VI - LA GRANDE INFLAZIONE

 

I

Perfino i reazionari più intransigenti avrebbero potuto rassegnarsi alla repubblica se essa fosse riuscita a garantire un ragionevole livello di stabilità economica e un reddito accettabile e costante ai suoi cittadini. Invece Weimar fu assillata fin dall’inizio da una crisi senza precedenti nella storia tedesca. Subito dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, il governo del Reich aveva cominciato a contrarre prestiti per sostenere il conflitto e dal 1916 in poi le spese superarono di gran lunga le entrate ottenute tramite finanziamenti o altri mezzi. Il governo si era aspettato di recuperare le perdite grazie all’annessione di ricche aree industriali a oriente e a occidente, all’imposizione di pesanti danni di guerra alle nazioni sconfitte e alla creazione di un nuovo ordine economico a egemonia tedesca nell’Europa conquistata.260 Ma le attese vennero deluse: la nazione sconfitta fu la Germania, che si trovò così a dover pagare il conto. Ciò non poté che peggiorare la già grave situazione. Il governo aveva stampato cartamoneta senza le riserve necessarie per sostenerla; se prima della guerra un dollaro valeva poco più di 4 marchi al cambio di Berlino, nel dicembre 1918 l’acquisto di un dollaro americano costava quasi il doppio. Il cambio continuò a peggiorare fino a superare i 12 marchi per un dollaro nell’aprile 1919 e a toccare i 47 marchi a dicembre.261

I governi che si succedettero durante gli anni della Repubblica di Weimar si trovarono intrappolati in una situazione che, almeno in parte, avevano contribuito a creare. L’obbligo di trasferire entrate pubbliche ad altri paesi in conto riparazioni costituiva un cospicuo esborso in un momento in cui i debiti contratti durante la guerra dovevano ancora essere ripagati e le risorse economiche e il mercato interno della Germania si erano ridotti. Con il trattato di pace il paese aveva perso le popolose aree industriali della Lorena e della Slesia. Inoltre, nel 1919 la produzione industriale era appena il 42 per cento di quella del 1913 e la produzione nazionale di grano si era dimezzata rispetto al periodo precedente la guerra. L’adeguamento a un’economia di pace e l’assistenza ai reduci in cerca di lavoro o impossibilitati a lavorare perché invalidi esigeva somme enormi, ma se un governo tentava di colmare il divario per mezzo di un aumento sia pur minimo delle entrate fiscali, la destra nazionalista era pronta ad accusarlo di imporre tasse per soddisfare le richieste di riparazioni degli alleati.

La maggior parte dei governi ritenne più accorto, dal punto di vista politico, sostenere presso le potenze occidentali che i problemi valutari della Germania potevano essere risolti solo per mezzo dell’abolizione delle riparazioni o almeno della riformulazione di un piano di pagamenti che le rendesse più accettabili. Questa azzardata linea politica venne perseguita con più o meno determinazione dalle diverse compagini governative tedesche e fra il 1920 e il 1921 si registrarono parecchie interruzioni della caduta del marco sul dollaro. Nondimeno, se nel novembre 1921 i tedeschi dovevano pagare 263 marchi per un dollaro americano, nel luglio 1922 il costo era, ancora una volta, quasi raddoppiato, raggiungendo i 493 marchi.262

Un’inflazione di tale portata non poteva non avere effetti diversi sui vari soggetti economici. L’opportunità di prendere denaro a prestito per acquistare beni, attrezzature, impianti industriali e altro e di restituirlo quando il suo valore era sceso molto al di sotto di quello originale contribuì a stimolare la ripresa della produzione industriale dopo la guerra. Fino alla metà del 1922, in Germania i tassi di crescita economica furono elevati e la disoccupazione bassa; in mancanza di queste condizioni di occupazione quasi totale, uno sciopero generale come quello che sventò il putsch di Kapp nel marzo 1920 si sarebbe rivelato molto più difficile da organizzare. La domanda, inoltre, era stimolata da una pressione fiscale abbastanza contenuta. La Germania riuscì quindi a realizzare la transizione a un’economia di pace meglio di quanto fecero altri sistemi economici europei in cui l’inflazione fu meno grave.263

La ripresa, tuttavia, non aveva fondamenta solide. Nonostante qualche breve tregua, l’inflazione si rivelò inarrestabile. Un dollaro americano costava oltre 1000 marchi nell’agosto 1922, 3000 marchi in ottobre e 7000 in dicembre. La svalutazione era irrefrenabile e le conseguenze politiche furono disastrose. Il governo tedesco non era più in grado di affrontare i pagamenti delle riparazioni, che dovevano essere effettuati in oro, metallo il cui prezzo sul mercato internazionale era superiore a quanto la Germania potesse permettersi di sborsare. Inoltre, alla fine del 1922 le consegne di carbone ai francesi, previste da un’altra clausola del programma di riparazioni, erano in grave arretrato. Nel gennaio 1923 unità militari francesi e belghe occuparono la Ruhr, la più importante regione industriale tedesca, con l’obiettivo di confiscare il carbone loro spettante e costringere i tedeschi a tener fede agli obblighi imposti da Versailles. Il governo di Berlino decretò all’istante la «resistenza passiva» e la non cooperazione: gli occupanti non avrebbero utilizzato le infrastrutture già in loco per impadronirsi della produzione industriale della Ruhr. La protesta venne sospesa solo alla fine di settembre.

