NERO E BELLO
Dal molo di Dakar all’isola di Gorée non occorre neanche mezz’ora di traghetto.
Seduti a poppa vediamo la città, che per qualche tempo si è ritmicamente alzata e abbassata sulle onde sollevate dall’elica, farsi sempre più piccola fino a diventare una sottile linea di case all’orizzonte. A quel punto il traghetto volge la poppa all’isola e, rombando e sferragliando, urta contro l’attracco in cemento.
Seguo un molo in legno, poi attraverso la spiaggia e infine, in una stradina stretta e tortuosa, raggiungo la Pension de famille dove mi aspettano il custode Abdou e la proprietaria Mariem, una donna taciturna e che si muove senza rumore,
sempre intenta a qualcosa. Abdou e Mariem sono marito e moglie e, a giudicare dall’aspetto della donna, presto avranno un bambino. Benché ancora molto giovani, questo sarà per loro il quarto lieto evento. Abdou osserva soddisfatto il pancione della moglie, segno inconfutabile che in casa tutto va come si deve.
“Quando la donna non ha il pancione,” dice Abdou mentre Mariem annuisce in
silenzio, “le cose non vanno secondo natura. Parenti e amici si preoccupano, iniziano a fare domande, a investigare, a fare ipotesi pessimistiche e talvolta maligne. Così invece tutto segue il ritmo naturale della vita, secondo il quale ogni anno la donna deve dimostrare la propria generosa e instancabile fertilità.
“
Appartengono entrambi alla comunità peul, il principale gruppo etnico del Senegal. I peul parlano la lingua wolof e
Tutto ciò accade alla metà del XX secolo, epoca che coincide con il risveglio della coscienza extraeuropea, con la ricerca, da parte dell’Africa e del cosiddetto Terzo Mondo, della propria identità nonché, specialmente per l’Africa, con il desiderio di scrollarsi di dosso il complesso dello schiavo.
Sia la tesi di Anta Diop sia la teoria della négritude di Senghor e Césaire fanno presente agli europei - concetto espresso anche nelle opere di Sartre, Camus e Davidson -che il nostro pianeta, fino ad allora dominato dall’Europa, sta diventando un nuovo mondo multiculturale nel quale le
hanno la pelle più chiara degli altri africani occidentali, il che ha dato origine alla teoria secondo la quale sarebbero giunti qui dal Nilo molto tempo addietro, quando ancora il Sahara era coperto di verde e lo si poteva tranquillamente percorrere.
Sulle radici egizio-africane della civiltà greca e quindi di quella dell’Europa centro-occidentale esiste anche un’altra e più vasta teoria, sviluppata negli anni cinquanta del XX secolo dallo sceicco Anta Diop, storico della lingua senegalese. L’Africa, che ha dato fisicamente origine all’uomo, avrebbe dato origine anche alla cultura europea. Per lo sceicco Anta Diop, autore di un voluminoso dizionario comparato egizio-wolof, l’autorità suprema è rappresentata da Erodoto, la cui opera sostiene che numerosi elementi della cultura greca provengono (con opportune modificazioni) dalla Libia e dall’Egitto e quindi che
la cultura europea, soprattutto nella parte mediterranea, è di provenienza africana.
La tesi di Anta Diop coincide con la famosa teoria della négritude, sviluppata a Parigi alla fine degli anni trenta del XX secolo. Ne erano autori due giovani poeti: il senegalese Léopold Senghor e il martinicano Aimé Césaire, discendente dagli schiavi africani. In poesie e manifesti cantavano l’orgoglio della loro razza umiliata per secoli dall’uomo bianco, l’orgoglio di essere neri nonché l’elogio del patrimonio di valori introdotto dai neri nella cultura mondiale.
comunità e le culture extraeuropee aspirano a occupare un posto dignitoso e rispettato in seno al consorzio umano.
È in questo contesto che si pone il problema del rapporto con l’altro. Non che finora la relazione io-l’altro non sia stata analizzata: ma finora l’altro apparteneva alla nostra stessa cultura. Ora invece il problema io-l’altro è complicato dal fatto che l’altro è una persona proveniente da una cultura diversa, con i propri valori e le proprie usanze.
Nel 1960 il Senegal ottiene l’indipendenza. Ne diventa presidente il poeta Léopold Senghor, già frequentatore dei circoli e dei caffè del Quartiere Latino di Parigi. Le idee che per lui e per i suoi amici dell’Africa, dei Caraibi e delle due Americhe finora sono state un utopico sogno di ritorno alle radici simboliche e alle fonti perdute di un mondo da cui i mercanti di schiavi li hanno brutalmente strappati per gettarli in una realtà estranea, umiliante e ostile, hanno finalmente l’occasione di trasformarsi in attività operative, in progetti ambiziosi e audaci realizzazioni a lungo termine.
Fin dall’inizio del suo mandato Senghor comincia a preparare il Premier Festival Mondial des Arts Nègres. Arti al plurale, poiché si tratta dell’arte non solo africana, ma di tutti i popoli neri, della quale si vuole dimostrare la vastità, la grandezza, l’universalità, la vitalità e la varietà. Quest’arte, di cui l’Africa è stata la fonte, ora si estende al mondo intero.
A Dakar, nel 1963, Senghor inaugura il festival, destinato a protrarsi per alcuni mesi. Essendo arrivato in ritardo per l’inaugurazione e non avendo potuto trovare una camera negli alberghi della città, ho preso alloggio alla Pension de famille tenuta da Mariem e Abdou, senegalesi peul, probabili discendenti di un
fellah egiziano e forse, chissà, di un faraone.
