PRIMA CHE CANI E UCCELLI LO STRAZINO
In Etiopia, dove ero arrivato per vie traverse passando per l’Uganda, la Tanzania e il Kenia, l’autista di cui più spesso mi servivo si chiamava Negusi.
Era snello e minuto. Aveva un collo sottile e gonfio di vene sul quale poggiava una testa sproporzionatamente grande ma ben fatta. Colpivano soprattutto i suoi
grandi occhi neri lucidi come quelli di una fanciulla sognante. Negusi era un maniaco della pulizia: a ogni sosta spolverava con cura gli abiti con una spazzola che portava sempre con sé, operazione giustificata dal fatto che, nella stagione secca, si era sempre coperti di polvere e sabbia.
I miei viaggi con Negusi (insieme al quale ho percorso migliaia di chilometri in
condizioni difficili e pericolose) mi confermavano quale ricchezza, dal punto di
vista linguistico, rappresentasse un’altra persona. Bastava semplicemente stare attenti e cercare di decifrarla. Abituati come siamo al fatto che gli altri comunichino attraverso la parola scritta o parlata, non ci rendiamo conto che questo è solo uno dei tanti modi per comunicare. A ben guardare, tutto parla: l’espressione del volto e degli occhi, i movimenti delle mani e del corpo, le onde emesse, i vestiti e il modo in cui sono portati nonché decine di altri trasmettitori, relais, amplificatori e silenziatori che compongono un uomo e -
come dicono gli inglesi - la sua alchimia.
La tecnica, limitando il contatto interumano al segno
elettronico, impoverisce e soffoca il variegato linguaggio non verbale per mezzo del quale, stando a stretto contatto gli uni degli altri, comunichiamo incessantemente senza neanche rendercene conto. Oltretutto questa comunicazione attraverso le espressioni del volto e i gesti è molto più autentica e sincera di quella parlata o scritta, nel senso che è più difficile mentire e dissimulare la verità. E questa la ragione per cui la cultura cinese, per consentire all’uomo di nascondere i pensieri la cui manifestazione potrebbe riuscire pericolosa, ha elaborato l’arte dell’inespressività, della maschera impenetrabile e dello sguardo assente: unico schermo dietro al quale ci si può veramente nascondere.
Negusi conosceva due sole espressioni inglesi: problem e noproblem. Ma con il
loro aiuto riuscivamo a intenderci nelle situazioni più difficili. Quelle due parole, unite al linguaggio muto che, per poco che lo si osservi con attenzione, ogni persona ci trasmette, bastavano a non farci sentire estranei e a permetterci di viaggiare insieme.
Qualche esempio. Sui monti Goba veniamo fermati da una pattuglia militare.
Da
queste parti i soldati sono sfrenati, onnipotenti, avidi e spesso ubriachi.
Intorno a noi deserte pareti rocciose, non un’anima. Negusi intavola le trattative. Lo vedo profondersi in spiegazioni, mettersi una mano sul cuore.
Anche gli altri dicono qualcosa, aggiustandosi i mitra in spalla, calandosi gli elmetti sugli occhi e assumendo un’aria ancora più minacciosa. “Negusi,” gli chiedo, “problem?” I casi sono due: o mi risponde tranquillamente: “No problem”
e riprende a guidare tutto contento, oppure mi dice con voce grave, addirittura spaventata: “Problem!”, il che significa che devo tirare fuori dieci dollari perché i soldati ci lascino passare.
All’improvviso e senza ragione, visto che la strada è completamente deserta, Negusi comincia ad agitarsi e a sbirciare in qua e in là. “Negusi,” gli chiedo, “problem?” “Eh” risponde lui, continuando a guardarsi intorno tutto nervoso.
All’interno della macchina l’atmosfera si fa tesa, la sua paura mi contagia, non so che cosa aspettarmi. Passa un’ora. All’improvviso, superata una curva, Negusi si rilassa e comincia a battere sul volante il ritmo di una canzone amarica.
“Negusi,” gli chiedo, “no problem?” “No problemi” risponde, tutto contento.
Poi,
nella cittadina più vicina, vengo a sapere che abbiamo attraversato una zona infestata da bande che rapinano e spesso uccidono.
La gente di qui non conosce il vasto mondo, non conosce l’Africa e neanche il proprio paese; ma all’interno della sua piccola patria e sulla terra della propria tribù conosce ogni pietra, ogni albero e ogni sentiero. Sono posti che per loro non hanno segreti: li hanno conosciuti fin da bambini, percorrendoli al
buio di notte, riconoscendo al tasto i massi e gli alberi lungo la strada, sentendo con i piedi nudi un sentiero invisibile.
E, infatti, sul territorio amarico Negusi si muove come a casa propria. È un poveraccio, ma in un angolo del suo cuore si sente orgoglioso di questo vasto paese di cui solo lui saprebbe tracciare i confini.
Ho sete. Negusi si ferma accanto a un piccolo ruscello, invitandomi ad attingere alla sua acqua fresca e cristallina.
“No problem/” esclama, vedendomi dubbioso sulla purezza dell’acqua, e ci affonda dentro la grossa testa.
Quando, poco dopo, esprimo il desiderio di sedermi sulle rocce vicine, Negusi me
lo impedisce:
“Problemi” avvisa, e fa un segno a zigzag con la mano per spiegare che potrei trovarci un serpente.
Queste mie spedizioni nel cuore dell’Etiopia in realtà sono un po’ un lusso. La giornata-tipo trascorre nel raccogliere informazioni, scrivere dispacci e portarli alla posta dove il telegrafista di turno li invia all’ufficio della PAP
a Londra (operazione meno costosa dello spedirli direttamente a Varsavia). La ricerca di informazioni, oltre che portare via molto tempo, è difficile e di esito incerto - una caccia che raramente frutta un bottino. Qui esce un solo giornale, che ha quattro pagine e si chiama “Ethiopian Herald” (qualche volta, in provincia, ho visto /‘autobus proveniente da Addis Abeba portare, insieme ai passeggeri, una sola copia del giornale, la ^exvte. ta.à\tt\a.ts>v va. tiiam e. il %vaàa.o.o ., q A. vaaa-stro locale, leggere ad alta voce gli articoli in amarico o riassumerli in inglese. Tutti ascoltavano con attenzione, in un clima da giorno di festa: era arrivato il giornale della capitale!).
L’Etiopia è governata da un imperatore: non esistono né partiti politici, né sindacati, né opposizione parlamentare. Ci sarebbero i partigiani eritrei, che però stanno al Nord, in montagne lontane e inaccessibili. C’è anche il movimento d’opposizione somalo, situato nell’altrettanto inaccessibile deserto dell’Ogaden. Volendo si potrebbe raggiungere sia gli uni che gli altri, ma occorrerebbero mesi: nella mia qualità di unico corrispondente polacco per tutta
l’Africa non posso sparire per tanto tempo nel nulla.
E allora, dove attingere informazioni? I miei colleghi delle agenzie ricche -
Reuter, AP o AFP - assoldano dei traduttori, ma io non ho abbastanza denaro.
Inoltre ognuno di loro ha in ufficio una potente Zenith Transoceanic ameri-cana che riceve le stazioni di tutto il mondo. Costa una fortuna e non me la posso permettere. Non mi resta che andare in giro, chiedere, ficcanasare, ascoltare e racimolare notizie, opinioni e storie. Ma non mi lamento: con questo sistema conosco molta gente e vengo a sapere cose che i giornali e la radio non dicono.
Quando il continente sembra momentaneamente placarsi, organizzo qualche piccolo
viaggio con Negusi. Senza allontanarmi più di cento, duecento chilometri, per timore di restare impantanati giorni o settimane. Quanto basta per arrivare ai piedi delle grandi montagne. Si avvicinano le festività natalizie e tutta l’Africa, compresa quella musulmana, si dà una calmata: a maggior ragione si calma l’Etiopia, con i suoi sedici secoli di cristianesimo. “Vai ad Arba Min-ch!” mi dice chi se ne intende, e lo dice con una tale convinzione che questo nome comincia a sembrarmi una parola magica.
Mi ero portato dietro una raccolta di articoli sull’Africa, ma, di tanto in tanto, davo un’occhiata anche al mio inseparabile Erodoto. Oltre che diver-tirmi e rilassarmi, mi permetteva di passare da un mondo di tensione e di frenetica caccia alla notizia alla calma e al silenzio delle cose che furono, di genti scomparse e che spesso non erano che un parto della fantasia, una finzione, un’ombra fuggevole. Stavolta però la mia speranza di respirare una boccata d’aria fresca doveva restare delusa. Nel mondo del nostro greco, infatti, accadevano fatti gravi e minacciosi e nell’aria si avvertiva l’imminenza di un sinistro uragano storico.
Avevo seguito Erodoto fino ai limiti estremi del suo mondo: nelle terre degli egiziani, dei massageti, degli sciti e degli etiopi. Adesso, abbandonati i vagabondaggi e i remoti confini della terra, dovevo spostarmi sul Mediterraneo orientale, là dove la Persia incontra la Grecia o, in una prospettiva più ampia, dove l’Asia incontra l’Europa: in quello, cioè, che era il centro del mondo.
Nella prima parte della sua opera Erodoto costruisce una specie di immenso anfiteatro a cielo aperto nel quale colloca decine e addirittura centinaia di nazioni e tribù dell’Asia,
In effetti è un posto decisamente fuori dal comune. In mezzo a una piana deserta, sul piccolo istmo tra i laghi Abaya e Chamo, sorge una baracca dipinta di bianco: il Bekele Mole Hotel. Le stanze danno tutte su una lunga veranda aperta, la cui soglia tocca la riva del lago: da lì ci si può tuffare direttamente nell’acqua smeraldina che, a seconda di come sono inclinati i raggi
del sole, trascolora nell’azzurro, nel verde, nel viola e, di sera, nel blu e nel nero.
Ogni mattina una contadina vestita di un candido sham-ma porta sulla veranda una poltrona e un tavolo intagliato nel legno massiccio. Il silenzio, l’acqua, qualche acacia e, lontano sullo sfondo, i grandi monti Amaro color verde scuro.
