XXII - L’EPURAZIONE NELLE ARTI

 

I

 

I venti gelidi dell’antisemitismo, dell’ antiliberalismo e dell’ antimarxismo, combinati con una buona dose di soffocante condanna morale della «decadenza», spazzarono anche altri settori della cultura tedesca nei primi sei mesi del 1933. L’industria cinematografica si rivelò abbastanza facile da controllare perché, a differenza del mondo dei cabaret e dei locali notturni, era costituita da poche grandi società, un tipo di organizzazione reso necessario dagli elevati costi di produzione e distribuzione delle pellicole. Come in altri campi, chi si accorse della direzione che il vento aveva preso cominciò presto ad assecondarlo, anticipando le imposizioni esplicite. Già nel marzo 1933 gli enormi studi di posa della UFA, di proprietà di Alfred Hugenberg, all’epoca ancora alleato di governo di Hitler, avviarono una vasta politica di licenziamenti del personale ebreo, che colpì anche gli attori. Ben presto i nazisti estesero il loro controllo sull’associazione cui facevano capo i proprietari di cinematografi, e sui sindacati dei lavoratori di questo settore, mentre il 14 luglio Goebbels creò un apposito ufficio per sovrintendere su ogni aspetto di questa industria. Ciò permetteva ai vertici nazisti, e in primo luogo a Goebbels, un appassionato intenditore di cinema, di disciplinare la scelta di attori, registi, cineoperatori, giù giù fino all’ultimo addetto. Gli ebrei furono via via epurati, benché il settore cinematografico non fosse compreso nella legge sulla pubblica amministrazione del 7 aprile. Attori e registi sgraditi al regime vennero allontanati.944

Insofferente del clima di censura e di controllo politico, una minoranza di esponenti dell’industria cinematografica tedesca scelse di tentare la sorte in quello più libero di Hollywood. Fra coloro che si affermarono oltreoceano ci fu il regista Fritz Lang, che aveva realizzato in patria una serie di opere di grande successo, come M, il mostro di Düsseldorf – mostro che più tardi la propaganda nazista avrebbe tentato di far passare per ebreo, allusione del tutto assente nell’opera di Lang –, Metropolis e I Nibelunghi, film epico tra i preferiti di Hitler, mentre Il testamento del dottor Mabuse, una satira indiretta dei nazisti, venne proibito poco prima dell’uscita nelle sale, prevista per la primavera del 1933. La strada dell’esilio fu presa anche da Billy Wilder, i cui film romantici, destinati a un pubblico popolare, erano assai lontani dai temi e dallo stile che lo avrebbero caratterizzato in America. Nei decenni successivi i due artisti avrebbero diretto alcuni dei più grandi successi di Hollywood.

Altri registi emigrarono a Parigi: fra loro, il ceco G.W. Pabst, autore di uno dei più celebri film della Repubblica di Weimar, Il vaso di Pandora, e di una versione cinematografica dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill, e Max Ophüls, nato in Germania nel 1902 come Max Oppenheimer. Alcune personalità del cinema tedesco, tuttavia, erano state attratte da Hollywood ben prima che i nazisti salissero al potere. Marlene Dietrich, per esempio, aveva lasciato il paese nel 1930 per motivi più economici che politici. Una delle poche partenze che si possono considerare conseguenza diretta della creazione del Terzo Reich fu quella di Peter Lorre, di origine ungherese, che aveva interpretato lo sfuggente maniaco infanticida del Mostro di Düsseldorf.945 Le vicende di chi riparò all’estero suscitarono, a ragione, notevole interesse, ma la grande maggioranza di coloro che lavoravano nella fiorente industria cinematografica tedesca rimase in Germania. Nel 1932 la rivista «Die Filmwoche» aveva stilato, sulla base delle lettere degli ammiratori, una classifica dei 75 attori e attrici di cinema più famosi della Germania: di questi, solo 13 emigrarono, comprese tre dive che si erano piazzate nelle prime cinque posizioni e cioè Lilian Harvey e Käthe von Nagy, che partirono entrambe nel 1939, e Gitta Alpar, che se ne andò nel 1933. Fra le altre stelle dell’elenco, Brigitte Helm lasciò la Germania nel 1936 e Conrad Veidt nel 1934; oltre alla Alpar, solo Elisabeth Bergner, che era ebrea, partì nel 1933. Nel complesso, 35 di quei 75 attori erano ancora attivi nella cinematografia tedesca nel 1944-45.946