La mattina Mariem mi mette davanti una fetta di papaya succosa, un boccale di
caffè troppo dolce, mezza baguette e un barattolo di marmellata. Per quanto sia
di natura taciturna, l’educazione le impone le solite domande di rito: come ho dormito, se mi sento riposato, se non ho avuto troppo
Strade e piazze pullulano di spettacoli teatrali. Il teatro africano non è rigoroso come quello europeo. Un gruppo qualsiasi si riunisce in un punto qualsiasi e inventa una rappresentazione qualsiasi. Non c’è testo: tutto è frutto dell’umore e dell’estro. Qualsiasi argomento va bene: una combriccola di
ladri arrestata dalla polizia, i mercanti che si battono perché la città non li estrometta dalla piazza del mercato, la rivalità tra mogli che si contendono un marito innamorato di un’altra. Basta che la trama sia semplice e il linguaggio accessibile a tutti.
È sufficiente un’idea per improvvisarsi regista. Si distribuiscono le parti e lo spettacolo ha inizio. Se la cosa avviene per strada, in piazza o in un cortile, i passanti fanno subito capannello. Durante la recita la gente ride, commenta, applaude. Se l’azione è interessante, malgrado il sole spietato gli spettatori restano sul posto seguendo con attenzione lo svolgersi dell’intreccio; ma se la trama non funziona o se la troupe improvvisata non va d’accordo, lo spettacolo finisce e attori e spettatori se ne vanno lasciando il posto ad altri, magari più fortunati di loro.
A volte gli attori interrompono il dialogo per iniziare una danza rituale alla quale immediatamente si associano gli spettatori. Di solito si tratta di balli gai e spensierati, ma a
caldo, se non sono stato punto dalle zanzare, che cosa ho sognato. “E se non avessi sognato niente?” le chiedo. “Impossibile” risponde Mariem. Lei sogna sempre: sogna i bambini, le feste, di andare a trovare i genitori in campagna.
Tutti sogni piacevoli.
La ringrazio per la colazione e vado a prendere il traghetto per Dakar. La città vive del festival: esposizioni, conferenze, concerti, teatri. Sono presenti l’Africa occidentale, orientale, meridionale e centrale; ci sono il Brasile e la Colombia, i Caraibi al completo con la Giamaica e Puerto Rico in testa; ci so-no Alabama e Georgia, le isole dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano.
volte succede che i danzatori si facciano seri e concentrati e che la partecipazione al ritmo collettivo si trasformi in un momento grave e importante. Poi la danza finisce, gli attori riprendono il dialogo interrotto e gli spettatori, fino a un attimo prima immersi in una trance iniziatica, tornano a ridere divertiti.
Il teatro non si associa soltanto alla danza. Un’altra delle sue principali e quasi inscindibili componenti è la maschera. Gli attori recitano quasi sempre con la maschera; se il caldo impedisce di tenerla sul viso, se la mettono sottobraccio. La maschera è un simbolo, un elemento pregno di emozione e significato, l’allusione a un altro mondo di cui essa è segno, marchio e messaggio. Apparentemente immobile e senza vita, ci comunica qualcosa, ci mette
in guardia e, con la sua sola presenza, cerca di evocare emozioni, suscitare sentimenti e sottometterci a sé.
Senghor ha raccolto, prendendole in prestito da vari musei, migliaia e migliaia di maschere che, messe tutte insieme, hanno creato un misterioso mondo a parte.
Entrarci è un’esperienza irripetibile. Finalmente si capisce come mai le maschere abbiano sempre avuto tanto potere sugli uomini, come mai li abbiano ipnotizzati, paralizzati e portati a uno stato estatico. E si comincia anche a capire come mai il bisogno della maschera e la fede nel suo potere magico unissero tra loro intere comunità, permettendo loro di comunicare attraverso continenti e oceani, trasmettendo un senso di unione e di identità e diventando il segno della tradizione e della memoria collettiva.
Spostandomi da uno spettacolo teatrale all’altro, da un’esposizione di maschere e sculture all’altra, avevo la sensazione di assistere al risorgere di una grande cultura, alla ritrovata consapevolezza della sua diversità, importanza e fierezza, alla coscienza della sua portata universale. Non c’erano solo le maschere del Mozambico e del Congo, ma anche lumi dei riti macumba di Rio de
Janeiro, stemmi delle divinità protettrici del vudu haitiano e copie dei sarcofagi dei faraoni egizi.
I
La mia stanza alla Pension de famille è al primo piano. E che stanza! Spaziosa, tutta in pietra, con due aperture come finestre e una sola come porta, ma in compenso grande come un portone d’ingresso. Dispongo anche di un’ampia terrazza
da cui, ovunque giri l’occhio, vedo il mare. Un mare che non finisce mai.
L’Atlantico. La camera è sempre attraversata da una brezza ristoratrice che mi fa sentire come su una nave. L’isola è immobile e, in un certo senso, lo è anche il mare sempre tranquillo. A cambiare sono invece i colori del mare, del cielo, del giorno e della notte. Tutto muta continuamente colore: i muri e i tetti del villaggio vicino, le vele delle barche da pesca, la sabbia della spiaggia, le palme e i manghi, le ali dei gabbiani e delle rondini di mare sempre in volo. Se uno è sensibile ai colori, quest’isola addormentata
Ma alla gioia di questo rinato senso di comunità si accompagna anche un senso di delusione. Un esempio: proprio qui a Dakar leggo l’appassionante Potere ne-ro, da poco pubblicato, dello scrittore americano Richard Wright. Agli inizi degli anni
cinquanta Wright, afroamericano di Harlem, spinto dal desiderio di tornare alla
terra dei suoi avi (o, come si diceva allora, in seno alla madre Africa), parte per il Ghana. Nel Ghana, che sta combattendo per la propria indipendenza, sono
in atto manifestazioni, rivolte e proteste. Wright partecipa alle manifestazioni, conosce la vita quotidiana delle città, visita i mercati di Accra e Takoradi, chiacchiera con mercanti e piantatori e si accorge che malgrado lo stesso colore di pelle, tra lui e gli africani non c’è dialogo, che manca un linguaggio comune e che per loro sono importanti cose che a lui so-no completamente indifferenti. Più il viaggio prosegue, più il senso di estraneità avvertito dall’autore si approfondisce, diventando pesante come un incubo e una
maledizione.