A seguito della resistenza passiva, però, le condizioni dell’economia peggiorarono; per acquistare un dollaro erano necessari oltre 17 mila marchi nel gennaio 1923, 24 mila in aprile e 353 mila in luglio. Si trattava di un’iperinflazione terrificante. Nei mesi seguenti, per esprimere il tasso di cambio fra marco e dollaro si rese necessario fare ricorso a numeri che divennero via via più lunghi di quelli che si leggono in un elenco telefonico: 4.621.000 in agosto, 98.860.000 in settembre, 25.260.000.000 in ottobre, 2.193.600.000.000 in novembre, 4.200.000.000.000 in dicembre.264 I giornali cominciarono a dare informazioni sulla terminologia da usare per queste cifre, diversa da un paese all’altro e fonte quindi di notevole confusione. Come fece osservare un giornalista, mentre i francesi adoperavano la parola trilione per indicare un milione di milioni, «per noi un trilione è uguale a un milione di bilioni (1.000.000.000.000.000.000), e Dio non voglia che si debba arrivare o addirittura superare questi valori per la moneta che utilizziamo tutti i giorni, almeno per evitare il sovraffollamento dei manicomi che un fatto del genere provocherebbe».265

Al suo apice, l’iperinflazione si rivelò agghiacciante e il denaro perse quasi di significato. Le tipografie non riuscivano a tenere il passo con la necessità di produrre banconote di taglio via via più astronomico e le municipalità cominciarono a stampare in proprio denaro di emergenza, utilizzando un’unica faccia della carta. I lavoratori dipendenti andavano a prendere il salario con sporte o carriole per poter trasportare tutte le banconote che componevano la loro busta paga, e si affrettavano a comperare ciò di cui avevano bisogno finché il potere d’acquisto del denaro glielo permetteva. Raimund Pretzel, allora scolaro, ricordava più tardi che alla fine di ogni mese suo padre, un funzionario pubblico di grado elevato, dopo aver preso lo stipendio si precipitava a comprare l’abbonamento ferroviario per potersi recare al lavoro il mese successivo, saldava le spese correnti, portava l’intera famiglia a tagliarsi i capelli e quindi dava ciò che restava della paga alla moglie. La moglie, a sua volta, andava al più vicino mercato all’ingrosso e acquistava scorte di generi alimentari non deperibili che sarebbero dovuti durare fino allo stipendio successivo. Per il resto del mese la famiglia non disponeva di contanti. Per la spedizione di lettere, le banconote di taglio più recente venivano spillate sulla busta come affrancatura poiché era impossibile stampare francobolli del giusto valore tanto rapidamente da tenere il passo con l’aumento dei prezzi. Il 29 luglio 1923 il corrispondente in Germania del quotidiano britannico «Daily Mail» scriveva: «Nei negozi i prezzi vengono scritti a macchina ed esposti di ora in ora. Per esempio, alle 10 del mattino un grammofono costa 5 milioni di marchi, ma alle 3 del pomeriggio il prezzo è di 12 milioni di marchi. Una copia del “Daily Mail” acquistata dagli strilloni costava ieri 35 mila marchi, oggi ne costa 60 mila».266

Gli effetti più gravi e clamorosi si ebbero sui prezzi alimentari. Un avventore rischiava di sedersi in un bar e ordinare una tazza di caffè del costo di 5 mila marchi, salvo vedersi chiedere dal cameriere 8 mila marchi quando si alzava per pagare la consumazione un’ora più tardi. Un chilo di pane di segale, componente fondamentale della dieta quotidiana in Germania, costava 163 marchi il 3 gennaio 1923, più di dieci volte tanto in luglio, 9 milioni il 1° ottobre, 78 miliardi il 5 novembre e 233 miliardi di marchi due settimane più tardi, il 19 novembre.267 Nel periodo di picco dell’iperinflazione, oltre il 90 per cento della spesa domestica era destinata al cibo.268 Le famiglie a reddito fisso furono costrette a vendere tutto ciò che avevano per procurarsi qualcosa da mangiare, mentre i negozianti iniziarono l’accaparramento delle merci per anticipare i successivi aumenti dei prezzi.269 Impossibilitata a procurarsi il minimo indispensabile, la gente prese d’assalto i negozi di generi alimentari. Ci furono sparatorie fra bande di minatori che si aggiravano per le campagne in cerca di cibo e i contadini che tentavano di difendere i loro raccolti e non erano disposti a venderli in cambio di banconote prive di valore. Il crollo del marco rendeva difficile, se non impossibile, importare beni dall’estero e si profilava la minaccia di una carestia, soprattutto nell’area occupata dai francesi, dove la rete dei trasporti era paralizzata dalla resistenza passiva.270 La malnutrizione provocò un’impennata delle morti per tubercolosi.271