Il cinema era diventato sempre più popolare nell’epoca a cavallo fra gli anni ’20 e ’30, in particolare dopo l’introduzione del sonoro. Ma, prima dell’avvento della televisione, era la radio il mezzo di comunicazione di massa più diffuso e in più rapida ascesa. A differenza delle società cinematografiche, la rete radiofonica era di proprietà pubblica e apparteneva per il 51 per cento alla Reichs Rundfunk Gesellschaft, l’ente radiofonico nazionale, e per il restante 49 per cento a nove stazioni radio regionali; il controllo era affidato a due appositi commissari del Reich, uno del ministero delle Poste e Comunicazioni e l’altro del ministero dell’Interno, e a vari commissari regionali. Goebbels era ben consapevole del potere della radio e durante la campagna elettorale del febbraio-marzo 1933 era riuscito a bloccare tutti i tentativi dei partiti esterni alla coalizione di governo di trasmettere programmi di contenuto politico. In breve ottenne la sostituzione dei due commissari in carica con persone di sua scelta e il 30 giugno 1933 un decreto di Hitler attribuì il controllo di tutte le trasmissioni al ministero della Propaganda.

Goebbels mise subito in atto una massiccia epurazione e nei primi sei mesi del 1933 si registrarono 270 licenziamenti, vale a dire che venne cacciato il 13 per cento di tutti i dipendenti degli enti radiofonici: furono allontanati ebrei, liberali, socialdemocratici e molti altri individui sgraditi al regime, un’operazione facilitata dal fatto che molti degli epurati avevano contratti a breve termine. I dirigenti e i giornalisti coinvolti più da vicino con la precedente programmazione liberale, compreso Hans Bredow, il fondatore della radio tedesca, vennero arrestati sulla base di accuse di corruzione, portati al campo di concentramento di Oranienburg e condannati durante un imponente processo pubblico che si tenne nel 1934-35 e richiese mesi di preparazione. La maggioranza, tuttavia, era disposta a continuare a lavorare sotto il nuovo regime. La continuità venne garantita da uomini come Hans Fritsche, che dopo essere stato direttore del dipartimento per l’informazione radiofonica di Hugenberg e a capo dell’Ufficio servizi radio negli anni ’20, venne ora nominato responsabile dell’informazione; come molti altri, anch’egli cercò di salvaguardare la sua posizione aderendo, il 1° maggio 1933, al Partito nazista. In questo periodo, la maggior parte delle stazioni radio era già stata «coordinata» con successo e una parte sempre più rilevante delle trasmissioni era costituita da propaganda nazista. Il 30 marzo Jochen Klepper, un annunciatore socialdemocratico sposato a un’ebrea, si lamentava che «ormai la stazione radio sembra una caserma nazista: è piena di uniformi delle varie formazioni del partito». Dopo poco più di due mesi anch’egli fu licenziato.947

 

II

 

In un discorso tenuto il 25 marzo 1933, Goebbels affermò che la radio era «il mezzo di influenza sulle masse più moderno e più importante» e che, a lungo termine, avrebbe finito per sostituire i giornali. Nel frattempo, tuttavia, questi rimanevano fondamentali per la diffusione di notizie e opinioni e, rispetto alla cinematografia e alla radio, rappresentavano un ostacolo assai più arduo per la politica di coordinamento e controllo dei nazisti. In Germania venivano pubblicati più quotidiani che in Gran Bretagna, Francia e Italia messe insieme e un numero perfino superiore di riviste e periodici di tutti i tipi. Esistevano giornali e pubblicazioni indipendenti a distribuzione nazionale, regionale e locale e le idee politiche di cui erano portatori andavano dall’estrema sinistra all’estrema destra. Il tentativo del Partito nazista di costruire un proprio impero editoriale non aveva avuto molto successo e i giornali politicizzati erano entrati in crisi negli ultimi anni della Repubblica di Weimar: nella conquista del consenso alla causa nazista, la carta stampata sembrava passare in secondo piano rispetto alla potenza della radio.948

