Giovannino
Giovannino non tratteneva alcuna memoria della sua prigionia. La sua mente era astratta, fissava solo dei lampi cognitivi grazie ai quali riconosceva cose, persone, luoghi, ma non aveva alcuna percezione del tempo che scorreva o dei rapporti causa/effetto. Era passato dal freddo del capannone e dalla costrizione in pochi metri quadri alla vastità dei prati e all’abbraccio di sua madre senza avvertirne il trauma. In una maniera del tutto istintiva amava sua madre, ma sempre in quella maniera istintiva amava anche Alessandra Gatteschi. Entrambe lo nutrivano, entrambe lo accarezzavano, entrambe gli dicevano cose a lui del tutto incomprensibili. Era stato bello, per Giovannino, tornare a casa, riconoscere i posti, gli odori, le facce. A differenza dei suoi compagni si era riabituato subito al letto e al bagno caldo e non aveva perso un grammo di appetito. Ma c’era una cosa sola di cui Giovannino sentiva il bisogno impellente, sia nel capannone che a casa: camminare. Che fosse cemento, asfalto, erba o terra sassosa lui doveva andare. Sua madre aveva cercato di trattenerlo, poi i primi giorni era voluta assolutamente andare con lui, infine si era arresa. Per Giovannino non faceva differenza, aveva le gambe, aveva i piedi, solo questo contava. E così si era rifatto tutte le vie del paese, poi il campo di calcio e il cortile dell’oratorio, la nuova pista ciclabile, i sentieri lungo i filari degli alberi da frutto e infine lei: la montagna. La montagna era un’attrazione irresistibile, così piena di diversi tipi di terreno, di vegetazione che cambiava, di odori unici. La montagna lo aveva chiamato e, nonostante un nuovo tentativo di opposizione di sua mamma, lui aveva risposto. Ma non era più la stessa montagna di prima. Quei sei anni avevano spianato alcune zone e fatto crescere gli alberi in altre, avevano fatto nascere muretti lungo il torrente e portato le voci. Le voci erano interessanti, per Giovannino, anche se non sapeva cosa dicevano. Le voci lo chiamavano. Erano spesso voci di bambini, una differenza che coglieva a fatica, e all’inizio si limitava a seguirle. Sentiva il suo nome e cercava di prenderlo, ma il suo nome non lo portava a nessuna faccia e a nessun luogo, era dappertutto e poi spariva così com’era venuto. Giovannino non aveva paura, era un sentimento troppo difficile da provare, richiedeva di proiettarsi, di immaginare, e lui non ne era capace. Ma dopo un po’ cominciò a provare qualcosa che, se fosse stato in grado di capirlo, avrebbe definito come familiarità. La voce che lo chiamava era una voce conosciuta. Non la associava a una faccia, ragionamento troppo complesso, ma a una serie di sensazioni, odore di paglia, legno duro, freddo. Un’associazione come le altre, sufficientemente intensa da seguirla con entusiasmo, comunque lo chiamasse
«Giovannino!»
oppure
«Rosso»
che sapeva essere il suo altro nome.
«Giovannino! Vieni, Giovannino!»
La voce lo chiamava e l’aria era bella frizzante, carica di una promessa di pioggia. Giovannino aveva addosso un gilet imbottito, perché il giubbino proprio non lo voleva e sua mamma era stata costretta a escogitare altre maniere per tenerlo caldo, ed era contento di seguire la voce su per il sentiero. Era quasi un gioco, da giorni succedeva che proprio in quel punto, al crocevia tra un muretto a secco e una delle fontane, la voce arrivasse dalle siepi a chiamarlo.
«Giovannino! Rosso!»
Giovannino la seguiva fino a quando la voce si lasciava seguire, poi a un certo punto si ritrovava là, in mezzo al sentiero, senza più niente a cui dare la caccia, e tornava indietro. Ma quel pomeriggio la voce l’avrebbe acchiappata eccome. Era salito su, sempre per la stessa strada, superando la vecchia cascina di mattoni e sassi, poi la statuina della Madonna, poi quella specie di palo spezzato, e finalmente la voce gli aveva parlato, ma da un’altra parte, a sinistra, in mezzo agli alberi.
«Sono qui, Giovannino. Vieni che giochiamo.»
Era così chiara, la voce, così vicina, molto più vicina delle altre volte. Una voce nota. Una voce amica. E lui era andato. L’erba era alta, lassù, e faceva baccano non solo quando si spostava lui, ma anche quando si spostava la voce. Poi c’era stato silenzio e si era girato di qui e di là, in cerca, in attesa.
