RABI CANTA LE UPANISHAD
L’India rappresentò il mio primo incontro con la diversità, la scoperta di un altro mondo. Un incontro straordinario e affascinante, ma anche una grande lezione di umiltà. Il mondo ci insegna a essere umili. Ritornai da quel viaggio vergognandomi di non avere letto abbastanza e di essere un ignorante. Avevo scoperto che una cultura estranea non si svela a comando e che, per capirla, occorre una lunga e solida preparazione.
La mia prima reazione nello scoprire quanto ancora avrei dovuto lavorare su me
stesso fu quella di rifugiarmi a casa, tornare a luoghi che mi erano familiari, a una lingua che era la mia, a un mondo di segni e di simboli comprensibili di primo acchito, senza bisogno di studi propedeutici. Cercavo di dimenticare l’India la cui immensità, varietà, enigmaticità e incomprensibilità mi avevano schiacciato, frastornato e sconfitto. Fu con piacere che ripresi a viaggiare nel mio paese per incontrare gente, parlarci e ascoltare quello che aveva da dire.
Gente con cui mi capivo al volo, accomunati come eravamo da una medesima esperienza.
Ma l’India, naturalmente, non riuscivo a scordarla. Più la temperatura scendeva, più ripensavo con piacere al rovente Kerala; più le giornate si facevano corte, più nitida diventava l’immagine dei tramonti del Kashmir. Il mondo non era più
fatto solo di neve e di gelo: si era sdoppiato e differenziato, inglobando il gelo e il calore, la neve e i fiori.
Ogni volta che avevo tempo (il lavoro di redazione mi teneva molto occupato) e i
soldi necessari (cosa assai rara), andavo a comprarmi dei libri sull’India. Ma le spedizioni nelle librerie, sia in quelle normali sia in quelle antiquarie, finivano quasi sempre in un fiasco. Non si trovava nulla. Un giorno, in un negozio di libri usati, scovai il Compendio di filosofia indiana di Paul Deussen, edito nel 1914. Il professor Deussen, famoso indianista amico di Nietzsche, spiega così la sostanza della filosofia indiana: “Il mondo è maya, illusione” scrive. “Tutto è illusorio, con una sola eccezione: il mio io, il mio atman […] L’uomo sente di essere il tutto. Non può desiderare nulla perché ha tutto quello che si può avere. Sentendosi il tutto, non reca danno a niente e a nessuno, in quanto nessuno danneggia se stesso.”
Deussen biasima gli europei: “La pigrizia europea,” scrive “cerca di evitare lo studio della filosofia indiana”. Forse anche perché, essendo nata quattromila anni fa senza mai smettere di svilupparsi, è diventata un mondo talmente vasto da scoraggiare gli incauti desiderosi di comprenderla e approfondirla. Inoltre nell’induismo la sfera dell’incomprensibile è sconfinata, popolata di fenomeni stupefacenti, violenti e contraddittori. Tutto passa con la massima naturalezza nel proprio opposto; il confine tra la vita quotidiana e l’esperienza mistica è fluido e inafferrabile; una cosa diventa un’altra o, addirittura, una cosa è eternamente l’altra; l’essere si trasforma in nulla, si dissolve, per tramutarsi nel cosmo in una celeste onnipresenza, in una via divina che svanisce negli abissi del non essere.
L’induismo è popolato da un’infinità di dèi, miti e credenze; da centinaia di scuole, orientamenti e tendenze d’ogni genere; da decine di vie alla salvezza, sentieri di virtù, pratiche di purificazione e regole d’ascesi. Il mondo dell’induismo è talmente vasto che in esso c’è posto per tutto e tutti nella reciproca accettazione, concordia e tolleranza. Impossibile dire quanti siano i testi sacri dell’induismo: uno solo di essi, il Mahabharata, conta circa duecentoventimila versi di sedici sillabe: otto volte VIliade e V Odissea messe insieme.
Avevo appena finito di leggere lo Hatha-Yoga, quando mi capitarono tra le mani i
Ricordi di Rabindranath Tagore, pubblicati nel 1923.7 Scrittore, poeta, compositore e pittore, Tagore è stato paragonato a Goethe e a Jean-Jacques Rousseau. Nel 1913 gli fu conferito il Nobel per la letteratura. Da bambino il piccolo Rabi, discendente da una principesca famiglia di brahmani bengalesi, si
distingueva, a suo dire, per l’obbedienza ai genitori, i buoni voti a scuola e una devozione esemplare. Ricorda che la mattina, ancora al buio, il padre lo svegliava per “fargli studiare a memoria le declinazio-Un giorno, in una libreria antiquaria, trovai una copia squinternata e rosicchiata dai topi di un libro dello yogin Ra-ma-Charaka, edito nel 1922 e intitolato: Hatha-Yoga, manuale yoga per la buona salute fisica e una corretta respirazione, corredato da numerosi esercizi. Respirare, spiegava l’autore, è l’attività più importante dell’uomo, in quanto è la via per mezzo della quale comunica con il mondo. Smettendo di respirare, smettiamo di vivere. Dalla qualità del nostro respiro dipende infatti la qualità della nostra vita, ossia la capacità di essere sani, forti e intelligenti. Purtroppo, afferma Rama-Charaka, la maggior parte delle persone, soprattutto in Occidente, respira in modo sbagliato, dal che nascono malattie, infermità, deperimenti e depressio-ni.
La parte che soprattutto mi interessava erano gli esercizi destinati a sviluppare le facoltà creative, settore in cui incontravo le maggiori difficoltà. “Sdraiati sul pavimento o sul letto,” prescriveva lo yogin, “rilassati e senza tendere i muscoli, posate leggermente le mani sul plesso solare e respirate ritmicamente. Quando il ritmo si sarà stabilizzato, fate sì (esprimendone mentalmente il desiderio) che ogni inspirazione apporti una maggiore quantità di prana, ossia di forza vitale, dalla fonte cosmica e la trasmetta al vostro sistema nervoso, concentrando il prana nel plesso solare. A ogni inspirazione fate sì che il prana, ossia la forza vitale, si diffonda per tutto il corpo…”
ni sanscrite”. Poi “sorgeva il sole. Mio padre ed io, recitate le preghiere, finivamo di bere il latte mattutino, dopodiché ci rivolgevamo nuovamente a Dio
cantando le Upanishad”.
Cercavo di immaginare il piccolo Rabi che all’alba, mezzo addormentato, guardava
sorgere il sole cantando le Upanishad insieme al padre.
Le Upanishad sono canti filosofici di tremila anni fa, ma sempre vivi e presenti nella vita spirituale dell’India. Quando me ne resi conto e vidi mentalmente il ragazzino che salutava l’aurora con le strofe delle Upanishad, disperai di venire a capo di un paese dove i bambini iniziavano la giornata intonando versetti filosofici.
Rabi Tagore era nato a Calcutta. Era figlio di Calcutta, l’immensa, mostruosa città senza fine dove una volta avevo assistito a questo episodio: stavo nella mia camera d’albergo, intento a leggere Erodoto, quando dalla finestra salì un ululato di sirene. Corsi in strada. Le ambulanze filavano a tutta velocità, la gente si rifugiava nei portoni mentre un gruppo di poliziotti, sbucato da dietro l’angolo, percuoteva i passanti con lunghi bastoni. Nell’aria aleggiava un odore di gas e di bruciato. Provai a chiedere che cosa fosse successo. Un uomo che correva con un sasso in mano mi gridò in risposta: “Language war!” e proseguì.
La guerra linguistica! Ignoravo i particolari, però sapevo già che in quel paese i conflitti linguistici potevano assumere forme violente e sanguinose: manifestazioni, scontri nelle strade, omicidi e addirittura gente che si dava fuoco da sola.