L’esperienza dello studioso Victor Klemperer è esemplare e i suoi diari offrono una riflessione personale sulla storia tedesca di questo periodo. Klemperer, reduce di guerra, tirava a campare grazie a incarichi temporanei come insegnante. Nel febbraio 1920 si rallegrò di vedersi riconoscere un’indennità di guerra aggiuntiva, ma dopo poco avrebbe lamentato che «ciò che prima era una piccola entrata ora è soltanto una mancia».272 Nei mesi successivi, via via che l’inflazione accelerava, il suo diario si riempì di calcoli. Già nel marzo 1920 raccontava di aver incontrato, su un treno fuori Monaco, «gente minuta con gli zaini in spalla che andava in giro in cerca di cibo».273 Col passare del tempo, Klemperer si trovò a pagare conti sempre più elevati «con una sorta di fatalismo apatico».274

Nel 1920 ottenne infine un incarico permanente al Politecnico di Dresda, ma ciò non gli garantì la sicurezza economica. Ogni mese riceveva uno stipendio sempre più stratosferico, assieme al pagamento di arretrati per compensare l’inflazione intervenuta dall’ultimo pagamento. Nonostante alla fine del maggio 1923 il suo stipendio fosse di quasi un milione di marchi al mese, Klemperer non riusciva a pagare le bollette del gas e le tasse. Tutti i suoi conoscenti tentavano di arrotondare le entrate speculando in borsa e anch’egli ci provò, ma il suo primo profitto, 230 mila marchi, sembrò ben poca cosa rispetto a quelli del suo collega, il professor Förster, «uno tra i peggiori antisemiti, attivisti teutonici e patrioti di tutta l’università»: si diceva infatti che guadagnasse mezzo milione di marchi al giorno investendo in borsa.275

Frequentatore abituale di caffè, Klemperer annotò di aver pagato 12 mila marchi per un caffè e un dolce il 24 luglio, ma già il 3 agosto un caffè e tre dolcetti gli sarebbero costati 104 mila marchi.276 Alla data di lunedì 28 agosto nel diario si legge che qualche settimana prima era riuscito a comprare dieci biglietti per il cinema, il suo passatempo preferito, per 100 mila marchi: «Subito dopo il prezzo è aumentato in maniera incalcolabile e di recente i nostri posti da 10 mila marchi costano già 200 mila marchi. Ieri pomeriggio» continua Klemperer «volevo acquistare una nuova scorta di biglietti. Le poltrone delle file centrali costavano ben 300 mila marchi» e quella categoria di posti era la seconda più a buon mercato disponibile; un ulteriore aumento dei prezzi era già stato annunciato per il giovedì successivo, tre giorni più tardi.277 Il 9 ottobre Klemperer scriveva: «Ieri andare al cinema ci è costato 104 milioni, viaggio compreso».278 La situazione spinse lui come molti altri sull’orlo della disperazione:

La Germania sta collassando in modo quasi irreale, a poco a poco … Il dollaro viene cambiato a oltre 800 milioni, e ogni giorno il tasso di cambio è 300 milioni più alto del giorno prima. Tutto questo non lo leggiamo solo sui giornali, lo subiamo nella vita di tutti giorni. Per quanto ancora potremo mangiare? Quanto ancora dovremo stringere la cinghia?279

Klemperer trascorreva sempre più tempo tentando di racimolare denaro e il 2 novembre scriveva:

Ieri ho aspettato il denaro nell’ufficio cassa dell’università tutta la mattinata, fino alle 2, ma alla fine non ho avuto un centesimo, neanche gli arretrati di ottobre. La causa è l’aumento di ieri del dollaro, da 65 a 130 miliardi, e oggi dovrò pagare la bolletta del gas e altri conti al doppio del prezzo di ieri. Per quanto riguarda il gas, la differenza potrebbe essere di ben 150 miliardi.280

Annotava inoltre che la mancanza di cibo stava provocando sommosse a Dresda, alcune con venature antisemite. Cominciava anche a temere che la sua casa venisse saccheggiata all’assurda ricerca di viveri. Lavorare era impossibile: «Le questioni legate ai soldi portano via moltissimo tempo e logorano il sistema nervoso».281

La Germania era a un passo dalla paralisi: le aziende e gli enti pubblici non riuscivano più a pagare i dipendenti né ad acquistare quanto era necessario per fornire i servizi. Il 7 settembre, a Berlino, solo 30 linee di tram su 90 erano ancora in funzione.282 Era chiaro che la situazione non poteva protrarsi ulteriormente. Il paese venne salvato dall’abisso da una combinazione di avvedute decisioni politiche e di perspicaci riforme finanziarie. Nell’agosto 1923 cominciava il suo lungo periodo alla guida del ministero degli Affari Esteri Gustav Stresemann, che per i primi mesi detenne anche la carica di cancelliere del Reich: egli lanciò una politica di «adempimento», negoziando in settembre il ritiro dei francesi dalla Ruhr in cambio della garanzia che la Germania avrebbe ottemperato ai pagamenti delle riparazioni a qualsiasi costo. In cambio, la comunità internazionale accettò di riconsiderare il sistema delle riparazioni e l’anno successivo venne avviato un nuovo piano di pagamenti elaborato da una commissione presieduta dall’esperto americano di questioni finanziarie Charles Dawes.

