I - PECULIARITÀ TEDESCHE

 

I

Può sembrare strano cominciare da Bismarck, ma il cancelliere è stato, per molti aspetti, un elemento centrale nell’ascesa del Terzo Reich. Dopo la sua morte, infatti, il culto della sua memoria ha stimolato in molti tedeschi il desiderio di una guida forte come quella che il suo nome evocava. E le azioni e gli indirizzi politici da lui attuati nella seconda metà del XIX secolo hanno finito per diventare una sinistra eredità per il futuro della Germania. Per altro, sotto molti punti di vista, Bismarck è stato una figura complessa e contraddittoria, europea e insieme tedesca, moderna e insieme tradizionale. Anche in questo senso il suo profilo già lasciava intravedere l’intricata mescolanza di vecchio e nuovo che sarebbe stata tipica del Terzo Reich. Non bisogna dimenticare che appena sessant’anni separano la fondazione dell’Impero germanico da parte di Bismarck, nel 1871, e i trionfi elettorali dei nazisti nel 1930-32. Il collegamento tra i due eventi appare innegabile. Infatti proprio qui – piuttosto che negli antichi culti religiosi o nelle strutture gerarchiche della Riforma o nell’assolutismo illuminato del XVIII secolo – troviamo il primo momento della storia tedesca che può essere posto in relazione diretta con l’ascesa del Terzo Reich nel 1933.41

Nato nel 1815, Otto von Bismarck si era conquistata la fama di energico campione del conservatorismo tedesco, capace di dichiarazioni rudi e azioni violente, privo di remore nel dire con impetuosa chiarezza ciò che animi più prudenti temevano di affermare in pubblico. Proveniva da un ambiente tradizionale e aristocratico, le cui radici affondavano sia nella classe dei proprietari terrieri, gli Junker, sia nella nobiltà coinvolta nell’amministrazione pubblica, e secondo molti incarnava una forma estrema di prussianesimo con tutti i suoi vizi e le sue virtù. Bismarck dominò la politica tedesca della seconda metà del XIX secolo in modo totale, con brutalità e arroganza, senza neanche tentare di nascondere il suo disprezzo per il liberalismo, il socialismo, il parlamentarismo, l’egualitarismo e molti altri aspetti del mondo moderno. Eppure, tutto ciò sembrò non recare alcun danno alla fama quasi leggendaria di fondatore dell’Impero germanico che egli acquistò dopo la morte. Nel 1915, in occasione del centenario della sua nascita e mentre la Germania era impegnata a combattere la Prima guerra mondiale, perfino un liberale umanitario come lo storico Friedrich Meinecke trovava consolazione e ispirazione nell’immagine di forza e potenza del «cancelliere di ferro»: «È lo spirito di Bismarck» scriveva «che ci impedisce di sacrificare i nostri interessi vitali e che ci ha imposto l’eroica decisione di impegnarci nella lotta sovrumana contro l’Oriente e l’Occidente, secondo le sue stesse parole, “come un uomo pieno di forza, che ha due pugni a propria disposizione, uno per ciascun avversario”».42 In questo giudizio si riconosce l’immagine del leader forte e determinato di cui molti tedeschi sentivano una profonda mancanza in quel momento tanto critico per la sorte della nazione. L’assenza di una figura di questo calibro si sarebbe fatta sentire in modo anche più marcato negli anni che seguirono la fine della guerra.

In realtà Bismarck era stato un personaggio molto più complesso della rozza immagine fatta circolare dai suoi sostenitori dopo la morte; di certo non era stato lo spregiudicato e spericolato giocatore d’azzardo descritto nelle leggende sorte sulla sua persona. Troppo pochi tedeschi ricordavano che, in effetti, proprio lui aveva definito la politica «l’arte del possibile»:43 come aveva sempre sostenuto, il suo metodo consisteva nel calcolare la direzione che gli eventi stavano per prendere così da sfruttarli per conseguire i suoi fini. La definizione da lui stesso formulata è più poetica: «Uno statista non è in grado di creare nulla. Deve solo attendere e ascoltare finché non sente i passi di Dio che risuonano in mezzo agli eventi; a quel punto deve balzare in piedi e attaccarsi all’orlo della Sua veste».44

Bismarck sapeva di non poter piegare gli eventi ai suoi desideri. Quindi, parafrasando un’altra delle sue metafore preferite, se l’arte della politica consiste nel governare la nave dello Stato sulla corrente del tempo, qual era la direzione di questo flusso nella Germania del XIX secolo? Prima di allora e per oltre un millennio l’Europa centrale era stata frammentata in una miriade di Stati autonomi, alcuni potenti e ben organizzati come la Sassonia e la Baviera, altri costituiti da «città libere» di piccole o medie dimensioni e altri ancora da minuscoli territori comprendenti poco più di un castello e una piccola tenuta retti da principi o cavalieri. Tutti questi Stati erano riuniti nel cosiddetto Sacro Romano Impero della Nazione germanica, erede dell’Impero fondato nell’800 da Carlo Magno e smembrato da Napoleone nel 1806: era il celebre «impero durato mille anni», la cui emulazione sarebbe divenuta la massima ambizione del nazismo. All’epoca in cui si sfasciò sotto l’urto delle invasioni napoleoniche, esso versava da tempo in condizioni precarie: i tentativi di instaurare un’autorità centrale efficace erano falliti e gli Stati membri più ambiziosi e potenti, quali l’Austria e la Prussia, avevano dimostrato una sempre più accentuata tendenza a estendere la loro influenza, come se l’Impero non esistesse.

Quando, dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, le acque si furono calmate, gli Stati tedeschi si riunirono nella Confederazione germanica, un organismo che si proponeva come successore dell’Impero: i confini non erano molto cambiati e vi erano incluse, come in precedenza, le aree di lingua tedesca e ceca dell’Austria.