Era stato allora che la pietra lo aveva colpito.
Giovannino aveva sentito prima caldo e poi male, più caldo che male, poi più male che caldo quando era arrivato il secondo colpo. Era incespicato e caduto bocconi, sfilando il tallone dalla scarpa che la mamma gli metteva con le stringhe lente perché se gliele tirava lui iniziava a urlare. Lì la pietra era calata la terza volta. Poi, mentre tutto si era fatto ovattato e confuso, qualcuno gli aveva frugato il collo con delle mani strane, appiccicose, che Giovannino cosa fossero i guanti non lo sapeva. Uno strattone e il medaglione che gli aveva messo la mamma era andato via. Avvertì la tensione sotto le ascelle e poi il ruvido dell’erba che si piegava di malavoglia sotto il suo peso.
«Sei dimagrito, si vede che a casa non ti danno da mangiare bene»
disse la voce. E Giovannino, che non aveva mai avuto paura, socchiuse gli occhi cercando di vedere il volto di sua madre.
Invece ne vide un altro.
La telefonata era arrivata mentre era nel suo inutile nuovo ufficio a ragionare sugli spostamenti all’estero della Gatteschi.
«Parlo con Francesco Caparzo?»
La voce tremava, ma non era paura, era emozione. L’aveva vista sui volti di tutti i poliziotti di provincia, quelli che non si credevano chissà chi e non immaginavano di poter mai e poi mai eguagliare le sue gesta.
«Mi chiamo Ermanno Balduzzi e sono un agente della Polizia Locale Unione Montana Valli Borbera e Spinti» aveva continuato dal telefono tutto d’un fiato.
Caparzo non era un uomo emotivo, anzi, si sarebbe potuto definire come quasi del tutto privo di impulsi, ma in quel momento sentì qualcosa afferrargli lo stomaco e stringere.
«C’è stato un incidente» insistette il tizio al telefono.
«Chi?»
«Giovannino Marinoni, uno dei nove sopravvissuti del capannone, ce l’ha presente? Aveva dei problemi mentali.»
«Come è morto?»
Mentre parlava Caparzo si era alzato, aveva preso il giubbino e le chiavi della macchina, ricordandosi solo dopo che stava parlando al telefono della scrivania e non al cellulare.
«Si è riparato dalla pioggia in un casotto di caccia, in montagna, e gli è crollato addosso.»
Non è ’o vero.
La sentì arrivare tutta insieme, vecchia amica, compagna di mille avventure, la rabbia. Ma non poteva accoglierla, non in quel momento.
«Non toccate niente, arrivo.»
«Ma se si rimette a piovere...»
«NON TOCCATE NIENTE FINCHÉ NON ARRIVO IO!»
E aveva sbattuto il telefono, forte. Un collega si affacciò sulla porta.
«Tutto bene, France’?»
Ma lui non si sentiva France’, non più di quanto si sentisse Cecco o
statt’accuorto
la Bestia.
Diccelo. Diccelo del morto. Diccelo, riferisci.
Invece buttò fuori un
«Devo usci’»
e gli passò accanto sapendo che stava commettendo un errore già fatto, e lo ricordava bene com’era andata a finire, quella volta.
Ma lo stesso non disse nulla a nessuno.
Era arrivato al paese già col buio. Lo avevano accolto il parroco e i colleghi di Novi Ligure che avevano raggiunto quelli dell’Unione Montana, accollandosi il fastidio. Prima era andato su al cumulo di pietre, rimanendo un po’ a fissarlo, tra la commozione generale verso l’eroe raccolto forse in preghiera, forse in un afflato mistico che lo riconnetteva a Giovannino per dirgli, per la seconda volta, “Va’, sei libero!”. Quindi aveva fatto delle foto e solo allora aveva chiamato Firenze per avvisare Ridenti. Lo aveva ascoltato sbraitare all’altro capo cose sulla gerarchia e poi gli aveva chiesto l’autorizzazione a far venire la Scientifica prima che cominciasse a piovere.
«La Scientifica? Ma cosa ti sei messo in mente, razza di megalomane?!»
«Anche l’autopsia vorrei.»
«Per uno che è morto schiacciato da un rudere?»
«Per uno che lo sanno tutti cosa gli era successo e se non lo facciamo poi finisce che raccontano storie.»