Fu solo in India che mi resi conto di qualcosa che non sospettavo, e cioè che la mia ignoranza dell’inglese era tutto sommato irrilevante, dato che qui l’unica a parlarlo era l’elite. Meno del due per cento della popolazione! Gli altri si esprimevano esclusivamente in uno o nell’altro dei numerosi dialetti del paese.
In un certo senso l’ignoranza dell’inglese mi rendeva più vicino agli abitanti delle città e ai contadini dei villaggi attraversati. Ero alla stessa stregua del mezzo
miliardo di indiani che non sapevano una parola d’inglese: stavamo nella stessa barca.
Da un lato questo pensiero mi rincuorava (non è male avere mezzo miliardo di persone dalla propria parte), dall’altro mi preoccupava: come mai mi vergo-gnavo di non sapere l’inglese, mentre il fatto di non conoscere l’hindi, il bengali, il gujarati, il telugu, l’urdù, il tamil, il pendjabi e le miriadi di altre lingue parlate nel paese non mi dava il minimo pensiero? La scusa dell’accessibilità non reggeva: a quel tempo l’insegnamento dell’inglese era raro quanto quello dell’hindi o del bengali. Soffrivo di eurocentrismo, del pregiudizio che la lingua europea fosse più importante di quella del paese che mi ospitava. Inoltre il dare per scontata la supremazia dell’inglese feriva la dignità degli indiani, il cui rapporto con le lingue natie era una questione grave e delicata. Per la loro lingua erano pronti a morire, a gettarsi sul rogo.
Una determinazione e un fervore dovuti al fatto che, nel loro paese, l’identità di una persona viene definita dalla lingua parlata. Un bengalese è una persona il cui idioma materno è il bengali. La lingua è la carta d’identità, o meglio, il volto e l’anima di ciascuno. Ecco perché da quelle parti i conflitti di natura sociale, religiosa o nazionale assumono spesso l’aspetto di guerre linguistiche.
Ogni volta che andavo a caccia di testi sull’India, cercavo anche qualcosa su Erodoto. Erodoto aveva cominciato a interessarmi, anzi mi stava decisamente simpatico. Gli ero grato che lì, in India, nei momenti di incertezza e di smarrimento, mi fosse stato vicino, dandomi una mano con il suo libro. Da come
scriveva, sembrava una persona aperta e curiosa del mondo, sempre piena di domande e disposta a percorrere migliaia di chilometri per trovarvi risposta.
Ma, esaminando le fonti, mi ero accorto che della vita di Erodoto si conosce ben
poco e che anche quel poco non è del tutto sicuro. Al contrario di Rabindranath Tagore o del suo coetaneo Marcel Proust, che analizzavano minutamente
ogni particolare della loro infanzia, Erodoto, al pari di altri grandi della sua epoca - Socrate, Pericle, Sofocle -, della sua infanzia non ci dice niente. Non si usava? Non lo si riteneva importante? Di sé Erodoto racconta solo di essere nato ad Alicarnasso. Alicarnasso si stende su un golfo dolce e armonioso come un
anfiteatro, in quel meraviglioso angolo di mondo dove la riva occidentale dell’Asia incontra il Mediterraneo. È il paese del sole, del caldo, della luce, degli olivi e delle viti. Viene istintivamente da pensare che chiunque sia nato in un posto simile debba per forza avere il cuore buono, la mente aperta, il corpo sano e un’inalterabile serenità di spirito.
I biografi sono abbastanza concordi nel sostenere che Erodoto nacque tra il
490
e il 480 a.C, forse nel 485. Sono anni fondamentali per la cultura del mondo: nel 480 scompare Buddha; l’anno seguente, nel principato di Lu, muore Confucio; cinquant’anni dopo nascerà Platone. In questo periodo l’Asia è il centro del mondo. Per quanto riguarda i greci, la parte più creativa della loro società -
gli ioni - risiede anch’essa sul territorio asiatico. L’Europa ancora non esiste o, per meglio dire, esiste solo come mito, in quanto nome di una bella fanciulla, figlia del re fenicio Agenore, che Zeus, assunte le sembianze di un toro aureo, rapirà e possiederà dopo averla portata a Creta.
I genitori di Erodoto? I suoi fratelli, la sua casa? Tutto immerso nelle nebbie dell’incertezza. Alicarnasso era una colonia greca sul territorio asiatico dei cari, soggetti alla Persia. È probabile che suo padre, dal nome non greco di Lyxes, fosse appunto un caro. La madre, invece, era quasi sicuramente greca.
Oltre che di sangue misto, Erodoto era quindi un greco di confine. Un tipo di persona prodotto da incroci razziali e culturali, la cui visione del mondo è influenzata da concetti quali la frontiera, la distanza, la diversità e la varietà. Tra loro si trovano tipi d’ogni genere: il settario fanatico, il provinciale apatico, il vagabondo curioso e ricettivo -; il classico cittadino del mondo. Tutto dipende
dai differenti dosaggi di sangue diverso, dal prevalere di una tendenza sull’altra.
Che tipo di bambino è, il piccolo Erodoto?
Sorride a tutti e dà volentieri la manina, oppure fa il ritroso nascondendosi tra le gonne della mamma? Non fa che piangere e protestare, costringendo la madre esasperata a sospirare: “Che strazio di bambino!”, oppure è un raggio di sole che porta la gioia ovunque vada? Obbedisce e fa il bravo, o sfianca tutti chiedendo dalla mattina alla sera: “Da dove viene il sole? Perché non posso toccarlo? Perché si nasconde nel mare? Non ha paura di affogare?”.
E a scuola? Accanto a chi sta di banco? È stato messo in punizione vicino all’ultimo della classe? Quanto gli ci è voluto per imparare a scrivere sulle tavolette d’argilla? Arriva spesso in ritardo? In classe si agita in continuazione? Suggerisce? Fa la spia?
E i giocattoli? Come si divertiva un bambino greco di duemilacinquecento an-ni fa? Con un monopattino intagliato nel legno? Costruendo castelli di sabbia in riva al mare? Arrampicandosi sugli alberi? Fabbricando quegli uccelli, pesci e cavallini d’argilla che oggi troviamo nei musei?
Qual è il ricordo che gli resterà impresso per tutta la vita? Per il piccolo Rabi, il momento più intenso è stata la preghiera mattutina accanto al padre; per il piccolo Proust, l’attesa al buio che la madre venisse a dargli il bacio della buonanotte. Qual era, per Erodoto, l’evento più ambito?
Di che cosa si occupava suo padre? Alicarnasso è un piccolo porto, scalo commerciale dei traffici tra l’Asia, il Medio Oriente e la Grecia vera e propria. Qui attraccavano le navi dei mercanti fenici provenienti dalla Sicilia e dall’Italia, quelle greche in arrivo dal Pireo e da Argo, quelle egiziane dalla Libia e dal delta del Nilo. E se il padre di Erodoto fosse stato un mercante? Se fosse stato lui a suscitare nel figlio la curiosità per il mondo?
Forse spariva di casa per mesi e mesi e quando Erodoto chiedeva sue notizie, la madre rispondeva che il suo papà si trovava a… citando un nome che per il bambino significava una cosa sola: che da qualche parte, lontano,
esisteva un mondo onnipotente capace di portargli via il padre ma, col favore degli dèi, restituirglielo. Sarà stato quello, il germe responsabile della tentazione di conoscere quel mondo? Della tentazione, nonché della decisione?
Dai pochi dati pervenutici sappiamo che il piccolo Erodoto aveva uno zio poeta, di nome Parnassi, autore di numerosi poemi epici. Chissà se questo zio lo portava a spasso con sé, gli insegnava il bello della poesia, i segreti della retorica e l’arte del racconto. Perché le Storie sono certo frutto del talento, ma anche un esempio di arte letteraria e di magistero tecnico.