Il piano non proponeva una data per la fine dei pagamenti, ma almeno prevedeva una serie di soluzioni per garantire che l’adempimento degli stessi fosse praticabile e, per i successivi cinque anni, in effetti, gli esborsi proseguirono senza eccessivi problemi.283 Questa politica non valse a Stresemann il plauso della destra nazionalista, che rifiutava qualsiasi concessione riguardante il principio delle riparazioni. Tuttavia, l’iperinflazione aveva raggiunto dimensioni tali che la maggior parte dei cittadini era ormai rassegnata a considerare quella di Stresemann l’unica politica realistica, posizione che con ogni probabilità l’opinione pubblica non avrebbero sposato un anno prima o poco più.284 Sul fronte finanziario, il 22 dicembre 1923 il governo nominò a capo della Reichsbank, la banca centrale tedesca, il brillante finanziere Hjalmar Schacht; in precedenza, il 15 novembre, era stata emessa una nuova valuta, il Rentenmark, il cui valore fu ancorato al prezzo dell’oro.285 Schacht attuò numerose misure di difesa del Rentenmark dalle speculazioni e non appena la nuova valuta, che presto riprese il nome di Reichsmark, cominciò a circolare, sostituì la vecchia e venne presto accettata ovunque.286 L’iperinflazione era finita.

Altri paesi furono colpiti dallo stesso fenomeno dopo la guerra, ma in nessuno esso toccò i livelli tedeschi. I picchi dell’iperinflazione furono diversi da paese a paese: rispetto al periodo precedente la guerra, in Austria i prezzi aumentarono di 14 mila volte, in Ungheria di 23 mila volte, in Polonia di 2,5 milioni di volte e di 4 miliardi di volte in Russia, sebbene in questo caso l’inflazione non possa essere confrontata con quella degli altri paesi, dal momento che l’economia sovietica non aveva più contatti con il mercato mondiale. Questi tassi sembrano spaventosi, ma va ricordato che in Germania i prezzi aumentarono di mille miliardi di volte rispetto al livello precedente la guerra, originando una crisi che è entrata negli annali della storia economica come la peggiore iperinflazione mai registrata. È da notare, inoltre, che nessuno di questi altri paesi aveva combattuto dalla parte dei vincitori. Tutti riuscirono infine a stabilizzare la propria valuta, ma si trattò di processi autonomi: negli anni ’20, infatti, non si sviluppò un sistema finanziario internazionale analogo alla complessa rete di istituzioni e accordi che avrebbe governato la finanza internazionale dopo la Seconda guerra mondiale.287

 

II

 

Le conseguenze tanto dell’iperinflazione quanto delle misure attuate per combatterla furono profonde, ma gli effetti a lungo termine sulle condizioni economiche della popolazione tedesca sono difficilmente valutabili. Si disse che il fenomeno avesse provocato il tracollo della prosperità della classe media, ma da un punto di vista economico e finanziario tale gruppo era molto eterogeneo al suo interno. Tutti coloro che avevano investito denaro in obbligazioni di guerra o in titoli di Stato l’avevano perso, ma quelli che avevano contratto un mutuo per acquistare una casa o un appartamento finirono per diventarne proprietari per una somma irrisoria: spesso lo stesso individuo era coinvolto in misura diversa in entrambe le situazioni. Tuttavia, per i percettori di un reddito fisso i risultati furono disastrosi. I creditori erano esacerbati e la coesione sociale ed economica della classe media si frantumò quando vincitori e vinti si trovarono divisi da nuove barriere sociali.

La conseguenza politica fu, nella seconda metà degli anni ’20, una sempre più accentuata frammentazione dei partiti dei ceti medi, che li rendeva impotenti di fronte agli attacchi demagogici della destra estrema. Cruciale fu il fatto che quando gli effetti deflativi della stabilizzazione cominciarono a farsi sentire, tutti i gruppi sociali ne furono colpiti: nella memoria popolare gli effetti dell’inflazione, dell’iperinflazione e della successiva stabilizzazione si fusero in un’unica catastrofe economica da cui praticamente tutti i ceti della società tedesca uscirono sconfitti.288 Victor Klemperer è una figura emblematica in questo processo. Quando cominciò il periodo della stabilizzazione, la «paura di un’improvvisa svalutazione monetaria, la frenetica corsa agli acquisti» svanirono, sostituiti dall’«indigenza»: con l’avvento della nuova valuta, a Klemperer non era rimasto più niente di valore, e pochissimo denaro. Dopo tutte le speculazioni in borsa, egli giunse alla triste conclusione che «il valore delle mie azioni arriva a malapena a 100 marchi, la mia riserva di contante in casa è più o meno altrettanto, e questo è quanto. La mia assicurazione sulla vita è del tutto perduta: 150 milioni di carta corrispondono a 0,015 pfennig».289