In questo posto l’uomo si sente veramente il re dell’universo.
dell’Europa e dell’Africa, ossia l’intero genere umano a lui noto. A questo punto dice: “Attenti, signori! Sta per andare in scena fi dramma più grande del mondo! “. E i lettori lo seguono con il fiato sospeso, perché l’azione si presenta subito estremamente drammatica.
Il vecchio Dario, re dei persiani, sta preparando una grande guerra contro i greci per vendicarsi delle disfatte subite a Sardi e a Maratona (una delle leggi di Erodoto dice: bada a non umiliare un uomo, se non vuoi che viva solo per vendicarsi di te). Tutto l’impero e tutta l’Asia sono coinvolti nei preparativi.
Ma all’improvviso, nel 485, Dario muore dopo trentasei anni di regno (notare che
il 485 è considerato l’anno di nascita di Erodoto). Dopo lunghi intrighi e dissidi, sale al trono il giovane Serse, figlio prediletto di Atossa, ex moglie e ora vedova di Dario. È lei che, a detta del greco, detiene tutto il potere.
Serse eredita l’opera del padre - i preparativi della guerra contro i greci; prima, però, vuole muovere contro gli egiziani che si sono ribellati all’occupazione persiana e si accingono a proclamare l’indipendenza. Secondo il
persiano la cosa più urgente è soffocare la rivolta in Egitto, mentre la spedizione contro i greci può attendere. Di parere contrario è invece il cugino di Serse, nipote del defunto re Dario, ossia l’influente Mardonio, il quale dice: lascia perdere gli egiziani e muoviamo subito contro i greci. (Erodoto sospetta che dopo la sconfitta dei greci, Mardonio, bramoso di potere, voglia diventarne il satrapo): “Signore, non è giusto che gli Ateniesi, i quali hanno certo fatto molti mali ai Persiani, non ne paghino il fio” ,106
Erodoto narra che, con il tempo, Mardonio riesce a portare Serse dalla sua parte. Ciononostante il re dei persiani va prima in Egitto, soffoca la rivolta, sottomette nuovamente il paese e solo allora pensa a intraprendere la spedizione contro i greci. Rendendosi conto della gravità dell’impresa “Serse convocò un’assemblea dei più illustri Persiani per informarsi dei loro pareri”. Espone i propri piani di conquista del mondo: “Persiani […] Le imprese che Ciro e Cambise e mio padre Dario compirono, i popoli che
conquistarono, è inutile ricordarli a voi, che ben li conoscete. Ed io, da quando ho ricevuto questo trono, mi sono preoccupato di non rimanere infe-riore a coloro che furono prima di me in questa carica e di non aggiungere meno di loro
all’ impero persiano […] Per questo io ora vi ho convocati, per riferirvi quel che penso di fare. Voglio gettare un ponte sull’Ellesponto e far passare poi l’esercito attraverso l’Europa contro la Grecia per punire gli Ateniesi di quanto han fatto ai Persiani e a mio padre […] e non desisterò prima di aver conquistato e incendiato la città degli Ateniesi […] se assoggetteremo loro e i loro vicini […] renderemo la terra persiana confinante con l’etere di Zeus.
Il sole non vedrà nessuna terra confinante con la nostra […] Io sono certo che le cose stanno così, e che non resterà alcuna città né alcun popolo che sia in grado di combattere con noi […] In tal modo sopporteranno il giogo servile e quelli che furono colpevoli verso di noi e gli innocenti”.107
Dopo di lui prende la parola Mardonio. Per ingraziarsi Serse, comincia con il lusingarlo: “O sire, non solo sei il migliore di tutti i Persiani che furono, ma anche di quelli che saranno” e, dopo questa introduzione di rito, cerca di convincerlo che per lui sconfiggere i greci sarà un gioco da ragazzi. “No problemi” sembra dire con calore Mardonio. Afferma poi che “z Greci son soliti ingaggiare guerra con la massima sconsideratezza, spinti da stoltezza e follia […] E dunque a te, o re, vorrà qualcuno opporre resistenza in armi, a te che guidi tutta la moltitudine dell’Asia e tutte le navi? A quanto io credo, i Greci non arriveranno a tale ardire”.
I persiani presenti tacciono: “gli altri Persiani stavano in silenzio e non osavano esprimere un parere contrario a quello proposto”.108
Per forza. Proviamo a immaginare la scena. Siamo a Su-sa, capitale dell’impero.
Nell’ombroso e ventilato salone del palazzo reale Serse siede sul trono. Intorno a lui, sugli
scranni in pietra, siede “7’assemblea dei più illustri Persiani” . È in ballo la battaglia decisiva per il dominio del mondo: se quella guerra verrà vinta, il mondo apparterrà al re di Persia.
Come se non bastasse, il teatro della battaglia si trova a grande distanza da Susa: i messi più veloci ci mettono tre mesi per raggiungere Atene. È
impensabile progettare un’operazione in luoghi tanto distanti. Ma non è questa la ragione per cui i persiani convocati non osano pronunciare un parere contrario. Per quanto importanti e influenti, per quanto siano l’elite dell’elite, sanno di trovarsi in uno stato autoritario e dispotico e che basta un cenno di Serse perché le loro teste rotolino a terra. Quindi stanno zitti e tremanti, tergendosi il sudore dalla fronte. Tacciono per paura. L’atmosfera non
deve essere molto diversa da quella delle sedute dell’Ufficio politico presiedute da Stalin: anche qui la posta in gioco non è solo la carriera, ma la vita.
Qualcuno, tuttavia, è in grado di parlare senza timore. È il vecchio Artabano, fratello del defunto re Dario e zio di Serse. Anche lui, comunque, comincia col mettere le mani avanti: “O re, quando non vengono esposti pareri contrari l’uno
all’altro, non è possibile scegliendo prendere il migliore”. Poi ricorda di aver sconsigliato al proprio fratello nonché padre di Serse, Dario, la spedizione contro gli sciti, prevedendo che sarebbe finita male, come in effetti era avvenuto. Tanto più sconsigliabile appare una guerra contro i greci. “Ora tu, o re, vuoi andare contro uomini molto più valorosi degli Sciti, uomini che si di-ce siano valorosissimi e per mare e per terra. “
Consiglia dunque riflessione e giudizio. Accusa Mardonio di voler trascinare il
re nella guerra e gli fa una proposta: “dopo che entrambi avremo posto come pegno i nostri figli, guida tu questa spedizione […] E se le cose vanno per il re come dici tu, vengano uccisi i miei figli e oltre loro anch’io; se invece andranno come io predico, i tuoi subiscano la stessa
pena, e con loro anche tu, se sarai ritornato. Ma se non vorrai sottostare a queste condizioni, tuttavia guiderai certamente un esercito contro l’Eliade, e io affermo che qualcuno di quelli rimasti qui in patria sentirà dire che un certo Mardonio, dopo aver causato una grave sciagura ai Persiani, è stato straziato da cani e uccelli […] in qualche luogo della terra degli Ate-
•” 109
mesi .
La tensione cresce, i presenti si rendono conto che è in gioco il tutto per tutto. Serse, adirato, accusa Artabano di essere “un vile e un ignavo” e, per punizione, gli proibisce di partecipare alla guerra. Spiega che “a nessuno dei due è possibile retrocedere, ma agire o subire, la questione è questa, perché o tutte queste terre cadano in potere dei Greci o tutte quelle in potere dei Persiani: non c’è alcuna via di mezzo nella contesa” .nQ
E scioglie la seduta.
“Questo egli disse, e quando sopraggiunse la notte, Serse era tormentato dal consiglio di Artabano. Riflettendo nella notte trovò che non era assolutamente il caso di marciare contro la Grecia. Mutate le sue decisioni, si addormentò profondamente e, a quanto narrano i Persiani, ebbe questa visione. Parve a Serse
che, standogli accanto, un uomo grande e di bell’aspetto gli dicesse: ‘Tu vuoi dunque mutare parere o Persiano, e non condurre una spedizione contro la Grecia
[…] ma attieniti a quello che durante il giorno decidesti di fare, va’ per quella strada ‘. Parve a Serse che l’uomo dopo aver detto questo volasse via…“111
Allo spuntare del giorno Serse convoca nuovamente il consiglio dichiarando che
ha cambiato idea e che la guerra non si farà. “I Persiani come udirono queste parole tutti lieti si prosternarono. Ma, sopravvenuta la notte, di nuovo la stessa visione parlò a Serse immerso nel sonno: ‘[…] se non farai subito la spedizione, queste saranno le conseguenze: come in breve tempo sei diventato grande e potente, così di nuovo in breve sarai meschino’ “112
Atterrito dalla visione, Serse balza dal letto e manda a chiamare Artabano, al quale confida le visioni che lo ossessionano da quando ha deciso di rinunciare alla guerra contro i greci: “che mentre avevo mutato consiglio e mi ero ricreduto, una visione mi appare di frequente nel sonno e non approva affatto che io agisca così; ed ora se n’è andata dopo avermi minacciato aspramente. Se dunque è un dio colui che la manda e desidera assolutamente che avvenga la spedizione contro la Grecia, verrà anche a te, questa stessa visione, a ingiungerti lo stesso che a «e”.113
Artabano cerca di calmare Serse: “Ma neppure questi fatti, figliolo, sono sicuramente di origine divina […] Sogliono venire soprattutto come visioni in sogno quelle cose cui uno pensa durante il giorno, e noi in questi giorni passati ci siamo sopra ogni cosa interessati a questa spedizione” .n4
Serse tuttavia non riesce a calmarsi: la visione lo perseguita imponendogli di fare la guerra. Visto che Artabano non gli crede, Serse gli propone di indossare le vesti regali e di sedersi sul trono; poi, di notte, di coricarsi nel letto del re. Artabano obbedisce… “come si fu addormentato, gli comparve la stessa visione che appariva anche a Serse, e stando sopra ad Artabano gli disse queste parole: ‘Tu dunque sei colui che tenta di distogliere Serse dal compiere la spedizione contro la Grecia […] Ma certo neper il futuro né ora per il presente tenterai impunemente di stornare ciò che deve avvenire’ […] Ad Artabano parve che la visione facesse questa minaccia, e che con un ferro rovente si apprestasse a bruciargli gli occhi. Ed egli, gettato un gran grido, balzò su e postosi accanto a Serse, dopo avergli esposto particolareggiatamente la visione avuta nel sogno, gli parlò così: […] ‘poiché c’è un impulso divino e, a quanto pare, una sciagura voluta dagli dèi deve colpire i Greci, anch’io mi converto e muto il mio parere’
“Mentre Serse s’apprestava a guidare la spedizione, ebbe nel sonno una terza visione, e iMagi, come l’ebbero udita, giudicarono che si riferisse a tutta la terra e significasse che sarebbero diventati suoi schiavi tutti gli uomini, ha visione era questa: parve a Serse di essere incoronato con un ramo d’ulivo, i
cui ramoscelli ombreggiavano tutta la terra e poi la corona posta sulla sua testa scompariva.“115
“Negusi,” dissi una mattina, cominciando a fare i bagagli, “si torna ad Addis Abeba.”
