga.)

 

 

Alla notizia della caduta di Mileto, Istieo ha una strana reazione. Smette di requisire navi e, con alcuni lesbi, si dirige per mare a Chio. Per essere più vicino a Mileto? Per fuggire ancora più lontano? E dove? Giunto a Chio, fa una

carneficina: “si scontrò col presidio dei Chii che non permetteva di entrare. Di questi molti ne uccise, e gli altri Chii […] li assoggettò”.84

 

 

Ma è una strage inutile, un gesto gratuito dettato dalla disperazione, dalla furia e dalla follia. Abbandonata quella terra spopolata, si dirige verso Taso, un’isola ricca di miniere d’oro vicina alla Tracia. Cinge d’assedio Taso che non lo vuole e che rifiuta di arrendersi. Abbandonato il miraggio dell’oro, Istieo va a Lesbo, l’unico luogo disposto ad accoglierlo. Ma a Lesbo si fa la fame e Istieo, costretto a nutrire il suo esercito, si sposta in Asia dove spera di sfamarsi con il grano dei misi. Il cerchio si stringe: ormai non ha più dove andare, è in trappola, ha toccato il fondo. Ma non c’è limite alla piccolezza dell’uomo piccolo, che vi si impantana sempre più, scavandosi la fossa con le proprie mani.

Scena numero dieci. Nel luogo dove approda Istieo “per caso si trovava allora […] il persiano Arpago, comandante di un esercito non piccolo, il quale scontratosi con lui mentre sbarcava, catturò Istieo in persona, e annientò la maggior parte del suo esercito”. Prima che ciò accada Istieo, sbarcato sulla riva, cerca ancora di fuggire: “quando nella fuga venne raggiunto da un Persiano e, preso, stava per essere trafitto, parlando in persiano rivelò di essere Istieo di Mileto”.85

 

 

Scena numero undici. Istieo viene portato a Sardi dove Artaferne e Arpago lo fanno pubblicamente impalare (lascio immaginare la sofferenza). Gli tagliano la

testa, la fanno imbalsamare e la spediscono a Susa perché venga consegnata a Dario (a Susa? C’è da chiedersi che aspetto potesse avere una testa, sia pure imbalsamata, dopo tre mesi di viaggio).

 

 

Scena numero dodici. Appreso il fatto, Dario rimprovera Artaferne e Arpago per

non avergli riportato vivo Istieo. Ordina di lavare e comporre con cura la testa e di seppellirla con tutti gli onori.

 

 

Non potendo fare altro, il re cerca almeno di rendere omaggio alla testa dalla quale, anni prima, presso il famoso ponte sul Danubio, era nata l’idea che avrebbe salvato la Persia e l’Asia, nonché assicurato a Dario il regno e la vita.

 

 

DAL DOTTOR RANKE

 

 

Durante il mio soggiorno in Congo ero talmente assorbito dalle storie descritte da Erodoto, che sentivo quasi con più intensità il pericolo della guerra tra greci e persiani che non quello del conflitto congolese che ero venuto a descrivere. Certo, anche il paese di Cuore di tenebra mi faceva star male con le sparatorie che scoppiavano all’improvviso, il rischio continuo di venire arrestato, i pestaggi, i morti e, soprattutto, lo sfibrante clima di insicurezza, confusione e imprevedibilità. A ogni istante poteva succedere il peggio. Non esistevano autorità né forze dell’ordine. Il sistema coloniale era andato a pezzi, gli amministratori belgi erano fuggiti in Europa e al loro posto era subentrata una forza cupa e demente, perlopiù sotto forma di gendarmi congolesi ubriachi. Si dimostrava ancora una volta quanto possa diventare pericolosa la libertà priva di un ordine e di una gerarchia, per non dire l’anarchia sfrenata e priva di senso etico. Le prime a prendere il sopravvento sono sempre l’aggressività più malvagia, le peggiori bassezze, la bestialità e la barbarie. Anche nel Congo, caduto in mano ai gendarmi, si stava verifican-do la stessa cosa. Un incontro con i gendarmi poteva rivelarsi un’esperienza terribile. Come la mia, in una stradina di Lisali.