Dato che il denaro aveva perso valore, l’unica cosa che valesse la pena di possedere erano i beni di consumo e il paese fu quindi vittima di una grave ondata di criminalità. Le condanne per furto, che erano state 115 mila nel 1913, raggiunsero quota 365 mila nel 1923; sempre nel 1923 il numero di condanne per detenzione di merci rubate fu sette volte superiore che nel 1913. Le condizioni dei poveri erano così disperate già nel 1921 che, secondo quanto riportato da un quotidiano socialdemocratico, su 100 uomini inviati alla prigione di Plötzensee, a Berlino, 80 non avevano calze, 60 erano privi di scarpe e 50 non avevano neanche la camicia.290 I furti da parte degli scaricatori nel porto di Amburgo raggiunsero livelli senza precedenti. Sembra perfino che i portuali si rifiutassero di scaricare quelle merci che non potevano tornare loro utili; i sindacati segnalarono che molti si recavano sui moli solo per rubare. Chiunque tentasse di fermarli veniva picchiato. Caffè, farina, pancetta e zucchero costituivano il bottino preferito. Di fatto, dal momento che il valore dei salari in contanti continuava a diminuire, i lavoratori adottarono sempre più spesso il pagamento in natura: il fenomeno assunse dimensioni tali che nel 1922-23 alcune compagnie di spedizioni straniere cominciarono a utilizzare altri porti per le operazioni di scarico.291 L’economia basata sul furto e sul baratto iniziò a sostituirsi alle transazioni in denaro anche in altri settori e località.

La violenza, o la minaccia di violenza, si manifestava talvolta in modi clamorosi. Si videro bande formate anche da duecento giovani armati fino ai denti assaltare le fattorie e razziare le campagne. Nonostante questo clima di criminalità quasi incontrollabile, le condanne per lesioni passarono dalle 113 mila del 1913 ad appena 35 mila nel 1923, e riduzioni analoghe si registrarono in tutte le categorie di reati non direttamente collegati al furto. Sembra quasi che tutti pensassero solo a rubare cibo e altre merci per poter sopravvivere. Si raccontava di ragazze che si vendevano per un panetto di burro. L’amarezza e il rancore per questo stato di cose erano accentuati dall’impressione che taluni ne traessero invece grandi profitti grazie al cambio illegale, al contrabbando, a speculazioni e operazioni spregiudicate e al mercato nero. I «borsaneristi» e gli speculatori erano diventati l’obiettivo delle denunce di demagoghi populisti già prima che l’inflazione galoppante si trasformasse in iperinflazione: ora divennero i bersagli preferiti dell’odio popolare. Era opinione diffusa che costoro trascorressero le notti in continui festini, mentre i negozianti e gli artigiani onesti dovevano vendere i mobili di casa per procurarsi il pane. A molti i valori morali tradizionali sembravano in declino proprio come il valore del denaro.292 La discesa a precipizio verso il caos, economico, sociale, politico, morale, sembrava inarrestabile.293

Denaro, reddito, solidità finanziaria, regolarità e prevedibilità erano stati al centro del sistema di valori e dell’esistenza delle classi borghesi prima della guerra: ora sembrava che tutto ciò fosse stato spazzato via assieme all’ apparentemente altrettanto stabile sistema politico del Reich guglielmino. Nella cultura dell’epoca di Weimar cominciò a manifestarsi un diffuso cinismo, come traspare da opere quali il film Il dottor Mabuse o il romanzo Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, che Thomas Mann iniziò a scrivere nel 1922 ma portò a termine solo trent’anni più tardi. Conseguenza dell’inflazione è anche quella specie di fascinazione per i criminali, i truffatori, i giocatori d’azzardo, i profittatori, i ladri e gli imbroglioni di vario genere che connotò il periodo di Weimar. La vita sembrava un azzardo, la sopravvivenza un effetto arbitrario di oscure forze economiche: scommettere, al tavolo da gioco o in borsa, era una metafora del vivere. Buona parte del disincanto che rese la cultura di Weimar della metà degli anni ’20 così suggestiva, ma che avrebbe spinto molti a desiderare un ritorno all’idealismo, all’abnegazione e alla devozione alla patria, derivava proprio dal disorientamento provocato dalla crisi economica.294

L’iperinflazione fu un trauma la cui influenza sul comportamento dei tedeschi di tutte le classi sociali si protrasse per lunghi anni, alimentando la sensazione delle fasce più conservatrici della popolazione che il mondo fosse stato buttato all’aria e capovolto, prima dalla sconfitta, poi dalla rivoluzione e infine dai problemi economici. La crisi infranse la fiducia nella neutralità del diritto come regolatore sociale, tra debitori e creditori o tra ricchi e poveri, ed erose i principi di imparzialità e giustizia che le leggi avrebbero dovuto tutelare. Anche il linguaggio politico, già incline all’enfasi iperbolica dopo gli eventi del 1918-19, ne patì le conseguenze. L’iperinflazione, infine, rinvigorì il vecchio e logoro immaginario del male, aggiungendovi non solo il criminale e il giocatore d’azzardo, ma anche lo speculatore e, fatalmente, il plutocrate ebreo.295

 

III

 

Buona parte dell’opinione pubblica riteneva che i grandi industriali e finanzieri fossero usciti indenni dagli sconvolgimenti economici dei primi anni ’20 e questo fatto provocò un diffuso rancore contro i «capitalisti» e gli «speculatori» in molti settori della società tedesca. Ma gli imprenditori tedeschi non erano altrettanto certi di aver riportato un successo e molti di loro guardavano con nostalgia al Reich guglielmino, un periodo in cui Stato, polizia e tribunali avevano tenuto a bada il movimento dei lavoratori e il mondo degli affari trovava un orecchio attento nel governo a proposito delle principali questioni economiche e sociali.

