Giorgio
C’era una ragione, se non si era mai sposato.
Giorgio Guccione non voleva rotture di palle, le aveva evitate come la peste per tutta la vita, e se c’era una strada facile per avere rotture di palle quella era prendere moglie. In tanti gli avevano detto bravo, sei stato furbo, ma altrettanti avevano scosso la testa sentenziando “un bell’uomo come te”. E lo era, sempre stato, poi con quel portamento fine, elegante, faceva sempre bella figura comunque fosse vestito, e aveva fatto bella figura anche da nudo, dato che nudo ci era stato tre anni e mezzo.
Quando si era svegliato in ospedale l’uomo era seduto accanto al suo letto, la testa lucida, gli occhi stretti a esaminarlo.
«Pure ’a barba vi faceva»
aveva detto, e Giorgio nel dubbio non aveva risposto nulla, perché non voleva rotture di palle, soprattutto dai poliziotti, e quello era un poliziotto. Francesco Caparzo non lo avrebbe definito “omertoso” perché era una parola che non gli piaceva, ma calzava come un guanto a quell’infermiere alto dai capelli grigi e il sorriso pronto. Aveva risposto a tutte le domande dell’ispettore Ridenti senza dire davvero niente
«L’hanno rapita l’11 agosto 2014»
«Mi pare che fosse estate, sì»
«Non era una domanda, glielo stavo confermando»
scivolando intorno alla verità, solo sfiorandola, come si fa con le donne in quei balli troppo complicati per essere eseguiti in balera. Aveva rilasciato un memoriale pieno di buchi e omissioni, farcito di “forse” e “non ricordo bene”, gli psicologi con cui aveva parlato erano rimasti perplessi, avevano scomodato l’immarcescibile shock post-traumatico e avevano detto che per sommi capi i suoi ricordi corrispondevano a quelli degli altri.
Non era così.
Giorgio Guccione si ricordava molte più cose degli altri perché aveva l’abitudine di stivare le informazioni come uno scoiattolo, nozioni di norma slegate tra loro che esibiva nelle conversazioni per mostrarsi brillante. Non gli importava di quello che sapeva, gli importava di QUANTE cose sapeva. E in quel capannone di cose ne aveva viste parecchie. Aveva assistito a lotte di potere, complotti per la rivoluzione, tentati suicidi, omicidi, pestaggi e sì, anche uno stupro. E mai una volta aveva fatto niente per tentare di intervenire, fermare, dare l’allarme. Lui non voleva rotture di palle, e là dentro il solo modo per non averne era stare buono in un angolo, osservare e tacere. Questo gli avrebbe consentito di rimanere lì dentro altri tre anni, o trenta, o per sempre. Come tutti aveva avuto un momento di celebrità, era stato in televisione, aveva rilasciato un paio di interviste esclusive e poi se ne era tornato a casa. Aveva dovuto sostenere altri cinque incontri con gli psicologi per poter riprendere il lavoro, e non appena possibile si era rimesso la sua divisa bianca ed era tornato nella casa di cura.
Allora, e solo allora, quando la sua vita aveva ripreso la stessa identica forma che aveva prima di essere rapito, aveva iniziato il censimento dei ricordi.
Lo aveva notato già in mezzo agli studenti, sulla gradinata della piccola arena in cui si teneva il corso. Era un uomo di mezz’età con indosso una maglia scura e un gilet multitasche, magro, nervoso, che in mezzo a tutta quella gioventù stonava.