La filosofia della négritude cerca appunto di abbattere le barriere delle culture straniere che hanno diviso il mondo dei neri, restituendo loro un’unità e un linguaggio comune.
gli fa girare la testa, lo affascina e lo abbaglia; ma dopo qualche tempo stordisce e affatica.
A poca distanza dalla mia pensione, tra i massi e i licheni della riva, si scorgono monconi di mura calcificate, distrutte dal sole e dalla salsedine. Sia le mura sia l’intera isola di Gorée godono di una fama sinistra. Per duecento anni, e forse più, l’isola è stata la prigione, il campo di concentramento nonché il porto di partenza degli schiavi africani diretti verso l’altro emisfero: le due Americhe e i Caraibi. Si calcola che in quel periodo da Gorée sia partita una decina, anzi una ventina di milioni di giovani uomini e donne.
Una quantità inverosimile, considerati i tempi.
Il rastrellamento e la deportazione in massa degli abitanti ha spopolato l’Africa. Il continente si è svuotato, coprendosi di boscaglia e di erbe. Per anni e anni colonne di gente sono state sospinte dall’interno dell’Africa fino al luogo dove oggi sorge Dakar, e di lì trasbordate sull’isola. In parte morivano sul posto di fame, di sete e di malattia in attesa delle navi che dovevano portarli al di là dell’Atlantico. I morti venivano gettati direttamente in mare e divorati dagli squali che, trovando il cibo assicurato, giravano a branchi intorno all’isola. Inutile tentare la fuga: i pescecani facevano la posta ai coraggiosi, sorvegliandoli con la stessa cura dei guardiani bianchi. A detta degli storici, metà degli schiavi trasportati per nave moriva nel viaggio.
Da Gorée a New York ci sono oltre seimila chilometri: una distanza che, unita alle spaventose condizioni del viaggio, veniva sopportata solo dai più robusti.
Ci siamo mai soffermati a pensare che, fin da tempi immemorabili, la ricchezza del mondo (dai sistemi di irrigazione della Mesopotamia alle muraglie cinesi; dalle piramidi egizie all’Acropoli d’Atene; dalle piantagioni di zucchero cubane a quelle di cotone in Louisiana e nell’Arkansas; dalle miniere di carbone della Kolyma alle autostrade tedesche) è stata costruita dagli schiavi? E le guerre?
Quante se ne sono fatte per catturare gli schiavi? Catturarli, incatenarli,
Ma com’erano gli schiavi di Erodoto? Quanti ne aveva e come li trattava? Ho l’impressione che non dovessero lamentarsi del loro padrone, persona di buon cuore e con la quale visitarono mezzo mondo. In seguito, quando lui si stabilì a
Thurioi per scrivere le sue Storie, forse gli fecero da memoria e da enciclopedia vivente, ricordandogli i nomi di persone, le denominazioni geografiche e i particolari che lui via via dimenticava, contribuendo così alla straordinaria ricchezza del libro.
Che fine fecero dopo la morte di Erodoto? Vennero messi in vendita o, già vecchi
come il loro padrone, non tardarono a raggiungerlo nell’aldilà?
zarli a frustate e violentarli, assaporando il gusto di essere il padrone assoluto di un essere umano. Era la principale, spesso l’unica ragione di guerra; una molla possente e non di rado chiaramente ammessa.
Quelli che sopravvivevano al viaggio per nave (all’epoca si parlava di Hack cargo) portavano con sé anche la loro cultura egizio-africana che tanto affascinava Erodoto e che, molto prima di raggiungere l’altro emisfero, l’infaticabile greco aveva descritto nella sua opera.
SCENE DI FOLLIA E DI SAGGEZZA
Il mio modo preferito di trascorrere le serate sarebbe quello di sedermi in terrazza e, alla luce della lampada e cullato dal rumore del mare, leggere Erodoto. Purtroppo non è facile. Appena accendo la luce, il buio si anima e comincia a pullulare di sciami di insetti. Alla vista del chiarore, i più eccitati e invadenti si avventano a testa bassa contro la lampadina rovente e scivolano a terra senza vita. Altri, mezzi intontiti, le girano attorno con più prudenza ma, in compenso, instancabili, come se la luce li caricasse di un’energia inesauribile. I più terribili sono certi minuscoli moscerini, talmente accaniti e imperterriti da resistere a qualsiasi tentativo di scacciarli o sterminarli: periti gli uni, c’è subito un nugolo di riserva impaziente di partire all’attacco. Il loro ardore viene condiviso da miriadi di piccoli scarabei e altre antipatiche bestio-line di cui ignoro il nome. Per chi legge, comunque, il disturbo maggiore è rappresentato da una varietà di falene che, evidentemente irritate da una qualche proprietà della pupilla umana, cercano di posarsi sugli occhi e di tapparli con le loro carnose ali grigio scuro.
Ogni tanto Abdou mi viene in aiuto portando un vecchio braciere con un po’
di
carbonella accesa, sulla quale posa pezzi di resina, radici, cortecce e bacche, soffiando a pieni polmoni sul fuoco. Nell’aria si diffonde un odore acre e soffocante. Come per magia, la maggior parte degli insetti fugge in preda al panico, mentre quelli che, intontiti, sono
rimasti sul posto strisciano per un po’ sul tavolo e su di me, poi si immobilizzano e cadono a terra stecchiti.
Abdou se ne va soddisfatto e io ho un po’ di pace per leggere. Il libro di Erodoto, che lentamente si avvia alla fine, si conclude con quattro scene.
La prima è una scena di guerra (la battaglia decisiva di Micale).