Per un certo periodo il sistema poliziesco imposto all’Europa centrale dal cancelliere austriaco principe di Metternich riuscì a tenere sotto controllo il fermento di attività liberali e rivoluzionarie innescate dai francesi in una vivace e colta minoranza prima del 1815. Ma alla metà degli anni ’40 del XIX secolo l’insoddisfazione aveva pervaso una nuova generazione di intellettuali, avvocati, studenti e politici. Essi erano convinti che, per liberare la Germania dalle molte tirannie, piccole e grandi, la via più breve sarebbe stata l’eliminazione dei singoli Stati membri della Confederazione a favore di un’unica entità statale, fondata su istituzioni rappresentative e capace di garantire i diritti e le libertà fondamentali – la libertà di parola, di stampa e così via – ancora negati in molte parti della Germania. La loro occasione si presentò con il malcontento popolare provocato dalla povertà e dalla carestia degli «anni della fame», gli anni ’40.

Nel 1848 la rivoluzione scoppiò a Parigi e in un lampo si propagò in tutta Europa; in Germania i governi esistenti furono spazzati via e i liberali conquistarono il potere.45

In breve tempo i rivoluzionari organizzarono elezioni in tutta la Confederazione, Austria compresa, e un regolare parlamento nazionale si riunì a Francoforte. Dopo lunghe discussioni i deputati approvarono una serie di diritti fondamentali e vararono una Costituzione che ricalcava da vicino i principi classici del liberalismo. Ma non furono in grado di imporre il controllo del parlamento sugli eserciti dei due principali Stati, l’Austria e la Prussia, e questo fatto si rivelò determinante. Nell’autunno del 1848 i monarchi e i generali dei due Stati avevano ripreso lena: rifiutarono di accettare la nuova Costituzione e, in seguito a un’ondata di attività rivoluzionaria promossa da radicali e democratici che interessò tutta la Germania nella primavera successiva, sciolsero con la violenza il parlamento di Francoforte e dispersero i deputati. La rivoluzione era finita. La Confederazione venne ricostituita e i leader rivoluzionari furono arrestati, imprigionati o costretti all’esilio. Il decennio successivo è considerato dagli storici un periodo di dura reazione, durante il quale i valori liberali e le libertà civili vennero schiacciati sotto il tallone di ferro dell’autoritarismo tedesco.

Molti studiosi considerano la sconfitta della rivoluzione del 1848 un evento decisivo nella vita della Germania moderna, il momento in cui, secondo la celebre definizione di Alan J.P. Taylor, «la storia tedesca raggiunse la sua svolta decisiva e non riuscì a voltare».46 Eppure, dopo il 1848 la Germania non imboccò un «percorso deciso», diretto e inevitabile, verso il nazionalismo aggressivo e la dittatura politica:47 ci sarebbero state ancora molte svolte che si sarebbero potute evitare. Per cominciare, il ruolo dei liberali aveva subito una nuova, drastica trasformazione all’inizio degli anni ’60. Lungi dall’essere un semplice ritorno al vecchio ordine, l’assetto che seguì la rivoluzione era frutto del compromesso su molte delle richieste liberali, pur non prevedendo né l’unificazione nazionale né la sovranità parlamentare. Quasi ovunque nella Germania della fine degli anni ’60 vigevano il diritto a un processo equo, l’uguaglianza davanti alla legge, la libera impresa, l’abolizione delle forme più rigide di censura sulla produzione letteraria e sulla stampa, il diritto di riunirsi in assemblea e associazione, e così via. Inoltre, molti Stati avevano dato vita ad assemblee rappresentative i cui deputati eletti godevano di libertà di discussione e di almeno un parziale diritto di controllo sulla legislazione e sull’aumento delle imposte.

Fu proprio a quest’ultimo diritto che nel 1862 si appellarono i liberali prussiani, che si stavano riorganizzando, per sbarrare la strada a un aumento delle tasse fintanto che l’esercito non fosse stato sottoposto al controllo dell’organo legislativo. Il fatto che l’esercito non fosse controllato dal parlamento si era rivelato infatti fatale nel 1848. Ma la pretesa dei liberali costituiva una grave minaccia per il finanziamento della macchina bellica prussiana. Per affrontare la crisi, il sovrano di Prussia scelse un uomo destinato a diventare la figura dominante della politica tedesca nei successivi trent’anni: Otto von Bismarck. All’epoca, i liberali si erano ormai convinti, e a ragione, che un progetto di unificazione della Germania in uno Stato-nazione comprendente le regioni austriache di lingua tedesca, così come era accaduto nel 1848, non aveva alcuna possibilità di successo. Ciò avrebbe infatti comportato uno smembramento della monarchia asburgica, che includeva enormi porzioni di territorio, dall’Ungheria all’Italia settentrionale, non appartenenti alla Confederazione germanica e abitate da parecchi milioni di sudditi di lingua non tedesca. Tuttavia ritenevano che, dopo l’unificazione dell’Italia nel 1859-60, fosse giunto il loro momento: se gli italiani erano riusciti a creare uno Stato nazionale, di certo i tedeschi sarebbero stati in grado di fare altrettanto.

Bismarck apparteneva a quella generazione di politici europei disposta a ricorrere a mezzi radicali, perfino rivoluzionari, per ottenere risultati di fatto conservatori; Disraeli in Gran Bretagna, Napoleone III in Francia, Cavour in Italia condividevano la stessa inclinazione. Bismarck ammetteva che contrastare le spinte nazionalistiche sarebbe stato impossibile, ma reputava che dopo le frustranti esperienze del 1848 molti liberali sarebbero stati disposti a sacrificare almeno parte dei loro principi sull’altare dell’unità nazionale pur di raggiungere l’obiettivo. Con una serie di iniziative rapide e brutali, si alleò con gli austriaci per strappare i ducati contesi dello Schleswig-Holstein al regno di Danimarca, quindi creò il pretesto per uno scontro tra Prussia e Austria per il loro controllo amministrativo. Il risultato fu una netta vittoria delle forze prussiane. La Confederazione germanica si dissolse e venne sostituita da una nuova formazione, battezzata da Bismarck con il poco originale nome di Confederazione germanica del nord, di cui non facevano parte né l’Austria né i suoi alleati della Germania meridionale.