“No problemi” rispose lui disponibile come sempre, e sorrise sfoderando la dentatura abbagliante.
SERSE
Di tutte le cose bisogna vedere come vanno a finire
Erodoto
Dopo il rientro ad Addis Abeba continuai per molto tempo a ripensare a questa scena, come pure al sogno riferito da Erodoto. Conteneva un messaggio di fatalità e di pessimismo: l’uomo non ha una vera possibilità di scelta. Porta in sé il proprio destino come un codice genetico, deve andare dove vuole il fato ed
eseguire ciò cui esso lo ha predestinato. Il vero Essere Supremo, l’onnipresente e onnicomprensiva forza cosmica responsabile è il fato. Al di sopra del fato non
c’è nessuno: né il Re dei Re, né gli dèi. Infatti la visione che appare a Serse non prende la forma di un dio: con un dio si può venire a patti, disobbedire, tentare di imbrogliarlo. Con il fato è impossibile: si manifesta in forma impersonale, senza nome né tratti precisi. Prima avvisa, poi ordina e infine minaccia.
Quand’è che il fato interviene?
L’uomo, che nasce con un destino già scritto, deve limitarsi a seguirne la sceneggiatura e ottemperarvi punto per punto. Ogni volta che la interpreta in modo sbagliato o cerca di cambiarla, ecco presentarglisi la visione fatidica.
Dapprima lo ammonisce; poi, vedendo che l’avviso non sortisce il suo effetto, attira sciagure e castighi sulla testa del superbo.
Per sopravvivere non c’è altro da fare che sottomettersi al fato. In un primo momento Serse accetta il proprio ruolo,
che è quello di vendicare il padre e i persiani disonorati dai greci. Infatti dichiara guerra, giurando di non desistere finché non avrà conquistato e dato alle fiamme Atene. Poi ci ripensa, cambia idea, depone i piani di guerra, rinvia l’invasione e fa marcia indietro. A quel punto gli appare in sogno una visione che sembra dirgli: “Perché esiti, pazzo che non sei altro? Tu sei destinato ad attaccare i greci! “.
All’inizio Serse cerca di ignorare l’incidente notturno, di considerarlo un’illusione alla quale non dare peso. Ma ottiene solo di irritare ulteriormente l’apparizione, che torna a presentarsi sempre più adirata e minacciosa accanto al trono e al letto regale. Serse, temendo che la responsabilità lo faccia impazzire (deve prendere una decisione che non solo determinerà le sorti del mondo ma, come si vedrà, le determinerà per migliaia di anni), convoca lo zio Artabano pregandolo di aiutarlo. Questi dapprima gli consiglia di non preoccuparsi: i sogni, semplice riflesso di quello che pensiamo durante il giorno, non vanno presi sul serio.
Ma il re non si convince. L’apparizione non solo non sparisce, ma diventa sempre
più perentoria e implacabile. Alla fine anche Artabano, pur essendo saggio e posato, un razionalista e uno scettico, non solo si arrende al fantasma, ma, da incredulo che era, si trasforma in zelante esecutore dei suoi ordini: “Se la visione ci impone di attaccare i greci, che cosa aspettiamo?”. L’uomo è in balia delle cose e degli spiriti, ma a quanto pare il potere degli spiriti è più forte di quello delle cose.
Di fronte a questi incubi notturni di Serse, l’uomo della strada, greco o persiano che fosse, doveva dirsi tra sé e sé: “Se perfino il Re dei Re, padrone del mondo, non è altro che una pedina nelle mani del fato, figuriamoci io, che non sono nulla! “. E questo lo consolava, gli infondeva sollievo e perfino un pizzico di ottimismo.
Serse è una strana persona. Per quanto per un certo periodo sia stato il padrone del mondo (con l’eccezione di Ate-Serse consacra i successivi quattro anni a formare l’esercito: un’armata mondiale, nelle cui file entreranno tutti i popoli, le tribù e i clan dell’impero. La loro semplice enumerazione richiede a Erodoto pagine e pagine.
Secondo i suoi calcoli, tra fanteria, cavalleria ed equipaggi navali, si arriva ai cinque milioni di uomini. Esagera: ma si tratta comunque di un esercito sterminato. Come nutrirlo? Come dissetare quella marea umana capace, al suo passaggio, di prosciugare un fiume? Meno male, ha osservato qualcuno, che Serse
mangiava una sola volta al giorno. Se il re, e con lui l’intero esercito, avessero fatto due pasti al giorno, la Tracia, la Macedone e Sparta, cosa che non gli dà pace), di lui si sa poco. Sale al trono all’età di trentadue anni, assetato di potere assoluto su tutto e su tutti (mi torna in mente il titolo di un reportage di cui purtroppo non ricordo l’autore, intitolato Mamma, un giorno avremo tutto?). Avere tutto è la sua ragione di vita. Nessuno gli si oppone, l’opposizione si paga con la testa. Ma in un simile clima di supina acquiescenza, anche una sola voce contraria è sufficiente a farlo dubitare di se stesso. Il parere di Artabano lo ha talmente disorientato, che ha deciso di ascoltarlo e di desistere dalla guerra. Conflitti e incertezze tipici del mondo degli uomini. Ma a questo punto nel mondo degli uomini irrompe la forza determinante superiore e tutti dovranno seguirne la voce. Il fato deve compiersi: impossibile modificarlo o sfuggirgli, anche quando ci porta alla rovina.
E Serse, obbedendo alla voce del fato, scatena la guerra. Conosce il proprio punto di forza, che poi è l’eterna forza dell’Oriente e dell’Asia: il numero.
Una sterminata massa umana capace, per impeto e peso, di schiacciare il nemico.
(Tornano in mente certe scene della Prima guerra mondiale: in Masuria i generali russi lanciavano all’attacco delle postazioni tedesche reggimenti di soldati di cui solo una parte era armata, e per giunta con fucili senza munizioni.)
Procedendo con l’esercito verso Sardi, incontra per strada un platano di tale bellezza che, dopo averlo adornato d’oro, lo affida alla custodia di un immortale.117
Non ha finito di estasiarsi sulla meraviglia del platano, quando gli riferiscono che una terribile tempesta ha distrut-nia e la Grecia sarebbero state ridotte a un deserto e le loro popolazioni sarebbero morte di fame.
Erodoto è affascinato dall’avanzata di questo esercito: una sterminata fiumana di uomini, animali, vesti e armature in cui ogni popolazione indossa i propri costumi, creando uno spettacolo straordinariamente pittoresco e variopinto. Al centro del corteo avanzano due carri: “il carro sacro di Ahura-Mazda, tirato da otto cavalli bianchi, e dietro a questi seguiva a piedi uno scudiero che teneva le redini, perché su quel cocchio nessun uomo può salire. Dietro di esso, Serse in persona su un carro tirato da cavalli nisei […] Dietro di lui i più valenti e nobili arcieri […] e poi altri mille cavalieri persiani scelti, e dopo la cavalleria 10.000 uomini scelti tra i restanti Feniani […] e questi Persiani venivano chiamati Immortali […] Si distinguevano inoltre perché portavano ornamenti d’oro in grandissima quantità. Conducevano insieme a loro carri da viaggio, ed in essi le concubine e servitù numerosa e ben equipaggiata”.116
Segue alla rinfusa il resto della truppa mul-tietnica.
Ma lo splendore pittorico di questa armata diretta alla guerra non deve trarre in inganno. Non si tratta di una festa. Al contrario, l’autore precisa che “/‘esercito, avanzante in silenzio e con grande fatica, veniva continuamente incalzato a colpi di sferza”’.
Erodoto osserva attentamente il comportamento del re persiano. Serse ha un carattere imprevedibile e squilibrato, un insieme di contraddizioni che ricordano il personaggio di Stavrogin.
to i ponti gettati sull’Ellesponto per far passare l’esercito dall’Asia all’Europa. “Appena Serse lo seppe, tremendamente indignato ordinò che l’Ellesponto venisse percosso con trecento colpi di sferza e che fosse gettato nel mare un paio di ceppi. Ho pure udito che mandò insieme a costoro anche dei
marchiatori, per imprimere un marchio all’Ellesponto. Il re impose che nel percuoterlo con le verghe pronunciassero parole barbare e sacrileghe: ‘O acqua amara, il sovrano ti impone questa pena perché lo offendesti senza aver soffer-to da parte sua alcuna ingiuria. Eppure il re Serse ti varcherà, che tu lo voglia o no: e giustamente a te nessuno degli uomini offre sacrifici, perché sei un fiume torbido e salmastro’. Il re dunque fece punire in tal modo il mare e a quelli che sovrintendevano alla costruzione del ponte sull’Ellesponto fece tagliare la testa.“118
Si ignora quante teste cadano e se i costruttori condannati a morte offrano spontaneamente il collo o si gettino in ginocchio invocando pietà. Quello che è
certo, è che si tratta di una vera e propria carneficina, visto che quei ponti richiedevano l’opera di migliaia di persone. Comunque questi provvedimenti calmano Serse, che riacquista il suo equilibrio. Gli operai ripristinano i ponti sullo stretto e i magi annunciano che i presagi per il futuro sono favorevoli.