Nello stesso giorno in cui i greci sconfiggono a Platea l’armata persiana, i cui resti cominciano a fare ritorno in patria, sull’altra costa dell’Egeo, quella orientale, la flotta greca sbaraglia a Micale un’altra parte dell’esercito nemico, concludendo vittoriosamente per la Grecia (ossia per l’Europa) la guerra
contro i persiani (ossia contro l’Asia). La battaglia di Micale dura poco. I due eserciti si schierano uno di fronte all’altro: “Quando i preparativi furono terminati, i Greci avanzarono contro iBarbari”.148 I greci che vanno all’attacco, vengono improvvisamente informati che a Platea i loro alleati hanno appena sconfitto i persiani.
Erodoto non ci dice per quale via abbiano ricevuto la notizia. È una faccenda misteriosa, visto che Platea e Micale sono distanti e che dall’una all’altra occorrono vari giorni di navigazione. Oggi si pensa che chi vinceva una battaglia ne desse notizia attraverso una serie di fuochi accesi di isola in isola: chi vedeva un fuoco in lontananza doveva accenderne un altro per informare a sua volta chi stava più lontano. Fatto sta che “ne giunse notizia ai Greci che erano lì, in modo da incoraggiare molto di più l’esercito e a fargli desiderare di affrontare il pericolo con maggiore coraggio” ,149 La lotta è accanita, la resistenza persiana furibonda, ma alla fine vincono i greci. “Dopo che i Greci ebbero ucciso la maggior parte dei Barbari, gli uni in combattimento, gli altri anche in fuga, incendiarono le navi e tutto il muro, dopo aver in precedenza portato il bottino sulla spiaggia.“150
La seconda è una scena d’amore {love story con dramma della gelosia).
Mentre i persiani muoiono dissanguati a Platea e Micale e i superstiti, “
inseguiti e sterminati dai Greci”, tentano di raggiungere la città persiana di Sardi, il re Serse, dimentico della guerra, dell’ignominiosa fuga da Atene e della totale disfatta dell’impero, si abbandona a un rischioso e fedifrago colpo di fulmine. In psicologia esiste un processo detto di rimozione: una persona che
ha vissuto un’esperienza sgradevole ed è tormentata da brutti ricordi, li rimuove, li cancella dalla memoria, recuperando la pace e l’equilibrio spirituale. E chiaro che la psiche di Serse deve aver subito un processo del genere. L’anno prima, tronfio e autoritario, ha guidato contro i greci l’esercito più grande del mondo; l’anno seguente, dopo aver perso la guerra, si scorda di tutto e pensa solo alle donne.
Subito dopo la fuga dalla Grecia e la ritirata a Sardi, Serse “stando a Sardi, si innamorò della moglie diMasiste che era anch’essa lì. Poiché mandandole messaggi non gli riusciva di conquistarla […] combinò il matrimonio di suo figlio Dario con la figlia di questa donna e di Masiste, ritenendo che così più facilmente avrebbe potuto farla sua”.151 All’inizio, quindi, il re non mira alla fanciulla (che si chiama Artaunte), ma alla di lei madre nonché propria cognata, che a Sardi gli è parsa più desiderabile della figlia.
Ma una volta giunto nella capitale e nel palazzo reale, Serse cambia parere.
“Quando fu lì giunto ed ebbe condotta in casa la moglie per Dario, allora smi-se di pensare alla moglie di Masiste e mutando idea si innamorò invece della moglie di Dario, figlia diMasiste, e la conquistò […] Ma col passare del tempo l’intrigo fu scoperto nel modo seguente: Amestri, moglie di Serse, tessuto un meraviglioso mantello ampio e variopinto, lo donò a Serse. Questi, dopo aver goduto di lei, se ne avvolse e andò da Artaunte. E dopo aver goduto anche di costei la invitò a chiedere quel che voleva […] qualunque cosa gli avesse chiesta, l’avrebbe ottenuta.“152
La nuora, senza pensarci due volte, sceglie il mantello.
Serse, spaventato, cerca di distoglierla da quel capriccio per timore che Amestri si confermi nei suoi sospetti. Offre quindi alla ragazza “città e oro senza fine e un esercito, che nessuno avrebbe comandato all’infuori di lei”. Ma la piccola si è intestata e continua a dire di no: o il mantello, o niente.
Il sovrano di un impero mondiale, padrone della vita e della morte di milioni di
uomini, è costretto a cedere. “Ma poiché non riusciva a persuaderla, le diede il mantello, e quella tutta lieta del dono lo indossò con compiacimento.
“Amestri venne a sapere che lo aveva lei; saputo quel che era successo, non serbò rancore alla donna ma, sospettando che la madre di lei fosse colpevole e che fosse lei a tramare quegli intrighi. Decise di rovinare la moglie di Masiste. Attese che suo marito Serse si facesse imbandire il pranzo regale -
questo pranzo viene imbandito una volta sola all’anno nel giorno in cui il re è nato […] e soltanto in questa occasione il re si unge di unguenti la testa e fa doni ai Persiani - atteso questo giorno, Amestri chiese a Serse che le donasse la moglie di Masiste. Ma egli stimava azione crudele e scellerata consegnarla, sia perché era la moglie del fratello, sia perché era innocente ài quella faccenda […] Ma alla fine, poiché la moglie insisteva eà egli era costretto dalla tradizione, perché presso di loro non è ammissibile che chi chiede qualcosa non l’ottenga quando è imbandito il banchetto regale, seppure assai a malincuore acconsentì, e dopo avergliela consegnata fece questo: invitò la donna a fare quello che voleva, quindi mandato a chiamare il fratello, gli disse: ‘Masiste tu sei […] un uomo di valore: non convivere più con questa donna con cui convivi, ma al suo posto io ti do mia figlia. Abbi questa per moglie e quella che hai ora non tenerla in moglie, perché non mi sta bene. “
Masiste è sorpreso: ” O signore, che assurdo discorso mi fai, ordinandomi di abbandonare la donna dalla quale ho avuto figli e figlie […] e che è proprio come la desidero e di sposare tua figlia? […] lascia che io viva con la mia donna”.