Ti sei preso un po’ tardino
aveva considerato Giorgio, poi aveva continuato a esporre le sue mansioni all’interno della RSA. Lo chiamavano spesso nelle scuole per infermieri a parlare di quell’ambito specifico, visti anche i recenti scandali, le telecamere piazzate da carabinieri e polizia che non avevano di meglio da fare che gettare un’ombra su tutti loro. Avevano controllato, lui e i colleghi, che non le avessero messe anche da loro, giusto per prudenza, e pareva che no, l’avessero scampata. Non che succedesse chissà che, qualche volta volavano due sberle o uno sculaccione, quando le cariatidi non si muovevano, a darli erano soprattutto Mario e Debora, lui invece aveva dalla sua la forza, quando non collaboravano li prendeva di peso ed era finita lì. Non faceva vocine, non si ammorbava in estenuanti spiegazioni, non perdeva tempo, faceva quello che doveva fare e se le mummie non erano d’accordo peggio per loro. Mai un richiamo in tanti anni, e da tutti i parenti rompiballe e piagnucolosi mandavano sempre lui a parlare, perché si presentava bene e veniva creduto subito, qualunque storia raccontasse. Insomma, là dentro ne avevano sessanta, non è che potessero accontentare tutti i capricci, se erano accompagnati da un pensiero magari sì, ma altrimenti funzionava come una catena di montaggio, uno via l’altro. La direzione lo mandava ai corsi perché più di tutti era professionale, rassicurante, aveva una bella voce e faceva sembrare una missione edificante pulire il culo ai vecchi, e poi gli davano un piccolo bonus che faceva sempre comodo. Il tizio col gilet gli era venuto incontro all’uscita, la faccia scura, e Giorgio aveva sorriso, perché sorrideva sempre quando vedeva rogne all’orizzonte, tipo i parenti che arrivavano urlando perché al loro vecchio erano venute le piaghe.
«Sei un bugiardo» gli aveva detto quel tizio, andandogli a un centimetro dalla faccia.
Giorgio aveva respirato il suo fiato, cercando tracce dolciastre, di alcol o droga, ma non c’era niente di niente.
«Forse mi confonde con qualcuno.»
«Tu vendi un sacco di merda a questi ragazzi, e magari loro ti credono e pensano di andare in missione. Invece a te non frega niente della fragilità capillare o della disfagia, o dei vecchi in generale.»
E perché dovrebbe fregarmene?
ma non lo disse. Quello era un matto, aveva l’aria di essere forte, ma era più basso di lui e stava facendo una sceneggiata, come i cani che abbaiano ma non mordono. Gli bastò ignorarlo e quello se ne andò via com’era venuto, sicuramente aveva un parente nella struttura e per questo era venuto a cercare di rompergli le palle. Ma Giorgio non si faceva rompere le palle da nessuno.
Si erano ritrovati di notte sul fondo della gabbia, nell’angolo sinistro che era di Giorgio, se appena poteva andava a rifugiarsi lì.
«Voi sapete perché ci ha presi?»
fu la domanda bisbigliata a fior di labbra.
«Io ho fatto ammazzare dei negri. Gli ho venduto una macchina marcia e loro si sono schiantati» aveva raccontato Yuri.
«Odio i miei figli» se n’era uscita Karina.
«Io faccio soffrire gli uomini» era stata l’ammissione di Sveva.
«Maltratto i vecchi» aveva detto lui.
Si erano guardati bene in faccia, loro quattro che dividevano la stessa gabbia, quelli che lo scemo del villaggio, Saverio, aveva ribattezzato “scimmie”. Si erano riconosciuti e dichiarati per quello che erano, sapevano di far parte di una specie di spedizione punitiva che, per criteri ben precisi o per casualità, aveva fatto cadere l’attenzione del rapitore su di loro. Gli altri tre sapevano i propri perché, Yuri e Sveva sapevano il quando, solo Karina sapeva il dove, ma lui, lui sapeva il chi. Aveva indicato loro l’uomo sdraiato nella gabbia di fronte, una gabbia lunga e piatta, di colore verde, e aveva detto
«È lui.»
Gli altri si erano asserragliati nell’angolo, standogli addosso.
«Come lo sai?»
«È venuto a un corso che tenevo, mi ha fatto una scenata davanti a tutti, me lo ricordo benissimo.»
«E cosa voleva?»
