I FERRI DEL MESTIERE DEL GRECO

 

 

Approfittando di un’occasione, parto da Lisali. Un’occasione: l’unico modo di viaggiare da queste parti. Sulla strada deserta da giorni, spunta all’improvviso un’automobile. Alla sua vista il cuore mi batte all’impazzata. Quando arriva alla mia altezza, la fermo. “Bonjour, monsieur” dico gentilmente all’autista, e chiedo speranzoso: “Avez-vous une place, sii vous plait?”. Il posto non ci sarebbe, qui le macchine sono sempre stipate. Ma, per quanto già stretti, i passeggeri si stringono di buon grado e, in posizioni quanto mai precarie, ripartiamo. Solo una volta a bordo chiedo ai miei vicini se sanno dove stiamo andando. Impossibile avere una risposta precisa: nessuno lo sa. Per ora si va avanti fin dove si può.

 

 

Ci vuole poco a capire che tutti vorrebbero arrivare il più lontano possibile.

La guerra ha sorpreso la gente negli angoli più sperduti del Congo - questo paese immenso e privo di comunicazioni - e chi si trovava lontano per cercare lavoro o per visitare i parenti, cerca di tornare a casa come può. L’unico sistema è afferrare al volo le occasioni e procedere verso la parte di mondo dove si trova la casa. L’importante è andare avanti, poi si vedrà.

 

 

Capita spesso di incontrare persone che sono in viaggio da settimane o da me-si.

Non possiedono mappe geografiche e, se per caso capita loro di vederne una, è difficile che vi

 

 

trovino il nome del villaggio o della cittadina ai quali desiderano tornare. Che se ne fanno di una mappa, visto che la maggior parte di loro non sa leggere?

Ma

il lato più sorprendente di questi viaggiatori sperduti è l’apatica acquiescenza a qualsiasi cosa capiti loro strada facendo. Se trovano l’occasione per andare avanti, vanno avanti, altrimenti si siedono sul ciglio della strada e aspettano.

Mi colpivano soprattutto quelli che, avendo completamente perso l’orienta-mento e non riuscendo a raccapezzarsi tra i nomi che incontravano, procedevano in direzione opposta a quella di casa. Come facevano a informarsi, a chi chiedere la direzione? Nel punto dove si trovavano in quel momento, il nome del loro villaggio natale non diceva niente a nessuno.

 

 

In quei momenti di smarrimento e di confusione la cosa migliore era restare uniti, muoversi con il proprio gruppo tribale. Cadeva così la possibilità di sfruttare gli eventuali passaggi in auto. Bisognava camminare per giorni e settimane. Incontravo spesso di questi clan e tribù in marcia, che talvolta formavano una lunga colonna. Portavano i loro averi sulla testa in fagotti, catinelle e secchi, lasciando libere le mani per mantenere l’equilibrio, scacciare mosche e zanzare, asciugarsi il sudore dalla faccia.

 

 

Mi fermavo sul ciglio della strada e attaccavo discorso. Rispondevano volentieri, sempre che conoscessero la risposta. Interrogati su dove andassero, nominavano Kindu, Kon-golo, Lusambo. Se chiedevo dove si trovassero quei posti,

tacevano imbarazzati: come spiegare a un estraneo dov’era Kindu? Qualcuno, talvolta, indicava il Sud. Se poi domandavo quanto fosse lontano, l’imbarazzo diventava totale: non lo sapevano. Alla domanda: “Chi siete?”, dicevano di essere yeke, tabwa o magari lunda. “Siete in molti?” Non lo sapevano. Se interrogavo i giovani, mi dicevano di chiedere agli anziani. Se interrogavo gli anziani, si mettevano a discutere tra loro.

 

 

Secondo la mappa in mio possesso {Afrique, Carte generale, edita a Berna da Kummerly&Frey, senza data) mi trovavo da qualche parte tra Stanleyville e Irunu.

