LA STAZIONE E IL PALAZZO
Se a Benares è ancora possibile scoprire un vago spunto di ottimismo (la purificazione nel fiume sacro destinata a sollevare il morale e avvicinare i credenti al mondo degli dèi), la vista della Sealdah Station di Calcutta fa un effetto completamente diverso. Il viaggio in treno da Benares a Calcutta mi dette l’impressione del passaggio da un mezzo paradiso al più totale inferno.
Alla stazione di Benares il controllore mi squadrò e chiese: “Where is your bed?”.
Pur avendo capito le sue parole, dovevo avere l’aria di uno che non capiva, perché l’altro, stavolta con più insistenza, ripetè: “Where is your bea?”.
Il fatto era che perfino i ceti medio-bassi (figurarsi quindi una razza eletta come gli europei) viaggiavano provvisti di un letto personale. Il passeggero arrivava con un servo recante sulla testa un materasso arrotolato, coperta, lenzuolo, cuscino e bagagli vari. Il servo saliva sul vagone (privo di sedili), rifaceva il letto per il padrone e poi si volatilizzava senza una parola. A me, educato in uno spirito di fraternità e uguaglianza universale, che un uomo camminasse a mani vuote mentre un altro lo seguiva trasportando materasso, valigie e cesta delle provviste appariva un’abitudine scandalosa alla quale opporsi. Ma fui presto distolto da quei pensieri poiché, al mio ingresso nel vagone, da ogni parte si levarono voci piene di sorpresa:
“Where is your bed?”.
Mi sentivo sinceramente mortificato di non avere con me altro che una borsa a mano: ma come potevo sapere che, oltre al biglietto, avrei dovuto provvedermi anche di un materasso? Del resto, anche se l’avessi saputo e ne avessi comprato uno, non avrei certo potuto trasportarlo da solo, mi ci sarebbe voluto un servo.
E poi, che ne avrei fatto, del servo? E del materasso?
Avevo notato, infatti, che a ogni tipo di oggetto e di mansione era preposta una
persona diversa, attaccata con le unghie e coi denti al proprio ruolo, e che in ciò risiedeva l’equilibrio di quella società. C’era l’addetto per il tè del mattino, quello per pulire le scarpe, quello per lavare le camicie, per spazzare la camera e via di seguito. Guai a chiedere all’uomo che mi stirava le camicie di attaccarci un bottone caduto. Non che uno come me, educato nello spirito di
cui sopra, non potesse ricucirselo da solo: in quel caso, però, avrei commesso un tragico errore, privando di una sia pur piccola entrata un individuo, di solito gravato da famiglia numerosa, che si guadagnava da vivere attaccando bottoni alle camicie. Quella società era un pedante e capillare intreccio di cariche, mansioni, qualifiche e impieghi e occorreva una buona dose di esperienza, sensibilità e intuito per arrivare a decifrare una struttura così minuziosamente intessuta.
Quella notte in treno non chiusi occhio. I vecchi vagoni del periodo coloniale sobbalzavano, sballottavano, strepitavano e lasciavano passare la pioggia dai finestrini malchiusi. Quando entrammo nella Sealdah Station si era già levata una giornata grigia e nuvolosa. In ogni angolo dell’immensa stazione, sui lunghi marciapiedi, sui binari morti e sui terreni paludosi circostanti, decine di migliaia di individui pelle e ossa sedevano o giacevano sotto la pioggia, o addirittura in mezzo all’acqua e al fango (era la stagione delle piogge e i diluvi tropicali non davano tregua). La prima cosa che colpiva in quegli scheletri zuppi d’acqua era la loro miseria, il loro
numero sterminato e - soprattutto - la loro immobilità. Sembravano elementi morti di quel tetro e deprimente paesaggio dove l’unica cosa viva erano le cataratte che scendevano dal cielo. L’assoluta passività di quei disgraziati sembrava rispondere a una logica della disperazione: non scappavano dalla pioggia perché non avevano dove andare - il loro cammino finiva lì - e non si riparavano perché non avevano niente con cui ripararsi.