 

 

Verso di me avanzavano due gendarmi. Mi sentii morire. Inutile fuggire: in primo

luogo perché non c’era dove andare, in secondo luogo perché faceva talmente caldo che a malape-

 

 

na mi reggevo sulle gambe. I gendarmi, con addosso uniformi da campo ed elmetti

che coprivano metà faccia, erano equipaggiati di mitra, granate, pistole lanciarazzi, manganelli e perfino di un set di posate: un arsenale portatile.

Che diavolo se ne facevano di tutta quella roba, pensai, notando sulle loro figure massicce anche una serie di cinghie, sottogola e cinturoni cosparsi di anelli, di ganci e di fibbie d’ogni genere. In calzoncini e maglietta probabilmente sarebbero stati dei bravi ragazzi che mi avrebbero salutato e, richiesti della strada, me l’avrebbero gentilmente indicata. Ma l’uniforme e l’armamentario bellico non solo ne alteravano la natura, il carattere e l’atteggiamento, ma adempivano anche a un’altra funzione e cioè rendere difficile o addirittura impossibile un normale contatto umano. Quelli che mi venivano incontro non erano uomini come gli altri, ma creature disumanizza-te, alieni, una nuova variante di marziani.

 

 

I due si avvicinavano. Ero fradicio di sudore. Le gambe, già pesanti, mi si facevano di piombo. Sia io sia quei due sapevamo perfettamente che contro le loro sentenze non esistevano né appelli né corti supreme. Se ti volevano pestare, ti pestavano. Se ti volevano uccidere, ti uccidevano. Era in quei momenti, inerme davanti alla violenza autorizzata, che mi sentivo più solo. Il mondo sembrava improvvisamente lontano, deserto e silenzioso.

 

 

Ad aggravare le cose c’era il fatto che a quella scena nella strada di una cittadina congolese non partecipavano soltanto due gendarmi e un reporter. Lì dentro c’era un’intera pagina di storia del mondo che, secoli addietro, ci aveva schierati gli uni contro gli altri. Tra noi c’erano generazioni di mercanti di schiavi, c’erano gli sbirri del re Leopoldo che avevano mozzato mani e orecchie ai nonni dei due gendarmi, c’erano i sorveglianti armati di frusta delle piantagioni di zucchero e cotone. La memoria di quei tormenti era stata tramandata per anni in racconti tribali (a base dei quali erano stati educati quei due) e in leggende che annunciavano il giorno della vendetta. Quel giorno era arrivato, e noi lo sapevamo.

 

 

Che fare? La distanza tra noi continuava a diminuire. A un certo punto i due si

fermarono. Mi fermai anch’io. Da sotto quella montagna di equipaggiamenti e di

ferraglia, spuntò una voce che non potrò mai dimenticare. Una voce umile, quasi

supplichevole:

 

 

“Monsieur, avez-vous une cigarette, s’ilvous plaìt?”.

 

 

Bisognava vedere la premura, la fretta, la cortesia, per non dire lo zelo con i quali estrassi di tasca il pacchetto di sigarette. Era l’ultimo, ma che importava? Prego, amici, servitevi pure! Anzi prendetevi il pacchetto, sono tutte vostre.

 

 

Il dottor Otto Ranke dice soddisfatto che me la sono cavata per un pelo. Sono incontri che di solito finiscono male. I gendarmi sono capaci di legarti, picchiarti e prenderti a calci. Non si sa quanta gente abbiano già fatta fuori.