Ancora giovane e - sembra - per l’unica volta in tutta la vita, Erodoto viene coinvolto in un’azione politica per colpa del padre e dello zio. I due, infatti, partecipano alla rivolta contro il tiranno di Alicarnasso, Ligdami, che riesce comunque a domare l’insurrezione. I ribelli si rifugiano a Samo, un’isola montuosa a due giorni di navigazione verso nord-ovest. Erodoto vi trascorre alcuni anni e forse è da qui che parte per i suoi viaggi nel mondo. Se mai tornerà ad Alicarnasso, sarà solo per poco. Perché dovrebbe tornarvi? Per rivedere la madre? Chissà. È presumibile che non vi abbia più messo piede.
Siamo nella metà del V secolo. Erodoto giunge ad Atene. La nave attracca al Pireo: da qui all’Acropoli ci sono otto chilometri da percorrere a cavallo, più spesso a piedi. A quel tempo Atene è una metropoli mondiale, la principale città
del pianeta. Erodoto è solo un provinciale, un non ateniese, uno straniero, un meteco e come tale destinato a venir trattato meglio di uno schiavo, ma non alla
stregua dei veri ateniesi. Costoro formano infatti una comunità estremamente sensibile alle questioni di razza, con un forte senso di superiorità ed esclusività, per non dire arroganza.
Ma, a quanto pare, Erodoto si adatta rapidamente alla nuova residenza. Ha poco
più di trent’anni, è un uomo aperto e socievole, un vero buontempone. Tiene conferenze, organizza incontri con il pubblico dai quali, probabilmente, ricava di che vivere. Conosce persone importanti: Socrate, Sofocle, Pericle.
Non è un’impresa difficile: Atene è una piccola città di centomila abitanti, costruita in modo caotico in uno spazio ristretto. Due soli luoghi emergono e si
distinguono: uno è il centro dei culti religiosi - l’Acropoli - l’altro la sede degli incontri, dei comizi, del commercio, della politica e della vita sociale -
l’Agorà. Fin dal mattino la gente vi si riunisce, parla, manifesta. La piazza dell’Agorà è sempre affollata e piena di vita. Erodoto dovette frequentarla, anche se per poco. Più o meno nel periodo del suo arrivo, le autorità ateniesi adottano la legge draconiana secondo la quale i diritti politici spettano solo a chi ha entrambi i genitori nati in Attica, ossia nella regione circostante ad Atene. Erodoto, quindi, non può avere la cittadinanza ateniese. Lascia Atene, compie altri viaggi, finendo per stabilirsi nell’Italia meridionale, nella colonia greca di Turi.
Su quello che accade dopo i pareri sono divisi. Qualcuno sostiene che da lì non
si sia più mosso. Altri affermano che abbia visitato ancora la Grecia, facendo un’apparizione ad Atene. Si parla anche della Macedonia. Ma di veramente sicuro non c’è nulla. Muore all’età di, forse, sessant’anni - ma dove? Trascorre gli ultimi anni a Turi, scrivendo il suo libro all’ombra di un platano? O lo detta a uno scriba, per via della vista indebolita? Ha degli appunti, o si basa sulla memoria? A quel tempo la gente aveva una memoria eccezionale, per cui non è escluso che qualcuno ricordasse perfettamente Creso e Babilonia, Dario e gli sciti, i persiani, le Termopili, Salamina e tutte le vicende di cui sono piene le Storie.
Può anche darsi che Erodoto sia morto sul ponte di una nave che solcava il Mediterraneo, o magari durante il cammino, dopo essersi seduto a riposare su una
pietra da cui non si è più rialzato. Sta di fatto che venticinque secoli fa, in data non meglio identificata e in luogo sconosciuto, Erodoto ci abbandona.
La redazione.
I viaggi in provincia.
Le riunioni, gli incontri, le discussioni.
Appena avevo un momento libero lo trascorrevo tra i vocabolari (finalmente era
uscito quello inglese!) e i libri sull’India (erano da poco apparsi l’imponente opera di Jawaharlal Nehru, La scoperta dell’India, la grande Autobiografia del Mahatma Gandhi e il bellissimo Pancatantra, o i cinque libri della saggezza indiana).
A ogni nuovo titolo tornavo nuovamente in India, ricordando i luoghi dove ero
stato e scoprendo sempre nuovi aspetti e significati di cose che credevo di conoscere. Adesso viaggiavo in modo assai più articolato che non la prima volta.
Scoprivo che un medesimo viaggio si poteva prolungare, ripetere e moltiplica-re attraverso la lettura di libri, lo studio delle mappe, l’osservazione delle immagini e delle fotografie. Scoprivo anche che quel modo di spostarsi aveva addirittura un vantaggio rispetto allo spostarsi fisicamente, nel senso che il percorso iconografico permetteva di fermarsi, osservare con calma, tornare all’immagine precedente, cosa che spesso in un vero viaggio non si ha né il tempo né la possibilità di fare.
Mi immergevo sempre più nelle curiosità e nelle ricchezze dell’India pensando che, con il tempo, sarebbero diventate il mio tema d’elezione, quando, un giorno
dell’autunno 1957, la nostra onnisciente segretaria di redazione Krysia Korta mi
chiamò nella sua stanza e, con fare eccitato e misterioso, mi sussurrò:
“Vai in Cina!”.
I CENTO FIORI DEL PRESIDENTE MAO
Autunno 1957
In Cina ci arrivai a piedi. L’aereo, via Amsterdam e Tokyo, mi aveva sbarcato a
Hong Kong. Di lì un treno locale mi aveva condotto fino a una stazioncina tra i
campi da dove, così mi avevano detto, sarei passato in Cina. In realtà, una volta sceso sul marciapiede, vidi venirmi incontro il capotreno accompagnato da
un poliziotto con la divisa della polizia britannica. Indicando un ponte all’orizzonte, il poliziotto disse:
“Cina!”.
Mi accompagnò per un pezzo di strada asfaltata, poi mi augurò buon viaggio e tornò alla stazione. Continuai da solo, la valigia in una mano, la borsa zeppa di libri nell’altra. Il sole picchiava senza pietà, l’aria rovente ronzava di mosche.
Il breve ponte, bordato da traversine metalliche incrociate, scavalcava un fiume quasi in secca. Un po’ più avanti si ergeva un alto cancello coperto di fiori e di scritte cinesi e sovrastato da uno stemma: uno scudo rosso con quattro piccole stelle d’oro e una più grande. Davanti al cancello stazionava un folto gruppo di sentinelle. Dopo aver esaminato attentamente il mio passaporto, ne trascrissero i dati in un librone e mi dissero di proseguire verso il treno, visibile a circa mezzo chilometro di distanza. Mi avviai faticosamente sotto il sole, sudato fradicio, attorniato da nugoli di mosche.
Il treno era vuoto. I vagoni, come quelli di Hong Kong, avevano i sedili disposti in file parallele ed erano privi di
scompartimenti. Finalmente partimmo. Attraversavamo campagne verdi e so-latie, l’aria umida e surriscaldata che entrava dal finestrino odorava di tropici.
Ricordava l’India che avevo visto dalle parti di Madras e di Pondicherry. Quelle analogie mi comunicarono un senso di familiarità: mi trovavo fra paesaggi che conoscevo e amavo. Il treno si fermava di continuo in piccole stazioni dove salivano sempre nuovi viaggiatori. Vestivano tutti allo stesso modo: gli uomini con giacche di tela blu scuro, abbottonate fino al mento, le donne con un unico modello di vestito a fiori. Sedevano impettiti, silenziosi, la faccia rivolta nella direzione di marcia.