«Diceva che ero un bugiardo, che non me ne fregava niente dei vecchi. Che era vero, ma me lo ha detto in un modo che mi ha fatto paura.»
«Quindi ti ha preso per punirti?»
«Per punirci tutti, sì. Ma se ci comportiamo bene non ci farà niente. È importantissimo che non lo guardiamo mai, che non gli parliamo mai e soprattutto che non gli diamo un nome.»
«Perché non possiamo dargli un nome?» si era stupito Yuri.
«Nicola ha detto che è la legge.»
Karina lo aveva guardato fisso, quella storia l’aveva già raccontata a lei, quando erano soli, e la versione che stava dando adesso agli altri due era leggermente ritoccata. Ma alla fine aveva scrollato le spalle e si era rifugiata nella sua posizione, gli altri l’avevano seguita. Giorgio era rimasto nel suo angolo a soppesare le informazioni che aveva dato agli altri tre rispetto a quello che si era tenuto via per eventuali tempi cupi. Faceva così sempre, con tutti, stivava munizioni da tirare fuori come un coniglio dal cilindro, e ne aveva per tutti, per Nicola che nascondeva i cerini nelle fessure del legno, per Giulio che un paio di volte si era costretto a vomitare, per Vasco che una notte aveva pianto, per Saverio che aveva provato a soffocarsi con un braccio intorno al collo, per Karina e Yuri che quando credevano lui dormisse avevano scopato, per Sandra che non aveva avuto il ciclo per due mesi e per Mino che un giorno, a bassa voce, aveva detto
«Quando li addormenti vieni qui».
Si era presentato in segreteria, diceva di voler visitare la struttura per sistemarci sua madre, e Giorgio lo aveva riconosciuto subito. Era il tizio che lo aveva aggredito dopo il corso agli studenti di infermieristica. Quando l’addetta glielo aveva portato dicendo
«Guccione, gli fai fare tu un giro?»
il tizio aveva finto di non riconoscerlo, e Giorgio aveva fatto altrettanto. Gli aveva mostrato ogni posto, la stanza con la vasca sollevabile, la palestra, la zona ricreativa, e quello lo ascoltava annuendo, senza fare domande. Era autunno inoltrato, faceva abbastanza freddo, ma lui stava con addosso una semplice maglia di cotone e un giubbottino leggero. Alla fine del tour gli aveva teso la mano
«La ringrazio per il suo tempo, signor Gior-gio Guc-cio-ne» aveva scandito.
E se quando lo aveva sentito sbraitare non si era granché preoccupato, quella volta il sorrisetto, la stretta salda e il suo nome erano riusciti a inquietarlo. Ma non aveva detto nulla a nessuno perché era un potenziale cliente e non voleva avere rogne con la direzione, metti mai che dicesse di aver desistito dal mettere lì la madre per colpa sua. Con un po’ di sforzo se ne era dimenticato, aveva proseguito la vita di sempre, era andato a messa così tutti lo avrebbero considerato una brava persona, si era scopato una tizia sposata che non avrebbe potuto avanzare pretese, aveva assistito all’agonia di una vecchia, assistito tecnicamente, perché erano in attesa che liberasse il letto e allora ritardare un po’ l’applicazione delle flebo avrebbe aiutato ed era andato a pescare. Andava in un laghetto privato fuori da Ca’ dei Frati, il suo amico Beppino gli aveva detto che i proprietari non ci andavano mai, a loro interessavano solo i terreni, non il lago, nessuno gli avrebbe rotto le palle. E così aveva preso l’abitudine di passarci le giornate libere, quando c’era un po’ di sole, esche belle, la canna giusta, aveva perfino una barchetta da uno, rossa, che aveva comprato dieci anni prima attraverso un annuncio sul giornale e che lasciava sempre lì, tirandola in secca e coprendola con un telo verde. Non aveva mai detto a