Date le circostanze, l’unica possibilità per Goebbels era agire per gradi. Far cessare le pubblicazioni ufficiali dei partiti comunista e socialdemocratico fu abbastanza facile: una volta eliminati i partiti dalla scena politica, i loro giornali, già colpiti dalla censura nei primi mesi del 1933, furono chiusi in via definitiva. Gli altri casi, invece, vennero risolti con metodi diversi, non esclusi la forza e i provvedimenti di polizia. Quotidiani conservatori come il «Münchner Neueste Nachrichten» furono vittime della censura tanto quanto le testate liberali e di centro; il 27 marzo 1933 il «Fränkische Presse», un organo cattolico che faceva capo al Partito popolare bavarese, fu obbligato a pubblicare in prima pagina una dichiarazione di scuse per aver riportato per anni menzogne sul conto di Hitler e dei nazisti. Di fronte a questo tipo di pressioni, le principali organizzazioni del settore si convinsero in breve tempo che dovevano adeguarsi al nuovo clima. Il 30 aprile 1933 l’Associazione della stampa tedesca del Reich, il sindacato dei giornalisti, si allineò di propria iniziativa, come già molti altri organi analoghi: venne eletto presidente il collega di Goebbels Otto Dietrich e l’associazione si impegnò a rendere l’iscrizione obbligatoria per tutti i giornalisti e ad ammettere solo persone di razza e idee politiche accertate.949 Il 28 giugno 1933 la stessa strada venne scelta dall’Associazione tedesca degli editori di giornali, che nominò suo presidente Max Amann, iscritto al Partito nazista, e sostituì con esponenti nazisti i membri del consiglio diventati sgraditi per motivi politici.950 All’epoca, la stampa era già stata intimidita e sottomessa: i giornalisti non nazisti potevano esprimere le loro opinioni soltanto tramite accenni appena comprensibili e allusioni, che spettava poi ai lettori decifrare leggendo fra le righe. Goebbels trasformò le normali conferenze stampa del governo di Weimar, aperte al pubblico, in incontri segreti in cui il ministro della Propaganda passava a un ristretto gruppo di giornalisti veline dettagliate, giungendo talvolta a distribuire articoli già pronti da stampare tali e quali, o da utilizzare come base per le corrispondenze. «Siete tenuti a sapere non solo che cosa succede» disse ai giornalisti riuniti per la sua prima conferenza stampa ufficiale il 15 marzo 1933 «ma anche qual è la posizione del governo su tali fatti e come trasmetterla al pubblico nel modo più efficace».951 Era implicito e chiaro per tutti che non avrebbero dovuto trasmettere alcun’altra posizione.

Nel frattempo i nazisti stavano conducendo una campagna di arresti a tappeto fra i giornalisti comunisti e pacifisti. I fermi erano cominciati nelle prime ore del 28 febbraio 1933 e uno dei primi a esserne colpiti fu Carl von Ossietzky, direttore di «Die Weltbühne», una rivista di grande rilievo intellettuale schierata su posizioni pacifiste e di sinistra. Ossietzky si era messo in luce sia come mordace critico del nazismo prima del 1933, sia per aver pubblicamente denunciato un programma di riarmo segreto e illegale dell’aeronautica, atto per il quale era stato incarcerato dopo un processo che aveva suscitato grande clamore nel maggio 1932. Dopo il nuovo arresto del 1933, venne lanciata fuori dalla Germania una massiccia campagna in favore del suo rilascio, ma tutto fu inutile: imprigionato nel campo improvvisato di Sonnenburg, controllato dalle camicie brune, il gracile Ossietzky fu obbligato a svolgere duri lavori manuali, compreso scavare quella che, così gli dissero le guardie, sarebbe stata la sua fossa. Era nato ad Amburgo nel 1889 e, nonostante il cognome, non era né ebreo né polacco né russo, bensì autenticamente tedesco nel senso che i nazisti stessi attribuivano al termine: malgrado ciò, durante i frequenti pestaggi cui veniva sottoposto, gli uomini delle squadre d’assalto continuavano a gridargli «porco ebreo» o «porco polacco». Il 12 aprile 1933 Ossietzky, che non aveva mai avuto un fisico forte, sopravvisse a malapena a un infarto. Prigionieri che avevano diviso con lui la detenzione, quando furono rilasciati lo descrissero ai suoi amici come un uomo ormai a pezzi.952

La sorte di Ossietzky fu poco meno dura di quella toccata a un altro scrittore radicale degli anni ’20, il poeta e drammaturgo anarchico Erich Mühsam, il cui coinvolgimento nel governo «degli anarchici da caffè» a Monaco, nel 1919, gli era già valso un periodo in galera durante la Repubblica di Weimar. Arrestato dopo l’incendio del Reichstag, Mühsam fu oggetto di un odio particolare da parte delle camicie brune perché, oltre che scrittore radicale, era anche rivoluzionario ed ebreo: sottoposto a incessanti umiliazioni e violenze nel campo di concentramento di Oranienburg, quando si rifiutò di cantare l’Horst Wessel Lied venne massacrato di botte dalle guardie delle SS; poco tempo dopo fu trovato impiccato nelle latrine del campo.953