Erano i profughi della guerra civile tra i seguaci dell’induismo e i musulmani, finita da pochi anni, che aveva accompagnato la nascita dell’indipendenza indiana e pakistana, provocando centinaia di migliaia (se non un milione) di morti, nonché vari milioni di fuggiaschi. Questi ultimi vagavano da tempo senza
riuscire a trovare aiuto; abbandonati al loro destino, continuavano a vegetare in luoghi come la Sealdah Station dove finivano per morire di fame e di malattie. Ma c’era dell’altro e di più. Le colonne di profughi di guerra che si aggiravano per il paese, strada facendo incontravano altre folle, vale a dire le masse di alluvionati scacciati di casa dalle inondazioni dei possenti e indomabili fiumi indiani. Il risultato erano milioni di senzatetto che si trascinavano apaticamente lungo le strade, cadendo a terra sfiniti, spesso per non più rialzarsi. Altri cercavano di raggiungere le città, nella speranza di trovarvi un po’ d’acqua e, forse, un pugno di riso.
Perfino scendere dal treno era un’impresa impossibile: non sapevo dove pog-giare i piedi. Di solito da quelle parti un diverso colore di pelle attirava l’attenzione, ma qui niente riusciva più a incuriosire gente che sembrava già oltre la vita. Una vecchietta che, dopo aver racimolato qualche chicco di riso dalle falde del sari, l’aveva raccolto in una scodelli-na, si guardava intorno alla ricerca di un po’ d’acqua o di fuoco per cuocerlo. Intorno a lei, alcuni bambini fissavano la ciotola immoti, senza una parola. Il tempo passava. I bambini non si buttavano sul riso, perché apparteneva alla vecchia e questo principio, inculcato nelle loro menti, era più forte della fame.
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Ma ecco che un giovanotto, facendosi largo tra la folla accampata, urta la vecchia: la ciotola le cade di mano e il riso si sparpaglia sul marciapiede, nel fango, tra i rifiuti. Nello stesso istante i bambini si avventano, si tuffano tra le gambe della gente frugando nel fango alla ricerca dei chicchi. La vecchia resta a mani vuote, sospinta dai passanti. La vecchia, i bambini e la stazione sotto i rovesci del diluvio tropicale. Resto lì anch’io, bagnato fradicio, senza il coraggio di fare un passo, anche perché non so dove andare.
Da Calcutta andai ad Hajderabad. Il viaggio nel Sud fu molto diverso dalle penose esperienze del Nord. Il Sud sembrava sereno, calmo, sonnolento e un po’
provinciale. I domestici del rajah locale dovettero scambiarmi per qualcun altro perché, dopo avermi solennemente salutato alla stazione, mi condussero direttamente a palazzo. Fui accolto da un anziano signore molto cortese che mi
fece accomodare in un’ampia poltrona di pelle, contando probabilmente su una
lunga e approfondita conversazione che il mio stentatissimo inglese non era in grado di sostenere. Balbettavo frasi rotte, avevo le guance in fiamme e il sudore che mi colava negli occhi. Il signore cortese sorrideva con aria incoraggiante. Sembrava un sogno, una scena surreale. I domestici mi accompagnarono nella mia camera, in un’ala del palazzo. Ero ospite del rajah e dovevo abitare lì. Avrei voluto tirarmi indietro, ma non sapevo come: mi mancavano le parole necessarie a chiarire il malinteso. Chissà, forse il fatto che io fossi un europeo aggiungeva prestigio al palazzo. Lo ignoro.