Serse, adirato, replica: ” ‘Ecco allora quello che si è deciso per te: non ti darò in sposa mia figlia né convivrai più con tua moglie, perché tu impari ad accettare quel che ti viene offerto. ‘
L’altro, udito ciò, uscì fuori dopo avergli detto soltanto: ‘Signore, non mi hai ancora rovinato ‘. In questo frattempo, mentre Serse parlava col fratello, Amestri, fatte chiamare le guardie del corpo di Serse, seviziò la moglie di Masiste: tagliatile i seni li gettò ai cani e mozzatile naso e orecchi e labbra e lingua la rimandò a casa irrimediabilmente deturpata” P^
Che cosa dice Amestri, tagliando laboriosamente a pezzi la cognata caduta nelle sue mani (a quei tempi le lame non erano affilate)? La copre di epiteti ingiuriosi? La minaccia con la mano che impugna il coltello insanguinato o si limita ad ansimare per l’odio e la fatica? E che facevano le guardie del corpo, costrette a tenere ferma la vittima che si dibatteva urlando dal dolore? Le guardavano il seno? Tacevano impaurite? Ridacchiavano sotto i baffi? Forse la donna seviziata sveniva, costringendoli a versarle addosso secchiate d’acqua? E
gli occhi, che fine hanno fatto gli occhi? Strappati dalla regina? Erodoto li dimentica. O forse è Amestri, a dimenticarsene?
“Masiste, senza aver ancor avuto sentore di nulla, ma aspettandosi che gli capitasse qualche guaio, si precipitò di corsa a casa. E vista la moglie mutilata [che, non avendo più lingua, non può raccontargli niente, a parte che non sappiamo neanche se fosse in sé] subito dopo, consigliatosi con i figli, partì per Battra [una grande provincia persiana sull’Amu-darja] per fare ribellare la satrapia di Battriana e per fare i più grossi danni al re. E questo sarebbe anche avvenuto - a mio credere - se fosse riuscito a prevenire Serse recandosi nell’interno presso Battriani e Saci, perché questi lo amavano ed egli era governatore della Battriana. Ma Serse, appena seppe che egli faceva questo, gli mandò contro per via un esercito e fece massacrare lui e i figli e il suo esercito. Questo avvenne riguardo all’amore di Serse e alla morte di Masiste.“154
Tutto questo accade ai massimi vertici del potere imperiale. Ai vertici, vale a dire in un luogo estremamente pericoloso e sempre grondante di sangue. Il re va
a letto con la
nuora, la regina inferocita taglia a pezzi la cognata innocente in modo che la vittima, senza più lingua, non possa neanche lamentarsi. Il bene è sconfitto, il buono (Masiste) viene ucciso per ordine del fratello, i suoi figli muoiono, la moglie è orribilmente mutilata. Anni dopo, lo stesso Serse perirà pugnalato. E
la regina? Finirà uccisa dalle figlie di Masiste? Perché la ruota delitto-castigo non si ferma. Chissà se Shakespeare aveva letto Erodoto: le passioni bestiali e i crimini regali delle sue tragedie, il nostro greco le aveva già descritte duemila anni prima di lui.
La terza è una scena di vendetta (per crocifissione).
Su Sesto e dintorni governa a quel tempo un satrapo nominato da Serse, di nome
Artaicte, uomo “crudele e scellerato il quale aveva ingannato anche il re quando marciava contro Atene”. Erodoto lo accusa di avere rubato oro argento e molti altri tesori, aggiungendo che “ogni volta che si recava adEleunte, si univa a donne nel santuario” P5
A un certo punto i greci, lanciati all’inseguimento dei superstiti persiani e desiderosi di distruggere i ponti che hanno permesso ai soldati di Serse di traversare l’Ellesponto, raggiungono Sesto, la città persiana meglio fortificata di tutta la parte europea, e la stringono d’assedio. Il tempo passa e la città resiste. I soldati greci tornerebbero volentieri a casa, ma i loro strateghi non lo permettono. Frattanto a Sesto le provviste finiscono e gli assediati cominciano a venire decimati dalla fame. “Quelli che erano dentro le mura pe-rò erano giunti ormai all’ estremo, tanto che si nutrivano cuocendo le cinghie dei letti. Ma quando non ebbero più neppure questo allora finalmente di notte fuggirono, i Persiani e Artaicte […] scendendo dalla parte di dietro delle mura, dove il luogo era meno sorvegliato dai nemici.“1^
I greci si lanciano all’inseguimento. “Artaicte e i suoi […] raggiunti […]
dopo essersi difesi per parecchio tempo in parte morirono, altri furono catturati vivi. E i Greci, incatenatili, li condussero a Sesto, e con loro anche Artaicte in persona inca-
tenato, lui e suo figlio […] Trascinatolo sul promontorio dove Serse aveva aggiogato lo stretto - altri invece dicono sul colle a monte della città di Madito - lo appesero dopo averlo inchiodato su una tavola, e lapidarono il figlio sotto i suoi occhi. “157 Erodoto non ci dice se il padre crocifisso sia ancora vivo quando gli ammazzano il figlio a sassate. L’espressione “sotto i suoi occhi” va intesa in senso letterale o metaforico? Forse è lo stesso Erodoto che non interroga i suoi testimoni su un particolare tanto orrendo e scabroso.
O forse sono i testimoni che non sanno rispondere, conoscendo quella storia solo per sentito dire.
La quarta è un flashback (sul problema se l’uomo debba o no cercarsi un paese migliore).