Quando il vagone fu pieno, a una stazione salirono alcune persone in divisa azzurro carico: una ragazza e i suoi due aiutanti. Con voce forte e decisa la ragazza pronunciò un lungo discorso. Uno degli uomini distribuì un boccale a ciascuno dei passeggeri, mentre l’altro vi versava del tè verde da una brocca metallica. Il tè era bollente, i passeggeri ci soffiavano sopra per raffreddarlo e lo mandavano giù a piccoli sorsi, senza una parola. Cercavo vanamente di intuire qualcosa dalle loro facce immobili e inespressive. Non volevo fissarle con troppa intensità per timore di essere scortese o di destare sospetti.
Neanche io venivo guardato, e sì che tra quelle giacche blu e quei vestitini a fiori il mio elegante completo italiano, comprato l’anno prima a Roma, doveva colpire come un pugno in un occhio.
Dopo tre giorni di viaggio giunsi a Pechino. Faceva freddo, un vento gelido e asciutto rovesciava folate di polvere grigia su strade e persone. Nella stazione fiocamente illuminata mi aspettavano due giornalisti del quotidiano giovanile “Chungkuo”. Ci stringemmo la mano. Uno di loro, quasi irrigidito sugli attenti, disse: “Il tuo arrivo ci rallegra perché dimostra che la politica dei Cento Fiori promossa dal presidente Mao sta portando i suoi frutti. Il presidente Mao
ci raccomanda di collaborare e di scambiare con altri le nostre esperienze, ed è infatti in questo spirito che la nostra e la vostra redazione si stanno scambiando i corrispondenti. Ti diamo il benvenuto a Pechino come corrispondente fisso dello
Pensavo che avrei alloggiato in una delle tante casette nascoste dietro agli interminabili muri d’argilla o di sabbia che costeggiano le vie di Pechino.
Nella mia camera ci sarebbero stati un tavolo, due sedie, un letto, un armadio, una mensola per i libri, una macchina da scrivere e un telefono. Avrei frequentato la redazione del “Chungkuo” per conoscere le ultime notizie, avrei letto, viaggiato in provincia, raccolto informazioni, scritto e inviato articoli, senza mai smettere di studiare il cinese. Inoltre avrei visitato musei, biblioteche e monumenti architettonici, incontrato professori, scrittori e molte altre persone interessanti girando per città, villaggi, scuole e negozi. Sarei andato all’università, al mercato, in fabbrica, nei templi buddhisti, nei comitati di partito e in centinaia di altri posti interessanti. La Cina è un grande paese, mi dicevo, pensando con gioia che, oltre al lavoro di corrispondente e di reporter, avrei vissuto un’infinità di impressioni e di vicende e che un giorno ne sarei ripartito carico di nuove esperienze, scoperte e conoscenze.
Pieno di liete speranze, salii con il collega Li nella camera al primo piano. Il collega Li entrò nella stanza di fronte. Feci per chiudere la porta, ma scoprii che non aveva né maniglia né serratura e che i cardini erano fissati in modo da tenerla sempre aperta verso l’esterno. Notai che anche la porta del collega Li era aperta sul corridoio, in modo che potesse avermi sempre sottocchio.
Decisi di fare finta di niente e cominciai a tirare fuori i li-
‘Sztandar Mlodych’, in attesa che, a suo tempo, il nostro corrispondente parta per Varsavia”.
Lo ascoltavo tremando di freddo: privo di giacca e cappotto, mi guardavo intorno alla disperata ricerca di un posto caldo. Finalmente salimmo su una Pobeda e partimmo alla volta dell’albergo. Lì ci aspettava un tale che i giornalisti del “Chungkuo” mi presentarono come il loro collega Li, destinato a farmi da interprete personale. Parlavamo tutti russo, unica lingua che avrei usato in Cina.
bri. Presi Erodoto, che stava in cima alla borsa, poi i tre volumi delle Opere scelte di Mao Tse-tung, Il vero libro di Nan Hua di Chuang-tzu (ed. 1953) e i libri comprati a Hong Kong: What’s wrong with China di Rodney Gilbert (ed.
1926), Storia della Cina moderna di K.S. Latourette (ed. 1954), A Short Hi-story of Confucian Philosophy di Liu Wu-Chi (ed. 1955), The Revolt of Asia (ed.
1927),
The Mind o/EastAsia di Lily Abegg (ed. 1952). Avevo anche alcuni manuali e vocabolari della lingua cinese che avevo deciso di mettermi subito a studiare.
L’indomani mattina il collega Li mi accompagnò alla redazione del “Chungkuo”.
Era la prima volta che vedevo Pechino di giorno. Da ogni parte si stendeva una
marea di casette basse, nascoste dietro a muri di cinta dai quali spuntavano solo le estremità dei tetti grigio scuri, girate all’insù come ali. Vedendole da lontano, ebbi l’impressione di uno stormo di uccelli neri che aspettassero immobili il segnale della partenza.
In redazione fui accolto con grande cordialità. Il direttore, un giovane alto e magro, si disse molto contento del mio arrivo che realizzava lo slogan dei Cento Fiori lanciato dal presidente Mao.
Risposi che anch’io ero molto contento di essere lì e che ero pronto ai compiti che mi aspettavano; aggiunsi anche che mi ero portato dietro i tre volumi delle Opere scelte di Mao Tse-tung, alle quali intendevo dedicarmi nelle ore libere.
La cosa fu accolta con grande soddisfazione e rispetto. Tutta quella conversazione, durante la quale continuammo a bere tè verde, in sostanza non fu
che uno scambio di cortesie inframmezzate a elogi per il presidente Mao e per la
sua politica dei Cento Fiori.
A un tratto i padroni di casa tacquero di colpo. Il collega Li si alzò e mi guardò. Capii che la visita era terminata. Mi salutarono affettuosamente, sorridendo e allargando le braccia.
L’incontro era stato pensato e condotto in modo da evitare accuratamente qualsiasi problema pratico: non avevamo stabilito, anzi neanche sfiorato, un solo dato concreto. Non mi erano state rivolte domande e non mi avevano detto
niente circa le modalità del mio soggiorno e del mio lavoro.
Mi dissi che forse da quelle parti si usava così. Forse non era educato andare subito al sodo. Mi era spesso capitato di leggere che in Oriente vigeva un ritmo di vita diverso, più lento; che c’era il momento adatto per ogni cosa; che bisognava restare calmi, imparare a pazientare, aspettare, raggiungere il vuoto e il silenzio interiore; che il Tao preferiva l’assenza di movimento al movimento e l’inattività all’attività; che da quelle parti ogni manifestazione di fretta, di agitazione e di violenza veniva riprovata come maleducata e incivile.
Mi rendevo anche conto che, davanti all’immensità della Cina, ero solo un granello di polvere e che io e il mio lavoro non contavamo niente in confronto agli alti compiti che tutti, compreso il “Chungkuo”, si trovavano davanti; quindi dovevo aspettare che arrivasse il mio turno. Nel frattempo avevo una stanza d’albergo, il vitto e il collega Li che non mi lasciava un attimo; quando ero nella mia camera, lui stava sulla porta della sua, osservando quel che facevo.