nessuno di quel posto, non voleva che a qualche collega venisse in mente di raggiungerlo, ci mancava solo che lo infestassero i pescatori della domenica. Ma quel giorno, sull’altra riva del lago, c’era quell’uomo. Era lì, in piedi, fermo a braccia conserte e lo osservava. Giorgio si era spaventato, gli avrebbe pure urlato qualcosa, ma non voleva che lo sentisse nessuno, in fondo si stava facendo i cazzi suoi su una proprietà privata e non voleva rotture di palle. Era tornato a riva e scappato a casa, al lago non sarebbe andato per un po’. Servì a poco, la domenica seguente aveva giocato a carte con gli amici in una bocciofila, sarà anche stata un posto da vecchi ma era tranquillo. L’uomo era entrato, era andato al bancone e aveva chiesto un caffè. E per la prima volta in vita sua, forte della presenza di tanti testimoni, Giorgio era stato sul punto di alzarsi, andare lì e affrontarlo. Ma poi l’uomo era stato raggiunto da un ragazzo che gli aveva scoccato un’occhiata, e così aveva lasciato perdere, se un testimone c’era anche dall’altra parte meglio non fare casino. Aveva smesso di uscire, controllava dalla finestra di casa se l’uomo si fosse appostato sul marciapiede di fronte, non rispondeva al telefono se non conosceva il numero e al lavoro ci andava con un collega che passava a prenderlo. A Natale era andato da alcuni parenti, certo che al suo ritorno avrebbe trovato qualcosa che non andava in casa. Invece nulla, l’uomo non si era mai più fatto vedere. Con grande cautela Giorgio aveva ripreso a uscire, prima da solo poi con qualche donnina. Con la bella stagione aveva ripreso anche a pescare, ora del Natale seguente non se n’era ricordato più, nemmeno quella volta che, per uscire dal sentiero del lago si era ritrovato il passaggio ostruito da un vecchio fuoristrada, ma il guidatore aveva accostato, messo fuori il braccio e fatto cenno di passare. Lo aveva superato con un gesto di ringraziamento verso il ragazzo al volante e nemmeno per un istante gli sembrò di riconoscerlo.
Sta fingendo
era stato il suo primo pensiero quando aveva visto l’uomo sdraiato nella gabbia verde, completamente nudo. Era immobile e lo fissava.
Ha aspettato tutto questo tempo.
Non aveva avuto il minimo dubbio che fosse lui, era solo un po’ più magro, un po’ più grigio, ma del resto era trascorso del tempo. A mente gli era sembrato che fossero circa due anni, ma non ne era sicuro. Aveva ricostruito il periodo, il corso all’università, il lago, non poteva essere gennaio, perché spesso ghiacciava, doveva averlo visto l’ultima volta intorno a dicembre, sì. Pensava alla sensazione di quella sera, quando camminava tutto solo per la strada. Due mani forti che lo prendevano da dietro e la puntura. Due mani forti ma che gli erano arrivate da sotto l’ascella, qualcuno meno alto di lui.
Ho solo creduto di non averlo più visto.
Gli ci era voluto parecchio per tentare di instaurare una comunicazione.
«Sono Giorgio Guccione, ti ricordi? Ma certo che ti ricordi. E tu invece? Perché me lo devi avere detto, quella volta alla casa di riposo, ma non me lo ricordo, scusa.»
Aveva chiacchierato a vanvera ancora un po’, poi era scesa la notte e con essa lo sferragliare di una gabbia che si apre e poi i colpi con qualcosa di lungo e duro e pungente e lui che gridava
«SCUSA! SCUSA! NON LO FACCIO PIÙ!»
pur non sapendo cosa stesse promettendo. E quindi aveva smesso, di guardarlo, di parlargli, non voleva in alcun modo infastidirlo o rompergli le palle, se doveva stare buono e tranquillo lo avrebbe fatto. Aveva aspettato, perché era così che funzionava.