Erodoto ricorda che Artaicte aveva avuto per antenato un certo Artembare, il quale aveva fatto ai persiani una proposta; dopo che costoro l’avevano approvata, era passato a sottoporla a Serse. La proposta diceva: “‘Poiché‘Zeus concede ai Persiani l’egemonia e fra tutti gli uomini a te, o Ciro […] dal momento che possediamo una terra piccola e per di più montuosa, trasferia-moci da questa e occupiamone un’altra migliore […] quando mai ci si presenterà un’occasione migliore di adesso, che dominiamo su molti uomini e su tutta l’Asia?’ Ma Ciro, udito ciò, e senza mostrare di meravigliarsi per la proposta, li invitò a farlo, ma li ammonì a prepararsi a non essere più dominatori ma dominati: dai luoghi molli son soliti nascere uomini molli, perché non è di una
stessa terra produrre frutti meravigliosi e uomini valorosi in guerra. Sicché i Persiani ricredutisi si allontanarono, convinti dal parere di Ciro, e preferirono dominare abitando una misera terra infeconda piuttosto che, coltivando fertili pianure, essere schiavi di altri. “158
Letta quest’ultima frase, posai il libro sul tavolo. Gli incensi magici di Abdou erano svaniti e subivo un nuovo attacco dagli sciami di moscerini, zanzare e falene. Mi arresi e rientrai in camera.
La mattina dopo andai alla posta per spedire il servizio. Allo sportello mi aspettava un telegramma. Il mio capo, il bravo e premuroso Michal Hofman, mi
proponeva (sempre che in Africa non stesse accadendo qualcosa di grave) di rientrare alla base per discutere di alcune questioni. Mi trattenni a Dakar ancora qualche giorno. Poi, salutati Mariem e Abdou e compiuto un ultimo giro
per le tortuose stradine di Gorée, ripartii per casa.
LA SCOPERTA DI ERODOTO
Una sera, prima che partissi da Gorée, venne a trovarmi Jarda, il corrispondente ceco che tempo addietro avevo conosciuto al Cairo. Anche lui era a Dakar per il
Festival delle Arti Negre. Andammo in giro per esposizioni, cercando di indovinare il senso e la funzione delle maschere e delle sculture Barbara, Makonde e Ife. Le trovavamo minacciose: viste di notte, alla luce vacillante dei falò e delle torce sembravano vive e incutevano un certo spavento.
Commentammo la difficoltà di spiegare l’arte africana in un breve articolo. Ci trovavamo in un mondo diverso e fino ad allora sconosciuto, in possesso solo dei
nostri concetti e del nostro lessico, entrambi inadeguati a rendere quello che avevamo visto in quel posto. Ci rendevamo conto del problema, ma non sapevamo come risolverlo.
Se fossimo vissuti ai tempi di Erodoto, Jarda e io saremmo stati due sciti, popolazione che a quei tempi abitava la nostra parte d’Europa. Sui veloci cavalli che tanto piacevano al greco avremmo caracollato per campi e foreste, lanciando frecce e bevendo kumis. Erodoto ci avrebbe osservato con attenzione, informandosi sui nostri usi e credenze, su quello che mangiavamo e indossa-vamo.
Dopodiché avrebbe raccontato per filo e per segno come, attirando i persiani nella micidiale trappola della neve e del gelo, ne avevamo sconfitto l’esercito e come Dario fosse scampato per miracolo al nostro inseguimento.
Mentre chiacchieravamo, Jarda scorse sul tavolo il libro di Erodoto. Mi chiese come l’avessi scoperto. Gli raccontai di come mi fosse stato regalato per leggerlo in viaggio e di come, via via che procedevo nella lettura, il mio viaggio si fosse sdoppiato: in uno facevo il mio lavoro di reporter, nell’altro seguivo le orme di Erodoto. Gli dissi anche che, secondo me, il titolo di Storie non corrispondeva perfettamente all’essenza del libro. A quei tempi, la parola greca storia aveva piuttosto il significato di “indagine” o di “ricerca”, termini in realtà più consoni alle intenzioni e alle ambizioni dell’autore.
Erodoto non spulciava gli archivi né scriveva opere accademiche come, dopo di
lui, hanno fatto per secoli gli studiosi: desiderava indagare, conoscere e descrivere come nascesse quotidianamente la storia, come venisse creata dagli uomini e come mai prendesse spesso una direzione contraria alle loro speranze e
aspettative. Dipendeva dal volere degli dèi, oppure l’uomo era troppo imper-fetto e limitato per dare un’impronta saggia e razionale al proprio destino?
“Quando ho cominciato a leggerlo,” dissi a Jarda, “mi chiedevo come avesse fatto
l’autore a raccogliere il materiale: a quel tempo non esistevano le biblioteche, gli archivi, i dossier con i ritagli di stampa e gli sterminati database di oggi. Ma, fin dalle prime pagine, Erodoto risponde alla domanda dicendo: ‘I Persiani affermano che così andarono le cose oppure: ‘I Fenici non sono d’accordo […] affermano infatti che’ e aggiunge: ‘Questo dunque narrano Persiani e Fenici. Io per parte mia non starò a discutere se questi fatti si siano svolti così o in altra maniera, ma, dopo aver segnalato colui che, a quanto io so personalmente, fu il primo a dare inizio ad azioni offensive contro i Greci, andrò avanti nel mio racconto, trattando ugualmente delle piccole e delle grandi città degli uomini. Perché quelle che in passato furono grandi per la maggior parte sono divenute piccole, e quelle che ai miei tempi erano grandi un tempo erano state piccole. Ben sapendo dunque che la fortuna umana non resta
mai ferma nello stesso luogo, delle une e delle altre farò ugualmente menzione ‘.”]
Ma come faceva Erodoto, essendo greco, a sapere che cosa narrassero i lontani persiani, i fenici, gli abitanti dell’Egitto e della Libia? Recandosi di persona in quei paesi, interrogando, osservando e raccogliendo dati in base a ciò che vedeva e che la gente gli raccontava. Il che significa che il suo primo passo era sempre un viaggio. Ma non è forse quello che fanno tutti i reporter, che non
pensano ad altro che a partire e per i quali il viaggio è la ricchezza, la fonte, l’origine di ogni cosa? Solo in viaggio un reporter si sente se stesso e a casa propria.