Serse, rasserenato, ha appena deciso di proseguire, quando gli si presenta Pizio, un alleato lido, implorando un favore: “‘Sire, io ho cinque figli e tocca a tutti loro partecipare insieme con te alla spedizione contro la Grecia. Ma tu, o re, abbi pietà di me che son giunto a tale età e dei miei figli: prosciogli dall’obbligo della milizia il maggiore perché si curi di me e delle mie ricchezze. Gli altri quattro conducili pure con te e, dopo aver compiuto quel che hai in mente, possa tu fare ritorno””’.
A queste parole Serse viene nuovamente preso dall’ira: “‘Vile,’” grida al vecchio, “‘tu hai osato ricordarmi di un tuo figlio, tu che sei mio schiavo e che dovresti seguirmi con tutta
la famiglia, compresa la moglie.’ […] Quando ebbe risposto così, subito diede ordine a quelli che ne erano incaricati di trovare il più grande dei figli di Vizio e di tagliarlo per metà, e dopo disporre le due metà l’una a destra della strada, l’altra a sinistra, e che per di là passasse l’esercito” }^
L’ordine viene eseguito.
I soldati persiani che, al sibilo delle fruste, avanzano in file interminabili, vedono ai lati della strada i resti insanguinati del figlio maggiore di Pizio.
Dov’è Pizio in quel momento? Accanto alle spoglie? E se sì, accanto a quale parte di esse? Come si comporta quando passa il carro di Serse? Che cosa esprime la sua faccia? Impossibile saperlo: Pizio è uno schiavo e sta in ginocchio con la faccia a terra.
Serse è continuamente divorato dal tarlo dell’insicurezza, dissimulata sotto una maschera di boria e di alterigia. Per tranquillizzarsi sulla propria potenza, organizza una parata delle sue forze di terra e di mare. Uno spettacolo da togliere il fiato. Le frecce lanciate in una sola volta dagli archi oscurano il sole. Il numero delle navi copre completamente l’acqua del golfo: “Giunto ad Abido, Serse volle contemplare tutto l’esercito. E poiché gli era stato in precedenza appositamente preparato su un colle un trono in marmo bianco […]
quando si fu lì posto a sedere, guardando giù verso la costa contemplava e l’esercito di terra e le navi, e contemplandolo fu preso dal desiderio di assistere a una gara fra le navi. E poiché questa ebbe luogo […] si compiacque per la gara e della flotta. Ma quando Serse vide tutto l’Ellesponto coperto dalle navi, e tutta la costa e la pianura di Abido traboccante d’uomini, allora si disse beato, ma poi scoppiò in pianto”.120
Un re che piange?
Alla vista delle sue lacrime, lo zio Artabano gli dice: ” ‘O re, quanto diverse fra loro sono le cose che hai fatto ora e poco prima: dopo di esserti proclamato beato, ora piangi. ‘ E l’altro replicò: ‘S’è insinuato in me riflettendo un senso di compassione, quanto è breve tutta la vita umana, dal momento che dì co-
storo, che pure sono tanti, nessuno fra cent’anni sopravvivera .
I due parlano a lungo di vita e di morte, dopodiché il re rimanda a Susa il vecchio zio e, aspettata l’alba, organizza l’attraversamento dell’Ellesponto per entrare in Europa: “Come il sole spuntò, Serse versando libagioni nel mare da una coppa d’oro rivolse al sole la preghiera che non gli capitasse alcun evento tale da farlo desistere dall’ assoggettare l’Europa prima di averne raggiunto i confini”}22
Prosciugando i fiumi, divorando tutto ciò che di commestibile trova sul proprio cammino e seguendo le coste settentrionali dell’Egeo, l’armata di Serse attraversa la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia e raggiunge le Termopili.
Di solito, alle Termopili, nelle scuole viene dedicata una lezione a parte: gli allievi disegnano mappe, compilano compiti in classe e preparano appunti da copiare all’esame di maturità.
Le Termopili sono un breve istmo, un passaggio tra il mare e un’alta montagna a nord-ovest dell’attuale capitale greca. Conquistare il passaggio significa aprirsi la strada per Atene. Sia i greci sia i persiani ne sono consapevoli, per cui vi ingaggiano un’accanita battaglia nella quale i greci periranno tutti, ma anche i persiani riporteranno perdite enormi.
All’inizio Serse, convinto che, alla vista del gigantesco esercito persiano, il manipolo di greci a difesa delle Termopili si darà alla fuga, attende. Ma i greci, guidati da Leonida, non si ritirano. Irritato, Serse invia in ricognizione un esploratore a cavallo. “Il cavaliere, spintosi fino all’
accampamento, potè osservare tutto […] Egli vide che alcuni degli uomini facevano ginnastica, altri si pettinavano le chiome; vedendo ciò si stupì e ne contò il numero. Dopo aver appreso esattamente ogni cosa se ne tornò indietro indisturbato, perché nessuno lo inseguì e trovò completa noncuranza. Ritornato al campo, riferì a Serse tutto quello che aveva visto. Serse, ascoltandolo, non riuscì a comprendere come stessero le cose, che cioè sipre-paravano a ricevere e a dare la morte con tutte le loro for-ze.“12i
La battaglia si protrae per giorni, finché il suo esito viene deciso da un traditore che svela ai persiani un sentiero nella montagna. I greci, accerchiati, periscono fino all’ultimo uomo. Dopo la battaglia Serse passa tra i cadaveri, cercando il corpo di Leonida. “Serse passò fra i cadaveri, e a quello di Leonida […] ordinò di tagliare la testa e di crocifiggerlo.“124
Da quel momento Serse non vince più una battaglia: “Serse, appena si rese conto
della disfatta patita, temendo che […] i Greci […] pensassero di navigare verso l’Ellesponto per sciogliere i ponti di zattere e che egli rischiasse di perire bloccato in Europa, meditò la fuga”.125
E in effetti fugge: fugge dal campo di battaglia senza aspettare la fine della guerra. Rientra a Susa. A quell’epoca ha poco più di trent’anni. Regnerà sui persiani per altri quindici. Anni sui quali sappiamo ben poco. Forse si dedica alla costruzione del palazzo reale di Persepoli, forse si sente svuotato e depresso. Fatto sta che scompare: finiti i sogni di gloria, finita l’utopia di regnare su tutti e su tutto. Si dice che ormai si interessi solo alle donne, alle quali dedica l’immenso e splendido harem di cui ho visitato le rovine.
A cinquantasei anni, nel 465, Serse viene ucciso dal capo della guardia Artabano. Artabano mette sul trono il fratello minore di Serse, Artaserse, il quale ucciderà Artabano durante la guerra di palazzo scoppiata tra i due. Il figlio di Artaserse, Serse II, verrà ucciso nel 425 dal fratello Sogdiano, assassinato a sua volta da Dario IL E via di seguito.
All’inizio sembra che le cose vadano proprio così. L’esercito persiano si addentra per centinaia di chilometri in Europa senza incontrare ostacoli. Non solo, ma molti staterelli greci, ritenendo inevitabile la vittoria di un esercito tanto grande, si arrendono senza colpo ferire e passano dalla parte persiana. Strada facendo, quindi, l’esercito di Serse si ingrossa, diventando sempre più potente. Sbaragliato lo sbar-IL GIURAMENTO DI ATENE
Prima che Serse, sconfitto, si ritiri dall’Europa e faccia ritorno a Susa scortato da reparti decimati dalla stanchezza, dalle malattie e dalla fame (“Nei luoghi e presso ipopoli cui via via pervenivano nella loro marcia saccheggiava-no il raccolto e se ne cibavano: se non lo trovavano, allora mangiavano l’erba che nasceva dalla terra, e tagliando le cortecce e strappando le foglie dagli alberi le divoravano, sia di quelli selvatici sia di quelli coltivati, senza lasciare nulla; facevano questo per la fame. La pestilenza che colse l’esercito poi, e la dissenteria li decimarono lungo la strada. Serse lasciava indietro i malati”126), prima dunque che tutto ciò si verifichi, molte cose devono ancora accadere e molto sangue deve ancora scorrere.
La guerra in cui la Persia dovrebbe sconfiggere la Grecia (ossia l’Asia invadere l’Europa), il dispotismo annientare la democrazia e la schiavitù prevalere sulla libertà, non è ancora finita.
ramento alle Termopili, Serse raggiunge Atene, la occupa e la dà alle fiamme.
Ma
anche se Atene giace in rovina, la Grecia non è morta e il genio di Temistocle la salverà.
Temistocle è stato da poco eletto capo di Atene. Il momento è difficile, l’atmosfera tesa: ormai è noto che Serse prepara l’invasione. In quello stesso periodo l’erario ateniese ricava lauti guadagni dalle miniere d’argento del Laurion. Populisti e demagoghi afferrano al volo l’occasione per lanciare lo slogan: “Dividere tutto in parti uguali! “. Finalmente tutti possederanno qualcosa, tutti si sentiranno forti e soddisfatti.
Ma Temistocle si comporta da saggio e coraggioso: “Ateniesi,” grida, “tornate in
voi! Rischiamo di essere distrutti. Per noi non c’è che una speranza di salvezza: invece di dividere il denaro, usiamolo per costruire una flotta capace di fermare la valanga persiana! “.
Nel dipingere il quadro di questa grande guerra dell’antichità, Erodoto procede sempre secondo la legge dei contrasti. Da una parte, ossia da Oriente, avanza un
immenso rullo compressore: una forza cieca tenuta rigidamente a freno dal potere dispotico di un re-padrone, di un re-dio. Dall’altra c’è il mondo greco disunito, discorde, diviso da conflitti e da rancori interni; un mondo di etnie e di città indipendenti senza uno stato che le tenga insieme. In questo elemento disomogeneo spiccano i due centri di Atene e Sparta i cui reciproci rapporti e assetti costituiranno il perno di tutta l’antichità greca.
In questa guerra, l’un contro l’altro armati, stanno due uomini. Il giovane Serse, permeato da un forte senso del potere assoluto, e il più anziano Temistocle, convinto delle proprie ragioni e capace di pensare e di agire con coraggio. Le loro situazioni sono completamente diverse: Serse governa ema-nando ordini assoluti; Temistocle, prima di emanare un
ordine, deve ottenere il consenso di capi a lui sottoposti di nome ma non di fatto, nonché il consenso di tutto il popolo. Anche i loro ruoli sono diversi: l’uno sta a capo di un’armata che avanza come una valanga ansiosa di arrivare alla vittoria finale; l’altro, semplice primus inter pares, deve perdere tempo a perorare, argomentare e discutere con i greci sempre in protesta e sempre all’opposizione.