Me ne stavo seduto in camera a leggere il primo volume di Mao Tse-tung, in perfetta sintonia con l’imperativo del momento. La città traboccava infatti di striscioni rossi con lo slogan: STUDIATE CON LA MASSIMA ATTENZIONE LÌMMORTALE
PENSIERO DEL PRESIDENTE MAO! Stavo appunto leggendo la relazione pronunciata da
Mao nel dicembre 1935 durante la riunione dell’attivo del partito a Wajaopao, nella quale commentava la Grande Marcia, definendola una “marcia unica nella
storia”. “Giorno dopo giorno, per dodici mesi, braccati e bombardati da decine di aeroplani, sfondando gli accerchiamenti, distruggendo i gruppi nemici, sfuggendo all’inseguimento di quasi un milione di soldati e superando infiniti
ostacoli e difficoltà, abbiamo continuato a procedere; abbiamo percorso a piedi oltre dodicimilacinquecento chilometri e oltrepassato undici province. Quando mai, nella storia, c’è stato niente di simile? Grazie a questa impresa l’esercito di Mao, attraverso montagne coperte da nevi eterne e pianure palu-dose dove fino a quel momento quasi nessuno si era arrischiato, è riuscito a evitare l’accerchiamento di Chiang Kai-shek e sferrare la controffensiva.”
Di tanto in tanto, stanco di quella lettura, prendevo il libro di Chuang-tzu.
Chuang-tzu, taoista fervente, disprezzava le cose terrene e indicava come modello Hu Ju, il grande saggio del Tao. “Quando Jao - leggendario sovrano della
Cina - gli offrì di prendere il potere, egli si lavò le orecchie contaminate da quella notizia e si rifugiò sul disabitato monte K’i-scian.” Per Chuang-tzu, come per il biblico Kohelet, il mondo esterno non è che pura vanità: “Sia che gli resistiamo o che vi soggiaciamo, corriamo verso la fine come un cavallo al galoppo. Non vi sembra triste? E non è triste il fatto che fatichiamo tutta la vita senza vedere i frutti del nostro lavoro? E che, stanchi e sfiniti, non abbiamo un luogo dove tornare? La gente parla dell’immortalità: ma quale vantaggio se ne ricava? Il corpo si decompone, e con esso la mente. Questa non è
forse la cosa più triste di tutte?”.
Chuang-tzu è pieno di dubbi, per lui non c’è niente di certo: “Parlare non de-ve rappresentare una semplice emissione d’aria. La parola deve esprimere qualcosa: ma che cosa esattamente debba esprimere, questo non è stato ancora stabilito.
Siamo proprio sicuri che ciò che chiamiamo il parlare esista davvero e che sia diverso dal cinguettio degli uccelli?”.
Ero tentato di consultare il collega Li per chiedergli che interpretazione avrebbe dato un cinese di quelle parole ma, temendo che, in quel periodo di incitamento allo studio di Mao, i frammenti di Chuang-tzu suonassero provocatori, scelsi un innocuo frammento sulla farfalla: “Un giorno Chuang-tzu sognò di essere una farfalla, una gioiosa farfalla che svolazzava ignara di essere Chuang-tzu. All’improvviso
si svegliò, tornando a essere il vero Chuang-tzu. Chi poteva dire se la farfalla fosse il sogno di Chuang-tzu o Chuang-tzu il sogno della farfalla? Eppure Chuang-tzu e la farfalla sono due cose completamente diverse. È quello che si chiama una trasformazione di essenza”.
Pregai il collega Li di spiegarmi il senso di quella storia. Mi ascoltò, sorrise e prese alcuni appunti. Si sarebbe informato e poi mi avrebbe risposto.
Ma aspettai invano.
Terminato il primo volume delle memorie di Mao Tse-tung, attaccai il secondo.
Siamo alla fine degli anni trenta, gli eserciti giapponesi occupano gran parte del territorio cinese e si spingono verso il cuore del paese. I due nemici, Mao Tse-tung e Chiang Kai-shek, stringono un’alleanza tattica per opporsi all’invasione nemica. La guerra si prolunga, gli occupanti sono crudeli, il paese distrutto. Secondo Mao, l’unica tattica da adottare contro un nemico numericamente superiore è la massima elasticità e una continua azione di disturbo. Un punto che non si stanca mai di sottolineare.
Stavo appunto leggendo la conferenza di Mao sulla lunga guerra con il Giappone, conferenza tenuta a Jenan nella primavera del 1938, quando il collega Li, finito di parlare al telefono nella sua stanza, depose il ricevitore e venne ad annunciarmi che l’indomani saremmo andati alla Grande Muraglia. La Grande Muraglia! La gente veniva da ogni parte per vederla. Una delle meraviglie del mondo, un’opera unica, quasi mitica e in un certo senso inconcepibile. Un muro
al quale i cinesi, a parte qualche interruzione, avevano lavorato per duemila anni. Partiti al tempo di Buddha e di Erodoto, continuavano a lavorarci quando già in Europa operavano Leonardo da Vinci, Tiziano e Johann Sebastian Bach.
I dati circa la lunghezza del muro variano dai tre ai diecimila chilometri.
Variano perché le Grandi Muraglie sono più d’una. Costruite in varie epoche, in
vari luoghi e con materiali diversi. Di comune hanno solo il fatto che ogni volta
che una dinastia saliva al potere, cominciava a costruire una Grande Muraglia.
L’idea di innalzare una Grande Muraglia non ha mai abbandonato i monarchi cinesi. Se interrompevano i lavori era solo per mancanza di fondi, ma appena il
bilancio si risanava, li facevano riprendere.
I cinesi hanno innalzato la Grande Muraglia per difendersi dalle mire espansionistiche delle irrequiete tribù nomadi mongole che, con eserciti e mandrie, irrompevano dalle steppe mongole, dai monti dell’Alta] e dal deserto del Gobi attaccandoli, minacciandone il regno e terrorizzandoli con lo spauracchio di stragi e schiavitù.
Ma la Grande Muraglia era solo la punta dell’iceberg, il simbolo della Cina, lo stemma di un paese che per millenni era stato la terra delle muraglie. La Grande
Muraglia delimitava i confini settentrionali dell’impero, ma esistevano muraglie anche tra regni in guerra, tra regioni e province. Difendevano le città e le campagne, i valichi e i ponti. Proteggevano i palazzi, le sedi del governo, i templi e i mercati. Le caserme, i posti di polizia e le prigioni. Attorno alle case private c’erano mura che separavano vicino da vicino e famiglia da famiglia. Calcolando quindi che i cinesi abbiano costruito mura per centinaia e
migliaia di anni e considerata la numerosità della popolazione, il senso del sacrificio, l’esemplare disciplina e la laboriosità da formiche che li contraddistingue, otterremo centinaia di milioni di ore dedicate alla costruzione di mura, ore che in un paese povero come questo avrebbero potuto essere dedicate all’apprendimento della lettura o di un mestiere, alla coltivazione di sempre nuovi campi e all’allevamento di un sano bestiame.
E invece l’energia del mondo va a finire nelle muraglie.
Che irrazionalità. Che spreco.
Perché la Grande Muraglia, questo super-muro, questa super-fortezza distesa per
migliaia di chilometri tra deserti e montagne inabitate, e che, oltre che fonte d’orgoglio, è anche una delle meraviglie del mondo, è anche il sintomo dell’aberrazione umana, di un terribile errore della storia, dell’incapacità di questo popolo dì mettersi d’accordo, convo-
care una tavola rotonda e decidere come sfruttare le risorse di energia e di intelligenza dell’uomo.
Vana speranza. Al profilarsi di un eventuale problema, i cinesi hanno sempre avuto la reazione opposta: quella di costruire un muro, di chiudersi, di isolarsi. Qualsiasi cosa venisse DA FUORI non poteva che essere una minaccia, un presagio di disgrazie, la promessa di un male, anzi: il male in persona.
Ma il muro non ha solo uno scopo difensivo. Proteggendo dalle minacce e-sterne, permette anche di controllare ciò che accade all’interno. I muri hanno passaggi, porte, cancelli. Sorvegliare questi punti significa controllare chi entra e chi esce, informarsi, verificare che i permessi siano in regola, annotare nomi, osservare facce, imprimerle nella memoria. Il muro diventa così scudo e trappola, riparo e gabbia.