Ogni giorno studiavo freneticamente una serie di nuove parole (che cosa splendeva in cielo? The sun. Che cosa cadeva sulla terra? The min. Che cosa muoveva le foglie? The wind, e così via, dalle venti alle quaranta parole al giorno). Leggevo Hemingway e il libro di padre Dubois, dove cercavo di decifrare il capitolo dedicato alle caste. L’inizio non era difficile: la società indiana era divisa in quattro caste. La più alta, quella dei brahmani, era composta da sacerdoti, uomini de-
diti ai problemi dello spirito, pensatori che indicavano il cammino; al di sotto veniva la casta degli ksatriya, composta da guerrieri e governanti, uomini d’arme e di politica; la terza, ancora più in basso, era quella dei vaisya, comprendente mercanti, artigiani e contadini; l’ultima, quella dei sùdra, era composta da lavoratori manuali, servi e braccianti. I problemi venivano dopo perché le caste si dividevano in centinaia di sottocaste, e queste a loro volta in dozzine e decine di sotto-sottocaste e così via all’infinito. La caratteristica dell’India, da qualunque punto di vista la si guardasse, era appunto l’infinità: infinità di dèi e di miti, di credenze e di lingue, di razze e di culture; qualunque fenomeno si prendesse in esame, ci si scontrava immediatamente con un’infinità vertiginosa.
Al tempo stesso sentivo per istinto che quelli intorno a me non erano che segni, figure, simboli esteriori dietro ai quali si nascondeva un vasto e variegato mondo di credenze, concetti e immaginazioni di cui non sapevo niente. Mi chiedevo anche se quel mondo mi risultasse inaccessibile solo perché ero privo di un’adeguata preparazione teorica, o per una ragione più profonda: il fatto cioè che la mia mente era troppo imbevuta di razionalismo e di materialismo per
immedesimarsi e penetrare in una cultura intrisa di spiritualità e di metafisica come l’induismo.
Assillato da questi pensieri e sopraffatto dalla ricchezza di particolari che trovavo nell’opera del missionario francese, finivo per posare il libro e andare in città.
Il palazzo del rajah, tutto a verande vetrate che, una volta aperte, lasciavano passare una lieve corrente ristoratrice, era circondato da rigogliosi e ben curati giardini popolati di giardinieri perennemente intenti a potare, falciare e zappettare. Oltre l’alto muro di cinta si stendeva la città, piena di vicoli e vicoletti rumorosi e affollati, lungo i quali si apriva una miriade di negozi colorati, chioschi e bancarelle con generi alimentari, vestiti, scarpe e prodotti per la casa. Sebbene non pioves-
se, le strade erano sempre fangose: la gente buttava tutto per strada, la strada non apparteneva a nessuno.
Ovunque altoparlanti, con voci aspre e sonore che cantano a distesa. Provengono dai templi locali, piccoli edifici spesso non più alti delle case a un piano che li circondano, ma in compenso estremamente numerosi. Si somigliano tutti, tinteggiati di bianco, rivestiti di ghirlande floreali e di decorazioni luccicanti, chiari e agghindati come spose. Vi regna un’atmosfera altrettanto serena e festosa, la gente che li affolla mormora, accende incensi, rovescia gli occhi, protende le mani. Alcuni uomini (officianti? ministri del culto?) distribuiscono bocconi di cibo ai fedeli: un pezzo di dolce, del marzapane, una caramella. Chi continua a tendere la mano può riceverne anche due o tre porzioni, che è libero di mangiare o deporre sull’altare. Nei templi più piccoli l’ingresso è libero, nessuno ti chiede chi sei o quale fede professi. Ognuno rende il suo omaggio individualmente, per conto proprio, senza un rito collettivo, il che crea un clima di totale libertà e disinvoltura, ma anche una certa confusione.
La grande quantità di luoghi di culto si spiega anche con il fatto che l’induismo possiede un numero infinito di divinità, di cui nessuno è riuscito a redigere l’inventario completo. Anziché concorrere tra loro, gli dèi convivono pacificamente. Si può venerare un solo dio o più dèi insieme, come anche sostituire una divinità con un’altra a seconda del luogo, del tempo, dello stato d’animo e delle necessità. La suprema ambizione dei seguaci di un dio è quella di erigere un santuario in suo onore. Considerato che questo tollerante politeismo dura da migliaia di anni, è facile immaginare gli innumerevoli templi, cappelle, altari e statue innalzati nel tempo, ma anche tutti quelli distrutti da inondazioni, incendi, tifoni, guerre con i musulmani. A metterli uno accanto all’altro, coprirebbero mezzo mondo.