Poi era arrivata Karina e aveva insegnato tutto anche a lei, poi a Yuri e alla fine a Sveva. Tutti avevano seguito le sue indicazioni e si erano comportati benissimo, non guardavano il loro carceriere e non gli rivolgevano la parola. Sembrava che alla fine fosse tutto lì, una questione di buona condotta. Del resto a un certo punto lui aveva avuto rapporti con Karina, che era una donna sposata, e pure con Sveva, a dirla tutta, ma se lo facevano nei giorni giusti non venivano puniti. Così era andato tutto liscio.
Almeno fino all’arrivo di Anna.
Non si era più fatto scovare dai giornalisti, la sua ultima apparizione pubblica era stata al manicomio di Bella, quando avevano dovuto mettere in scena il gruppo unito e tutte quelle cazzate. Non c’erano tutti, mancava ovviamente l’altro pazzo, quello che loro avevano chiamato “il Rosso” ma che in realtà si chiamava Giovannino qualcosa, mancava il ciccione che non si poteva spostare e mancava il povero Yuri, che era stato messo alla gogna per niente. Anna Baroni c’era, proprio lei che non aveva voluto mai partecipare a cose come quella, riunioni, interviste collettive, lei faceva la primadonna senza nessun titolo ma lì, a trovare quella vecchia che aveva sempre disprezzato, ci era venuta. Forse lo aveva fatto per il poliziotto, chissà. Lei e Sveva non si erano parlate, si odiavano, Anna era quasi riuscita a farla ammazzare da Yuri, lui se lo ricordava bene, aveva visto tutto come aveva visto anche le altre cose che era stata capace di fare quella stronzetta con la puzza sotto al naso. Ma non lo aveva raccontato, meglio tenersele da parte. E lì, in mezzo a quelle luci finte, al brusio, all’ipocrisia di un legame in negativo se n’era accorto: Anna era spaventata. Non da loro, certo che no, e neppure gli sembrava il tipo da temere uno come Caparzo, ma era tesa, aveva paura.
Di cosa?
È tutto risolto, ormai.
Giorgio non credeva a nessuna delle ipotesi ufficiali, quelle che dipingevano Sandra come una specie di gorgone che aveva soggiogato prima il fidanzato e poi il padre di lui. Era ovvio che non l’avessero mai vista né ascoltata, che non si fossero neppure presi il disturbo di guardare bene le fotografie di quei tre. La fisiognomica insegna che le sfaccettature del carattere sono ben visibili nei tratti somatici, e lì avevano due uomini, uno molto bello e uno molto duro, a confronto con una donna incredibilmente brutta e bisognosa di attenzioni. Sandra aveva dei soldi, gli avevano detto, e quei soldi erano man mano spariti dal suo conto senza ricomparire più. Quindi? Nessuno sapeva come girasse il mondo? Padre e figlio avevano messo in piedi quella follia, avevano bisogno di finanziamenti e lei era stata tirata in mezzo. Una quarantenne con un ragazzino, santo cielo, se l’immaginavano la fatica di farselo venire duro con lei? LEI era stata soggiogata, LEI era stata manipolata, quei due si sarebbero comunque scannati, presto o tardi, la mela non cade lontano dall’albero. Ma la gente credeva alle favolette, certo che era scappata, sarebbe scappato pure lui, e non lo aveva fatto da sola perché si era rivolta all’unico uomo che le era rimasto. Dove andava una così, siamo seri? Eppure Anna la pensava diversamente, Anna era spaventata. E pure Yuri, sì, anche lui lo era, aveva un paio di messaggi in segreteria in cui gli chiedeva di non lasciarlo da solo, perché gli altri avevano fatto gruppo dopo la morte di Giovannino. Gruppo per cosa? Per contrastare le paranoie di Giulio, che trascorreva la vita a letto a spippolare sul cellulare? Di Karina che temeva di perdere dei figli che prima o poi avrebbe ammazzato, di Sveva che da perdere avere solo la popolarità? Si era tenuto lontano apposta da loro e da tutte queste cazzate. Giorgio non aveva paura. La sua paura era morta sparata in faccia in una gabbia lunga e verde, che Sandra continuasse pure a scappare insieme a Saverio, per lui andava benissimo. Purché nessuno venisse a rompergli le palle. Ma c’erano deroghe a questa regola, e infatti Francesco Caparzo era andato a trovarlo. Bla bla bla, immane tragedia, bla bla bla, esaurimento nervoso, bla bla bla, cattiva gestione. Che il Rosso avrebbe fatto una brutta fine era nell’aria da sempre, Bella era decrepita, probabilmente si era fatta un favore. A Giorgio non importava, e no, non era spaventato. Tutti avevano avuto un tracollo nervoso, Karina, Giulio, Yuri, Anna, era ampiamente prevedibile. Immaginava che quella di Sveva dovesse essere paura di facciata, doveva adeguarsi al trend, se tutti avevano paura allora toccava anche a lei. Ma lui no, lui non era come loro, lui era un uomo solido con solide certezze. E poi era un uomo prudente, non lo avrebbero più preso alle spalle. L’anno nuovo era iniziato da un po’, la primavera alle porte, una bella temperatura, l’ideale per pescare.