La maggioranza dei liberali prussiani, intuendo che la costituzione di uno Stato-nazione era prossima, si affrettò a perdonare a Bismarck la politica di imposizione fiscale e di finanziamento dell’esercito senza previa approvazione parlamentare che egli aveva perseguito, con estremo disprezzo dei diritti del parlamento, nei quattro anni precedenti. Gli concesse inoltre il proprio appoggio quando il cancelliere architettò un’altra guerra, questa volta ai danni dei francesi, i quali temevano, con ragione, che l’unificazione della Germania avrebbe messo fine alla posizione egemonica che la Francia aveva occupato nella politica europea nel corso degli ultimi quindici anni.48

Alla schiacciante vittoria sulle armate francesi nella battaglia di Sedan e in altri teatri seguì la proclamazione di un nuovo impero germanico nella Sala degli Specchi della reggia di Versailles, già sede della monarchia francese. Edificata quasi due secoli prima da Luigi XIV, il Re Sole, al culmine della sua potenza, la reggia divenne ora il simbolo dell’umiliazione e dell’impotenza della Francia sconfitta. Fu quello un momento decisivo nella storia moderna non solo della Germania, ma di tutta l’Europa. Ai liberali sembrò la realizzazione dei loro sogni. Ma il prezzo che avrebbero dovuto pagare sarebbe stato alto: molti aspetti della creazione di Bismarck erano infatti destinati a produrre in futuro conseguenze nefaste.

Anzitutto, la decisione di chiamare il nuovo Stato «Impero germanico» non poteva non evocare il millenario predecessore, per molti secoli la potenza dominante sulla scena europea. E infatti taluni facevano riferimento allo Stato creato dal cancelliere come al «Secondo Impero», espressione in cui era implicito che, messo di fronte a un’aggressione francese, il secondo era riuscito laddove il primo era stato sconfitto. Di tutti gli aspetti dell’opera di Bismarck che nel 1918 sarebbero sopravvissuti alla caduta del Reich da lui creato, la continuità nell’uso della denominazione Deutsches Reich, Impero tedesco, da parte della Repubblica di Weimar e di tutte le sue istituzioni non fu il più trascurabile. Fra i tedeschi istruiti il termine Reich evocava immagini che andavano ben oltre le strutture istituzionali create da Bismarck: la successione dell’Impero romano, la proiezione dell’Impero di Dio sulla terra, l’affermazione di una sovranità universale, fino al concetto meno aulico ma non meno suggestivo di uno Stato tedesco che comprendesse tutti i cittadini di lingua tedesca dell’Europa centrale, «un popolo, un Reich, un Führer» come avrebbe proclamato lo slogan nazista.49 In Germania c’era già chi considerava il risultato di Bismarck solo una realizzazione parziale dell’idea di Reich tedesco; da principio quelle voci furono sommerse dall’euforia della vittoria, ma con il tempo il loro numero sarebbe cresciuto.50

Le garanzie contenute nella Costituzione che Bismarck diede al nuovo Reich tedesco nel 1871 erano molto inferiori agli ideali perseguiti dai liberali nel 1848; caso unico fra tutte le moderne costituzioni tedesche, questa non includeva alcuna dichiarazione di principio a tutela dei diritti umani e delle libertà civili. Da un punto di vista formale, il nuovo Reich era una semplice confederazione di Stati indipendenti, non molto diversa dall’entità che sostituiva. Il vertice dell’autorità era rappresentato dall’imperatore, o Kaiser, titolo ereditato dal precedente Sacro Romano Impero e derivante direttamente dal latino Caesar. I poteri a lui riservati erano molto ampi e comprendevano la facoltà di dichiarare la guerra e di stipulare la pace. Le istituzioni del Reich avevano poteri maggiori rispetto a quelle del l’ordinamento precedente e includevano un parlamento eletto su base nazionale, il Reichstag (denominazione che discendeva dal Sacro Romano Impero e che sarebbe sopravvissuta al rivoluzionario spartiacque del 1918), e numerose autorità amministrative centralizzate, la più importante delle quali era il ministero degli Esteri, cui altre si sarebbero aggiunte nel corso del tempo.

La Costituzione, tuttavia, non attribuiva al parlamento nazionale il potere di nominare i ministri o di sciogliere i governi, e le decisioni politiche fondamentali, soprattutto in materia di pace e guerra, erano riservate al sovrano e ai suoi collaboratori più stretti. I ministri che costituivano il governo, compreso il capo dell’amministrazione civile, il cancelliere del Reich, ruolo inventato da Bismarck e da lui ricoperto per quasi vent’anni, non erano rappresentanti dei partiti politici bensì funzionari pubblici, che rispondevano del proprio operato soltanto al Kaiser e non ai cittadini o ai loro rappresentanti in parlamento. L’autorità del Reichstag si ampliò nel corso del tempo, ma non di molto. Esagerando, anche se solo di poco, il grande pensatore rivoluzionario Karl Marx ha descritto il Reich forgiato da Bismarck con una contorta espressione che coglie molte delle sue contraddizioni interne: «Un dispotismo militare, mascherato di forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia».51

 

II

 

Il potere dei militari e in particolare degli ufficiali prussiani era il risultato non soltanto dei periodi di guerra, ma anche di una lunga tradizione storica. Nel XVII e XVIII secolo lo Stato prussiano in espansione si era organizzato secondo linee di natura soprattutto militare, grazie al sistema neofeudale basato sull’aristocrazia terriera, i famigerati Junker, e sui rapporti servili, cui faceva riscontro il sistema di arruolamento di ufficiali e militari di truppa.52 Tale sistema venne smantellato con l’abolizione dei rapporti servili di stampo feudale, mentre l’antico prestigio dell’esercito uscì molto diminuito dalla serie di dure sconfitte subite durante le guerre napoleoniche.