Ridenti lo aveva stramaledetto, ma poi aveva pensato ai giornalisti e alla pioggia e alle tegole che sarebbero cadute solo addosso a lui, così aveva detto sì, sì, maledizione, fai l’accidente che vuoi, e Caparzo aveva fatto venire un’unità scientifica. Si era liberato dei giornalisti locali con un cenno della mano ed era andato dalla madre di Marinoni, accolto come il figliol prodigo, lacrime e abbracci di cui non sapeva che farsene, ma si era dovuto abituare nell’ultimo anno e mezzo.
«È male per chi resta, non per chi parte»
aveva detto, e tutti si erano sentiti travolgere da un’ondata emotiva per la profonda saggezza di quelle parole. Gli avevano mostrato il medaglione e la scarpa, poi il cellulare aveva squillato per avvisarlo dell’arrivo della Scientifica. Ci vollero tre ore e l’alba per consentire lo spostamento del corpo, metterlo sulla barella e coprire con un telo di plastica quel che restava del casotto. Lo avrebbero portato ad Alessandria per l’autopsia, il medico legale era già stato avvisato. Caparzo era partito dietro all’ambulanza, rifiutando cibo e doni, promettendo di tornare per il funerale, e lungo la via aveva valutato approfonditamente cosa rispondere a eventuali domande dei suoi superiori, perché ci stava che si fosse precipitato, Marinoni l’aveva salvato lui, c’era quella cosa che se salvi una vita ne diventi responsabile, e lui lo sapeva quanto fosse vero. Gli avrebbero detto che era suo dovere avvisare, dato il suo coinvolgimento nell’indagine.
Non è la stessa indagine.
Il pensiero gli era venuto così, non sapeva da dove.
Ma sapeva che era vero.
Il corpo era stato ripulito e giaceva tutto contorto sul tavolo di metallo. La donna stava finendo di dare gli ultimi punti all’incisione a Y sul petto, muovendosi con calma, le mani piccole e paffute ad andare avanti e indietro. Nemmeno si voltò, quando sentì la porta dell’obitorio aprirsi, era abituata alle invasioni di campo. Dal silenzio seppe chi era entrato.
«L’aspettavo prima. Ha trovato traffico?»
«Con la fretta non si fa niente. Volevo che finiva, prima.»
La voce profondissima, un brontolio da orco, l’italiano improbabile. Non alzò gli occhi e non si levò gli occhiali, dell’uomo appena arrivato, il poliziotto, l’eroe, sapeva già tutto quello che le serviva, oltre a una serie di dettagli inutili che però non aveva potuto ignorare.
«Per un referto completo dovremo aspettare l’istologico» gli comunicò.
«E aspettiamo.»
Se lo sentì dietro le spalle e si rassegnò a voltarsi. Era piccola, sempre stata, e superati i cinquanta aveva avuto l’impressione di essersi ulteriormente accorciata. Ma anche avesse mantenuto tutti i suoi centimetri gli sarebbe arrivata comunque poco sopra il gomito. Era enorme, esattamente come appariva in televisione.
«Se fa due passi indietro riesco a vederla in faccia» disse senza ironia.
L’uomo ubbidì senza guardarla mai, come se quella donna ingrigita e chiatta facesse parte dell’arredo. Il morto, invece, se lo mangiava con gli occhi. Quasi per dispetto lei si levò il guanto e allungò la mano.
«Giuditta Licari» gli disse.
«Francesco Caparzo» rispose lui.
«Un cognome inusuale.»
«Lo teniamo in pochi.»
Non sarebbero andati oltre con le formalità, non era cosa. Si occuparono dell’unico elemento che interessava davvero a entrambi.
«Allora, c’è poco da dire. Morte per trauma cranico, quando la gabbia toracica è stata sfondata il cuore era già fermo. Il fegato è esploso per la pressione e tutti gli altri organi interni sono stati danneggiati dallo schiacciamento, ma non ha sofferto, è stata una cosa immediata.»
L’agente annuì e si mosse per girare intorno al corpo, mettendosi dietro alla testa. Era straordinariamente aggraziato, per avere la mole di un bisonte.
«Non c’è la forma della pietra? Sulla testa, dico.»
La dottoressa gli si mise accanto e indicò con la mano guantata gli avvallamenti.
«Il cranio rientra qui e qui. Ma penso che la frattura principale sia questa. Cos’è che vuole sapere?»
Le spalle gli si mossero impercettibilmente.
«Com’era il sasso che l’ha ammazzato.»