Per quanto travisata e ottimistica potesse essere questa proiezione a posteriori, restava il fatto che prima della guerra quel gruppo sociale aveva rivestito un ruolo privilegiato, nonostante gli sporadici malumori a causa delle interferenze statali nell’economia.296 In Germania la rapidità e la portata dell’industrializzazione avevano non solo trasformato il paese nella principale potenza economica dell’Europa continentale prima del 1914, ma anche creato un settore economico che si distingueva per le dimensioni delle sue imprese e per l’importanza sulla scena pubblica dei suoi amministratori e imprenditori. Uomini come il fabbricante di armi Krupp, i magnati del ferro e dell’acciaio Stumm e Thyssen, l’armatore Ballin, i capitani d’industria Rathenau e Siemens e molti altri ancora erano i rappresentanti di casate ricche, potenti, che godevano di un grande ascendente nelle questioni politiche.

Queste figure erano in vario grado contrarie alla sindacalizzazione e al metodo della contrattazione collettiva. Durante la guerra, tuttavia, la loro opposizione si era in parte attenuata di fronte all’intervento sempre più incisivo dello Stato nelle relazioni sindacali, tanto che il 15 novembre 1918 imprenditori e sindacati, rappresentati rispettivamente da Hugo Stinnes e Carl Legien, firmarono un accordo che regolava la contrattazione collettiva e riconosceva la giornata lavorativa di otto ore. Entrambe le parti avevano interesse a sventare le minacce di una statalizzazione radicale provenienti dall’estrema sinistra. Il patto salvaguardava la struttura imprenditoriale esistente, concedendo al contempo ai sindacati la rappresentanza dei lavoratori nella rete nazionale di comitati per la contrattazione congiunta. Come altri apparati del sistema guglielmino, gli industriali accettarono la repubblica perché sembrava loro l’unico modo per prevenire situazioni peggiori.297

I primi anni del nuovo Stato furono, tutto sommato, un periodo favorevole al mondo degli affari: resisi conto che l’inflazione non si sarebbe arrestata, molti industriali acquistarono grandi quantità di macchinari con denaro preso a prestito, che al momento di essere restituito aveva ormai perso di valore. Ma ciò non significa, come qualcuno ha sostenuto, che essi cavalcarono l’inflazione per trarne vantaggio: al contrario, molti non avevano le idee chiare su come affrontarla, in particolare durante il periodo di iperinflazione del 1923, e i profitti che intascarono non furono così spettacolari come si è spesso sostenuto.298 In aggiunta, la brusca deflazione, risultato inevitabile della stabilizzazione monetaria, comportò gravi problemi per l’industria, che in molti casi aveva investito in impianti sovradimensionati rispetto alle proprie necessità. I fallimenti si moltiplicarono, l’enorme impero industriale e finanziario di Hugo Stinnes crollò e le società più importanti tentarono di salvarsi per mezzo di fusioni e cartelli. È il caso, per esempio, della Vereinigte Stahlwerke, il complesso di acciaierie formatosi nel 1924 dalla concentrazione di numerose industrie pesanti, e della gigantesca I.G. Farben, il consorzio dei produttori tedeschi di coloranti creato quello stesso anno dalle società chimiche Agfa, BASF, Bayer, Griesheim, Hoechst e Weiler-ter-Meer, che diventò il più grosso gruppo industriale in Europa e il quarto nel mondo, dopo la General Motors, la United States Steel e la Standard Oil.299

Lo scopo di fusioni e cartelli non era solo la conquista di una posizione dominante nel mercato, ma anche il taglio dei costi e l’aumento dell’efficienza. Le nuove imprese misero al primo posto la razionalizzazione della produzione secondo i principi già attuati alla Ford Motor Company statunitense. Per aumentare l’efficienza produttiva il «fordismo», come fu presto chiamato, prevedeva l’automatizzazione e la meccanizzazione ovunque fosse possibile; a esso si accompagnava lo sforzo per riorganizzare scientificamente il lavoro sulla base dei nuovi studi americani sui tempi e i metodi produttivi, un complesso di concetti conosciuto come «taylorismo» e oggetto di accesi dibattiti nella Germania della seconda metà degli anni ’20.300 Innovazioni di questo tipo furono introdotte con risultati sensazionali nell’industria mineraria della Ruhr: mentre prima della guerra il 98 per cento del carbone veniva estratto manualmente, nel 1929 tale percentuale era scesa ad appena il 13 per cento. L’uso di perforatrici pneumatiche e di nastri trasportatori meccanici per fare arrivare il carbone alle stazioni di carico, associato alla ristrutturazione delle procedure di lavorazione, rese possibile un aumento del rendimento annuale di ogni minatore da 255 tonnellate nel 1925 a 386 tonnellate nel 1932. Ciò consentì alle compagnie minerarie di ridurre le dimensioni della forza lavoro a tassi molto rapidi: i lavoratori del settore passarono da 545 mila nel 1922 a 409 mila nel 1925 e a 353 mila nel 1929.