Nel 1848 e di nuovo nel 1862 i liberali prussiani erano stati sul punto di imporre il controllo del parlamento sull’esercito ma, proprio per proteggere l’autonomia degli ufficiali prussiani dalle interferenze dei liberali, in quell’anno arrivò la nomina di Bismarck. Il cancelliere dichiarò fin dall’inizio che «i grandi problemi della nostra epoca non si risolvono con discorsi e delibere della maggioranza (fu questo il grave errore del 1848 e del 1849), bensì con il sangue e con il ferro»,53 e non mancò di tenere fede a queste sue parole. La guerra del 1866 determinò la fine del Regno di Hannover, che venne annesso alla Prussia, e l’estromissione dell’Austria e della Boemia dalla Germania, dopo che per secoli avevano ricoperto un ruolo di primo piano nel deciderne le sorti; poi, con il conflitto del 1870-71, l’Alsazia-Lorena venne strappata alla Francia e posta sotto la sovranità diretta dell’Impero germanico. Non è senza motivo che Bismarck è stato descritto come un «rivoluzionario bianco».54 Il Reich venne creato grazie alla potenza dei militari e alle loro imprese, e nel corso del processo le istituzioni legittime vennero calpestate, i confini degli Stati ridisegnati e tradizioni antiche soppresse in modo radicale e spietato: l’eco di questi eventi avrebbe pesato a lungo sul successivo sviluppo della Germania. Con le loro azioni i militari diedero all’uso della forza per fini politici una legittimità molto superiore a quella che la maggior parte del resto dei paesi accettava (fatto salvo il caso della conquista di altre regioni del mondo). La militarizzazione dello Stato e della società avrebbe svolto un ruolo di primo piano nell’indebolimento della democrazia tedesca negli anni ’20 del XX secolo e durante l’avvento del Terzo Reich.

Bismarck fece in modo che l’esercito fosse quasi uno Stato all’interno dello Stato, con i propri canali di accesso diretto al Kaiser e un proprio sistema di autogoverno. L’unico diritto riservato al Reichstag era l’approvazione del bilancio militare preventivo una volta ogni sette anni, mentre il ministero della Guerra rispondeva all’esercito stesso anziché al potere legislativo. Gli ufficiali godevano di numerosi privilegi, sociali e di altro tipo, e si aspettavano dimostrazioni di rispetto da parte dei civili che incrociavano per strada. Non sorprende che, tra la borghesia, molti professionisti aspirassero a essere ammessi nell’esercito a titolo di riservisti, mentre fra le masse i codici di condotta nonché gli ideali e i valori militari erano comunque familiari grazie al servizio militare obbligatorio.55 In situazioni di emergenza l’esercito poteva dichiarare la legge marziale e sospendere le libertà civili, provvedimenti che in epoca guglielmina furono presi in considerazione tanto spesso da spingere alcuni storici a descrivere, con una certa esagerazione ma non senza fondamento, la vita di statisti e legislatori come sottoposta alla costante minaccia di un coup d’état dall’alto.56

L’esercito influiva sulla società in molteplici modi, soprattutto in Prussia, ma dopo il 1871 il modello prussiano si estese anche ad altri Stati tedeschi, sia pure con forme più indirette. I militari godevano di un prestigio enorme, conquistato con le straordinarie vittorie delle guerre di unificazione. I sottufficiali, cioè coloro che dopo il periodo di ferma obbligatoria restavano in servizio ancora per un certo numero di anni, avevano automaticamente diritto a un lavoro nell’amministrazione pubblica quando lasciavano l’esercito. Ciò comportava che la grande maggioranza di agenti di polizia, postini, ferrovieri e altri quadri inferiori dello Stato fosse costituita da ex soldati formatisi, anche da un punto di vista personale e sociale, nell’esercito e che agivano secondo i codici militari che vi avevano appreso. I regolamenti di un’istituzione come la polizia davano grande importanza all’applicazione di modelli di comportamento militari, insistendo sulla necessità di mantenere il pubblico a distanza e di trattare la folla, in occasione di cortei o di dimostrazioni di massa, più come una forza nemica che non come un assembramento di cittadini.57 Il concetto militare di onore permeava la società al punto di mantenere in vita la tradizione dei duelli perfino tra i civili dei ceti medi, usanza comunque diffusa anche in Russia e Francia.58

Nel corso del tempo l’identificazione del corpo ufficiali con l’aristocrazia prussiana si indebolì e i codici di comportamento dell’aristocrazia militare trovarono alimento in nuove forme di militarismo popolare, che all’inizio del XX secolo comprendevano la Lega navale e le associazioni di veterani.59 All’epoca della Prima guerra mondiale la maggior parte delle posizioni chiave del corpo ufficiali era occupata da militari di professione; il predominio dell’aristocrazia, come negli altri paesi, sopravviveva soltanto nei reparti che per tradizione godevano del maggior prestigio sociale, quali la cavalleria e la guardia d’onore.

Ma la professionalizzazione del corpo ufficiali, accelerata dall’introduzione di nuove tecnologie militari, dal fucile mitragliatore e filo spinato ai carri armati e aeroplani, non comportò anche la democratizzazione dell’esercito. Anzi, l’arroganza dei militari si rafforzò con le imprese coloniali, durante le quali le forze armate tedesche repressero con crudeltà le rivolte delle popolazioni locali. Ne è un esempio il massacro degli Herero nell’Africa del Sudovest (ora Namibia):60 tra il 1904 e il 1907, in quello che ha il carattere di un genocidio pianificato, l’esercito tedesco trucidò migliaia di uomini, donne e bambini e costrinse molte altre migliaia di Herero a cercare riparo nel deserto, dove morirono di fame; la popolazione passò da circa 80.000 persone prima della guerra ad appena 15.000 nel 1911. 61 Anche nella regione occupata dell’Alsazia-Lorena, strappata alla Francia nel 1871 e annessa all’Impero germanico, il comportamento dei militari era spesso quello di un esercito di conquista di fronte a una popolazione ostile o ribelle. Nel 1913 alcuni degli episodi più scandalosi avevano innescato nel Reichstag un acceso dibattito che portò a una mozione di sfiducia nei confronti del governo: naturalmente ciò non ne provocò le dimissioni, ma la mozione era un segnale della sempre maggiore polarizzazione dell’opinione pubblica sulla questione del ruolo dell’esercito nella società tedesca.62