Ma chi lo ammazzava?
La chiamata non arrivò alla scrivania di Francesco Caparzo, ma sul suo telefono personale. Lui non aveva mai avuto la pazienza di scrivere i nomi, aveva una maniera tutta sua di memorizzarli attraverso una serie di cifre. Nicola Scherillo era 4183. Quando era arrivata la telefonata, Caparzo aveva staccato dal lavoro da venti minuti appena ed era rientrato in casa con una pizza nel cartone. L’aveva appoggiata a terra e aveva risposto.
«Pronto.»
Dall’altra parte il silenzio. Un silenzio assoluto, totale, nessun fruscio, nessun’eco, nessun riverbero di rumori lontani, traffico, voci, uccelli, nulla. Caparzo era rimasto immobile ad ascoltare per un minuto, poi aveva preso dal comodino un secondo telefono, un muletto che teneva pronto per le emergenze, e con quello aveva contattato il commissariato.
«C’è una chiamata aperta sul numero mio, arriva dal telefono di Nicola Scherillo, dovete tracciarmela.»
Mentre prendeva l’auto, il vivavoce che gli restituiva sempre quel silenzio senza che la linea cadesse, Caparzo aveva pensato a cosa dire, nel caso Scherillo fosse stato davvero all’altro capo e lo stesse ascoltando. Non gli veniva nulla. A tre minuti dall’arrivo in commissariato decise di deviare, tornò indietro, prese una strada contromano per guadagnare tempo e si fermò davanti alla casa di Marilena Bacarelli. Suonò il clacson, non poteva scendere, lo suonò una, due, tre volte. Si aprì una finestra, una vecchia decrepita si affacciò al portoncino, alla fine arrivò anche lei. Le parlò dal finestrino abbassato.
«Vai dai parenti tuoi. Adesso»
e ripartì. In commissariato erano già un pezzo avanti sul segnale, lui appoggiò il cellulare acceso sulla scrivania, tutti lo guardavano aspettando di sentire qualcosa.
«Ma ha parlato?»
«No.»
Arrivarono le prime indicazioni e, prima che il segnale venisse tracciato definitivamente, Francesco Caparzo era già in auto.