Un giorno, nel corso dei miei vagabondaggi, capitai nel tempio di Kali. Kali, dea della distruzione, rappresenta l’azione annientatrice del tempo. Ignoro se sia possibile impetrarne il favore, visto che il tempo è inarrestabile. Kali è alta,
nera, mostra la lingua, porta una collana di teschi e tiene le braccia aperte.
Braccia di donna, ma tra le quali è meglio non capitare.
La strada che porta al tempio è fiancheggiata da due file di bancarelle. Vi si possono comprare profumi penetranti, ciprie colorate, immagini, ciondoli e le solite cianfrusaglie da fiera. Davanti al tempio della dea si snoda una lunga fila di gente sudata ed emozionata. Un forte sentore di incenso impregna l’aria, il caldo è afoso, scende la sera. Davanti alla statua ha luogo uno scambio simbolico: si consegna al sacerdote una pietra comprata in precedenza e se ne riceve un’altra. Presumo che si consegni una pietra qualsiasi e se ne ritiri una consacrata: ma non ne sono veramente sicuro.
Il palazzo del rajah pullula di servitù, anzi i domestici sono le uniche persone che vi si incontrano, quasi che l’intera proprietà sia di loro esclusivo possesso. Una folla di servi, di camerieri, di lacchè, di guardarobieri, di specialisti nel preparare il tè e nel glassare i dolci, di stiratori, di fattorini, di sterminatori di ragni e zanzare e, soprattutto, di gente di cui è impossibile stabilire l’incarico e la mansione, si aggira in continuazione nelle stanze e nei saloni, percorre scale e corridoi, spolvera mobili e tappeti, sprimaccia cuscini, sposta poltrone, recide fiori e annaffia piante.
Lavorano in silenzio, con movimenti così cauti e leggeri da dare l’impressione che temano qualcosa, ma senza mai innervosirsi, correre o gesticolare; è come se
nei paraggi si aggirasse una tigre del Bengala per sfuggire alla quale non c’è che un sistema: niente movimenti bruschi. Perfino durante il giorno, sotto il sole rovente, sembrano ombre incorporee, tanto più che si spostano senza una parola e sempre in modo da rendersi invisibili, da non tagliare la strada a nessuno, da evitare il più possibile di entrare nel campo visivo di chicchessia.
I loro abiti variano a seconda del rango e della mansione: si va dai turbanti dorati con fermagli di pietre preziose al
dhoti, la fascia portata sui fianchi dai membri delle caste inferiori. Alcuni indossano abiti di seta con cinture ricamate e spalline lucenti; altri una semplice camicia o un caftano bianco. L’unica cosa che li accomuna è il fatto di
essere scalzi. Per quanto adorni di ricami, e alamari, broccati e cachemire, girano tutti a piedi nudi.
Questo particolare attirò di colpo la mia attenzione, vista la mia fissazione per le scarpe. Una fissazione che risale alla guerra e agli anni dell’occupazione. L’inverno 1942 era alle porte e io non avevo scarpe. Quelle vecchie erano a pezzi e mia madre non aveva i soldi necessari per comprarme-ne un paio nuovo. Le scarpe alla portata dei polacchi costavano quattrocento zloty, avevano la tomaia in grossa tela impermeabilizzata con mastice nero e la suola in legno chiaro. Dove trovare quattrocento zloty?
A quel tempo stavamo a Varsavia, da certi signori Skupiewski che abitavano in
via Krochmalna, vicino all’ingresso del ghetto. Il signor Skupiewski fabbricava a domicilio saponette, tutte invariabilmente verdi. “Senti,” mi disse un giorno, “io ti do quattrocento saponette. Tu le vendi e ci ricavi di che comprarti le scarpe. I soldi me li restituisci con comodo, a guerra finita.” A quel tempo eravamo convinti che la guerra sarebbe finita di lì a poco. Mi suggerì di provare a smerciarle sul treno elettrico in servizio tra Varsavia e Otwock: la gente che andava in villeggiatura ci teneva a lavarsi e ne avrebbe comprata volentieri qualcuna. Accettai la proposta. Avevo dieci anni e su quelle saponette piansi tutte le mie lacrime, perché nessuno voleva saperne. Giravo dalla mattina alla sera per venderne al massimo una. Il giorno che ne detti via tre, tornai a casa felice come una pasqua.