All’epoca non furono in molti a cogliere l’importante ruolo di Bismarck nel tenere sotto controllo le spinte più violente dei militari e frenare le loro ambizioni di imponenti annessioni territoriali a seguito delle vittorie riportate sul campo. Trovò invece ampio seguito l’immagine, promossa perfino dallo stesso amareggiato ex cancelliere e dai suoi sostenitori, in particolare dopo le dimissioni forzate del 1890, del leader carismatico, che non aveva mai esitato a tagliare i nodi gordiani della politica e a risolvere le grandi questioni del tempo con la forza. Nella memoria collettiva tedesca rimasero vive le clamorose guerre architettate da Bismarck negli anni ’60, non i due decenni successivi in cui egli si impegnò per mantenere la pace in Europa in modo che il Reich tedesco potesse consolidarsi. Il diplomatico Ulrich von Hassell, uno dei principali esponenti dell’ala conservatrice della resistenza contro Hitler nel 1944, scrisse nel suo diario durante una visita alla storica residenza di Bismarck a Friedrichsruh:

È sorprendente quale sua falsa immagine noi stessi abbiamo diffuso nel mondo: quella del politico di potenza con gli stivali da corazziere. Tutto ciò con la gioia infantile per il fatto che finalmente avevamo qualcuno con cui dare lustro alla Germania. In verità le sue doti più grandi furono la grande diplomazia e il senso della misura. Egli ha saputo sconfiggere l’avversario e ciononostante creare fiducia nel mondo in un modo unico, l’esatto contrario di oggi.63

Il mito del leader dittatoriale non era l’espressione di un tratto tradizionale, radicato nel temperamento tedesco, ma una creazione molto più recente.

All’inizio del XX secolo questo mito era alimentato dal ricordo collettivo della ferma presa di posizione di Bismarck contro coloro che considerava nemici interni del Reich. Negli anni ’70 del XIX secolo, in risposta al tentativo del papa di rafforzare la sua influenza sulla comunità cattolica per mezzo del Sillabo degli errori (1864) e della proclamazione dell’infallibilità pontificia (1871), Bismarck varò quella che i liberali chiamarono Kulturkampf, lotta per la civiltà, ossia un insieme di leggi e di provvedimenti di polizia per imporre la supremazia dello Stato prussiano sulla Chiesa cattolica. Il clero cattolico si rifiutò di sottostare a leggi che prevedevano il controllo statale sull’istruzione e l’approvazione governativa di tutte le nomine ecclesiastiche. In breve tempo i trasgressori della nuova legislazione cominciarono a essere ricercati, arrestati e incarcerati. Il risultato fu che alla metà degli anni ’70 ben 989 parrocchie erano prive di un titolare, 225 sacerdoti erano in galera, tutti gli ordini religiosi cattolici (a eccezione di quelli che fornivano assistenza infermieristica) erano stati aboliti, due arcivescovi e tre vescovi erano stati destituiti dai loro incarichi; inoltre, il vescovo di Trier era morto subito dopo aver scontato nove mesi di carcere.64 L’aspetto più inquietante era il fatto che il duro attacco alle libertà civili di circa il 40 per cento della popolazione del Reich fosse accolto con entusiasmo dai liberali dell’in tero paese, i quali consideravano il cattolicesimo una minaccia tanto grave da giustificare provvedimenti così drastici.

L’aspra contrapposizione alla fine si smorzò fino a cessare e l’amareggiata comunità cattolica rimase su posizioni ostili al liberalismo e alla modernità, ma comunque ben decisa a dimostrare la propria fedeltà allo Stato. Uno degli strumenti adottati fu proprio il partito politico costituito per difendersi dalla persecuzione, il cosiddetto Partito del centro. Prima ancora che il Kulturkampf giungesse al termine, tuttavia, Bismarck inflisse un altro duro colpo alle libertà civili con la cosiddetta «legge antisocialista», che il Reichstag approvò nel 1878, dopo due attentati alla vita dell’ormai anziano Kaiser Guglielmo I. In realtà il movimento socialista tedesco, ancora ai suoi albori, era del tutto estraneo ai tentativi di assassinio e agiva anzi nel pieno rispetto delle leggi, confidando nelle procedure parlamentari per arrivare al potere; ciononostante, ancora una volta i liberali si lasciarono convincere a rinunciare ai loro principi in nome di ciò che veniva presentato in termini di interesse nazionale. Vennero proibite le riunioni dei gruppi socialisti, i giornali e le riviste furono soppressi e il Partito socialista dichiarato fuorilegge; la pena di morte, che era stata sospesa in Prussia e in tutti gli altri principali Stati germanici, venne reintrodotta e a queste misure fecero seguito arresti di massa degli esponenti socialisti.65

Le ripercussioni della legge antisocialista furono, in ultima analisi, perfino più profonde di quelle della lotta contro la Chiesa cattolica. Oltre a rivelarsi del tutto inefficace nei confronti dell’obiettivo primario, ovvero l’eliminazione dei cosiddetti «nemici del Reich», il provvedimento non impediva ai socialisti di presentarsi alle elezioni per il parlamento a titolo individuale e, a mano a mano che l’industrializzazione della Germania accelerava e la classe operaia aumentava di numero a un ritmo sempre più rapido, i candidati socialisti conquistarono i voti di un elettorato sempre più vasto.

Quando la legge non venne più prorogata nel 1890, i socialisti si riorganizzarono nel Partito socialdemocratico tedesco. Alla vigilia della Prima guerra mondiale il partito, che contava ormai oltre un milione di iscritti, era la più grande organizzazione politica del mondo e alle elezioni del 1912, nonostante una distorsione interna del sistema elettorale che finiva per favorire i collegi rurali più conservatori, i socialdemocratici superarono il Partito del centro diventando la formazione più numerosa all’interno del Reichstag. La legge antisocialista ne aveva favorito lo spostamento a sinistra e dall’inizio degli anni ’90 in poi il Partito socialdemocratico si mantenne fedele a una rigida dottrina marxista secondo la quale le esistenti istituzioni religiose, statali e sociali, dalla monarchia e dal corpo ufficiali dell’esercito fino alle grandi imprese e al mercato azionario, avrebbero dovuto essere rovesciate da una rivoluzione proletaria, che avrebbe segnato la nascita di una repubblica socialista.