Anche il pacifista e anarchico Ernst Toller, un altro scrittore ebreo che era stato al fianco di Mühsam nella breve esperienza di governo rivoluzionario a Monaco, era stato incarcerato a causa del ruolo che aveva avuto durante quegli eventi. Negli anni ’20 aveva conquistato una certa notorietà con una serie di lavori teatrali di carattere realista in cui attaccava le ingiustizie e le ineguaglianze della società tedesca e con una satira su Hitler che venne rappresentata con il beffardo titolo di Wotan liberato. Alla fine del febbraio 1933 Toller si trovava in Svizzera e gli arresti di massa che seguirono l’incendio del Reichstag lo convinsero a non tornare in Germania; cominciò a viaggiare tenendo conferenze in cui denunciava il regime nazista, ma le difficoltà della vita in esilio non gli permisero di continuare la sua attività di scrittore e nel 1939 si suicidò a New York, portato alla disperazione dall’imminente prospettiva di una nuova guerra mondiale.954

Altri scrittori riuscirono ad adattarsi meglio all’ambiente letterario fuori della Germania e l’esempio più famoso è quello del poeta e drammaturgo comunista Bertolt Brecht, che dopo aver lasciato il suo paese per la Svizzera nel 1933, si stabilì prima in Danimarca e infine a Hollywood. Uno dei fuoriusciti che seppero conquistare il successo fu il romanziere Erich Maria Remarque, autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Malgrado il nome, Remarque non era francese, ma tedesco (i nazisti insinuarono anche, senza alcuna prova a sostegno, che fosse ebreo e che avesse modificato l’ordine delle lettere del suo vero cognome, Kramer, trasformandolo in Remark). In esilio, Remarque continuò a scrivere e la vendita dei diritti cinematografici dei suoi lavori gli garantì un buon tenore di vita, tanto che verso la fine degli anni ’30 era conosciuto come un facoltoso playboy, famoso per le sue relazioni con una sfilza di attrici di Hollywood.955 Ancora più noto era lo scrittore Thomas Mann: i suoi romanzi I Buddenbrook e La montagna incantata e racconti come La morte a Venezia avevano fatto di lui uno dei giganti della letteratura mondiale e gli valsero il premio Nobel per la letteratura nel 1929. Mann era stato uno dei più importanti scrittori schierati a favore della democrazia di Weimar e aveva tenuto moltissime conferenze in Germania e nel mondo sulla necessità di dare sostegno alla repubblica. Non subì minacce dirette di violenza o incarcerazione da parte dei nazisti, ma dal febbraio 1933 in poi rimase in Svizzera, nonostante i numerosi tentativi del regime di farlo tornare. «Non posso immaginare di vivere nella Germania odierna» scrisse nel giugno 1933; qualche mese più tardi, dopo essere stato espulso con dichiarazioni infarcite di violenta retorica dall’Accademia delle Arti della Prussia assieme ad altri autori democratici, come la poetessa e scrittrice Ricarda Huch, la sua intenzione di non tornare si rafforzò ancora di più, come scriverà a un amico: «Per quanto riguarda la mia situazione personale, l’accusa che avrei lasciato la Germania non è pertinente: io sono stato espulso. Sono stato maltrattato, messo alla gogna e depredato dai conquistatori stranieri del mio paese, perché io sono un tedesco migliore e da più tempo di quanto lo siano loro».956

Al fratello di Thomas Mann, Heinrich, autore di pungenti satire sui costumi della borghesia tedesca, quali Il suddito e L’angelo azzurro, il regime, offeso dalle aperte critiche che egli aveva espresso con discorsi e saggi, riservò un trattamento più brutale: nel 1933 venne infatti destituito dal suo incarico di presidente della sezione letteraria dell’Accademia delle Arti della Prussia e riparò in Francia. Nell’agosto di quello stesso anno lo raggiunse anche il romanziere Alfred Döblin, uno degli esponenti di spicco del modernismo letterario con romanzi come Berlin Alexanderplatz, ambientato nel mondo dei bassifondi e dei delinquenti della capitale tedesca negli anni del primo dopoguerra; ebreo e con trascorsi di socialdemocratico alle spalle, Döblin venne di fatto bandito dai nazisti. La stessa sorte toccò a un altro famoso scrittore ebreo, Lion Feuchtwanger, i cui romanzi Successo e I fratelli Oppenheim, pubblicati rispettivamente nel 1930 e nel 1933, erano severe critiche delle tendenze conservatrici e antisemite nella società e nella politica tedesche; Feuchtwanger era in viaggio in California quando apprese di essere stato messo al bando e decise di non tornare in Germania. Impossibilitato a pubblicare le sue opere in patria ed epurato dal regime perché ebreo, il romanziere Arnold Zweig si rifugiò invece in Cecoslovacchia nel 1933, da dove raggiunse poi la Palestina.957

Dopo il 1933, nel clima dominato dalla censura e dal controllo sempre più stretti da parte dei nazisti, pochi scrittori in Germania furono in grado di continuare a produrre opere di qualità. Perfino gli autori conservatori presero, in un modo o nell’altro, le distanze dal regime. Il poeta Stefan George aveva raccolto attorno a sé un gruppo di seguaci che aspirava alla rinascita di una «Germania segreta», capace di spazzare via il materialismo di Weimar, e nel 1933 offrì la sua «collaborazione spirituale» al «nuovo movimento nazionale», ma si rifiutò di aderire a qualsiasi organizzazione culturale o letteraria nazificata; molti dei suoi discepoli erano ebrei.