Bianchi e neri vengono a farsi curare dal dottore, ma a volte sono talmente malridotti che deve andarseli a prendere da solo. I gendarmi non fanno distinzione di razza: massacrano quasi più neri che europei. Sono occupanti del

loro stesso paese, gente bestiale e sfrenata. “Mi lasciano in pace,” dice il dottore, “solo perché gli servo. Quando sono ubriachi e non hanno sottomano civili su cui sfogarsi, si pestano tra di loro e poi vengono da me a farsi ricucire la testa e aggiustare le ossa. Dostoevskij descrive da qualche parte il fenomeno della crudeltà gratuita. I gendarmi sono precisamente così, crudeli senza motivo.”

 

 

Il dottor Ranke è un austriaco stabilitosi a Lisali alla fine della Seconda guerra mondiale. Fragile, minuto, sulla soglia degli ottanta, è sempre attivo e instancabile. Dice di dovere la propria salute al fatto che ogni mattina, quando il sole è ancora sopportabile, va nel cortile pieno di verde e di fiori, si siede su uno sgabello e lascia che un servitore, armato di spugna e spazzola, gli strofini la schiena talmente forte da strappargli grugniti di dolore e insieme di soddisfazione. Le

Quando in giro non ci sono gendarmi, si può anche fare una passeggiata nella giungla. La giungla si stende all’intorno, incombe da tutte le parti, impedisce la vista del mondo. A parte la strada in laterite, unica via di passaggio, è una fortezza inespugnabile. Fin dai primi passi ci si scontra con un folto di rami, di liane e di foglie; i piedi affondano in una palude vischiosa e maleodorante, sulla testa piovono ragni, bruchi e altri insetti. Nessuno, senza una solida esperienza, si avventura nel folto e la gente del luogo si guarda bene dal farlo. Come il mare e come l’alta montagna, la giungla è un elemento a sé stante

e tutto particolare.

 

 

finestre della mia stanzetta danno sul cortile e ogni mattina vengo svegliato dai gemiti del dottore e dalle risate dei bambini che assistono alla sua strigliatura.

 

 

Il dottore ha un piccolo ospedale privato: una baracca verniciata di bianco adiacente alla villa in cui abita. Non è fuggito insieme ai belgi perché dice di essere troppo vecchio e di non avere nessuno da cui tornare. Qui invece è conosciuto e spera che la gente del luogo lo protegga. Mi tiene in casa sua co-me un bagaglio in deposito. Come corrispondente ho le mani legate, vista l’impossibilità di comunicare con la Polonia. Qui non escono giornali, le stazioni radio non funzionano, manca ogni forma di governo. Sto aspettando l’occasione di andarmene: ma come? L’aeroporto più vicino, a Stanleyville, è chiuso; le strade sono trasformate in paludi (è la stagione delle piogge); il battello in servizio sul Congo è da tempo in disarmo. Non so nemmeno io in che

cosa sperare: forse in un colpo di fortuna, nell’aiuto di qualcuno e, soprattutto, nel fatto che la situazione migliori. Si tratta ovviamente di pure ipotesi, ma devo pur credere in qualcosa. Ho i nervi a pezzi, mi sento esasperato, furioso e impotente: stati d’animo frequenti nel nostro lavoro dove spesso la maggior parte del tempo se ne va nell’attesa di un collegamento con il proprio paese e con il mondo.

 

 

Mi fa paura.

 

 

Temo sempre di veder sbucare una bestia feroce, di essere morso da un serpente velenoso o di udire il sibilo di una freccia.

 

 

Ogni volta che mi avvio in direzione del gigante verde, vengo raggiunto da una

masnada di bambini che vuole accompagnarmi. All’inizio camminano tutti al-legri ridendo e scherzando; ma appena la strada si addentra nel bosco, tacciono e si fanno seri. Forse temono che laggiù, nelle tenebre della giungla, si nascondano streghe, orchi e fantasmi che rapiscono i bambini cattivi. Meglio stare buoni e fare attenzione.