Il sostegno che i liberali avevano dato alla legge antisocialista determinò un atteggiamento di diffidenza nei confronti di tutti i partiti «borghesi» e il rifiuto di qualsiasi progetto di cooperazione con gli schieramenti che appoggiavano il capitalismo o con i sostenitori di ciò che i socialdemocratici consideravano una riforma palliativa del sistema politico esistente.66 I socialdemocratici costituivano un movimento molto ampio e dotato di grande disciplina, che non tollerava alcuna forma di dissenso e sembrava avanzare con una marcia irrefrenabile verso il predominio elettorale. Tutto ciò suscitava il terrore nelle rispettabili classi medie e alte. Fra i socialdemocratici e tutti gli altri partiti «borghesi» si creò una profonda, invalicabile spaccatura politica che si sarebbe trascinata fino agli anni ’20 del XX secolo, giocando un ruolo fondamentale nella crisi che avrebbe portato il nazismo al potere.

Il partito era comunque deciso a fare tutto il possibile per rimanere nell’ambito della legalità e per non offrire alcun pretesto che potesse giustificare la spesso ventilata reintroduzione di un provvedimento di messa al bando. Si dice che Lenin, in un raro momento di umorismo, abbia osservato che i socialdemocratici tedeschi non avrebbero mai potuto far scoppiare una rivoluzione in Germania perché al momento di dare l’assalto alle stazioni ferroviarie si sarebbero prima messi ordinatamente in fila per comprare il biglietto di accesso ai binari. Il partito sviluppò la tendenza ad aspettare che le cose accadessero, piuttosto che ad agire per farle accadere. La sua complessa struttura istituzionale, che comprendeva organizzazioni culturali, giornali e riviste, luoghi di ricreazione e ritrovo, associazioni sportive e un sistema di istruzione autonomo, finì per offrire ai suoi iscritti un vero e proprio stile di vita e per rappresentare un insieme di interessi costituiti che pochi esponenti del partito erano disposti a mettere in gioco.

Il partito, nell’ambito della sua scelta di legalità, si affidava ai tribunali per difendersi dalle persecuzioni, ma rimanere all’interno dei confini della legge non era facile, neanche dopo il 1890: i meschini sotterfugi cui la polizia ricorreva trovavano spesso l’appoggio di giudici e pubblici ministeri conservatori e di corti che continuavano a considerare i socialdemocratici dei pericolosi rivoluzionari. Nel 1914 erano pochi i rappresentanti socialdemocratici e i direttori della stampa del partito che non avessero trascorso qualche periodo in carcere, condannati per lesa maestà o per oltraggio a pubblico ufficiale. Le critiche rivolte al sovrano o alla polizia o perfino ai funzionari pubblici erano considerate un reato in base alle leggi in vigore. La lotta contro i socialdemocratici costituì l’impegno preciso di un’intera generazione di giudici, pubblici ministeri, capi della polizia e funzionari di governo fino al 1914: questi uomini, e con essi la maggioranza dei loro sostenitori fra i ceti medi e alti, non accettarono mai il Partito socialdemocratico come un legittimo movimento politico. La legge, secondo la loro concezione, doveva sostenere le istituzioni statali e sociali esistenti, non porsi come arbitro neutrale tra gruppi politici contrapposti.67

I liberali non fecero nulla per porre rimedio a questa situazione. Essi avevano subito pesanti perdite in termini di voti e seggi nel Reichstag durante gli anni ’80 e ’90, anche se erano riusciti a mantenere un buon seguito nelle aree urbane. Uno dei loro principali problemi era costituito dalle numerose scissioni che si erano ripetute nel partito verso la fine del XIX secolo: nonostante il rientro dei gruppi schierati più a sinistra nel 1910, rimanevano comunque divisi in due partiti ugualmente autorevoli, i nazional-liberali e i progressisti, le cui differenze risalivano agli anni ’60 del secolo precedente e al rifiuto dei secondi di accettare l’imposizione fiscale operata da Bismarck senza l’autorizzazione parlamentare.

Altrettanto divisa era la destra, dove i conservatori erano spaccati in due partiti. Coloro che nel 1871 si erano schierati con Bismarck a favore della fusione del particolarismo prussiano nelle istituzioni del nuovo Reich – iniziativa avversata dalla vecchia guardia della nobiltà prussiana, gli Junker – continuavano infatti a riconoscersi nei cosiddetti Freikonservativen, o conservatori liberi. Questi due partiti, la cui base era costituita soprattutto dai protestanti della Germania settentrionale, dovevano confrontarsi inoltre con un partito politico di destra ancora più ampio, il Partito del centro, in cui l’antimodernismo e il sostegno al Reich si mescolavano a politiche sociali e a un atteggiamento critico nei confronti della politica coloniale tedesca in Africa. Prima del 1914, quindi, i partiti principali in Germania non erano due, bensì sei: i socialdemocratici, i due partiti liberali, i due raggruppamenti conservatori e il Partito del centro. Tutto ciò rifletteva, fra l’altro, le complesse divisioni della società tedesca stessa in termini geografici, religiosi e di classe sociale.68 In una situazione dominata da un forte potere esecutivo libero dal controllo del parlamento, questa frammentazione indeboliva le possibilità dei partiti di giocare un ruolo politico importante nelle istituzioni statali.