Avrei dovuto

 

 

entrare nell’Uganda, non ancora in guerra, raggiungere Kampala, lì collegarmi con Londra e per quella via spedire le informazioni a Varsavia. Nel nostro mestiere il piacere del viaggio e il fascino della scoperta dovevano sempre cedere il passo all’elemento principale: il collegamento con la centrale e l’invio delle ultime notizie. Era per questo che mi mandavano in giro per il mondo, e non c’erano scuse. Se fossi riuscito a raggiungere Kampala, pensavo, da

lì avrei potuto andare a Nairobi, poi a Dar-es-Salaam, a Lusaka e, successivamente, a Brazzaville, Bangui, Fort Lamy e oltre. Sogni, progetti e itinerari che tracciavo con un dito sulla mappa mentre sedevo sull’ampia veranda tra le buganvillee, le salvie e i gerani di una bella villa abbandonata da un belga, ex proprietario di una segheria in disuso. In piedi davanti alla villa, un gruppo di bambini osserva in silenzio l’uomo bianco. Eppure avevano sentito dire dagli anziani che i bianchi se ne erano andati. A quanto pareva, erano tornati.

 

 

Il viaggio africano si prolungava al punto che cominciavo a non ricordare più date e luoghi e a confondere i fatti. Succedeva continuamente qualcosa di nuovo,

il continente era un turbine di avvenimenti. Viaggiavo e scrivevo: avevo la sensazione che intorno a me accadessero fatti importanti e irripetibili che meritavano una sia pur fuggevole testimonianza.

 

 

Se appena appena ne avevo il tempo e la forza, cercavo comunque di leggere qualcosa. Nella fattispecie: West African Studies, scritto nel lontano 1901

dall’acuta e coraggiosa viaggiatrice Mary Kingsley West; l’intelligente Bantu Philosophy di padre Placide Tempels, edito nel 1945; il profondo Afrique ambigue dell’antropologo francese Georges Balan-dier. E poi, naturalmente, Erodoto.

 

 

Più che le sorti degli uomini e delle guerre, adesso preferivo analizzare i suoi ferri del mestiere. Come lavorava? Di

 

 

che cosa si interessava? Come abbordava la gente? Quali domande poneva?

Come

ascoltava quello che gli raccontavano? Per me si trattava di cose importanti: in quel periodo cercavo di studiare l’arte del reportage ed Erodoto mi pareva un maestro di prim’ordine. Mi intrigava soprattutto il rapporto tra Erodoto e la gente che incontrava: tutto quello che si scrive nei reportage proviene dalla gente e il valore di un testo dipende molto dalla qualità del rapporto io-lui, togli altri. Dipendiamo dagli altri e il reportage è forse il più collettivo dei generi letterari.

 

 

Leggendo i saggi su Erodoto avevo notato che i loro autori prendevano in esame esclusivamente il testo, la sua esattezza e attendibilità, trascurando il modo in cui lo scrittore metteva insieme il materiale necessario a tessere il suo ricchissimo e gigantesco arazzo. Era questo l’aspetto che, secondo me, andava soprattutto approfondito.

 

 

Ma c’era anche dell’altro. Più tempo passavo a leggere Erodoto, più provavo un

sentimento d’amicizia e quasi d’affetto nei suoi confronti. Mi era sempre più difficile fare a meno non tanto del libro, quanto del suo autore. Un sentimento complesso e difficile da definire con precisione. Era l’intimità con qualcuno che non conosciamo di persona, ma che ci affascina per il suo modo di essere e di rapportarsi agli altri; una persona che, dovunque vada, diventa immediatamente un centro di aggregazione.

 

 

Erodoto era figlio della sua cultura e del clima propizio all’uomo che le aveva fatto da culla. Era la cultura delle grandi tavole imbandite, dove ci si siede in gruppo nelle calde sere estive a mangiare olive e formaggio, bere vino fresco e chiacchierare. Uno spazio non racchiuso da mura ma aperto sul mare o su un pendio montano, atto a sviluppare l’immaginazione. Un incontro durante il quale

i narratori hanno l’occasione di esibirsi in gare improvvisate dove primeggia chi riesce a riferire la storia più interessante o gli episodi più insoliti. Qui la realtà si mescola alla fantasia, i tempi e i luoghi si confondono, nascono le leggende, sorgono i miti.

 

 

Leggendo Erodoto, viene da pensare che frequentasse

con piacere quei banchetti e che fosse un ascoltatore attento e scrupoloso.