Il lato peggiore del muro è quello di sviluppare in alcune persone un atteggiamento da difensore del muro, di creare una mentalità per la quale il mondo è attraversato da un muro che lo divide in dentro e fuori: fuori ci sono i
cattivi e gli inferiori, dentro i buoni e i superiori. Non è indispensabile che il difensore stia materialmente vicino al muro: può anche starne lontano, purché lo abbia sempre dentro di sé e rispetti le regole imposte dalla sua logica.
Per raggiungere la Grande Muraglia occorre viaggiare un’ora verso nord. Prima si attraversa la città. Tira un vento gelido e impetuoso che costringe passanti e ciclisti a piegarsi in due. Ovunque fiumane di ciclisti. Quando i semafori scattano sul rosso il fiume si arresta, come sbarrato da una diga, poi si rimette in moto e scorre fino al semaforo successivo con un ritmo uniforme e arrancante che solo il vento, se troppo violento, riesce a turbare. Allora il fiume comincia ad agitarsi e straripare, facendo barcollare gli uni, costringendo gli altri a fermarsi e scendere a terra. Le file dei ciclisti precipitano nel caos e nella confusione. Ma appena il vento si placa, il fiume rientra nei ranghi e continua laboriosamente la sua corsa.
I marciapiedi del centro sono affollati di gente. Non è raro vedervi colonne di scolaretti in divisa. Procedono a due a due agitando bandierine rosse, mentre il primo della fila porta la bandiera rossa o il ritratto dello Zio Buono, il presidente Mao. Le colonne ripetono parole in coro, cantano o lanciano esclamazioni. “Che cosa dicono?” chiedo al collega Li. “Chiedono di studiare il pensiero del presidente Mao” risponde. Agli incroci, i poliziotti danno sempre la precedenza alle colonne di bambini.
La città è blu e gialla. Gialli i muri che bordano le strade, blu le giacche di tela dei passanti. Quella tela è una conquista della rivoluzione, spiega il collega Li. Una volta la gente non aveva di che vestirsi e moriva di freddo. Gli uomini sono rapati come reclute, le donne - dalle bambine alle vecchie -hanno i
caperli tagliati corti, a caschetto, con la frangetta sulla fronte. Per distinguere una faccia dall’altra bisognerebbe scrutarla con attenzione, ma guardare fisso è scortese.
Le borse sono tutte uguali e così pure i berretti. Come farà, chi va a una riunione, a riconoscere i propri tra le migliaia lasciati al guardaroba? Loro ci riescono, il che dimostra che a fare la differenza basta un piccolo particolare come un bottone cucito in modo diverso, senza bisogno di riconoscimenti vi-stosi.
Sulla Grande Muraglia si sale da una delle torri abbandonate. Il muro, una gigantesca costruzione irta di grossi merli e torrette, è talmente largo che vi possono camminare dieci persone una accanto all’altra. Vista da dove siamo, la Muraglia serpeggia all’infinito, apparendo e sparendo dietro colline e foreste.
Non c’è anima viva, tira un vento che porta via la testa. Vedere, toccare con mano i massi trascinati quassù secoli fa da uomini morti di fatica… Ma perché?
A che scopo?
Più i giorni passavano, più mi veniva fatto di considerare la Grande Muraglia come una Grande Metafora. Ero circondato da gente con cui non riuscivo a intendermi, da un mondo che non ero in
grado di decifrare. La mia situazione era sempre più strana. Avrei dovuto scrivere: ma di che? La stampa era tutta in cinese, quindi incomprensibile.
All’inizio pregavo il collega Li di tradurmela, ma nella sua traduzione tutti gli articoli cominciavano con le parole: “Come dice il presidente Mao”, oppure: “Secondo le direttive del presidente Mao”, ecc. ecc. Come sapere che cosa ci fosse veramente scritto? Il collega Li, che avrebbe dovuto essere il mio tramite con il mondo esterno, in realtà era una barriera impenetrabile. A ogni mia richiesta di un incontro, di una conversazione, di un viaggio rispondeva invariabilmente: “Riferirò alla redazione”, ma quelli non si facevano mai sentire. Uscire da solo, neanche a parlarne, il collega Li mi stava sempre alle costole. E poi, per andare dove, da chi? Non conoscevo la città, non conoscevo nessuno ed ero senza telefono (quello era riservato a Li).
Ma, soprattutto, non conoscevo la lingua. Mi ero, sì, messo a studiarla fin dal primo giorno, cercando di arrabattarmi nella giungla di geroglifici e ideogrammi. Ma ben presto mi ero trovato in un vicolo cieco: la molteplicità dei
significati. Il giorno in cui avevo scoperto che esistevano oltre ottanta traduzioni inglesi del Tao-Teh-ching (la bibbia del taoismo), tutte valide e degne di fede, ma nello stesso tempo completamente diverse, mi ero sentito morire, rendendomi conto che non ce l’avrei mai fatta. I segni mi ballavano davanti agli occhi. Pulsavano cambiando forma, posizione, relazione, nessi, assetto e dipendenze. Si sdoppiavano in pilastri e colonne, si sovrapponevano gli uni agli altri. Finivo per mettere le forme in ao tra quelle in ou, oppure, Dio me ne guardi, confondevo il segno eng con il segno ong.
IL PENSIERO CINESE
Con tutto il tempo libero che mi ritrovavo, mi ero messo a leggere i libri sulla Cina acquistati a Hong Kong, appassio-nandomici al punto da perdere momentaneamente di vista Erodoto e i greci. Continuavo a credere che prima o poi
in quel paese ci avrei lavorato, per cui volevo imparare il più possibile sulla Cina e sul suo popolo. Non avevo ancora capito che la maggior parte dei corrispondenti, cinesi o di altre nazionalità, risiedevano a Hong Kong, Tokyo e
Seul e parlavano tutti cinese, e che la mia situazione a Pechino aveva qualcosa di assurdo.
Sempre di più avvertivo la presenza della Grande Muraglia: non quella visitata qualche giorno addietro tra le montagne del Nord, ma la Grande Muraglia della
Lingua, per me molto più pericolosa e insormontabile. Un muro che mi accer-chiava da tutte le parti e si ripresentava ogni volta che un cinese apriva bocca, un muro composto di tutto ciò che mi riusciva incomprensibile: i discorsi della gente, i giornali, la radio. Le scritte sui muri, sugli striscioni, sulle merci dei negozi, sulle porte degli uffici, su tutto. Non so che cosa avrei dato per posare gli occhi su una lettera o una parola nota per aggrapparmici, tirare un respiro di sollievo e sentirmi a casa. Ma invano: tutto era illeggibile, incomprensibile, indecifrabile.
In India era successa la stessa cosa. Neanche lì ero riuscito a farmi strada nel folto dei locali alfabeti indiani. Ovunque andassi, mi imbattevo sempre nello stesso ostacolo.
Ma dove era cominciata quella torre di Babele linguistico-alfabetica? Come nasceva un alfabeto? All’inizio di tutto doveva per forza esserci stato un segno. Un segno tracciato per ricordarsi qualcosa, per comunicare un fatto a qualcun altro, per marcare un oggetto o un territorio.
Ma perché la gente indicava un medesimo oggetto con segni completamente diversi?