Analoghi processi di razionalizzazione e meccanizzazione interessarono anche altri comparti, in particolare l’industria automobilistica, allora in rapida espansione.301 In altri settori, come quello siderurgico e metallurgico, tuttavia, l’efficienza aumentò non tanto in virtù di meccanizzazione e modernizzazione, quanto grazie a fusioni e monopoli. Nonostante le discussioni e il dibattito su fordismo, taylorismo e altre teorie, alla fine degli anni ’20 gran parte dell’industria tedesca era caratterizzata da una struttura ancora tradizionale.302

Rimane comunque vero che l’adeguamento alla nuova situazione economica che seguì alla stabilizzazione comportò una riduzione delle spese, il taglio dei costi e la perdita di posti di lavoro. Un ulteriore fattore di aggravamento era rappresentato dall’affacciarsi al mercato del lavoro della generazione relativamente numerosa nata negli anni precedenti la guerra, che era in soprannumero rispetto ai caduti nel conflitto e alle vittime della terribile epidemia di spagnola che aveva colpito il mondo intero subito dopo la fine delle ostilità. Dal censimento della forza lavoro del 1925 risultò un’eccedenza di 5 milioni di persone rispetto al 1907 e il censimento successivo, del 1931, stimò un’eccedenza di un altro milione, se non di più. Alla fine del 1925, in seguito all’impatto congiunto della razionalizzazione e della crescita demografica, il numero dei disoccupati raggiunse il milione; nel marzo 1926 superò i 3 milioni.303

In queste mutate circostanze, gli imprenditori non erano più disposti a scendere a patti con i sindacati. Una delle conseguenze della stabilizzazione era l’impossibilità per i datori di lavoro di compensare gli aumenti salariali con l’aumento dei prezzi. La contrattazione collettiva istituita durante la Prima guerra mondiale venne meno e fu sostituita da rapporti sempre più aspri fra imprenditori e forza lavoro, in cui lo spazio di manovra per i lavoratori divenne sempre più limitato. Ma i datori di lavoro erano convinti che i loro tentativi di tagliare i costi e di migliorare la produttività fossero intralciati dal potere dei sindacati e dagli ostacoli legali e istituzionali posti in essere dallo Stato: il sistema di arbitrato creato dalla Repubblica di Weimar era parziale e favoriva i sindacati durante le vertenze, o almeno così ritenevano gli imprenditori. Quando, nel 1928, un aspro confronto sui salari degli operai siderurgici nella Ruhr venne composto per mezzo di un arbitrato obbligatorio, i datori di lavoro si rifiutarono di pagare il modesto aumento che era stato deciso e risposero con una serrata di quattro settimane contro i 200 mila lavoratori. Gli operai non solo trovarono il sostegno del governo del Reich, all’epoca composto da una «grande coalizione» guidata dai socialdemocratici che si era formata quell’anno, ma ricevettero anche un sussidio statale, tanto che gli industriali cominciarono a credere che l’intero apparato della Repubblica di Weimar fosse loro ostile.304

Dal loro punto di vista, la situazione si deteriorò ancora di più a causa dei nuovi obblighi finanziari imposti dallo Stato. Nel tentativo di attenuare le conseguenze della stabilizzazione che più colpivano i lavoratori, nonché per evitare che si ripetesse il collasso del fondo assistenziale sfiorato durante l’iperinflazione, fra il 1926 e il 1927 il governo varò in fasi successive un complesso schema di ammortizzatori sociali. Promulgato nel 1927 e finalizzato a tutelare circa 17 milioni di lavoratori dalla perdita di posti di lavoro, il provvedimento più incisivo imponeva gli stessi contributi previdenziali tanto ai datori di lavoro quanto ai lavoratori, e istituiva un fondo statale per affrontare le crisi più gravi, nel caso il numero di disoccupati avesse sfondato il tetto previsto dal provvedimento. Ma tale limite era di sole 800 mila unità, una cifra che era già stata superata prima ancora che il provvedimento entrasse in vigore.305 L’intero sistema appariva agli occhi del mondo imprenditoriale un inaccettabile intervento statale in campo economico che, oltre a imporre costi aggiuntivi ai datori di lavoro sotto forma di contributi al fondo previdenziale, introduceva un maggior onere fiscale a carico delle imprese e degli stessi imprenditori agiati.