 

III

 

La rivalità fra i diversi partiti politici non portò a un generale disincanto nei confronti della politica, ma anzi contribuì a infiammare l’atmosfera fino a livelli che nel 1914 potevano essere definiti febbrili. Il suffragio universale maschile nelle elezioni per il Reichstag, accompagnato dal voto più o meno segreto e da rigide regole a tutela della correttezza delle operazioni di voto, aumentò la fiducia del pubblico nei confronti del sistema elettorale e la partecipazione raggiunse la straordinaria percentuale dell’85 per cento degli aventi diritto nelle elezioni per il parlamento del 1912. 69 Tutto sembra indicare che gli elettori prendevano seriamente il loro compito e dedicavano attente riflessioni a come conciliare le loro convinzioni ideologiche con il più ampio scenario politico quando, come spesso avveniva, dovevano esprimersi nei ballottaggi del sistema di rappresentanza proporzionale previsto dalla Costituzione tedesca per l’elezione del Reichstag. Il sistema elettorale, tutelato da garanzie e salvaguardie legali, aveva creato uno spazio di dibattito democratico e convinto milioni di tedeschi di ogni sfumatura ideologica che la politica apparteneva al popolo.70

Oltre a ciò, i giornali della Germania imperiale erano quasi tutti «politicizzati», nel senso che ciascun quotidiano era esplicitamente collegato a uno dei partiti e ne esprimeva il punto di vista in gran parte di ciò che pubblicava. 71La politica non era confinata alle conversazioni di ristretti circoli e dei ceti medi, ma era un argomento centrale delle discussioni nei ritrovi, taverne comprese, della classe operaia e perfino una delle attività preferite cui i cittadini si dedicavano nel tempo libero.72

Durante i primi anni del XX secolo il dibattito politico si concentrò sempre più sul ruolo della Germania in Europa e nel mondo. Fra i tedeschi stava aumentando la consapevolezza che il Reich di Bismarck fosse una creazione incompleta da molti punti di vista. Anzitutto il Reich comprendeva consistenti minoranze culturali ed etniche, eredità degli allargamenti dello Stato e dei conflitti su base etnica dei secoli precedenti: c’erano comunità danesi al nord, francofone in Alsazia-Lorena e un piccolo gruppo slavo, i sorabi, nella Germania centrale, ma soprattutto c’erano milioni di polacchi stanziati nelle terre appartenute al Regno di Polonia, annesso alla Prussia nel XVIII secolo. Già durante l’epoca di Bismarck lo Stato aveva tentato con sempre maggiore insistenza di germanizzare tali minoranze, proibendo l’uso della lingua locale nelle scuole e incentivando l’insediamento di tedeschi di etnia germanica. Alla vigilia della Prima guerra mondiale l’uso del tedesco in incontri pubblici era obbligatorio in tutto il Reich ed era in corso una riforma delle leggi sulla proprietà terriera che di fatto avrebbe privato i polacchi dei diritti economici fondamentali.73 L’idea che le minoranze etniche avessero diritto a essere trattate con lo stesso rispetto riservato alla maggioranza della popolazione era condivisa solo da una ristretta e sempre più limitata fetta della popolazione tedesca. Nel 1914 perfino i socialdemocratici consideravano la Russia e le regioni slave dell’est terre arretrate e barbare e avevano scarsa simpatia per gli sforzi dei lavoratori tedeschi di lingua polacca di organizzarsi in difesa dei propri diritti.74

Guardando oltre i confini della Germania e dell’Europa, i cancellieri che succedettero a Bismarck videro nel proprio paese una potenza di classe inferiore rispetto alla Gran Bretagna e alla Francia, le quali controllavano entrambe imperi d’oltremare che si estendevano su tutto il pianeta. Arrivata tardi sulla scena internazionale, la Germania aveva potuto raccogliere solo le briciole, gli scarti delle potenze coloniali europee che si erano mosse con largo anticipo sui tedeschi e si erano quindi avvantaggiate. Alla vigilia della Prima guerra mondiale l’impero coloniale tedesco era formato dai territori di Tanganica, Namibia, Togo, Camerun, Nuova Guinea e di varie isole nel Pacifico, oltre che da una concessione sul porto cinese di Kiaochow. Bismarck aveva attribuito scarsa importanza ai possedimenti coloniali e aveva concesso il beneplacito alle acquisizioni con molta riluttanza.

I suoi successori però la pensavano diversamente. Il prestigio e la reputazione della Germania nel mondo imponevano la conquista di un «posto al sole», come disse Bernhard von Bülow, segretario agli Esteri negli ultimi anni ’90 del XIX secolo e poi cancelliere fino al 1909. Venne avviata la costruzione di un’imponente flotta da guerra il cui obiettivo a lungo termine era strappare concessioni coloniali ai britannici, i padroni del più vasto impero d’oltremare, minacciando o attuando azioni tese a paralizzare o distruggere le principali forze della marina britannica in uno scontro titanico nel Mare del Nord.75

I sogni sempre più ambiziosi di potenza mondiale furono espressi con chiarezza in primo luogo dallo stesso Kaiser Guglielmo II, uomo tronfio, presuntuoso e molto loquace, che non perdeva occasione per ostentare tanto il suo disprezzo per la democrazia, i diritti civili e le opinioni altrui, quanto la sua salda fede nella grandezza della Germania. Il Kaiser, come molti tra i suoi ammiratori, era cresciuto nella Germania ormai unificata e poco sapeva dell’incerto e rischioso percorso che aveva portato Bismarck a questo risultato nel 1871: sulla scia degli storici prussiani suoi contemporanei, era convinto che l’intero processo fosse stato una predestinazione della storia. E non sapeva nulla dei gravi timori sul futuro del paese che avevano portato Bismarck ad adottare una politica estera improntata alla prudenza negli anni ’70 e ’80.

A detta di tutti, l’imperatore aveva un carattere troppo eccentrico, una personalità troppo volubile per intervenire con coerenza nella condotta degli affari di Stato, e fin troppo spesso i suoi ministri si trovavano a dover lavorare per neutralizzare la sua influenza anziché per realizzare il suo volere. Le ricorrenti dichiarazioni in cui egli sosteneva di essere il grande leader di cui la Germania aveva bisogno sortivano solo l’effetto di attirare l’attenzione sulle sue carenze ed ebbero perfino un ruolo nell’alimentare il mito nostalgico della risolutezza e dell’astuzia bismarckiane. Molti tedeschi cominciarono a paragonare la spietatezza della politica svincolata dalla morale attuata da Bismarck, in cui il fine giustificava i mezzi ed era possibile che gli statisti affermassero una cosa mentre ne stavano facendo o si preparavano a farne un’altra, con la sconsiderata magniloquenza e l’imprudente mancanza di tatto di Guglielmo.76

A parte le diverse personalità, tutti gli aspetti tipici della Germania creata da Bismarck si ritrovavano, più o meno, anche negli altri paesi. In Italia, la carismatica figura di Garibaldi, alla guida delle forze popolari che avevano contribuito all’unificazione del paese nel 1859, sarebbe stata un modello per Mussolini. In Spagna l’esercito era libero dal controllo politico come in Germania e in Italia e, come nel Reich, rispondeva al sovrano invece che al potere legislativo. Nel regno austroungarico la pubblica amministrazione era potente quanto in Germania e il potere delle istituzioni parlamentari era ancora più limitato. In Francia stava infuriando uno scontro fra Stato e Chiesa la cui ferocia ideologica non differiva molto dal Kulturkampf tedesco.