Un uomo, una montagna o un albero erano gli stessi in tutto il mondo: eppure ogni alfabeto li definiva con simboli, figure o lettere differenti. Perché? Per quale ragione colui che, volendo per la prima volta descrivere un fiore, in una certa cultura aveva tracciato un trattino verticale, in un’altra un cerchietto e, in un’altra ancora, due trattini e un cono? Erano decisioni prese dal singolo, o dalla collettività? Venivano discusse intorno al fuoco? Confermate dal consiglio di famiglia o da una riunione tribale? Si consultavano gli anziani? Gli stregoni? Gli indovini?
Perché una volta che il meccanismo era partito, non si tornava più indietro. Le cose seguivano il loro corso. Da quella prima semplice differenza - l’aver posto un trattino a sinistra e l’altro a destra - derivavano via via tutte le altre, sempre più complesse e ingegnose. L’infernale logica dell’evoluzione alfabetica faceva sì che con il tempo il sistema si complicasse, diventasse sempre più ostico per i non iniziati, arrivando addirittura, come è spesso accaduto, a non lasciarsi più decifrare.
Sebbene l’alfabeto hindi e quello cinese mi avessero posto le medesime difficoltà, notavo un’evidente differenza tra il comportamento delle due popolazioni. L’indiano è un individuo rilassato, mentre il cinese è vigile e teso. La folla indiana è informe, fluida e flemmatica, la folla cinese marcia rigorosamente inquadrata. Si sente che sopra la folla dei cinesi c’è un capo, un’autorità suprema, mentre sopra la folla degli indiani aleggia uno sterminato areopago di dèi che non
chiedono nulla. Ogni volta che la folla indiana si imbatte in qualcosa di interessante si ferma, osserva e si mette a discutere. Nella stessa situazione la folla cinese continua a marciare compatta, disciplinata, lo sguardo fisso alla meta stabilita. GH indiani sono molto più rituali, solenni, religiosi. Il mondo dello spirito e dei suoi simboli è sempre presente e avvertibile. Le strade sono popolate di santoni e di pellegrini diretti ai templi dei loro dèi; folle di persone si accalcano ai piedi delle montagne sacre, si bagnano nei fiumi sacri e bruciano i morti su roghi sacri. I cinesi, molto meno espansivi, sono più chiusi e discreti. Non hanno tempo per festeggiare, sono troppo occupati a eseguire le direttive di Mao o di qualche altra autorità. Invece di onorare gli dèi, badano a rispettare l’etichetta. Invece che da pellegrini, le loro strade sono percorse da squadre di produzione.
Anche le loro facce sono diverse.
La faccia di un indiano ci sorprende con continui imprevisti: una macchia rossa sulla fronte, dei ghirigori colorati sulle guance, un sorriso che scopre una dentatura scura. La faccia di un cinese non offre sorprese. È liscia e immutabile. Sembra che niente possa turbarne l’immota superficie. Lascia solo capire che ci sta nascondendo qualcosa che non sappiamo e che mai sapremo.
Un giorno il collega Li mi portò a Shanghai. Che differenza, tra Pechino e Shanghai! Fui colpito dall’immensità di quella città e dalla varietà della sua architettura: interi quartieri costruiti in stile francese, italiano o americano. Ovunque, chilometri e chilometri di viali alberati, boulevard, passeggiate, passaggi. Proliferazione edilizia, traffico da metropoli, automobili, risciò, biciclette e folle di passanti. Negozi. Qua e là, perfino qualche bar. Molto più caldo che a Pechino, con un’aria mite che tradiva la vicinanza del mare.
Attraversando il quartiere giapponese vidi i pesanti e massicci stupa di un tempio buddhista. “È aperto, quel tempio?” chiesi al collega Li. “Qui a Shanghai, sicuramente sì”
rispose lui con un misto di ironia e di disprezzo, quasi che Shanghai fosse una Cina di serie B, non al cento per cento mao tse-tunghiana.
Il buddhismo si diffuse in Cina solo nel primo millennio della nostra era. Fino ad allora su quelle terre avevano regnato a pari merito due correnti spirituali, due scuole e due orientamenti diversi: il confucianesimo e il taoismo. Il maestro Confucio visse dal 560 al 480 avanti Cristo. Gli storici sono discordi nello stabilire se il padre del taoismo, Lao Tzu, fosse più giovane o più vecchio di Confucio. Molti specialisti sostengono addirittura che Lao Tzu non sia mai esistito e che il suo unico libro, il Tao-Teh-ching, sia semplicemente un insieme di frammenti, aforismi e detti raccolti da scribi e copisti anonimi.
Ammesso che Lao Tzu sia vissuto e che fosse più vecchio di Confucio, possiamo considerare vera la storia, tante volte citata, del giovane Confucio che si reca a trovare Lao Tzu per chiedergli consiglio su come vivere. “Liberati dall’arroganza e dalla bramosia” gli risponde il vecchio. “Liberati dall’abitudine dell’adulazione e dall’eccesso di ambizione. Tutto ciò ti danneggia. Non ho altro da dirti.”
Se il più vecchio fosse stato Confucio, avrebbe potuto trasmettere al suo giovane compatriota Lao Tzu tre grandi pensieri. Il primo: “Come puoi servire gli dèi, se non sai come servire gli uomini?”. Il secondo: “Perché ripagare il male con il bene? Con che dunque ripagherai il bene?”. Il terzo: “Come puoi sapere che cosa sia la morte, se non sai che cosa sia la vita?”.
Il pensiero di Confucio e quello di Lao Tzu (ammesso che sia esistito) nacque-ro verso la fine della dinastia Chou, più o meno all’epoca degli Stati combattenti, quando la Cina era lacerata, divisa in numerosi stati impegnati in continue guerre che decimavano la popolazione. L’uomo comune, sopravvissuto alla strage
ma angosciato dall’incertezza e dalla paura del domani, si chiede come sopravvivere. E a questa domanda che il pensiero cinese cerca di rispondere.
Quella cinese è probabilmente la filosofia più pratica del mondo.
All’opposto di quella indiana, si addentra raramente nelle sfere della trascendenza, preferendo fornire all’uomo comune gli strumenti per sopravvivere in una situazione nella quale si trova solo perché, indipendentemente dalla sua volontà, è stato gettato in questo mondo crudele.
Su questo punto cruciale le strade di Confucio e di Lao Tzu (ammesso che sia esistito) divergono, nel senso che alla domanda: “Come sopravvivere?” ognuno di
loro fornisce una risposta diversa. Confucio dice che l’uomo, in quanto nato in
seno a una società, ha precisi doveri. I principali sono l’obbedienza alle autorità e la sottomissione ai genitori; vengono poi il rispetto per gli antenati e la tradizione, la rigida osservanza dell’etichetta, il mantenimento dell’ordine esistente e il rifiuto di modificarlo. L’uomo di Confucio è un leale suddito del potere: “Se obbedirai coscienziosamente ai suoi ordini,” dice il Maestro, “sopravviverai”.
Diverso l’atteggiamento prescritto da Lao Tzu (ammesso che sia esistito). Il padre del taoismo raccomanda di restare fuori da tutto. “Niente è destinato a durare,” dice il Maestro, “quindi non legarti a niente. Ciò che esiste prima o poi perisce, per cui tieniti sopra le cose, sii distaccato, non cercare di diventare qualcuno, di raggiungere o possedere qualcosa. L’inattività sia la tua azione; la debolezza e l’impotenza la tua forza; l’ingenuità e l’ignoranza la tua saggezza. Se vuoi sopravvivere diventa inutile, in modo da non servire a nessuno. Stai lontano dagli uomini, diventa un eremita interiore, contentati di una ciotola di riso e di un sorso d’acqua. E, soprattutto, osserva il tao.” Ma che cos’è il tao? Impossibile dirlo, poiché l’essenza del tao è appunto la sua indefinitezza e ineffabilità: “Se il tao può essere definito in quanto tao, non è il vero tao” dice il Maestro. Il tao è la via, osservare il tao significa seguire la via e camminare dritti davanti a sé.