 

 

A volte ci fermiamo sul margine della strada, al limitare della giungla. Lì non si vedono animali, ma si odono gli uccelli che cantano, l’acqua che sgocciola sulle foglie e misteriosi fruscii. Ai bambini piace venirci, si sentono a casa loro. Conoscono le piante che si possono strappare e mettere in bocca e quelle proibite. I frutti commestibili e quelli pericolosi. Sanno che i ragni sono velenosi e le lucertole no. Sanno anche che bisogna sempre guardare verso l’alto, per scoprire i serpenti tra i rami. Le bambine sono più prudenti e più serie dei maschi: osservo quello che fanno e dico ai maschi di imitarle. È come se fossimo all’interno di un’immensa, smisurata cattedrale dove l’uomo si sente un pigmeo.

 

 

La villa del dottor Ranke si trova presso l’ampia strada che, tagliando il Congo settentrionale, corre vicino all’Equatore, attraversa Bangui, raggiunge Duala sul Golfo di Guinea, finendo più o meno all’altezza di Fernando Po. È lunga oltre duemila chilometri. Una volta era quasi tutta asfaltata, ma oggi non ne rimangono che monconi semidistrutti. Ogni volta che devo percorrerla in una notte senza luna (di notte ai Tropici fa buio pesto), avanzo piano, strisciando i piedi per saggiarne la consistenza.

 

 

Shhh-shhh. Shhh-shhh.

 

 

Piano piano, un passo dopo l’altro, evitando fosse e av-vallamenti. Quando di notte passano le colonne dei profughi, ogni tanto si sente

il grido di qualcuno che è precipitato in una buca e si è rotto una gamba.

 

 

Già: i profughi. Improvvisamente sono diventati tutti profughi. Dopo che, nel 1960, il Congo ha ottenuto l’indipendenza, sono scoppiati disordini, lotte tribali e poi addirittura la guerra. Le strade si sono riempite di profughi.

Mentre i gendarmi, l’esercito e le milizie tribali sorte per l’occasione combattono, i civili, ossia donne e bambini, scappano lungo itinerari di fuga difficili da tracciare. Di solito si tratta di tenersi il più possibile lontani dai campi di battaglia, ma non tanto lontano da perdersi e non riuscire più a tornare indietro. L’altra condizione importante è che lungo la strada si riesca a trovare qualcosa da mangiare. Si tratta di gente povera che non possiede quasi niente: le donne, un vestito di cotone, gli uomini, una camicia e un paio di pantaloni; a parte questo, un telo per coprirsi di notte, una pentola, un boccale, un piatto di plastica. Più un catino nel quale mettere il tutto.

 

 

Ma l’elemento determinante nello scegliere la via di fuga sono i rapporti intertribali, e cioè il sapere se una strada attraversi un territorio amico oppure conduca dai nemici. I villaggi lungo la strada e le radure nella giungla sono abitati da clan e tribù d’ogni genere e conoscere i rapporti che li legano è una scienza ardua e complessa. Una scienza che qui si impara dall’infanzia e che permette di evitare i conflitti e vivere relativamente tranquilli. Nella sola regione dove mi trovo in questo momento abitano decine di tribù, legate in

associazioni e confederazioni rette da regole note soltanto a loro e che uno straniero come me non è in grado di decifrare e codificare. Come faccio a conoscere i rapporti tra i bwaka e i pan de o tra i bangi e i baya?

 

 

Ma la gente del luogo li conosce, perché da questo dipende il vivere o il morire. Conosce le tribù che mettono aculei avvelenati sui sentieri e sa dov’è sotterrata l’ascia di guerra.

 

 

Di dove sono spuntate tutte queste tribù? Ancora centocinquant’anni fa, nella sola Africa ce n’erano diecimila. Basta percorrere la strada: il primo villaggio è abitato dai tuia-ma, ma quello successivo dagli arusi. Su una riva del fiume stanno i murle, su quella opposta i topota. La tribù in cima alla montagna non ha niente a che spartire con quella che sta ai suoi piedi. Ognuna ha la sua lingua, le sue usanze e i suoi dèi.