Anche in Russia vigeva una concezione corrispondente a quella del Reich sia in politica interna sia nelle relazioni con gli Stati confinanti.77 Qui la repressione contro i socialisti fu ancora più dura che in Germania e il regime zarista non fu da meno della sua controparte tedesca negli sforzi per l’assimilazione dei milioni di polacchi che vivevano nei suoi confini. Nel 1914 il liberalismo nelle sue varie accezioni era debole in tutti i principali Stati dell’Europa centrale e orientale, non soltanto nel Reich germanico. La scena politica italiana era ancora più frammentata che in Germania e la convinzione che la guerra fosse un mezzo legittimo per raggiungere obiettivi politici, in particolare l’annessione di nuovi territori in prospettiva imperiale, era condivisa da molte potenze europee, come lo scoppio della Prima guerra mondiale nell’agosto del 1914 avrebbe dimostrato con spaventosa chiarezza. In tutto il continente le forze democratiche, in costante ascesa, stavano mettendo in pericolo l’egemonia delle élite conservatrici. Gli ultimi decenni del XIX secolo e l’inizio del XX rappresentarono l’epoca del nazionalismo non soltanto in Germania, ma ovunque in Europa, e la «nazionalizzazione delle masse» interessò molti altri paesi.78

Tuttavia in nessuna nazione europea all’infuori della Germania tutti questi aspetti erano presenti allo stesso tempo e in tale misura; inoltre, la Germania non era un paese europeo qualsiasi. Gli storici hanno scritto a profusione sui diversi aspetti della sua presunta arretratezza in questo periodo, sulla cosiddetta mancanza di valori civili, sulla sua struttura sociale da taluni ritenuta arcaica, sull’apparente irresolutezza dei ceti medi e sull’aristocrazia a detta di molti neofeudale. Ma non è questo ciò che la maggior parte dei contemporanei notava all’epoca.

Negli anni antecedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale l’economia tedesca era la più ricca, potente e avanzata d’Europa. Negli ultimi anni di pace la Germania produceva due terzi di tutto l’acciaio del continente, metà del carbone e della lignite, nonché il 20 per cento di energia elettrica in più di Gran Bretagna, Francia e Italia messe insieme.79 Nel 1914, con una popolazione di circa 67 milioni di persone, l’impero tedesco controllava la più grande forza lavoro dell’Europa continentale, con l’unica eccezione della Russia; a titolo di confronto, in quell’epoca il Regno Unito, la Francia e l’Austria-Ungheria avevano una popolazione compresa fra i 40 e 50 milioni di abitanti ciascuno. La Germania era il leader mondiale nella maggior parte delle industrie moderne, come i settori chimico e farmaceutico e la produzione di energia elettrica. Nel 1914 la produttività delle proprietà terriere nel nord e nelle regioni orientali era aumentata grazie all’imponente utilizzo di fertilizzanti artificiali e di macchinari per l’agricoltura, tanto che il paese era, per fare un esempio, il terzo produttore mondiale di patate. Gli standard di vita avevano fatto passi da gigante dall’inizio del secolo, se non addirittura da prima. I prodotti delle grandi società industriali tedesche, quali la Krupp e la Thyssen, la Siemens e l’AEG, la Hoechst e la BASF, erano famosi in tutto il mondo per la loro qualità.80

A osservarla con l’occhio nostalgico dei primi anni del periodo fra le due guerre mondiali, la Germania antecedente al 1914 sarebbe sembrata a molti un’oasi di pace, benessere e armonia sociale. Eppure sotto la superficie di prosperità e sicurezza di sé, il paese era agitato, incerto e tormentato da tensioni interne.81 Per molti il ritmo precipitoso dei cambiamenti economici e sociali era fonte di paure e sconcerto. Gli antichi valori sembravano scomparire in un tumulto di materialismo e ambizioni sfrenate; la cultura modernista, dalla pittura astratta alla musica atonale, alimentava il senso di disorientamento di alcuni gruppi sociali.82 La tradizionale e radicata egemonia dell’aristocrazia terriera prussiana, che Bismarck si era battuto con tenacia per conservare, era erosa dalla corsa a capofitto verso l’età moderna della società tedesca.

Nel 1914 i valori, le abitudini e i modelli di comportamento borghesi si erano imposti nelle fasce sociali medie e alte, eppure allo stesso tempo venivano messi in discussione dall’affermazione sempre più imponente delle classe operaia, organizzata nel forte movimento sindacale dei socialdemocratici. La Germania, a differenza di tutti gli altri paesi europei, era diventata uno Stato-nazione non prima della rivoluzione industriale, ma nel momento del suo massimo sviluppo, e non sulla base di un unico Stato, ma come una federazione di molti Stati diversi in cui i cittadini erano legati gli uni agli altri in primo luogo da una comunanza di lingua, cultura ed etnia. Le pressioni e le tensioni generate dalla rapida industrializzazione si intrecciarono con idee contrastanti sulla natura dello Stato e della nazione tedesca, nonché sul posto che spettava alla Germania nel più ampio contesto dell’Europa e del mondo.

Quando nel 1871 era diventata una nazione, la società tedesca non aveva una sua stabilità interna, ma era anzi lacerata da conflitti che si andavano acuendo con rapidità e che vennero via via proiettati nelle tensioni che il sistema politico creato da Bismarck non aveva risolto.83 Tali tensioni si scaricarono nei toni sempre più accesi di un nazionalismo mescolato con allarmanti dosi di razzismo e antisemitismo, sinistra eredità per il futuro.