Ogni volta che premevo il campanello di un appartamento, mi raccomandavo a Dio:
“Fa’ che le comprino, fa’ che ne comprino almeno una!”. In realtà il mio era un
vero e proprio accattonaggio. Entravo nelle case e dicevo: “Sia buona, signora, me ne compri almeno una! Solo uno zloty! È quasi inverno e sono senza scarpe! “.
Certe volte andava bene, certe altre meno: la città era piena di bambini che cercavano di
arrangiarsi rubacchiando, imbrogliando o vendendo roba d’ogni genere.
Con l’autunno giunsero i primi freddi. Avevo i piedi gelati, non ce la facevo più ad andare avanti. Avevo raggranellato trecento zloty, ma il signor Skupiewski ne aggiunse generosamente altri cento. La mamma mi portò a comprare
le scarpe. Se ci avessi messo della carta di giornale e mi fossi fasciato i piedi di flanella, avrei potuto resistere anche alle temperature più basse.
Adesso qui, in India, la vista di quei milioni di persone senza scarpe mi dava un senso di familiarità, tanto che a volte mi sembrava di stare a casa mia.
Rientrai a Delhi dove doveva arrivarmi il biglietto di ritorno per la Polonia.
Tornai nello stesso albergo e addirittura nella stessa stanza di prima.
Esploravo la città, visitavo i musei, tentavo di leggere il “Times of India”, e studiavo Erodoto. Non so se Erodoto, considerate le difficoltà di spostamento dei suoi tempi, sia mai stato in India: sembra improbabile, ma non lo si può escludere con certezza. Dopotutto è andato in luoghi talmente distanti dalla Grecia! Ci ha lasciato la descrizione di venti province, dette satrapie, del più vasto impero del mondo - la Persia - di cui l’India era appunto la satrapia più popolosa. “Gli Indiani, il popolo di gran lunga più numeroso di tutti gli uomini che noi conosciamo […]” afferma, prima di passare a parlare dell’India, della sua posizione, della sua società e dei suoi costumi. “Del territorio dell’India, la parte volta verso levante è sabbiosa; infatti di tutte le popolazioni che noi conosciamo, di quelle almeno sulle quali si narra qualcosa di sicuro, gli Indiani sono i primi degli uomini dell’Asia che abitano verso l’aurora e il sol levante, poiché la terra posta ad oriente de gli Indiani è disabitata a causa della sabbia. Ci sono molte stirpi di Indiani, dissimili per lingua fra loro, e alcuni sono nomadi, altri no. Alcuni abitano nelle paludi dei fiumi e si cibano di pesci crudi che prendono da imbarcazioni di canne […] Questi Indiani portano vesti di
giunco; dopo che hanno raccolto dal fiume il giunco e l’hanno battuto, allora, intrecciatolo a mo’ di stuoia, lo indossano come una corazza.
“Altri Indiani che abitano ad oriente di questi sono nomadi, si cibano di carni crude e sono chiamati Padei. Si dice che abbiano questi costumi: se uno dei cittadini cade ammalato, sia uomo o donna, l’uomo lo uccidono i suoi amici più
intimi dicendo che egli, consunto dalla malattia, rovina loro le carni: quello nega di esser malato, ma essi, non essendo della sua stessa opinione, lo uccidono e banchettano delle sue carni. Parimenti se è ammalata una donna le donne a lei più amiche fanno lo stesso che agli uomini. Se poi uno raggiunge la
vecchiaia, lo uccidono e lo mangiano. Ma non molti di loro ci arrivano, dato che
in precedenza uccidono tutti quelli che cadono ammalati.
“Altri Indiani invece hanno questi costumi: non uccidono alcun essere vivente né
seminano alcunché né hanno l’abitudine di possedere case; ma mangiano erba […]
Chi di loro cada ammalato, se ne va a giacere nel deserto, e nessuno si dà pensiero di lui, né quando è morto né mentre è malato.