George morì nel dicembre 1933, ma un altro celebre scrittore radical-conservatore che era stato vicino alle posizioni dei nazisti negli anni ’20, Ernst Jünger, sarebbe vissuto molto più a lungo, morendo ultracentenario nel 1998. Ammirato da Hitler per il suo romanzo Tempeste di acciaio, che esaltava la vita del soldato durante la Prima guerra mondiale, Jünger non condivideva affatto l’uso dilagante del terrorismo nel Terzo Reich e si ritirò in quello che molti avrebbero poi definito un «esilio interiore». Continuò a scrivere romanzi, ma senza una chiara ambientazione temporale – molti che scelsero una strada analoga predilessero il Medioevo – e nonostante alcuni dei suoi lavori contenessero una cauta critica al terrore e alla dittatura in generale, vennero comunque pubblicati, distribuiti e recensiti, giacché non attaccavano il regime in modo esplicito.958

I casi di personaggi di primo piano che si schierarono con entusiasmo a favore del nuovo regime, come quello dello scrittore espressionista Gottfried Benn fino ad allora estraneo alla politica, furono abbastanza rari. Alla fine del 1933 erano pochissimi gli scrittori di talento o famosi che avevano scelto di rimanere in Germania. Forse l’unica eccezione era il drammaturgo Gerhart Hauptmann, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1912. Ma quando Hitler era diventato cancelliere Hauptmann aveva più di settant’anni e la vena creativa che lo aveva reso celebre si andava esaurendo. Continuò a scrivere e si sforzò di dare prova di conformismo almeno esteriore, unendosi ai saluti nazisti e cantando l’Horst Wessel Lied; ma non divenne mai un nazionalsocialista e i suoi lavori teatrali naturalistici vennero spesso criticati dai nazisti per i loro presunti atteggiamenti negativi. Uno scrittore ungherese che lo incontrò a Rapallo nel 1938 dovette stare ad ascoltare un lungo elenco di critiche nei confronti di Hitler che, disse Hauptmann con amarezza, aveva rovinato la Germania e avrebbe presto rovinato il mondo. Il suo interlocutore gli chiese perché non avesse lasciato il paese: «Perché sono un vigliacco, capisci? Un vigliacco. Sono un vigliacco» gridò Hauptmann con rabbia.959

 

III

 

Alla partenza di molte illustri personalità della letteratura si sommò un esodo analogo di pittori e scultori, sui quali si abbatté un’ondata di persecuzioni non molto diversa da quella che colpiva la scena musicale tedesca in quello stesso periodo. Nel mondo delle arti figurative, tuttavia, la furia era alimentata anche dalla forte avversione personale di Hitler, che in cuor suo si considerava un artista, per il modernismo. Nel Mein Kampf il futuro dittatore aveva definito le espressioni dell’arte modernista una creazione dei sovversivi ebrei, «escrescenze morbose e anormali» di uomini degenerati. Queste opinioni erano condivise da Alfred Rosenberg, che sulla natura e sulla funzione della pittura e della scultura aveva una posizione improntata al più deciso tradizionalismo.

Mentre la musica tedesca degli anni ’20 non aveva più la forza trainante che aveva avuto nei due secoli precedenti, nei primi tre decenni del XX secolo la pittura in Germania, liberatasi dal peso della tradizione attraverso l’espressionismo, l’astrattismo e altri movimenti modernisti, aveva conosciuto una vivace rinascita, imponendosi come la forma d’arte più importante e di maggior successo a livello internazionale e superando perfino la letteratura. Ora i nazisti, con Alfred Rosenberg in testa, si apprestavano a distruggere tutto ciò in osservanza al punto 25 del programma del Partito nazista del 1920: «Chiediamo procedimenti giudiziari contro tutte le tendenze dell’arte e della letteratura che comportino un rischio di disintegrazione della nostra vita in quanto nazione».960