Un altro medico di fronte a un altro poliziotto forse avrebbe liquidato la cosa con una battuta, ma non quel medico davanti a quel poliziotto. Giuditta Licari era considerata una delle professioniste più serie e affidabili del paese, si occupava di crimini violenti da trent’anni e aveva visto cose che la maggior parte dei suoi colleghi non avrebbero retto o compreso. Francesco Caparzo, dal canto suo, si era ritrovato ad affrontare da solo quello che per tutta la nazione era diventato un incubo e un’ossessione, dimostrando un’intelligenza e una prontezza che nessuno gli avrebbe mai attribuito. Lo avevano chiamato “la Bestia” per anni, ora per tutti era un eroe. Dettagli trascurabili, per lei. Invece era molto interessante che quel giorno fosse lì e le stesse facendo quella domanda. Certe domande attiravano la sua completa attenzione.
«Potremmo refertare tutte le pietre, prendere un calco della testa e identificare quale sia quella che l’ha ucciso.» Fece una pausa. «Se è importante.»
Di nuovo una leggera vibrazione nelle enormi spalle del poliziotto.
«A capire com’era questo posto che è crollato e come ha fatto lui a rimanerci sotto si fa pace con un po’ di cose» le brontolò.
No, non è questo. Non mi imbrogli.
«Una struttura che crolla è una variabile imprevedibile» cominciò. «Pioveva, la vittima non era lucida, potrebbe essere andata in molti modi.» E mentre il poliziotto non smetteva di guardare il corpo, Giuditta Licari aggiunse: «Certo, potrebbero anche averlo colpito altrove, trascinato dentro il casotto e poi fatto in modo che crollasse. Tutto è possibile».
Caparzo non reagì e l’anatomopatologa seppe di aver centrato il punto.
«A proposito, aveva una cosa in mano.»
Andò dietro il tavolo autoptico e gli mostrò una bustina trasparente. Dentro c’era un mozzicone di pastello a cera marrone.
«Lo teneva?»
«Era nella mano.»
«Ma lo teneva?» insistette lui.
«Era nella mano» ribadì lei.
Caparzo annuì, pensando che quella donna era intelligente, pure se era femmina.
«Se faccio refertare tutte le pietre devo giustificare la cosa» gli puntualizzò.
Un cenno di diniego, appena accennato.
«Oppure posso suggerire di farle portare via per una questione di ordine pubblico, di decoro. Gente che va a fare foto morbose, imbecilli che cercano di ricostruire il casotto, bisogna pensare alla madre, povera donna.»
Il poliziotto abbassò il mento, un assenso.
«Per il calco invece posso trovare qualche buona ragione.»
«Sono in debito.»
«Ci mancherebbe. Ho letto grandi cose su di lei, è una celebrità. Sarà un onore collaborare.»
«Che poi sarebbe pure normale che alla fine è una disgrazia.»
«Naturalmente, è la mia prima ipotesi.» Lo squadrò da sotto in su. «A meno che.»
Caparzo le restituì la busta col pastello.
«A meno che.»
«Scusate, è appena arrivata una notizia che mi costringe a sospendere per un attimo il gioco, perché devo parlare con una delle nostre ospiti.»
In studio era sceso il silenzio, un mormorio preoccupato accompagnò il conduttore mentre si avvicinava ai personaggi famosi che stavano impastando i tortelli caserecci da mettere all’asta per beneficenza. Sveva Cugini aveva uno sbaffo di farina sulla guancia, incorniciato da uno dei suoi adorabili ricci impertinenti. Lo vide avvicinarsi
i miei sono in studio, alla peggio è schiattato un parente e amen
e subito iniziò a far tremare le labbra.
«C’è una brutta notizia, tesoro, te la do in diretta perché so quale profondo legame ti unisca ai tuoi compagni di sventura» disse il conduttore in tono accorato.
«Oddio!» Noncurante della mano sporca d’impasto si era toccata in viso, in un gesto così vero, così spontaneo.
«Giovannino Marinoni è morto. Un terribile incidente, pare.»
Chissà che mi credevo, quello morto o vivo è uguale.
Sveva aveva dovuto appoggiarsi al banco, un’attrice ormai al tramonto l’aveva sorretta.
«Il Rosso» aveva solo detto.
Poi era scoppiata a piangere.
«Signora Lusa! Signora Lusa! Ha saputo della morte di Giovannino Marinoni?»
«Chi?»
«Nessun commento da parte di Yuri Vignoli, il controverso sopravvissuto al Capannone degli Orrori. Chiuso nel suo appartamento, si è rifiutato di rilasciare dichiarazioni sulla triste sorte del suo compagno.»