Sul laghetto a Ca’ dei Frati continuava a non esserci nessuno. Dopo quasi quattro anni Giorgio aveva ritrovato la sua barchetta dove l’aveva lasciata, sepolta dalle foglie che nascondevano il telo che la copriva ma in buone condizioni. Le aveva dato una sistemata, buttando fuori il relitto di un vecchio alveare sotto la seduta, e l’aveva spinta con soddisfazione in acqua. Era andato in mezzo al lago e aveva pescato per due ore buone, prendendo un persico piccolo e tre cavedani. Li aveva fotografati, pensando di mandare l’immagine a Beppino, poi aveva titubato, metti che quello si autoinvitasse a cena, ma la vanità aveva vinto. Aveva guardato sulla riva dove per l’ultima volta aveva visto Domenico Donadio prima di incontrarlo al capannone e si era chiesto come avesse fatto ad arrivare laggiù, così lontano dal sentiero principale, speriamo bruci all’inferno. Aveva sistemato i pesci in un secchiello quando si era accorto che sul fondo della barca c’era una cosa: un mozzicone di pastello a cera bianco, così consumato che sembrava un sassolino. Lo aveva preso e se l’era girato tra le dita. In gabbia aveva scritto pochissimo, anche quando gli era stato lasciato a disposizione il pastello per tutto il giorno.
Era bianco?
Non importava, era roba passata, lo lanciò nel lago.
Io credo che fosse bianco.
Aveva ripreso a remare, meglio tornare a riva prima che venisse buio.
Io sono sicuro che fosse bianco.
Scosse la testa, ma il pastello non voleva andarsene via. Pensò all’alveare sotto la seduta. Gli alveari difficilmente si staccano da soli, figuriamoci poi se era stato costruito sotto il telo, come aveva fatto a staccarsi?
Magari
no.
A pochi metri dalla riva tirò su i remi, respirò a fondo e poi si piegò in avanti, la testa sotto la seduta. C’era una scritta, la vide al contrario, ma non ebbe nessun dubbio sul suo significato.
Non si deve dare un nome al coccodrillo.
Iniziarono a tremargli le mani.
Il coccodrillo è morto.
Davvero?
Afferrò i remi e iniziò a vogare come un dannato verso la riva.
I colleghi di Sassuolo, gli stessi di un anno prima, le teste chine quasi fosse stata colpa loro. Il medico legale chiamato molto prima del suo arrivo. L’ambulanza inutile con le luci spente davanti al capannone.
«Dove sta?»
«Nella stessa gabbia della volta scorsa.»
Ma questa volta Nicola Scherillo non era nudo, e questa volta non c’erano cibo e acqua nel suo carrozzone. Era morto da qualche giorno, il cuore saltato prima che gli organi collassassero per mancanza di nutrimento e idratazione, diceva il medico legale. Aveva la bocca spalancata, gli occhi semiaperti e un pugno chiuso. Caparzo sapeva cosa ci avrebbero trovato dentro, una volta apertolo. Il suo furgone era parcheggiato lì dietro, nessuno lo aveva visto arrivare, quel posto dopo un anno non lo sorvegliava più nessuno.
«La madre del proprietario non ne vuole sapere e non c’erano gli estremi per un sequestro»
cercavano di giustificarsi i poliziotti, con tutto che la zona non era di loro competenza. A terra, davanti alla gabbia, c’era il telefono di Nicola, la chiamata ancora attiva.
«Dice che si è chiuso lui qui dentro?»
«E certo. Se n’è morto, poi due giorni dopo s’è pensato di risorgere, che aveva da telefonarmi, e se n’è morto ancora.»
Il dattiloscopista era in arrivo, ma Caparzo sapeva che non avrebbero trovato impronte, né lì dentro né nel furgone né sul cellulare. Avevano fatto le cose per bene, questa volta. Perché il punto non era aver ucciso Nicola, e nemmeno era averlo fatto trovare con quella telefonata. Il punto era che avevano fatto venire lì lui.
E se lui era lì non poteva essere altrove.
Giorgio aveva appena trascinato la barca a riva e si era guardato intorno per vedere se ci fosse qualcuno. Nel silenzio del sole che calava solo gli uccelli facevano baccano. Si era sporto per prendere il secchiello con i pesci quando aveva sbattuto forte la fronte contro il bordo della barca.
Sono scivolato?