Doveva avere una memoria formidabile. Noi moderni, viziati dalle conquiste della

tecnica, per quanto riguarda la memoria siamo degli invalidi: basta restare senza libri o senza computer e siamo perduti. Ma perfino oggi possiamo trovare società dove ancora risalta l’incredibile capacità della memoria umana. Erodoto viveva in un mondo dotato di quel tipo di memoria. Il libro era una rarità, le iscrizioni su pietre e muri una rarità anche maggiore.

 

 

C’erano gli uomini e i racconti che si facevano l’un l’altro. Per esistere, l’uomo aveva bisogno della presenza di un altro uomo, di vederlo e sentirlo: non

si davano altre forme di comunicazione e quindi altre possibilità di vita. La civiltà della trasmissione orale li avvicinava: sapevano che l’Altro non era solo colui che li aiutava a procacciarsi il cibo e a difendersi dai nemici, ma anche l’essere unico e insostituibile capace di spiegare il mondo e di fare loro da guida.

 

 

Quell’antica lingua della trasmissione diretta e del contatto socratico era infinitamente più ricca della nostra. A contare non erano solo le parole. Spesso più delle parole contava ciò che si comunicava tra le righe con l’espressione del viso, i gesti delle mani e i movimenti del corpo. Erodoto lo sa e, come ogni reporter e ogni etnologo, fa in modo di entrare in contatto diretto con i suoi personaggi, di non limitarsi ad ascoltare quello che dicono, ma di osservare come lo dicono e come si comportano.

 

 

Erodoto è diviso in due: da un lato sa che la principale e quasi unica fonte del sapere è la memoria dei suoi interlocutori; dall’altro si rende conto che la memoria è una materia fragile, mutevole e fugace: un punto che svanisce. Per questo si affretta: la gente dimentica, parte per non più tornare e muore, mentre lui vorrebbe raccogliere la maggior quantità possibile di dati attendibili.

 

 

Sapendo di muoversi su un terreno così instabile e incerto, nelle sue relazioni è sempre molto cauto, mette le mani avanti, sottolinea le sue riserve:

 

 

“Questo Gige, dunque, primo dei barbari di cui abbiamo conoscenza, dedicò a Delfi doni votivi…” 8G

 

 

“Desiderò, a quanto dicono, raggiungere Itaca…” “A quanto ne so, i Persiani hanno i seguenti costumi…” “Suppongo, dunque, deducendo quello che non so da

quello che so…”

 

 

“E come ho saputo da quanto si dice…” “Questa è la mia relazione su ciò che si

narra dei più lontani paesi…”

 

 

“Ignoro se ciò sia vero, limitandomi a riferire quanto si diri ce…

 

 

“Non posso dire esattamente quali tra gli Ioni, in questa battaglia, si rivelarono vigliacchi e quali coraggiosi, visto che si accusano gli uni con gli altri… “

 

 

Rendendosi conto di muoversi in un mondo di incertezze e di conoscenze imperfette, Erodoto si scusa spesso, spiegando e giustificando le proprie mancanze:

 

 

” Colui poi che parlò dell’Oceano, avendo portato il suo discorso su cose oscure, non può essere neppure preso in esame; io per parte mia non so affatto che ci sia un qualche fiume Oceano, ma credo che Omero o qualcuno dei poeti vissuti prima di lui abbia inventato il nome e l’abbia introdotto in poesia…“87

 

 

“Al di là del paese del quale mi appresto a raccontare, nessuno sa con certezza cosa ci sia. Infatti non ho potuto averne informazioni da qualcuno che affermi di saperlo come testimone oculare…“88

 

 

“Non sono stato in grado di conoscere esattamente il numero degli Sciti, ma ho

udito riguardo ad esso racconti diversi..“88

 

 

Con una fatica e un’abnegazione straordinarie (considerata l’epoca), cerca comunque di controllare il più possibile, di risalire alle fonti e di stabilire i fatti:

 

 

“pur interessandomi della questione, non ho potuto udire

nessuno che avesse constatato coi propri occhi che esiste un mare in quella estrema parte dell’Europa… “90

 

 

” Questo santuario è, per quanto io ho trovato nelle mie ricerche, il più antico di tutti i santuari di questa dea…“91

 

 