I persiani hanno una sola idea, ma chiara: accontentare il re. Sembrano i soldati russi del Ridotto di Ordon di Mic-kiewicz:
Si stupisce lo zar e Pietroburgo trema.
Lo zar s adira: freme la corte d’ansia estrema.
Ma ecco un immenso esercito che come a Dio s’affida
Allo zar eh’è furente: moriam purch’ei sorrida.
I greci invece sono sempre divisi: da un lato si sentono legati alle loro piccole patrie, alle loro città-stato, ognuna con i suoi interessi e le sue ambizioni particolari; dall’altro si sentono accomunati al resto della Grecia dalla lingua, dagli dèi nonché da un sentimento patriottico nebuloso, ma che all’occorrenza è capace di insorgere con forza.
La guerra si svolge su due fronti: di terra e di mare. Su quello di terra, dopo la conquista delle Termopili i persiani continuano ad avanzare senza incontrare resistenza. La flotta invece attraversa vicende drammatiche. Tanto per cominciare, viene gravemente danneggiata da burrasche e uragani. Venti im-petuosi sbattono contro gli scogli le navi persiane che si schiantano come gusci di noce, mentre gli equipaggi affogano.
All’inizio le tempeste sono addirittura un pericolo superiore a quello della flotta greca. Le navi dei persiani sono molto più numerose e i greci, che lo sanno, sono continuamente presi dal panico, si perdono d’animo e meditano la
fuga. In fondo i greci non sono dei guerrieri nati, combatte-vi
re non è la loro specialità. Se esiste una possibilità di evitare lo scontro, l’afferrano al volo. Pur di non battersi, preferiscono spostarsi in capo al mondo. A meno che l’avversario sia un altro greco, perché allora se le danno di santa ragione.
Adesso, incalzata dai persiani, la flotta greca continua a ritirarsi.
Temistocle, che ne è il comandante, fa il possibile per trattenerla.
“Resistete!” intima agli equipaggi. “Cercate di mantenere le posizioni!”
Qualcuno obbedisce, ma non tutti. La ritirata continua e alla fine le navi greche si rifugiano nel golfo di Salamina, a poca distanza da Atene. Qui i capitani greci si sentono al sicuro: l’ingresso del golfo è talmente stretto che il persiano dovrà pensarci due volte prima di introdurvi la sua immensa flotta.
A questo punto Serse e Temistocle riflettono. “Entrare o non entrare?” si chiede Serse. “Se riesco ad attirare Serse nel golfo, la mancanza di spazio gli impedirà di sfruttare la superiorità numerica e potrei anche sconfiggerlo” si dice Temistocle. Serse: “Vincerò: mi siederò sul trono in riva al mare affinché i persiani, sapendosi osservati dal re, si battano come leoni”. Temistocle, che ignora i ragionamenti di Serse, per essere certo di attirare i persiani nel golfo ricorre a un sotterfugio: manda con un’imbarcazione al campo dei persiani “un uomo che aveva nome Sicinno ed era servo e pedagogo dei figli di Temistocle, suggerendogli quel che conveniva dire […] Questi allora, giunto con l’imbarcazione, disse ai capi dei Barbari queste parole: ‘Mi ha mandato di nascosto da altri Greci il comandante degli Ateniesi - egli infatti parteggia per il re e vuole che la vostra parte abbia il sopravvento piuttosto che quella dei Greci - a dirvi che i Greci atterriti meditano la fuga ed ora vi si offre l’occasione di compiere la più bella di tutte le imprese, se non li lasciate scappare. Essi infatti non sono concordi fra loro e non vi opporranno più resistenza, ma li vedrete combattere tra di loro, gli uni parteggiando per voi, gli altri no’. Dopo aver dato loro questo annunzio si allontanò” }21
Temistocle si è rivelato un bravo psicologo. Sa che, come tutti i potenti, Serse è un vanitoso e che la vanità acceca e toglie la capacità di riflettere. Cosa che puntualmente si verifi-
ca. Cieco al fatto che l’esiguità del golfo è una trappola per una flotta tanto grande, e fidandosi delle dicerie sulle pretese discordie greche, Serse ordina di entrare nel golfo di Salamina, impedendo ai greci di uscirne. La notte, con il favore delle tenebre, i persiani eseguono la manovra.
La stessa notte, mentre di soppiatto i persiani si avvicinano al golfo, tra i greci all’oscuro di tutto scoppia l’ennesima lite: “Fra ì comandanti a Salamina ci fu una vivace discussione. Non sapevano ancora che i Barbari li accerchia-vano con le navi, ma credevano che stessero ancora nel posto dove di giorno li avevano visti schierati” .128
Informati dell’arrivo dei persiani, dapprima non vi credono; poi, convinti e incitati da Temistocle, si preparano alla battaglia.
Lo scontro inizia all’alba in modo che Serse, seduto in trono alle falde del monte Egialeo, possa seguirlo. “Ogni volta che Serse vedeva qualcuno dei suoi far mostra di qualche atto di valore nella battaglia […] si informava dell’autore e i segretari registravano col nome del padre il comandante della nave e la città.“129 Convinto di vincere, vuole poter ricompensare i suoi eroi.
Tutte le descrizioni di battaglie reperibili in letteratura danno invariabilmente la stessa impressione di incredibile confusione. Nel momento dello scontro frontale, perfino quelle progettate nei minimi dettagli si trasformano in un caos incontrollabile di fragore e di sangue, dove nessuno capisce più che cosa succede. Gli uni si precipitano addosso al nemico per ammazzarlo, gli altri cercano di schivare i colpi e tutto si confonde in un inferno di urla, di gemiti, di ansimi, di mischie e di fumo.
Salamina non fa eccezione. Mentre il duello tra due persone poteva offrire uno spettacolo di destrezza e perfino di grazia, lo scontro tra due flotte in legno mosse da migliaia di remi doveva far pensare a un immenso calderone pieno di granchi goffamente striscianti uno addosso all’altro. Le navi si spero-nano, una si rovescia, l’altra affonda con tutto l’equipaggio; qualcuna tenta di arretrare, altre si agitano saldate in una morsa spietata; qualcuna prova a retrocedere per uscire dal golfo mentre, nella confusione, i greci assalgono i greci e i persiani i persiani. Finché, dopo ore e ore di quell’inferno marino, questi ultimi si danno per vinti e chi non è annegato fugge.
La prima reazione di Serse alla disfatta è di paura. “Neppure se tutti […] gli avessero consigliato di restare lì, egli sarebbe rimasto […] tanto era spaventato.” Per prima cosa dà “l’incarico di condurre i suoi figli ad Efeso: alcuni figli bastardi infatti lo avevano seguito”P° A scortarli sarà Ermotimo, originario di Pedasa, che occupa una posizione di prestigio tra gli eunuchi reali.
Le sorti di quest’uomo appassionano Erodoto, che infatti ne parla diffusamen-te: “A lui che era stato vittima di un grave affronto toccò di compiere la vendetta più grande di tutte quelle di cui ho conoscenza. Essendo stato catturato da nemici e venduto, lo comperò Panonio di Chio, il quale si guadagnava la vita con
la più empia delle attività: comprava fanciulli di beli’aspetto e, eviratili, li portava a vendere ad alto prezzo a Sardi e a Efeso. Presso i Barbari infatti gli eunuchi sono apprezzati per la fiducia che ispirano assai più dei servi dotati di virilità. Tra i molti che evirò Panonio, dal momento che da questo guadagnava da vivere, c’era anche costui. Eppure non-in tutto ebbe sfortuna Ermotimo; infatti giunse da Sardi al Gran Re insieme ad altri doni, e col passare del tempo divenne il più rispettato degli eunuchi.
“Quando il re stando a Sardi fece mettere in marcia la spedizione contro Atene, allora Ermotimo, andato per non so quale faccenda nel territorio di Mista che abitano i Chii e si chiama Atarneo, vi trovò Panonio. Riconosciutolo, gli fece molti e amichevoli discorsi, prima di tutto enumerandogli tutti i beni che aveva per merito suo, e poi promettendogli tutti i benefici che in cambio gli avrebbe fatto se fosse andato ad abitare lì, trasportandovi tutta la sua famiglia, tanto che, acco-
gliendo con gioia le sue parole, Panonio vi portò i figli e la moglie. Allora, quando l’ebbe in suo potere, lui con tutta la famiglia, Ermotimo gli disse queste parole: ‘O tu che fra tutti gli uomini ti sei guadagnata la vita con le azioni più empie, qual male ti feci, o io stesso o alcuno dei miei, a te o a qualcuno dei tuoi, perché da uomo tu mi rendessi un nulla? Tu credevi che agli dèi sarebbero sfuggite le imprese che allora compivi: ma essi te, che hai compiuto azioni empie, con legge di giustizia han condotto nelle mie mani, sì che tu non abbia a lagnarti della pena che riceverai da me’. E dopo avergli lanciato queste ingiurie, fatti condurre i figli di Panonio, che erano quattro, lo costrinse ad evirarli; costretto, egli lo fece. Dopo che ebbe compiuto quell’opera, i suoi figli, costretti a loro volta, lo evirarono. Così Panonio fu colpito dalla Vendetta e da Ermotimo” Pl Delitto e castigo, colpa e vendetta: prima o poi l’uno segue l’altro, sia nei rapporti tra gli individui, sia in quelli tra i popoli. Colui che per primo ha intentato una guerra e quindi, secondo Erodoto, si è reso colpevole, prima o poi verrà punito. Questa concatenazione tra causa ed effetto è l’essenza più profonda del fato, il senso di una predestinazione irrevocabile. Panonio l’ha già sperimentato: ora tocca a Serse. Nel caso del Re dei Re la faccenda è più complicata, in quanto egli è il simbolo della nazione e dell’impero. A Susa i persiani, appresa la disfatta di Salamina, invece di stracciarsi le vesti si preoccupano soltanto della sorte del re. E quando Serse rientra in Persia, vi riceve un’accoglienza solenne e sontuosa: la gente, sollevata, fa festa. Che importano le migliaia di morti annegati, che importano le navi sfasciate? L’essenziale è che il re sia vivo e che sia di nuovo tra loro!