Da tempo le opere di pittori come George Grosz, Emil Nolde, Max Beckmann, Paul Klee, Ernst Ludwig Kirchner, Otto Dix e molti altri scatenavano accesi dibattiti e i loro dipinti erano odiati sia dai conservatori sia dai nazisti. Grande scalpore aveva suscitato l’uso di temi religiosi nelle caricature politiche di Grosz, tanto che l’artista era rimasto coinvolto in due accuse di sacrilegio, da cui era stato prosciolto, già prima dell’ascesa al potere dei nazisti.961 In luglio Alfred Rosenberg definì i lavori di Nolde «negroidi, blasfemi e rozzi» e il memoriale di guerra di Magdeburgo, opera di Ernst Barlach, un insulto alla memoria dei caduti che, secondo l’ideologo nazista, l’artista aveva raffigurato come dei «mezzi deficienti». Critiche altrettanto aspre furono rivolte da nazisti iperpatriottici a Dix per le sue crude rappresentazioni degli orrori delle trincee durante la Prima guerra mondiale. Tutto ciò che non era pedissequamente figurativo diventava bersaglio di commenti ostili: nella concezione dei nazisti, l’arte, come ogni altra cosa, doveva sgorgare dall’anima del popolo, in modo che «ogni uomo delle SA di sani principi» potesse trarre le sue giuste conclusioni sul valore dell’opera alla pari con i critici d’arte.962 I duri attacchi verbali coinvolsero non solo gli artisti nazionali, ma anche quelli stranieri. Nel corso degli anni gallerie e musei tedeschi avevano acquistato molti quadri di impressionisti e postimpressionisti francesi, ma i nazionalisti ritenevano che, in considerazione anche del comportamento dei francesi in Renania e nella Ruhr durante la Repubblica di Weimar, sarebbe stato meglio spendere quel denaro per promuovere l’arte patria.963

Alcuni artisti, come Grosz, che era iscritto al Partito comunista, percepirono pericolosi segnali premonitori già prima del 30 gennaio 1933 e lasciarono il paese.964 Le politiche attuate dal governo statale nazista della Turingia dopo il 1930 erano state per molti un chiaro annuncio di quanto sarebbe successo: infatti, le autorità locali avevano fatto rimuovere i quadri di pittori come Klee, Nolde e Oskar Kokoschka dal museo di Stato di Weimar e, poco prima che la Bauhaus stessa venisse chiusa, avevano ordinato la distruzione degli affreschi di Oskar Schlemmer sulle pareti delle scale dell’edificio che la ospitava, a Dessau. Tutto ciò lasciava intendere che, con ogni probabilità, i nazisti avrebbero scatenato un pesante attacco al modernismo. Tuttavia, una qualche forma di compromesso sembrava ancora possibile, poiché l’espressionismo godeva del favore di alcuni settori del partito, compresa l’Unione degli studenti nazisti di Berlino che, nel luglio 1933, organizzò una mostra di arte tedesca comprendente anche opere di Barlach, Macke, Marc, Nolde, Christian Rohlfs e Karl Schmidt-Rottluff. Ma i capi del partito locale imposero la chiusura della mostra dopo soli tre giorni. Hitler detestava in modo particolare i lavori di Nolde, che Goebbels invece ammirava: quando il Führer visitò la nuova casa berlinese del ministro della Propaganda, nell’estate del 1933, rimase inorridito nel vedere «assurdi» quadri di Nolde appesi alle pareti e ordinò che fossero subito tolti. Nolde venne espulso dall’Accademia delle Arti della Prussia, con suo grande disappunto dato che era stato membro del Partito nazista fin dalla sua fondazione nel 1920. Durante il 1933, i capi nazisti locali e regionali licenziarono 27 curatori di musei e gallerie d’arte e li sostituirono con esponenti fidati del partito, che procedettero all’immediata rimozione delle opere moderniste, esponendole talvolta in sale separate, sorta di «stanze degli orrori dell’arte», a titolo di «esempi di bolscevismo culturale».965 Altri direttori e funzionari, invece, si piegarono all’atmosfera dominante, aderirono al Partito nazista o in ogni caso si adeguarono alle sue politiche.966

Come negli altri settori della cultura, l’epurazione degli artisti ebrei, a prescindere dal fatto che fossero modernisti o tradizionalisti, si intensificò nella primavera del 1933. La prima vittima del «coordinamento» dell’Accademia delle Arti della Prussia fu l’ottantaseienne Max Liebermann: il più rinomato pittore impressionista della Germania, nonché ex presidente dell’Accademia, fu obbligato a dimettersi sia dall’istituzione sia dal suo incarico di presidente onorario. Liebermann dichiarò di essere sempre stato convinto che l’arte non avesse nulla a che fare con la politica e questa opinione gli valse un’energica condanna da parte di tutta la stampa nazista. Alla domanda di come si sentisse, data l’età così avanzata, l’artista rispose: «Non si può inghiottire tutto ciò che si vorrebbe vomitare». Quando morì, due anni più tardi, solo due artisti non ebrei assistettero al funerale di quello che era stato un pittore osannato in tutta la nazione. Uno di essi, Käthe Kollwitz, famosa per i suoi dipinti di scene di povertà crudi ma non politici in senso esplicito, era stata costretta a dimettersi dall’Accademia della Prussia; lo scultore Ernst Barlach aveva rassegnato le sue dimissioni per protesta contro l’espulsione della Kollwitz e di altri artisti, ma rimase in Germania nonostante le sue opere fossero state messe al bando, come quelle di Schmidt-Rottluff.967