In tre avevano dovuto tenerlo fermo, mentre l’infermiera andava a cercare la fiala di tranquillante. Giulio Castagnoli aveva pianto fino a farsi venire le convulsioni, chiedendo a più riprese
«Ma non ha sofferto, vero? Ditemi che non ha sofferto»
come se a morire non fosse stato il matto di un altro paese ma un suo fratello di sangue.
Il vicario della parrocchia di S. Giuseppe Artigiano si era opposto con fermezza al fatto che i giornalisti entrassero in chiesa.
«Dovete lasciarlo stare, è sconvolto per l’accaduto e ha chiesto il conforto di don Graziano» aveva detto, confermando la presenza di Giorgio Guccione nell’edificio.
Anna Baroni si era accesa una sigaretta un istante dopo aver chiuso la porta alle spalle di Francesco Caparzo. Era la prima volta che si vedevano a casa sua e non in territorio neutro. Non si era seduto e lei non gli aveva offerto nulla, sarebbe stata una cosa breve.
«So’ stato anche dall’altri, sono tranquilli, hanno capito. Ma co’ tte è diverso. Non voglio che vai in giro a dire cose.»
«Cose come? Tipo che il Rosso è stato ammazzato?»
«Accussì. Non è ’o vero. S’è ucciso da solo, ’nu brutto accidente, succede.»
«Da solo. Il Rosso. Il Rosso che non sapeva bere da solo nemmeno un bicchier d’acqua si è ucciso. Un’evoluzione repentina.»
Caparzo si era limitato ad alzare le sopracciglia e ad appurare che c’era un sacco di roba verde a casa della Baroni, poltrone, tende, cose così.
«Mi hanno chiamato dei giornalisti, volevano sapere cosa ne pensassi.»
Anna aveva spento la sigaretta e stava per accendersene un’altra quando lo sguardo di Caparzo l’aveva fatta desistere. E allora aveva deciso per l’affondo.
«Voi non avete niente in mano. Sono passati sei mesi, l’indagine è morta, Sandra e Saverio sono scomparsi e ora iniziano ad ammazzarci. Ma dobbiamo stare zitti e bravi al nostro posto, giusto?»
«Solo non create scompiglio. Non dite cose che non sapete.»
«Noi non sappiamo NIENTE!» era sbottata. «E scommetto che anche voi brancolate nel buio, non sapete bene nemmeno come sia morto il Rosso.»
«S’è schiacciato sotto un casotto di pietra.»
«Io non ci credo.»
Caparzo l’aveva osservata con intensità, poi aveva annuito.
«È giusto che tieni le idee tue. Ma tenerle devi, no parlarne.»
«È una minaccia?»
«’Nu consiglio.»
Il colloquio era finito, Caparzo era stufo di tutto quel verde e stava per prendere la porta.
«Quindi non farà niente?» lo aveva inseguito lei.
«’Na preghiera per la povera anima di Giovannino.»
«Ma non vuole nemmeno prendere in considerazione...»
poi si era fermata di colpo. Caparzo aveva atteso paziente, la mano sulla maniglia.
«Lei lo sa. Sa che è lei.»
Nessuna reazione.
«Sa che è lei e la sta lasciando fare. Ci usa come esca. Lascia che ci colpisca, fino a quando non riuscirà a catturarla e a coronare la sua fama di eroe. Cosa importa se ne uccide un paio? Chi se ne frega se ora noi non possiamo più vivere normalmente?»
«Si’ sempre accussì agitata» aveva concluso Caparzo aprendo la porta.
«MI GUARDI BENE!» gli aveva gridato dietro Anna. «MI GUARDI BENE PERCHÉ POTREBBE ESSERE L’ULTIMA VOLTA! IO SARÒ LA PROSSIMA! ERO QUELLA CHE ODIAVA PIÙ DI TUTTI!»
Ma Caparzo aveva tirato dritto ripensando alla stanza di Giovannino Marinoni, non un libro, non un foglio, non una penna, figuriamoci poi i pastelli a cera. Eppure il cadavere aveva un pastello in mano, uguale a tutti i pastelli che avevano trovato nel posto dove l’aveva liberato. Se lo sarebbe tenuto per sé, perché
se avesse detto che aveva un dubbio
se avesse detto che voleva controllare le pietre
se avesse detto cosa ci fa un pastello in mano a un matto
se avesse fatto capire che secondo lui Giovannino Marinoni era stato ucciso
tutti sarebbero arrivati alla stessa conclusione.
Il mostro era tornato.