Serse abbandona la Grecia, ma vi lascia una parte dell’esercito con a capo il proprio cugino, nonché genero di Dario, Mardonio.
Mardonio se la prende calma. Trascorre tranquillamente l’inverno in Tessaglia.
Poi invia un messo da ogni oracolo, per conoscerne i responsi. Dopo averli letti, Mardonio “mandò
come ambasciatore ad Atene Alessandro, macedone […] impt rentato con i Persiani […] in tal modo riteneva che si sarebb maggiormente conciliati gli Ateniesi, dal momento che sentiv dire che era un popolo numeroso e prode, e sapeva che per più re i disastri che erano capitati loro erano stati opera soprattuth degli Ateniesi. Se si fosse fatti amici questi, sperava che avrebbt conquistato facilmente il dominio del mare […] mentre per terra riteneva di essere molto superiore: in tal modo contava ài sottomettere i Greci” P2
Alessandro arriva ad Atene e cerca di convincere gli abitanti a non combattere contro i persiani: se non vogliono perire, devono venire a patti, poiché “la potenza del re è superiore all’umana e la sua mano è di straordinaria lunghezza”
P3 Ma gli ateniesi rispondono picche: ‘Anche noi sappiamo che la potenza delMedo
è molte volte più grande della nostra, sicché non c’è affatto bisogno di rinfacciarci questo. Ma tuttavia, attaccati come siamo alla libertà, ci difendiamo come possiamo […] Annunzia dunque a Mardonio che gli Ateniesi dicono che fino a quando il sole andrà per la stessa strada per cui va ora mai noi verremo a un accordo con Serse. Ma respingendolo lo scacceremo, fidando nell’aiuto degli dèi e degli eroi dei quali egli senza alcun riguardo incendiò le case e le statue” P4 E ai messi di Sparta, venuti ad Atene per timore che gli ateniesi si accordino con i persiani, dicono quanto segue: “voi […] conoscete i sentimenti degli Ateniesi, che non c’è in alcun punto della terra tanto oro, né paese che tanto si distingua per bellezza e fertilità che noi accetteremmo per consentire ad asservire la Grecia, parteggiando per iMedi […] Sappiate dunque che finché sopravviva anche uno solo degli Ateniesi mai noi ci accorderemo con Serse”.135
Dopo questa risposta Alessandro e gli spartani abbandonano Atene.
IL TEMPO SPARISCE
Ora non stavo più ad Addis Abeba ma a Dar-es-Salaam, una città adagiata su un
golfo così perfettamente circolare da farlo sembrare uno dei dolci golfi greci, trasportato per incanto sulla costa orientale dell’Africa. Il mare era sempre calmo; piccole onde appena increspate morivano quietamente sulla sabbia tiepida con un lieve mormorio di risacca.
In quella città, che non contava più di duecentomila abitanti, si incontrava e si mescolava mezzo mondo. Il nome stesso di Dar-es-Salaam, che in arabo significa “Casa della Pace”, testimoniava i suoi legami con il Medio Oriente (legami peraltro sinistri, dato che da lì gli arabi facevano partire i carichi di schiavi africani). Ma il centro della città era popolato soprattutto da indiani e pakistani in tutte le varianti linguistiche e confessionali della loro cultura: sikh, seguaci dell’Aga Khan, musulmani e cattolici di Goa. Una colonia a parte era formata dagli immigrati dalle isole dell’Oceano Indiano quali Seychelles, Comore, Madagascar e Mauritius: una splendida razza nata dal miscuglio tra le più svariate popolazioni del Sud. Poi avevano cominciato ad arrivare e a insediarsi migliaia di cinesi impiegati nella costruzione della ferrovia tra Zambia e Tanzania.
Quello che più colpiva l’europeo che per la prima volta si imbatteva nella varietà di popoli e culture offerta da Dar-es-Salaam non era tanto la scoperta che oltre l’Europa esistessero altri mondi - cosa di cui, almeno teoricamente, era infor-
mato -, quanto il fatto che quei mondi si incontrassero, si mescolassero e convivessero senza la mediazione e, per così dire, senza il benestare dell’Europa. L’Europa era stata per tanti secoli e così indubitabilmente il centro del mondo, che a un europeo riusciva difficile accettare che altri popoli potessero avere la propria vita, le proprie tradizioni e i propri problemi indipendentemente dall’Europa. E che stavolta l’estraneo era lui, e il suo mondo un’entità remota e astratta.
Erodoto è il primo a rendersi conto che la caratteristica fondamentale del mondo
sta nella sua molteplicità. Tutta la sua opera sembra dire ai greci: “Non siamo soli”, cosa di cui i suoi viaggi ai confini della terra sono la riprova.
“Abbiamo dei vicini, questi a loro volta hanno i loro e tutti insieme popoliamo il pianeta.”
Per un uomo vissuto fino a quel momento all’interno della sua piccola patria di
cui, volendo, poteva misurare il perimetro a piedi, quella nuova dimensione planetaria della realtà era una scoperta: cambiava l’idea del mondo, conferendole nuove proporzioni e stabilendo una scala di valori fino ad allora sconosciuta.
Inoltre Erodoto, viaggiando e raggiungendo popoli d’ogni genere, vede e annota che ognuno di essi ha una sua storia indipendente ma, nello stesso tempo, parallela alle altre: vede cioè che la storia dell’uomo somiglia a un calderone in continua ebollizione, dove innumerevoli particelle, rotanti ognuna nella propria orbita, si incontrano e si incrociano in una serie infinita di punti.
Ma Erodoto scopre anche un’altra cosa, e cioè la varietà del tempo o, per meglio dire, la varietà dei sistemi per calcolarlo. Una volta i contadini misuravano il tempo con le stagioni; la gente delle città, con le generazioni; gli antichi cronisti, con la lunghezza delle dinastie imperanti. Come unificare le grandezze, come trovarvi un denominatore comune? Erodoto è sempre alle prese con
questo problema e sempre cerca di risolverlo. Oggi, abituati come siamo al calcolo mec-
canico, non ci rendiamo conto di quale problema fosse per l’uomo la misura del
tempo e di quante difficoltà, interrogativi e misteri nascondesse.
Talvolta, quando mi capitavano un pomeriggio o una serata liberi, prendevo la mia scassata Land Rover verde e andavo al Sea View Hotel dove ci si poteva sedere sulla veranda, ordinare un tè o una birra, ascoltare il rumore del mare o, al calare della notte, il canto dei grilli. Era uno dei ritrovi più frequentati e vi incontravo spesso colleglli di altre agenzie e redazioni. Di giorno ci davamo da fare di qua e di là nella speranza di ottenere qualche notizia. In quella remota città di provincia non accadeva mai niente e, anziché farci concorrenza, ci aiutavamo a trovarle. Ognuno di noi sfruttava la propria specialità: chi l’orecchio fino, chi l’occhio lungo e chi la fortuna del giornalista. Poi, per strada, al Sea View Hotel o nell’unico caffè con l’aria condizionata - tenuto da un italiano - avveniva lo scambio delle notizie.
Qualcuno aveva sentito dire che stava per arrivare Mondlane dal Mozambico, altri
dicevano che non era vero e che invece arrivava Nkomo dalla Rhodesia. Qualcuno aveva sentito parlare di un attentato contro Mobuto, mentre per gli altri si trattava di pettegolezzi. Ma come verificare? Era quindi in base a dicerie, mezze voci e supposizioni, più qualche fatto concreto, che costruivamo le nostre informazioni e le spedivamo nel mondo.
Certe volte, quando sulla veranda non compariva nessuno, tiravo fuori di tasca il mio Erodoto e lo aprivo a caso. Le Storie sono piene di racconti, di digressioni, di osservazioni e di cose sentite dire. “La popolazione dei Traci è la più numerosa di tutte, almeno dopo gli Indi. Se fosse comandata da uno so-lo o se tutti pensassero allo stesso modo sarebbe, a mio giudizio, invincibile e di gran lunga la più potente di tutte le popolazioni. Invece questo è per loro impossibile e non c’è maniera per cui mai possa avvenire, e per questo sono deboli […] Vendono i figli perché siano condotti in altri paesi; non custo-Ritorno a Erodoto.
La continua lettura della sua opera, nonché una sorta e familiarità, di abitudine e di adesione istintiva, hanno ce minciato a esercitare su di me uno strano effetto che non sa prei definire con precisione. Certe volte, per esempio, di mentico la differenza di epoche e non mi rendo più conte che dagli eventi descritti dal greco sono trascorsi duemila cinquecento anni: un abisso che comprende Roma, il Me dioevo, la nascita e il diffondersi delle grandi religioni, la sco perta dell’America, il Rinascimento, l’Illuminismo, la mac china a vapore, la scintilla elettrica, il telegrafo, l’aeroplano centinaia di guerre (due delle quali mondiali), la scoperta degli antibiotici e l’esplosione demografica. Migliaia di eventi che, leggendo Erodoto, spariscono come se non
fossero mai
discono le ragazze, ma lasciano che si uniscano agli uomini vogliono, custodiscono molto severamente le donne sposi comprano le mogli dai genitori a gran prezzo. L’esser tatuati considera un segno di nobiltà e il non esserlo di ignobile che chi non fa nulla sia il più degno di onore e il meno deg chi lavora la terra, e che la cosa più bella sia il vivere di gue e di rapina. Queste sono le loro consuetudini più notevoli. “
Distolgo lo sguardo e, nel giardino illuminato da li
multicolori, vedo Amil, un cameriere indiano vestito di bia
co, porgere una banana a una scimmietta addomesticata e
si spenzola da un albero di mango. La bestiola è talmen
buffa, che Amil ride a crepapelle. Il cameriere, la serata ti
pida, i grilli, la banana e il tè mi fanno tornare in mente l’I
dia, il fascino e lo smarrimento di quei giorni, il clima trof
cale che anche allora mi pervadeva con la stessa intensit
Anche gli odori sono gli stessi: è Amil, che spande da lont
no un sentore di betel, anice e bergamotto. Ma qui l’India
sente dappertutto: a ogni passo si incontrano templi e ristc
ranti indiani, piantagioni di sisal e di cotone.
esistiti o come se venissero fatti uscire di scena e sospinti dietro le quinte.