Paul Klee, uno dei principali bersagli della politica culturale nazista per la sua arte considerata «negroide», fu licenziato dal suo incarico di professore a Düsseldorf e partì quasi subito per la Svizzera, suo paese natale. Altri esponenti del modernismo non ebrei decisero invece di aspettare l’evolversi della situazione, nella speranza che le personalità del regime più bendisposte nei loro riguardi, per esempio Goebbels, potessero avere la meglio sull’antimodernismo di Hitler e Rosenberg. Max Beckmann, che in precedenza lavorava a Francoforte, nel 1933 si spostò di proposito a Berlino, sperando di riuscire a influire a proprio vantaggio sulle scelte politiche. La sua fama, come quella di molti degli artisti coinvolti nelle epurazioni, era internazionale ma, a differenza di Grosz o Dix, Beckmann non aveva mai prodotto opere con un contenuto politico diretto, né aveva mai dimostrato una benché minima tendenza all’astrattismo che caratterizzava invece i quadri di Kandinskij e Klee. Ciononostante, i suoi dipinti vennero rimossi dalla galleria nazionale di Berlino e il 15 aprile 1933 egli fu licenziato dal suo posto di insegnante a Francoforte. Mentre il pittore attendeva di conoscere quale sarebbe stato il suo destino, alcuni mercanti d’arte suoi estimatori fecero in modo che continuasse a disporre di una fonte di guadagno dignitosa attraverso i circuiti privati. Kirchner accettò di dimettersi dall’Accademia, ma volle sottolineare che non era ebreo e che non si era mai occupato di politica. Anche Schlemmer e lo stesso creatore della pittura astratta Vasilij Kandinskij, russo ma residente in Germania da decenni, pensavano che l’attacco all’arte modernista non sarebbe potuto durare a lungo e decisero di aspettare la fine della tempesta in Germania.968

All’epurazione in Prussia si accompagnarono iniziative analoghe in altre parti della Germania. Otto Dix fu espulso dall’Accademia di Dresda, ma continuò a lavorare in privato anche se i suoi quadri erano stati rimossi da gallerie e musei. L’architetto Mies van der Rohe rifiutò di dare le dimissioni dall’Accademia e venne cacciato: aveva tentato di ridare vita alla Bauhaus in una fabbrica abbandonata di Berlino, ma nell’aprile 1933, dopo un’irruzione, la polizia l’aveva chiusa; a nulla valsero le sue rimostranze, in cui ribadiva che l’istituzione era del tutto apolitica. Il fondatore della Bauhaus, Walter Gropius, protestò sostenendo di essere un reduce di guerra e un patriota e che il suo proposito era stato solo quello di ricreare in Germania un’autentica e vitale cultura della progettazione: il suo lavoro, disse, non aveva finalità politiche né intendeva opporsi al nazismo. Ma, in questo periodo, l’arte in Germania era tutto fuorché apolitica: erano stati proprio i movimenti modernisti radicali degli anni di Weimar, dal dadaismo alla stessa Bauhaus, a diffondere il messaggio che l’arte era uno strumento per cambiare il mondo. I nazisti si limitavano ad adeguare questo imperativo politico-culturale ai loro scopi. Inoltre, affidarsi a Joseph Goebbels era sempre un’impresa rischiosa: la speranza riposta in lui da alcuni di questi artisti sarebbe stata delusa nel modo più clamoroso.969

 

IV

 