” Volendo sapere qualcosa di chiaro su questi argomenti da quelli che potevano saperlo, navigai anche fino a Tiro in Fenicia, poiché sapevo che lì c’era un tempio sacro ad Eracle […] Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiesi […] E trovai che neppure essi s’accordavano con i Greci. “91

 

 

“C’è poi una località dell’Arabia […] dove andai per informarmi sui serpenti alati. Lì giunto vidi ossa di serpenti e spine dorsali in quantità impossibile a descriversi..“9^

 

 

(A proposito dell’isola di Chemmi): “‘gli Egiziani dicono che quest’isola sia natante. Io per mio conto non l’ho vista né navigare né muoversi..“9‘1

 

 

“Ma secondo me si tratta di favole […] poiché io stesso ho visto…”

 

 

E quello che sa, come fa a saperlo? Per averlo sentito dire oppure visto:

“Dico solo ciò che dicono gli stessi Libii…”.

 

 

“A quel che dicono i Traci, le api occupano il territorio al di là dell’lstro..“95

 

 

“Tino a questo punto ciò che ho detto deriva dalla mia personale osservazione, dal mio ragionamento e dalle mie ricerche; da questo punto invece vengo a riferire i racconti degli Egiziani secondo come li udii; ma si aggiungerà ad essi anche qualcosa che io stesso ho veduto. “%

 

 

“Le notizie esposte fin qui le raccontano gli Egiziani stessi, ora dirò invece quanto concordemente narrano sia avvenuto in questo paese […] vi aggiungerò però anche qualcosa della mia personale osservazione. “91

 

 

“Chiedendo io ai sacerdoti se i Greci dicono o no sciocchezze riguardo a ciò che

sarebbe avvenuto a Ilio, a queste domande risposero dicendo di essersene informati dallo stesso Menelao… “98

 

 

(A proposito dei colchi): “è chiaro infatti che i Colchi sono di razza egiziana, e io lo affermo per averlo compreso da me prima di averlo udito da altri […]

lo congetturai in base a que-

sti fatti: e perché sono neri di colorito e perché hanno i capelli crespi […]

Dai seguenti indizi invece lo arguii ancora di più, che cioè […] Colchi, Egiziani e Etiopi si circoncidono fin da tempi assai antichi”. “

 

 

“Dunque, io scriverò, secondo quanto narrano alcuni dei Persiani, cioè quelli che non vogliono esaltare le imprese di Ciro ma vogliono dire la verità…“100

 

 

Tutto lo stupisce, lo avvince, lo spaventa. A molte cose non presta fede, ben sapendo come la gente sia portata a credere alle fole:

” Quegli stessi sacerdoti dicono, ma a me non sembra verosimile, che il dio stesso venga nella cappella…”.

 

 

(Il re d’Egitto Rampsinito) “fece questa cosa, per me incredibile: pose sua figlia in un postribolo imponendole di accogliere indifferentemente tutti…”

“I Calvi raccontano - dicendo però cose per me non credibili - che abitano i monti uomini dai piedi caprini, e al di là di questi altri uomini che dormono per sei mesi. Ma questo io non l’ammetto affatto”102

 

 

(A proposito dei neuri che si trasformano in lupi): “Per conto mio, col dire questo non mi convincono; ciò non di meno lo affermano, e per di più, lo giurano”.10^

 

 

(Delle statue cadute in ginocchio davanti agli uomini): “a me personalmente non

sembra credibile, ma forse a qualcun altro, sì…”.

 

 

Questo primo globalista della storia prende in giro l’ignoranza dei suoi contemporanei: “Io rido a vedere che molti hanno disegnato la mappa della terra

e che nessuno l’ha spiegata in modo ragionevole. E costoro rappresentano l’Oceano che scorre attorno alla terra, che sarebbe rotonda come tracciata col compasso, e raffigurano l’Asia uguale all’Europa. In poche parole io dimostrerò la grandezza di ciascuna di queste parti, e quale è la forma di ognuna di esse”.104

 

 

E dopo avere presentato l’Asia, l’Europa e l’Africa, così conclude la sua descrizione del mondo: “Né io riesco a comprendere per quale ragione a una terra

che è una sola furono imposti tre nomi diversi, tratti da nomi di donna… “.x