Più leggevo Erodoto, più scoprivo in lui un’anima gemella. Che cosa lo aveva indotto a muoversi, ad agire, a intraprendere lunghi viaggi e spedizioni rischiose? Probabilmente la curiosità del mondo, il desiderio di esserci, di vedere e sperimentare tutto di persona.
Una passione del genere è rara a trovarsi. L’uomo è una creatura tendenzial-mente sedentaria: da quando ha potuto occuparsi di agricoltura e abbandonare la misera e rischiosa esistenza di raccoglitore e cacciatore, è stato ben felice di stabilirsi sul suo pezzo di terra ed elevare tra sé e gli altri un confine o un muro di cinta, pronto a dare il sangue, e persino la vita, per difenderlo. Se ne allontanava solo se costretto dalla fame, dalla pestilenza, dalla guerra o dalla ricerca di un lavoro migliore; oppure per motivi professionali, perché navigatore, venditore ambulante, guida di carovane. Ma di gente che, di propria e spontanea volontà, girasse il mondo per conoscerlo, studiarlo, comprenderlo e
poi descriverlo, ce n’è sempre stata poca.
Ma come era venuta, a Erodoto, quella passione? Forse tutto era cominciato da
una di quelle domande che fanno i bambini: “Da dove arrivano le navi?”. Gio-cando con la sabbia in riva al mare, i bambini vedono improvvisamente spuntare all’orizzonte una nave che, venendo verso di loro, diventa sempre più grande.
Ma
di dove viene? Sono domande che di solito la maggior parte di essi non si po-ne.
Di tanto in tanto però ce n’è uno che, costruendo il suo castello di sabbia, chiede: “Ma di dove arriva quella nave? Quella linea lontana sembrava la fine del mondo: possibile che dietro di
essa ci sia un altro mondo e, dietro, un altro ancora? E di che mondi si tratta?”. Il bambino comincia a cercare una risposta e, una volta diventato grande, la cerca con sempre più insistenza e curiosità.
La risposta sta in parte nel viaggio stesso, nello spostarsi, nel cammino. Il libro di Erodoto è un libro nato dai viaggi: il primo grande reportage della letteratura mondiale. Il suo autore possiede l’intuito, l’occhio e l’orecchio del reporter. Ha una resistenza a prova di bomba: naviga per mare, traversa steppe, si addentra nei deserti, sempre tenendo il resoconto di tutto. Non si lamenta per la stanchezza, niente lo scoraggia, niente gli fa paura.
Che cosa lo guida quando, impavido e instancabile, si lancia nella sua grande avventura? Forse l’ottimistica convinzione, in cui noi moderni non crediamo più,
che il mondo si possa descrivere.
Erodoto mi aveva attratto fin dalle prime pagine. Tornavo continuamente alle scene descritte, alle decine di storie, alle innumerevoli digressioni. Tentavo di entrare in quel mondo, di orientarmici, di farlo mio.
Il testo non opponeva resistenza. A giudicare da come il mondo vi viene visto e
descritto, Erodoto doveva essere una persona tollerante e comprensiva, serena, socievole e alla mano. Anziché manifestare odio o rabbia, cerca sempre di capire, di scoprire come mai uno abbia agito in un modo piuttosto che in un altro. Non incolpa mai l’uomo, ma il sistema: cattivo, depravato e abietto non è
il singolo individuo, ma il sistema nel quale gli tocca vivere. Erodoto è un fervente sostenitore della libertà e della democrazia, nonché nemico dell’assolutismo e della tirannia, ritenendo che solo sotto il primo dei due regimi l’uomo abbia la possibilità di essere se stesso e di comportarsi in modo umano e dignitoso. “Guardate” sembra dire Erodoto. “Un esiguo gruppo di staterelli greci è riuscito a sconfiggere la grande potenza orientale solo grazie al fatto che i greci si sentivano liberi e che per questa libertà erano disposti a giocare il tutto per tutto.”
Ma pur riconoscendo la superiorità dei suoi compatrioti, il nostro greco non è del tutto acritico nei loro confronti. Vede che il principio, di per sé eccellente, della discussione e della libertà di parola può facilmente slittare nella lite sterile e logorante. Fa vedere che i greci sono capaci di litigare perfino sul campo di battaglia, con il nemico che avanza contro di loro.
Quando
i soldati di Serse si avvicinano lanciando frecce e mettendo mano alle spade, i greci si mettono a discutere su dove sferrare l’attacco: sulla destra o sulla sinistra? Non sarà stata questa litigiosità una delle cause per cui i greci non sono mai riusciti a formare uno stato unitario?
Gli eserciti di insetti che prima attaccavano solo me, ora che c’è anche Jarda si sono divisi in due nembi ronzanti e aggressivi. Non riuscendo a tenerli a bada e non potendone più della loro fastidiosa insistenza, chiamiamo in aiuto Ab-dou che, come un antico sacerdote, scaccia con i suoi incensi profumati le forze del male, materializzate sotto forma di zanzare e moscerini mordaci.
Rimandiamo a più tardi il discorso sull’attuale situazione africana (argomento di cui dobbiamo quotidianamente occuparci) e continuiamo a parlare di Erodoto.
Jarda, che ha letto il greco molto tempo fa e che dice di non ricordarlo bene, mi chiede che cosa del suo libro mi abbia maggiormente colpito.