I più ostili al sistema erano gli industriali della Ruhr. Infatti, le limitazioni dell’orario di lavoro introdotte per legge impedivano in molti casi di utilizzare gli impianti a ciclo continuo, mentre i contributi al fondo contro la disoccupazione del 1927 erano considerati un freno allo sviluppo. Nel 1929 l’associazione nazionale degli industriali proclamò che il paese non poteva più permettersi un programma del genere e richiese drastici tagli alla spesa pubblica, nonché la cessazione formale dell’accordo con i lavoratori che aveva salvato i grandi imprenditori al tempo della rivoluzione del 1918. Affermare che la causa dei problemi dell’imprenditoria era il sistema assistenziale, anziché la situazione economica internazionale, era senz’altro un’esagerazione, ma il fatto era senza dubbio indicativo del nuovo clima di ostilità verso i sindacati e i socialdemocratici che si era diffuso tra molti datori di lavoro nella seconda metà degli anni ’20.306

Alla fine di quel decennio la grande industria era già delusa dalla Repubblica di Weimar. L’influenza di cui gli industriali avevano goduto prima del 1914, e che era aumentata durante la guerra e nel dopoguerra segnato dall’inflazione, sembrava essersi ridotta in modo drastico. Come se non bastasse, la reputazione di questa classe sociale, una volta molto solida, aveva acutamente sofferto in seguito a scandali finanziari e di altro tipo che erano emersi in quel periodo. Chi aveva perso il proprio patrimonio in investimenti incauti cercava qualcuno a cui dare la colpa e nel 1924-25 la ricerca di un capro espiatorio cadde sulla figura di Julius Barmat.

Barmat era un imprenditore ebreo di origine russa che aveva collaborato con i principali esponenti socialdemocratici per importare derrate alimentari subito dopo la guerra, investendo poi i crediti che aveva ottenuto dalla banca centrale prussiana e dal ministero delle Poste in speculazioni finanziarie durante l’inflazione. Quando, alla fine del 1924, la sua società fallì lasciandosi dietro debiti per 10 milioni di Reichsmark, l’estrema destra ne approfittò per lanciare una sguaiata campagna di stampa in cui accusava i vertici dei socialdemocratici, tra cui l’ex cancelliere Gustav Bauer, di essersi fatti corrompere. Quasi tutti gli scandali finanziari di questo tipo vennero sfruttati dall’estrema destra per sostenere che la corruzione degli ebrei stava esercitando pressioni indebite sull’apparato statale di Weimar e provocando la rovina finanziaria di molti cittadini tedeschi delle classi medie.307

Non c’era molto che il mondo degli affari potesse fare per porre rimedio a questa situazione, dato il ristretto spazio di manovra politica che gli rimaneva. Fin dagli esordi della repubblica gli imprenditori avevano tentato sia di difendere l’industria dalle interferenze dei politici, sia di farsene degli alleati, per mezzo di donazioni ai partiti «borghesi», in particolare ai nazionalisti e al Partito popolare. Le grandi imprese avevano spesso un ascendente sui principali giornali grazie ai loro investimenti, ma raramente ciò si trasformava in pressione politica. Se anche il proprietario interveniva spesso in merito alla linea editoriale, come nel caso di Alfred Hugenberg, il cui impero editoriale si espanse con rapidità durante gli anni della Repubblica di Weimar, di solito ciò aveva poco o nulla a che fare con gli interessi particolari del mondo degli affari. All’inizio degli anni ’30, anzi, i maggiori imprenditori erano così irritati per il radicalismo di destra di Hugenberg da complottare per estrometterlo dai vertici del Partito nazionalista.

Lungi dall’avere una posizione unica sulle questioni che li riguardavano, gli industriali erano spaccati su due fronti non solo per motivi politici, come indica l’esempio di Hugenberg, ma anche a causa di interessi economici contrastanti. Mentre le società minerarie e siderurgiche della Ruhr si accanivano contro lo Stato sociale e il sistema di contrattazione collettiva della Repubblica di Weimar, gruppi come la Siemens o la I.G. Farben, i colossi dei settori più moderni dell’economia, erano più propensi al compromesso. Conflitti di interesse esistevano, inoltre, fra le industrie più dedite all’esportazione, che sopravvissero relativamente bene agli anni della stabilizzazione e della riduzione della spesa, e quelle impegnate nella produzione di beni destinati al mercato interno, categoria che comprendeva, ancora una volta, i magnati del ferro e dell’acciaio della Ruhr. Anche tra questi ultimi, tuttavia, c’erano profonde divergenze e ne è un esempio Krupp, che si oppose alla linea dura della serrata attuata dai datori di lavoro nel 1928.308

Oltre ad aver perso gran parte dell’influenza politica di cui avevano goduto durante il periodo dell’inflazione, alla fine degli anni ’20 gli industriali si ritrovavano quindi stretti fra i contrasti interni dovuti alle rispettive posizioni politiche e le limitazioni imposte loro dalla Repubblica di Weimar. La delusione di questa classe sociale nei confronti delle istituzioni repubblicane era destinata, per alcuni dei suoi più autorevoli rappresentanti, a sfociare ben presto in aperta ostilità.