“L’accoppiamento di tutti questi Indiani di cui ho parlato si svolge pubblicamente come per le bestie, e il colore della pelle lo hanno tutti uguale, simile a quello degli Etiopi. Lo sperma che essi emettono unendosi alle donne non è bianco come negli altri uomini, ma nero al pari della loro pelle, ed anche gli Etiopi emettono uno sperma simile. “6
Visitai Madras, Bangalore, Bombay e Chandigar. Più viaggiavo, più mi rendevo conto dell’inutilità di ciò che facevo, dell’impossibilità di conoscere e comprendere il paese nel quale mi trovavo. L’India era talmente grande! Come descrivere qualcosa che sembrava non avere né frontiere né fine?
A Delhi ricevetti un biglietto di ritorno per Varsavia via Kabul e Mosca.
Atterrai a Kabul al tramonto. Il cielo rosa intenso, con sfumature di viola, stendeva i suoi ultimi raggi sulle montagne blu scuro che circondavano la vallata. Il giorno si spegneva sprofondando in un silenzio assoluto - il silenzio di un paesaggio, di una terra e di un mondo che niente, né il campanaccio al collo di un asino né lo scalpiccio di un gregge di pecore trotterellanti dietro la baracca dell’aeroporto, poteva turbare.
Trovandomi senza visto, i poliziotti mi fermarono. Rimandarmi indietro era impossibile: l’aereo che mi aveva portato lì era subito ripartito, la pista era deserta. Dopo essersi consultati sul da farsi, partirono per la città. Restammo in due: io e il guardiano dell’aeroporto, un ragazzone robusto con capelli e barba corvini, gli occhi miti e il sorriso timido e incerto. Portava un lungo cappotto militare e una carabina Mauser, anch’essa residuato di guerra.
La notte scese di colpo e subito si fece freddo. Io, che arrivavo da un paese tropicale con addosso la sola camicia, battevo i denti. Il guardiano portò sulla pista un po’ di legna, di frasche e di erba secca e accese un fuoco. Mi tese il suo cappotto, avvolgendosi fino agli occhi in una scura coperta di cammello.
Sedevamo uno di fronte all’altro senza una parola. Intorno a noi tutto era immoto. In lontananza si udivano cantare i grilli poi, ancora più lontano, rombò
un motore d’automobile.
La mattina dopo tornarono i poliziotti con un vecchio mercante che da Kabul spediva cotone alle fabbriche di Lódz. Il signor Bielas che, risiedendo sul posto da tempo, aveva molte conoscenze, promise di occuparsi del visto. In effetti non solo mi procurò il visto, ma mi ospitò anche nella sua villa, ben felice di non essere più solo.
Kabul: polvere, polvere e polvere. La valle dove giace la città è continuamente spazzata da venti carichi di sabbia dei deserti circostanti. Tutto è coperto da un sottile pulviscolo grigiastro che si deposita solo quando i venti si placano e l’aria si fa trasparente, tersa come il cristallo.
Di sera le strade danno l’impressione di un sacro mistero improvvisato. Le tenebre sono rischiarate soltanto da lanterne di bancarelle, da lampade e fiaccole il cui vacillante lucore illumina le merci dozzinali esposte dai venditori per terra, sul margine della carreggiata e sulle soglie delle case.
Tra queste file di fiammelle si spostano silenziose figure velate, incalzate dal freddo e dal vento.
Quando l’aereo da Mosca cominciò a scendere su Varsavia, il mio vicino sus-sultò, si afferrò ai braccioli della poltrona e chiuse gli occhi. Aveva la faccia vecchia e stanca, solcata da cicatrici. Un misero completo da pochi soldi gli ciondolava attorno al corpo magro e ossuto. Lo sbirciai di sottecchi. Aveva le guance rigate di lacrime. Emise un singhiozzo soffocato.
“Mi scusi” disse. “Mi scusi. Ero convinto di non tornare mai più.”
Era il dicembre 1956. La gente continuava a rientrare dai gulag.