Il tempo di rialzarla ed era piombato giù in acqua, a faccia sotto. Erano solo due spanne, ma non poteva rialzarsi, c’era un peso, tremendo, enorme, dietro al collo. Qualcuno che gli era salito a cavalcioni sulla testa e lo teneva giù. Sgroppò, spinse, trattenne il fiato e cercò di andare in avanti, ma la melma gli impedì qualunque movimento. Pensò che i coccodrilli sono anfibi, possono vivere sia in acqua che sulla terra, e il suo lo aveva preso a cavallo tra due mondi, tra la riva e il lago, tra la gabbia e la libertà. Era un uomo robusto e ci mise quattro minuti per morire.
Il corpo rimase a galleggiare vicino alla barchetta per due giorni.
L’ispettore Ridenti aveva fatto bloccare tutte le vie in entrata e in uscita, chiedendo che nessuno si avvicinasse. Il corpo era stato spostato ma il medico legale aveva voluto aspettare il parere della Scientifica prima di portarlo via. Morte per annegamento, non c’era nessun dubbio, ma c’erano segni di lotta, oltre a un solco sulla fronte compatibile con una caduta.
«Non è stato un incidente, non ci si riducono così gli stivali solo cadendo in acqua, ci sono chiaramente i segni di scalciamento. È stato tenuto sotto.»
Una rogna indicibile per Ridenti, che aveva dato ordine di non toccare niente. La Scientifica era arrivata in pompa magna, avevano preso tutte le impronte possibili, non aveva piovuto e la zona era bella nitida.
«Ci sono tracce che sono state cancellate, stivali da uomo grandi, direi oltre il 45, ma sono passati sopra le impronte con una pala o qualcosa di simile, un lavoro certosino» avevano detto.
La barca era stata ribaltata e sotto al sedile era stata trovata la scritta: NARCISO.
«Che significa? Che era vanitoso?»
Ridenti aveva scosso la testa. Tutti lo guardavano aspettando che lo dicesse per primo, almeno alla squadra. Ma lui avrebbe voluto tanto che lo facesse qualcun altro.
«Dove diavolo è Francesco Caparzo?»
aveva domandato, ma nessuno lo sapeva, aveva chiesto in fretta e furia un periodo di vacanza ed era irrintracciabile. Non gli era rimasto che chiamare il vice questore aggiunto Gambino.
«Che facciamo?»
«Non abbiamo scelta.»
«Credevo fosse finita.»
«È anni luce dall’essere finita, Patrizio.»
Così con l’aria del condannato a morte aveva risalito insieme a due agenti il viottolo tra i boschi sino ad arrivare al sentiero e lì si era avviato fino allo sbarramento dietro al quale c’erano i giornalisti.
«Farò solo un paio di dichiarazioni, niente domande. Giorgio Guccione è stato trovato cadavere vicino a una barca, all’interno di questa proprietà dove ci è stato riferito che venisse a pescare di tanto in tanto. I primi rilievi non fanno pensare a una morte naturale. Non posso dirvi altro.»
Ma ovviamente glielo avevano chiesto subito.
«È stato ucciso da Alessandra Gatteschi?»
«Sappiamo solo che è venuto, ha pescato e che poi è deceduto, il resto sono speculazioni.»
E si era voltato per andarsene.
«Però non è vero» aveva bisbigliato uno dei due agenti.
«Non è vero cosa?»
«Non è vero che aveva pescato.»
«Cosa dici, ma se il suo amico, quello che ha dato l’allarme, ci ha detto che gli aveva mandato la foto dei pesci, è grazie a quella che lo abbiamo trovato.»
«Ma non c’erano pesci nella barca. Il secchiello era vuoto. Mi sta dicendo che chi lo ha ammazzato ha liberato i pesci?»
Ridenti sentì quella strizzata di viscere che tanto odiava.
Se Guccione è stato ucciso
se Scherillo non si è chiuso in gabbia da solo
se la cieca non è caduta
se Marinoni non ha avuto un incidente
qualcuno avrebbe voluto la sua testa.
Ma prima lui avrebbe chiesto quella di Francesco Caparzo.