 

 

Come si è arrivati a questa frantumazione, come si è prodotta questa incredibile varietà e ricchezza? Dove, come e quando è cominciata? Secondo gli antropo-logi, tutto è nato da un piccolo gruppo o, al massimo, da una decina di gruppi, ognuno dei quali contava dalle trenta alle cinquanta persone. Se fosse stato più piccolo, non sarebbe stato in grado di difendersi; più grande, non avrebbe avuto di che vivere. Io stesso ho avuto occasione di incontrare in Africa orientale due tribù, ognuna delle quali non contava più di cento anime.

 

 

Dunque l’embrione di una tribù annoverava dalle trenta alle cinquanta persone.

Ma per quale ragione ogni embrione doveva possedere una sua lingua? Come ha

fatto la mente umana a inventare una tale varietà di linguaggi, ognuno con il suo lessico, la sua grammatica e le sue coniugazioni? È naturale che una nazione di milioni di persone inventi, con un contributo comune, la propria lingua.

Ma

queste della macchia africana sono piccole tribù di gente scalza e affamata che vegeta ai margini dell’esistenza: eppure hanno l’ambizione, la capacità, la fantasia, l’orecchio e la memoria necessari a inventarsi una lingua tutta loro e diversa dalle altre.

 

 

Non solo la lingua. Non hanno ancora finito di nascere, che già si inventano degli dèi. Ognuna i suoi, unici e insostituibili. E non partono mai da un dio solo, ma subito da molti.

 

 

Come mai ci vogliono migliaia di anni prima che l’uomo

scopra il concetto di un unico dio? Non è un’idea che dovrebbe venire spontanea?

 

 

La scienza ha dunque stabilito che all’inizio di tutto c’era un solo gruppo, o comunque non più di una decina. Ma con il tempo i gruppi aumentano, diventano sempre più numerosi. Chissà perché i nuovi arrivati, invece di guardarsi intorno, studiare la situazione, ascoltare la lingua parlata dagli altri, si presentano subito con la propria lingua, con la propria schiera di dèi, con i propri usi e costumi, sottolineando di proposito la propria diversità.

 

 

Con gli anni e con i secoli questi embrioni di tribù continuano a crescere. Con tutta questa massa di gente, di lingue e di dèi, sul continente si comincia a stare stretti.

 

 

Ovunque Erodoto andasse, cercava sempre di annotare i nomi, la collocazione e le

usanze delle tribù incontrate. Dove abitavano, con chi confinavano. A quei tempi

in Libia e nella Scizia, esattamente come oggi qui, nel Congo settentrionale, nessuno aveva una visione d’insieme del mondo, e il conoscerlo richiedeva un lento lavoro in linea orizzontale. Tutto ciò che l’uomo conosceva erano i propri vicini; questi a loro volta conoscevano i propri e così, di tribù in tribù, si arrivava ai confini del mondo. Chi metteva insieme e sistemava quei frammenti di sparsa umanità? Nessuno. Non c’era modo di sistemarli.

 

 

Quando in Erodoto si leggono elenchi a non finire delle tribù e dei loro costumi, ci si accorge che esse si aggregano in base a ciò che le differenzia dalle altre: diversità che è poi la causa di continui conflitti. Anche qui, nell’ospedaletto del dottor Ranke, i parenti che restano giorno e notte accanto al malato occupano stanze separate a seconda dei clan e tribù ai quali appartengono. L’idea è che tutti si sentano a casa propria e che gli uni non gettino malefici sugli altri.

 

 

Tento discretamente di appurare le diversità. Giro per l’ospedale sbirciando nelle camere, cosa tutt’altro che difficile visto che, con il caldo che fa, le porte sono spalancate.

 

 

xMa non vedo differenze: mi sembrano tutti ugualmente poveri e apatici.

 

 

Solo ascoltandoli con molta attenzione ci si accorge che parlano lingue diverse.

Se provo a sorridere, ricambiano, ma con un sorriso che viene fuori a fatica e subito svanisce.