Il fatto che Erodoto sia nato, sia vissuto e abbia creato la sua opera al di là dell’abisso temporale che ci divide lo ha fatto per caso sentire più povero? Non si direbbe. Sembra invece aver vissuto una vita piena, conosciuto mezzo mondo, incontrato centinaia di persone e di storie. E un uomo vivace, attivo, infaticabile, sempre a caccia di qualcosa, sempre occupato in qualcosa. Vorrebbe continuare a conoscere e imparare ancora tante cose, sciogliere enigmi, rispondere a domande: ma non ne ha più né il tempo né la forza. Il tempo non
basta, la vita umana è troppo breve. Il fatto di non potersi servire di treni veloci, di aeroplani o di una bicicletta lo ha forse ostacolato? Non si direbbe.
Se avesse potuto disporre di ferrovie e di aerei, avrebbe raccolto un maggior numero di informazioni? Anche questo è tutt’altro che certo.
Ho l’impressione che il suo fosse un problema completamente diverso. A un certo
punto, probabilmente alla fine della sua vita, decide di scrivere un libro: sa di avere raccolto nella sua memoria una quantità enorme di storie e di notizie e
che, se non le fissa per iscritto, finiranno per svanire. È l’eterna lotta dell’uomo contro il tempo, contro la labilità della memoria, contro la sua tendenza a offuscarsi e svanire. È da questa lotta che nasce l’idea del libro, di ogni libro, nonché la sua durata e, per così dire, la sua eternità. L’uomo infatti sa, e invecchiando lo sente con maggiore evidenza, che la memoria è fragile e fuggevole e che, se non fissa le proprie esperienze e conoscenze in modo più stabile, rischia di perderle. È questa la molla per cui tutti vogliono scrivere un libro: cantautori e calciatori, uomini politici e milionari. Se non ne sono capaci o non ne hanno il tempo, incaricano qualcun altro di farlo per loro. Così è sempre stato e sempre sarà, tanto più che scrivere sembra un’occupazione facile. Chi la pensa in questo modo dovrebbe tenere presente la
frase di Thomas Mann, secondo il quale “lo scrittore è un uomo a cui scrivere riesce più difficile che agli altri”.
L’ambizione umana di tramandare agli altri il più possibile di quanto si è appreso e vissuto fa sì che l’opera del greco non si limiti a un semplice elenco di storie di dinastie, re e intrighi di palazzo ma - per quanto si occupi molto di potere e di potenti - ci parli anche della gente semplice, di credenze e coltivazioni, di malattie e catastrofi naturali, di fiumi e monti, di piante e animali. Per esempio, dei gatti: “Quando poi scoppia un incendio, ai gatti succedono cose portentose. Gli Egiziani, postisi l’uno a distanza dall’altro, fanno la guardia ai gatti, senza curarsi di spegnere l’incendio; ma i gatti, sgusciando in mezzo a loro e saltando oltre gli uomini, si gettano nel fuoco.
Quando ciò accade un grave lutto colpisce gli Egiziani. Nelle case dove sia morto di morte naturale un gatto, tutti gli abitanti si radono le sopracciglia; invece là dove sia morto un cane, si radono tutto il corpo e la testa”P1
O magari dei coccodrilli: “Ecco qual è la natura dei coccodrilli: durante i quattro mesi invernali il coccodrillo non mangia nulla. E un quadrupede e può
vivere sia sulla terra ferma sia nelle acque tranquille […] Di tutti gli animali che noi conosciamo è quello che dalle dimensioni più piccole diventa più
grande: depone infatti uova non di molto più grandi di quelle delle oche e il piccino nasce in proporzione all’uovo, ma crescendo giunge fino ai 17 cubiti ed
anche di più. Ha occhi di porco, denti grandi e sporgenti […] Tutti gli altri uccelli e fiere lo fuggono, il trochilo invece vive in pace con lui, poiché gli è utile; infatti quando il coccodrillo esce dall’acqua a terra e poi sta a bocca spalancata […] allora il trochilo penetrandogli nella bocca, ingoia le sanguisughe. Quello allora si compiace di essere aiutato e non fa male al trochilo” P*
La prima volta che avevo letto le Storie non avevo fatto caso ai gatti e ai coccodrilli. Fu solo dopo averle lette e rilette più volte che, a un tratto, vidi i gatti impazziti saltare nel fuoco oppure, sedendo in riva al Nilo, mi accorsi delle fauci spalancate di un coccodrillo con un uccellino che vi passeggiava dentro. Perché il libro del greco, come ogni opera veramente grande, va letto e riletto, scoprendo a ogni lettura nuovi contenuti, immagini e significati. Ogni grande libro ne contiene a sua volta degli altri, ognuno dei quali va approfondito e capito.
Erodoto vive una vita piena, per nulla intralciato dalla mancanza del telefono, dell’aereo o della bicicletta. Tutte cose che arriveranno solo dopo migliaia di anni, e che niente lascia presumere che gli siano mancate: se la cava perfettamente anche senza. La sua vita e quella del mondo contengono una forza
propria, un’energia inesauribile e autosufficiente che lui avverte e che lo entusiasma. Erodoto doveva per forza essere una persona serena, rilassata e cordiale: è solo a questo tipo di persone che gli estranei svelano i propri segreti. Le nature chiuse, ombrose e introverse, anziché indurre il prossimo a confidarsi, suscitano il timore e la voglia di scappare. Se Erodoto avesse avuto un carattere del genere, non avrebbe cavato niente dagli altri e noi non avremmo avuto la sua opera.
Riflettevo spesso su questo fatto, sentendo con stupore e anche con una certa inquietudine che, addentrandomi nella lettura di Erodoto, subivo un processo di
identificazione intellettuale ed emotiva con il mondo e gli eventi evocati dal greco. La distruzione di Atene mi coinvolgeva più dell’ultimo colpo di stato in Sudan e l’affondamento della flotta persiana mi appariva più tragico della rivolta militare in Congo. Il mio mondo non era soltanto l’Africa, della quale dovevo occuparmi come corrispondente dell’agenzia di stampa polacca, ma anche
quello scomparso da centinaia di anni.
Come stupirsi dunque se, seduto in una afosa notte tropicale sulla veranda del Sea View Hotel di Dar-es-Salaam, pensavo ai soldati di Mardonio che, in una notte di gelo (in Europa allora era inverno), cercavano di scaldarsi davanti al fuoco le mani intirizzite?
IL DESERTO E IL MARE
Metto momentaneamente da parte la guerra greco-persiana, gli sterminati eserciti barbari e le liti dei greci su chi sia il più importante tra loro e a chi spetti il comando. Judi, ambasciatore d’Algeria, mi ha telefonato per dirmi che “forse sarebbe bene vedersi”. Quando uno ti dice “forse sarebbe bene”, di solito sottintende di avere in serbo qualcosa di interessante e che non rimpiangerai di avergli dato ascolto.
Judi abitava in una splendida villa bianca, in sontuoso stile moresco antico, ben ventilata e fatta in modo che ci fosse ombra anche nei punti dove, a rigor di logica, avrebbe dovuto picchiare il sole. Mi ricevette in giardino: da dietro l’alto muro di cinta giungeva il rombo dell’oceano. Era l’ora dell’alta marea e dall’orizzonte avanzavano cavalloni che andavano a infrangersi sotto la villa, posta sulla bassa costa rocciosa.
Avevamo parlato un po’ di tutto senza affrontare niente di veramente importante.
Stavo già chiedendomi per quale motivo mi avesse invitato, quando a un tratto disse:
“Secondo me dovresti andare ad Algeri. Potrebbe esserci qualcosa di interessante. Se vuoi, ti faccio avere il visto”.
La sua proposta mi sorprese. Era il 1965 e in Algeria non stava accadendo niente
di speciale. Il paese, indipendente da tre anni, era governato da un giovane uomo intelligente e popolare: Ahmed Ben Bella.
Judi non volle dirmi altro. Era l’ora della preghiera serale
Benché l’aeroporto di Algeri fosse chiuso e deserto, il nostro aereo, appartenente alle linee nazionali, venne comunque fatto atterrare. Fummo subito circondati da soldati in giubbotto grigioverde che ci scortarono fino a un edificio vetrato. Il controllo, eseguito da militari cortesi ma laconici, non fu particolarmente fastidioso. Ci comunicarono che durante la notte c’era stato un
colpo di stato, che “il tiranno” era stato spodestato e il potere assunto dal Comando generale. “Il tiranno?” mi trattenni dal chiedere. “Ma quale tiranno?”
Avevo incontrato Ben Bella due anni prima ad Addis Abeba: mi era parso una persona cortese, addirittura simpatica.
La città è grande, piena di sole, distesa ad anfiteatro nel vasto golfo. E tutto un salire e uno scendere. Ci sono strade eleganti alla moda francese e affollate alla moda araba. Vi regna una mescolanza di architetture, abbigliamenti e usanze
musulmana: vedendo che aveva tirato fuori il rosario e che ne sgranava i chicchi con le dita, ritenni che fosse l’ora di andare. Non sapevo che fare. Se avessi chiesto all’agenzia l’autorizzazione per andare ad Algeri, avrebbero voluto saperne il perché, mentre io non ne avevo la minima idea. D’altro canto, attraversare di testa propria mezza Africa senza un motivo importante era una grave insubordinazione, oltre che un danno economico, visto che la mia agenzia teneva conto di ogni centesimo ed esigeva dettagliate spiegazioni per ogni spesa extra.
Ma nel modo in cui Judi mi aveva fatto la sua proposta e nel tono invitante della sua voce c’era qualcosa di talmente convincente, per non dire insistente, che decisi di rischiare e partire. Da Dar-es-Salaam l’aereo, sempre a bassa quota, sorvolò Bangui, Fort Lamy e Agades: un avvincente percorso sopra il Sahara fatto di visioni gaiamente colorate, ora di smorti paesaggi lunari interrotti qua e là dal verde di un’oasi.
mediterranei. Tutto abbaglia, odora, inebria, affatica. Tutto incuriosisce, attira, affascina e suscita inquietudine. Quando si è stanchi ci si può sedere in uno degli innumerevoli caffè arabi o francesi o mangiare in uno degli innumerevoli bar o ristoranti. Con il mare così vicino, i locali traboccano di pesce d’ogni genere: frutti di mare, crostacei, cozze, polpi, seppie, ostriche.