Si è stimato che dopo il 1933 circa 2000 persone impegnate nel campo delle arti emigrarono dalla Germania,970 tra cui molti degli artisti e degli scrittori più dotati e di fama internazionale del periodo. La loro condizione non migliorò certo quando Goebbels li privò della cittadinanza tedesca: per molti rifugiati lo stato di apolide era un problema e comportava difficoltà negli spostamenti da un paese all’altro e nella ricerca di un lavoro; se non avevano documenti, spesso la burocrazia si rifiutava di riconoscere la loro presenza in un dato paese. A più riprese il regime pubblicò gli elenchi delle persone a cui venivano ritirati in via ufficiale la cittadinanza tedesca e il passaporto: il primo fu diramato il 23 agosto 1933 e comprendeva scrittori come Lion Feuchtwanger, Heinrich Mann, Ernst Toller e Kurt Tucholsky; altri tre elenchi sarebbero stati pubblicati poco dopo e avrebbero interessato la maggior parte degli altri fuoriusciti illustri. Thomas Mann venne privato non solo della cittadinanza, ma anche della laurea onoraria che gli era stata conferita dall’università di Bonn; la lettera aperta di protesta che lo scrittore inviò al rettore assunse in breve contorni eroici fra gli altri espatriati.971 Il danno alla vita culturale tedesca fu enorme: quasi nessuno scrittore di levatura internazionale era rimasto in patria, e lo stesso valeva per i pittori e gli altri artisti; un’intera schiera di direttori d’orchestra e di musicisti di primo piano erano stati costretti a partire, come pure alcuni dei registi cinematografici di maggior talento. Qualcuno ottenne il successo anche in esilio, altri no, ma tutti sapevano che le difficoltà che le arti e la cultura incontravano nel Terzo Reich erano peggiori di quelle che la maggior parte di loro affrontava all’estero.

Il 20 aprile 1933, giorno del compleanno di Hitler, debuttò al Teatro di Stato di Berlino un’opera teatrale nuova e a lui dedicata per sua esplicita richiesta: lo spettacolo dimostrò con vivida chiarezza che cosa dovessero aspettarsi, dal 1933 in poi, gli amanti delle arti e della cultura rimasti in Germania. Fra il pubblico erano presenti Hitler e molti alti dirigenti nazisti, Goebbels compreso. Sul palcoscenico recitavano, nei ruoli principali, Veit Harlan, che sarebbe presto diventato uno dei pilastri del cinema tedesco del Terzo Reich, il famoso attore Albert Bassermann, che aveva accettato la parte solo dopo una richiesta personale di Goebbels che non poté rifiutare, ed Emmy Sonnemann, una giovane attrice per la quale Hermann Göring nutriva più che un interesse passeggero, giacché poco dopo l’avrebbe sposata in seconde nozze. La fine del dramma patriottico non fu salutata da un applauso: il pubblico balzò in piedi come un sol uomo e intonò a gran voce l’Horst Wessel Lied; gli applausi si levarono solo dopo il coro e furono accolti da tutti gli attori con ripetuti saluti nazisti. Unica eccezione fu Bassermann, il quale incrociò le braccia sul petto e si inchinò secondo la tradizionale usanza del mondo dello spettacolo: sposato con l’attrice ebrea Else Schiff e discendente di una nota famiglia di politici liberali, non era a suo agio nel nuovo regime e l’anno successivo emigrò negli Stati Uniti assieme alla moglie. Lo spettacolo si intitolava Schlageter e metteva in scena la storia della sollevazione nazionalista contro i francesi nella valle del Basso Reno all’inizio degli anni ’20; l’autore era Hanns Johst, un veterano di guerra divenuto celebre come drammaturgo espressionista, che si era avvicinato al Partito nazista alla fine degli anni ’20. La scena conclusiva condensava tutto il suo stile espressionista: il plotone d’esecuzione, che doveva sparare alla figura legata di Schlageter, era disposto sul fondo del palcoscenico. I lampi dei fucili attraversavano il cuore del condannato per arrivare dritti fino alla platea, stimolando il pubblico a identificarsi con Schlageter, vera personificazione dei temi nazisti del sangue e del sacrificio, e a diventare vittime assieme a lui dell’oppressione francese.972

Il dramma acquistò in breve una vasta rinomanza, ma per un motivo che non aveva niente a che vedere con l’ostentato clamore del suo debutto. Per molti giunse addirittura a rappresentare l’atteggiamento dei nazisti nei confronti della cultura. Infatti, assistendo allo spettacolo o leggendone sui giornali, la gente rimase colpita da uno dei personaggi principali, Friedrich Thiemann, interpretato da Veit Harlan: Thiemann rifiutava idee e concetti di stampo intellettuale e culturale e in più scene spiegava allo studente Schlageter che si doveva sostituirli con valori come sangue, razza e sacrificio per il bene della nazione. Durante una di quelle discussioni, il personaggio declamava: «Quando sento la parola “cultura”, tolgo la sicura alla mia Browning!».973 Per molti tedeschi colti, la battuta sembrava condensare l’atteggiamento nazista nei confronti delle arti e presto la frase si diffuse, avulsa dal suo contesto originale. In breve fu attribuita a vari capi nazisti, in particolare a Hermann Göring, e nel processo di passaparola venne semplificata in una formula più immediata, del tutto apocrifa ma che conquistò grande popolarità: «Quando sento la parola “cultura”, afferro la pistola!».974