Rispondo: la sua lancinante tragicità. Erodoto è stato contemporaneo dei massimi tragici greci - Eschilo, Sofocle (di cui forse era amico) ed Euripide. La sua epoca è stata il secolo d’oro del teatro, pervaso dallo spirito dei misteri religiosi, dei riti popolari, dei culti nazionali e delle Dionisie. Tutto ciò ha influito sul modo di scrivere dei greci nonché di Erodoto. Lo scrittore ci mostra la storia del mondo attraverso i destini dei singoli; nelle pagine del suo libro, destinato a tramandare la storia dell’umanità, è sempre presente l’indi-
viduo concreto, la singola persona con un nome preciso: grande o mediocre, generosa o crudele, vittoriosa o infelice. Sotto nomi diversi e in altri contesti vi ritroviamo le Antigoni e le Medee, le Cassandre e le Clitemnestre, lo Spirito di Dario e gli sgherri di Egisto. Il mito si mescola alla realtà, le leggende ai fatti. Erodoto cerca di tenere separati i due ordini di cose senza trascurare nessuno dei due, ma senza stabilire gerarchie. Sa quanto il modo di pensare e le decisioni di un uomo dipendano dal mondo di spiriti, sogni, paure e premonizioni che lo abitano. Sa che una visione apparsa in sogno a un re può decidere il destino di uno stato e di milioni di sudditi. Sa quanto l’uomo sia debole e indifeso di fronte al terrore creato dalla sua stessa immaginazione.
Ma, al contempo, Erodoto si propone anche uno scopo più ambizioso: tramandare la storia del mondo. Nessuno l’aveva mai fatto prima di lui: è il primo ad avere un’idea del genere. Raccogliendo senza sosta materiali per la sua opera e interrogando testimoni, aedi e sacerdoti, scopre che ognuno di essi ricorda co-se diverse e in modo diverso. Inoltre, parecchi secoli prima di noi, scopre una subdola e fondamentale caratteristica della memoria, vale a dire che la gente ricorda non quanto è realmente accaduto, ma ciò che vuole ricordare. Ognuno vede
la realtà a modo suo, ognuno vi aggiunge i propri ingredienti. Il che rende impossibile ricostruire il passato nella sua verità storica: tutto quello che possiamo ottenerne sono varianti più o meno verosimili, più o meno rispondenti alla nostra mentalità odierna. Il passato non esiste. Esistono solo le sue infinite versioni.
Erodoto è consapevole di questa difficoltà, ma non si arrende; prosegue le sue indagini, su ogni fatto cita diverse opinioni, oppure le respinge tutte in quanto assurde e contrarie al buon senso. Anziché registrare passivamente, partecipa attivamente alla creazione di quella meravigliosa arte che è la storia: quella di oggi, quella di ieri e quella dei tempi più remoti.
A determinare l’immagine del mondo trasmessaci da Erodoto non furono solo le
relazioni dei testimoni passati.
Vi influirono anche i suoi contemporanei. A quei tempi un creatore viveva a stretto contatto con i destinatari della sua opera. Non esistendo libri stampati, l’autore presentava ciò che scriveva a un uditorio di persone che, dopo averlo ascoltato, esprimevano il loro parere. La loro reazione era preziosa per sapere se la direzione presa dall’autore e il suo modo di scrivere incontrasse l’approvazione e avesse successo.
I viaggi di Erodoto non sarebbero stati possibili senza la presenza, in uso a quei tempi, del prosseno, o amico dell’ospite. Il prosseno era una specie di console che, gratuitamente o dietro compenso, si occupava dei viaggiatori provenienti dalla sua stessa città d’origine. Installato e ben inserito sul posto, si occupava del concittadino giunto di fresco, aiutandolo nel disbrigo di faccende, fornendogli le informazioni necessarie e facilitandogli i contatti.
Quello del prosseno era un ruolo molto particolare in quello strano mondo dove
gli dèi vivevano tra gli uomini, dai quali spesso era impossibile distinguerli.
Gli stranieri andavano accolti con la massima ospitalità possibile, poiché non si sapeva mai se quel viandante in cerca di cibo e di un tetto fosse un uomo, o un dio travestito.
Un’altra inesauribile e preziosa fonte di informazioni furono per Erodoto i cantastorie ambulanti, a quel tempo estremamente diffusi. Ancora oggi, nell’Africa occidentale, è possibile incontrare e ascoltare un griot. Il griot è un narratore che gira per fiere e villaggi raccontando le leggende, i miti e le storie della propria gente, della propria tribù e del proprio clan. In cambio di pochi soldi, talvolta anche solo per un po’ di cibo e una tazza d’acqua fresca, il vecchio griot, uomo di grande saggezza e di inesauribile fantasia, vi narra la storia del vostro paese, con tutti gli eventi, i casi e i miracoli che ne fanno parte. Se siano veri oppure no, nessuno è in grado di dirlo: meglio non indagare.
Erodoto viaggia per rispondere al bambino che chiede: “Da dove arrivano le navi
che spuntano all’orizzonte? Se quello che vediamo laggiù non è il confine del mondo, vuol dire che ci sono altri mondi? E come sono?”. Quando sarà grande, avrà voglia di conoscerli. Meglio però che non cresca del tutto e che rimanga in
parte bambino: solo i bambini sanno porre domande importanti e sono davvero curiosi di sapere.
Erodoto, infatti, va alla scoperta dei suoi mondi con l’entusiasmo e la passione di un bambino. La sua scoperta principale è che i mondi sono molti e tutti diversi. Che sono tutti importanti e che bisogna conoscerli, poiché le altre culture sono specchi che riflettono la nostra, permettendoci di capire meglio noi stessi. È impossibile definire la propria identità finché non la si è confrontata con le altre.
Ecco perché Erodoto, dopo aver scoperto la cultura degli altri come specchio nel
quale rifletterci per comprenderci meglio, ogni mattina, instancabilmente, torna
a rimettersi in viaggio.
Ma certe parti, come l’epilogo della guerra tra i greci e le amazzoni, le avevo lette tante volte che me le ricordavo a memoria: “Si narra che […] i Greci, vittoriosi nella battaglia del Termodonte, salpassero, portando su tre navi quante Amazzoni poterono catturare vive. Ma queste in alto mare, assalitili, avrebbero fatti a pezzi gli uomini. Ma esse non conoscevano le navi, né sapevano usar timone, né vele, né remi, e