Il confucianesimo è la filosofia del potere, dei funzionari, della struttura, dell’ordine, dello stare sull’attenti; il taoismo è la saggezza di coloro che rifiutano di stare al gioco, limitandosi a essere una parte della natura, indifferente a tutto ciò che la circonda.
In un certo senso confucianesimo e taoismo sono due scuole etiche che pro-pongono due diverse strategie di sopravvivenza. Nei precetti destinati all’uomo spesso convergono, soprattutto in ciò che riguarda l’invito all’umiltà. È curioso che più o meno nello stesso periodo, sempre in Asia, nascano due nuove scuole di pensiero (il buddhismo e la filosofia ionica) che prescrivono alla gente semplice la stessa virtù richiesta dal confucianesimo e dal taoismo, ossia
l’umiltà.
Le pitture degli artisti confuciani rappresentano scene di corte: l’imperatore attorniato da burocrati, funzionari di palazzo e tronfi generali dritti sull’attenti, con uno stuolo di servi umilmente piegati in due. I pittori taoisti dipingono paesaggi dalle tinte pastello, catene montuose appena accennate sullo sfondo, nebbie opalescenti, alberi di gelso e - in primo piano -
una piccola foglia di bambù mossa da un vento invisibile.
Passeggiando con il collega Li per le strade di Shanghai, a ogni cinese che incontro mi chiedo se sia confuciano, taoista o buddhista, vale a dire se appartenga alla scuola detta del
Dzu, del Tao o del Fo.
Ma la mia è una domanda troppo invadente, oltre che sbagliata e fuori tema.
Perché la grande forza dell’idea cinese è il suo duttile e conciliante sincretismo, la sua capacità di fondere in un tutto unico le più svariate tendenze, visioni e posizioni, senza che per questo nessuna delle scuole in questione perda niente della sua sostanza e dei suoi specifici fondamenti. Nelle migliaia di anni di storia cinese è accaduto di tutto: ora prevaleva il confucianesimo, ora il taoismo, ora il buddhismo (difficile chiamarle religioni nel senso europeo del termine, visto che tutte e tre ignorano il concetto di Dio); a tratti giungevano a tensioni e conflitti; a tratti un imperatore appoggiava ora l’una ora l’altra corrente spirituale, talora portandole a rappacificarsi, talora a litigare e combattere; alla fine però tutto si concludeva con un accor-
do, con la compenetrazione reciproca, con una qualche forma di convivenza. I vari elementi finivano nel calderone storico di questa civiltà, che li assorbiva per riplasmarli nel più puro stile cinese.
Questo stesso processo di sintesi, fusione e trasformazione si produceva anche nell’animo del singolo cinese. A seconda della situazione, del contesto e delle circostanze, in lui prevaleva l’elemento confuciano o quello taoista: niente era stabilito in modo immutabile, niente era deciso e codificato una volta per tutte. Per sopravvivere doveva sdoppiarsi: di fuori, ligio esecutore delle regole. Dentro, autonomo, indipendente e inaccessibile.
Eravamo nuovamente nel nostro albergo di Pechino. Tornai ai miei libri.
Cominciai a studiare la storia di Han Yu, grande poeta del IX secolo. A un certo
punto Han Yu, seguace di Confucio, comincia a combattere gli influssi del buddhismo in quanto è un’ideologia indiana ed estranea alla Cina. Scrive saggi critici e infuocati libelli. L’attività sciovinista del grande poeta fa talmente infuriare l’imperatore regnante, Hsien, seguace del buddhismo, che questi condanna a morte Han Yu; poi, grazie alle suppliche dei cortigiani, modifica la condanna esiliandolo in quella che oggi è la provincia del Kwang-tung, infestata dai coccodrilli.
Prima di sapere come andasse a finire la storia, ricevetti la visita di un redattore del “Chungkuo” accompagnato da un membro del Centro commerciale estero giunto da Varsavia con una lettera dei miei colleghi. Mi informavano che, essendosi dichiarati contrari alla chiusura della rivista “Po pro-stu”,8 il Comitato Centrale aveva rimosso la redazione al completo affidando la direzione del giornale a tre commissari. Parte dei colleghi si era dimessa per protesta, mentre gli altri esitavano in attesa degli eventi. Mi chiedevano che cosa intendessi fare.
Appena il membro del Centro commerciale estero se ne fu andato, dissi al collega Li che, avendo ricevuto l’ordine di
tornare immediatamente in patria, dovevo fare i bagagli. Il collega Li non batté ciglio. Restammo un momento a fissarci, poi scendemmo nella sala dell’albergo dove ci aspettava la cena.
Dalla Cina, come già dall’India, partii con un senso di perdita, quasi di rimpianto; ma in realtà quella partenza era una specie di fuga. Ero di nuovo costretto a scappare: come al solito l’incontro con un mondo nuovo e sconosciuto cominciava a risucchiarmi nella sua orbita, a possedermi e condizionarmi in modo
ossessivo. Ero dominato dal suo fascino, dal desiderio irresistibile di conoscerlo, di immergermici e di identificarmici anima e corpo. Come se ci fossi
nato e cresciuto, come se fosse il mio mondo d’origine. Mi buttavo a studiarne la lingua, a leggere montagne di libri sull’argomento, a esplorare ogni recesso di quella terra ignota.
Era una specie di malattia, un pericoloso tallone d’Achille, visto che mi rendevo perfettamente conto che non sarebbe bastata l’intera vita per conoscere anche una piccola parte di civiltà così ricche, complesse e sfaccettate. Quelle civiltà erano come edifici zeppi di stanze, corridoi, balconi e mansarde collegati da tali meandri e labirinti che, una volta entrati in uno di essi, non c’era più verso di uscirne. Conoscere la civiltà indù, cinese, araba o ebraica significava sprofondare in studi che non consentivano di occuparsi d’altro.
Io invece ero attratto anche da ciò che si trovava oltre la frontiera di ognuno di quei paesi, tentato da nuove genti, nuove strade e nuovi cieli. La voglia di varcare la frontiera per vedere che cosa ci fosse dall’altra parte non mi era affatto passata.
Rientrai a Varsavia. In breve il mistero della mia strana situazione in Cina, della mia inattività e di quello stare assurdamente sospeso nel vuoto venne chiarito. L’idea di mandarmi a Pechino era nata sull’onda di due processi connessi al disgelo: l’ottobre del ‘56 in Polonia e i Cento Fiori del presidente Mao in Cina. Ma mentre arrivavo in Cina, Varsavia e Pechino facevano marcia indietro: in Polonia Gomuika iniziava la campagna contro i liberali, mentre in Cina Mao Tse-tung inaugurava la draconiana politica del Grande Balzo.
In realtà avrei dovuto ripartire da Pechino il giorno dopo il mio arrivo. Ma la mia redazione non mi aveva fatto sapere niente: impaurita e impegnata nella lotta per sopravvivere, mi aveva completamente dimenticato. Può anche darsi che
mi a-vesse lasciato in Cina di proposito, sperando di tenermi fuori dai guai. La redazione del “Chungkuo”, invece, era stata informata dall’ambasciata cinese a Varsavia che il corrispondente dello “Sztandar Mlodych” era l’inviato di un giornale appeso a un filo e la cui condanna a morte era questione di giorni.
Non
mi avevano rimandato indietro solo grazie alle leggi dell’ospitalità, al desiderio (fondamentale in quel paese) di salvare la faccia e all’innata cortesia di quel popolo. Avevano preferito fare in modo che capissi da solo che il previsto modello di collaborazione non era più attuale e che decidessi spontaneamente di andarmene.