Ma Algeri è innanzitutto il luogo di incontro e di convivenza di due culture: l’araba e la cristiana. La storia di questa convivenza è anche la storia della città (che comunque ha una lunga preistoria fenicia, greca e romana). Chi vive tra l’ombra di una chiesa e quella di una moschea avverte in continuazione il confine tra queste due zone.
Prendiamo ad esempio il centro. La sua parte araba si chiama Casbah. Per entrarvi bisogna salire decine di larghe scalinate in pietra, ma non è questo il problema. Il problema è la diversità, sempre più tangibile a mano a mano che ci
addentriamo nei vicoli. Ci addentriamo, oppure cerchiamo di svignarcela il più
in fretta possibile per sottrarci al fastidio e al disagio delle decine di sguardi immobili che ci fissano con insistenza da ogni parte? Forse è solo una nostra impressione, forse siamo troppo sensibili: ma come mai tutta questa ipersensibilità ci viene proprio nella Casbah, mentre se qualcuno ci guarda in una strada francese non ce ne importa niente? Come mai in una strada francese la cosa non ci fa né caldo né freddo, mentre nella Casbah ci mette tanto a disagio?
Gli occhi della gente sono dappertutto gli stessi, il vizio di fissare, pure: e tuttavia reagiamo alle due situazioni in modo completamente diverso.
Non voglio dire che, una volta fuori dalla Casbah e rientrati nel quartiere francese, tiriamo addirittura un sospirone di sollievo. Però ci sentiamo più a nostro agio, più liberi e naturali. Come mai, in tante migliaia di anni e in nessuna parte del mondo, non siamo riusciti a eliminare questi stati d’animo nascosti e addirittura inconsapevoli?
Uno straniero qualsiasi, che fosse stato sul mio stesso volo per Algeri, non si sarebbe accorto che la notte prima era successo un fatto importante come un colpo di stato e che Ben Bella, il leader popolare nel mondo intero, era stato deposto e sostituito dallo sconosciuto e - come presto si sarebbe visto -
riservato e laconico capo dell’esercito Houari Boumedienne. L’operazione era stata condotta di notte, lontano dal centro città, in una parte dell’esclusivo quartiere residenziale Hydra riservato al governo e ai generali e inaccessibile alla gente comune.
In città non si erano sentite esplosioni o sparatorie, non si erano visti soldati e carri armati. La mattina dopo la gente si era recata al lavoro come al solito, i negozianti avevano aperto le botteghe, i venditori ambulanti le bancarelle e i baristi avevano preparato il caffè per i clienti. Gli spazzini avevano spruzzato d’acqua le strade per rinfrescare l’aria prima della consueta calura meridiana. I motori degli autobus arrancanti sulle salite avevano emesso il solito ringhio disperato.
Camminavo per la città, depresso e furioso contro Judi. Perché mi aveva indotto a partire? Che cosa ero venuto a fare ad Algeri? Che cosa avrei scritto, come avrei giustificato il mio arrivo? A un tratto, vidi formarsi un capannello in Ave-nue Mohammed V. Corsi a vedere. Ma si trattava solo di oziosi attratti dalla
lite tra due autisti scontratisi all’incrocio. In fondo alla strada intravidi un altro piccolo assembramento. Corsi a vedere. Era una fila di gente che aspettava pazientemente l’apertura dell’ufficio postale. Il mio taccuino era intonso: niente da registrare.
E invece proprio da quel soggiorno ad Algeri avrei imparato che, malgrado gli anni di esperienza giornalistica, stavo sbagliando tutto. Cercavo le immagini spettacolari, convinto che l’immagine potesse sostituire una comprensione più approfondita della realtà, che il mondo si potesse interpretare solo attraverso ciò che ci mostrava nell’ora della convulsione spasmodica, quando era scosso da
spari ed esplosioni, awol-
to dal fumo, dalle fiamme, dalla polvere e dal puzzo di bruciato; quando crollava in rovina e la gente disperata piangeva sulle spoglie dei propri cari.
Ma come si arrivava a drammi del genere? Che cosa ci dicevano quelle scene di distruzione piene di grida e di sangue? Quali forze, sotterranee e invisibili ma nello stesso tempo possenti e irrefrenabili, le avevano causate? Rappresentava-no la fine del processo o non ne erano che l’inizio, il preannuncio di ulteriori sviluppi, generatori di conflitti e tensioni? E chi li avrebbe seguiti, questi ulteriori sviluppi? Non certo noi, corrispondenti e reporter: appena sulla scena degli eventi si seppellivano i morti, si sgombravano le strade dalle carcasse delle macchine incendiate e dalle vetrine rotte, noi giornalisti facevamo fagotto e proseguivamo verso luoghi dove si incendiavano macchine, si spaccavano le vetrine dei negozi e si scavavano fosse per i caduti.
Possibile che non si potesse superare quello stereotipo, uscire da quella catena di immagini e provare ad andare un po’ più a fondo? Non potendo descrivere i carri armati, le auto incendiate e le vetrine infrante che non avevo visto, e volendo tuttavia giustificare il fatto di essere venuto ad Algeri, decisi di ricercare i retroscena e le molle segrete del colpo di stato per scoprire che cosa vi si nascondesse dietro e che cosa volesse dire. Il che significava parlare, osservare la gente e il luogo, leggere. In poche parole, cercare di capirci qualcosa.
Di colpo Algeri mi apparve uno dei luoghi più affascinanti e drammatici del mondo. Nello spazio ristretto di quella splendida ma affollata città si incrociavano due grandi conflitti del mondo contemporaneo: quello tra il cristianesimo e l’islam (espresso dallo scontro tra la Francia colonizzatrice e l’Algeria colonizzata) e quello, inaspritosi subito dopo la partenza dei francesi e la conquista dell’indipendenza, tra la corrente aperta, dialogica e, diciamo così, mediterranea dell’islam, e la sua corrente chiusa, originata dall’insicurezza e dal-
lo smarrimento causato dal mondo contemporaneo: la corrente dei fondamentalisti che, pur approfittando della tecnica e dell’organizzazione moderna, consideravano la difesa della fede e dei costumi come la condizione indispensabile per sopravvivere e mantenere la propria identità.
Algeri, nata ai tempi di Erodoto come villaggio di pescatori, e in seguito sviluppatasi come porto di navi fenicie e greche, si affaccia da un lato sul mare, ma dall’altro si apre sulla grande provincia desertica che qui chiamano bledt che è il dominio di popolazioni osservanti le leggi dell’antico islam chiuso. Ad Algeri si parla addirittura di due islam diversi: uno, l’islam del deserto e l’altro, l’islam del fiume (o del mare). Il primo è la religione delle tribù nomadi combattenti che, in un ambiente ostile quale il Sahara, lottano per
sopravvivere; il secondo è la fede dei mercanti, dei venditori ambulanti, della gente della strada e dei bazar, per la quale l’apertura, il compromesso e lo scambio non sono solo una questione di vantaggio economico, ma condizione stessa
dell’esistenza.
Finché è durato il colonialismo, le due correnti hanno fatto fronte comune contro il nemico. Poi si è giunti allo scontro.
Ben Bella era un uomo mediterraneo, educato secondo la cultura francese, dalla mentalità aperta e il carattere conciliante: i francesi del luogo lo consideravano un musulmano del fiume e del mare. Boumedienne invece co-mandava un esercito che aveva combattuto per anni nel deserto, che nel deserto aveva le sue basi e i suoi accampamenti e nel deserto reclutava i suoi uomini. Inoltre gode-va dell’appoggio e dell’aiuto dei nomadi, gente delle oasi e dei monti desertici.
Erano opposti perfino nell’aspetto. Ben Bella sempre curato, elegante, raffinato, cortese e sorridente. Quando Boumedienne, qualche giorno dopo il colpo di stato, era apparso per la prima volta in pubblico, sembrava un carrista appena emerso da un blindato coperto di sabbia del Sahara. Si era perfino sforzato di sorridere, ma si vedeva che non gli riusciva, non era nel suo stile.
Ad Algeri vedevo per la prima volta il Mediterraneo da vicino, potevo immer-gerci la mano, sentirne il contatto. Per trovarlo non occorreva informarsi: bastava continuare a seguire le vie in discesa. Lo si intravedeva anche da lontano: era dappertutto, luccicava tra le case, spuntava in fondo alle vie che scendevano a rotta di collo verso il basso.
In fondo si stendeva il quartiere del porto con la sua fila di semplici bar in legno, odorosi di pesce, vino e caffè. Ma le folate di vento portavano soprattutto il sentore acre del mare e il suo fresco alito ristoratore.
Non avevo mai visto un luogo dove la natura fosse così benevola nei confronti dell’uomo. C’era tutto: il sole, il vento fresco, l’aria chiara, l’argento del mare. Avevo letto talmente tanto su di esso, che mi sembrava di conoscerlo.
Nelle sue onde piatte c’era il bel tempo, la pace e l’invito a viaggiare e a conoscere. Veniva voglia di unirsi ai pescatori che salpavano da riva in quel momento.
Quando rientrai a Dar-es-Salaam, Judi non c’era più. Mi dissero che era stato richiamato in Algeria: probabilmente per un avanzamento di grado, visto che aveva partecipato alla congiura vittoriosa. Comunque non ritornò più e non potei
ringraziarlo per avermi consigliato quel viaggio. Il colpo di stato militare in Algeria sarebbe stato il primo di una catena di analoghe rivoluzioni che, nel successivo quarto di secolo, avrebbe decimato i giovani stati postcoloniali del continente. Deboli fin dalla nascita, molti di essi lo sono rimasti fino a oggi.
Inoltre era stato grazie a quel viaggio che avevo sostato per la prima volta sulla sponda del Mediterraneo. Da quel momento mi era parso di capire meglio Erodoto. Il suo pensiero, la sua curiosità, il suo modo di vedere il mondo.