Prologo

La testa era sotto la pietra più grande.

Ci vollero due persone per sollevarla, gli altri si fecero indietro d’istinto. Non sarebbe stato un bello spettacolo per dei soccorritori professionisti, figuriamoci per un grappolo di contadini strappati alle loro stalle. Ma, spostato il masso, il viso comparve intatto. Pieno di sangue, certo, ma nel cadere i detriti si erano accatastati in modo da premerlo senza schiacciarlo. Nessuno aveva il coraggio di voltarsi, sua madre era lì dietro, a dieci passi, una scarpa stretta nella mano e l’attesa di sapere se sotto quel cumulo ci fosse suo figlio. Lo capì da sola, cercò di buttarsi avanti, provarono a fermarla senza riuscirci, la lasciarono andare. Nessuno pensò alla polizia o ai medici, non c’era niente da medicare, non c’era niente da indagare. Giovannino Marinoni si era infilato in un vecchissimo casotto di caccia in pietra, aveva urtato con la testa l’ultima trave marcia che lo teneva in piedi e ci era rimasto sotto. Una cosa del genere era sempre stata nell’aria, aveva già del miracoloso che Giovannino avesse superato i quarant’anni senza essere caduto in un burrone, finito sotto un’auto o soffocato dalla sua stessa lingua. Tutti nel paesino della Val Trebbia sapevano che era matto, matto sul serio, fin dalla nascita, mai una parola, mai imparato ad allacciarsi le scarpe, sua mamma lo lavava e lo vestiva ogni giorno come se fosse il primo. Le avevano detto che non sarebbe stato nemmeno in grado di camminare, all’inizio c’era il dubbio che fosse pure cieco o sordo. Invece Giovannino ci vedeva e ci sentiva e a camminare, anche se un po’ in ritardo, era arrivato perfettamente, anzi, ne era diventato un maestro. La mattina presto, una volta vestito, usciva dalla porta di casa e cominciava ad andare. Girava per tutto il paese, conosceva ogni strada, ogni viottolo e in breve tempo aveva iniziato a percorrere i sentieri di montagna, inutili le raccomandazioni della mamma, lui voleva andare. Trovava sempre qualcuno lungo il percorso che gli allungasse un panino o un uovo, i più anziani gli scarruffavano anche i capelli e il barbone, perché sapevano che Giovannino era innocuo. Urlava ai bambini, questo era vero, ma i bambini gli tiravano i sassi, come è tradizione da che mondo è mondo, e ogni cosa tornava. Tutti si erano abituati a lui, tutti si aspettavano di vederlo spuntare da un angolo o da un cespuglio, il passo deciso di chi deve andare a fare qualcosa di importantissimo.

Poi, un giorno di sei anni prima, Giovannino era sparito.

Si era mobilitato l’intero paese per cercarlo, avevano guardato nei fossi, nelle vasche d’acqua, salendo sempre più in alto sul monte Antola, ma niente.

“Gli è venuto addosso qualcosa. Una frana, un albero”

avevano pensato i più, a meno che non se lo fossero mangiato i lupi, ma allora almeno le ossa dovevano trovarle. La madre non se n’era fatta una ragione e aveva continuato a cercarlo, certa che il suo bambino dovesse essere ancora lì. Erano passati sei anni e un giorno era arrivata una telefonata: lo avevano trovato. A chilometri e chilometri di distanza, nel Reggiano, chiuso in gabbia come un animale, prigioniero con altri disgraziati di un pazzo vero, infinitamente peggiore di lui. Giovannino Marinoni era riuscito a sopravvivere alla prigionia ed era tornato tra le braccia della madre. Due giorni dopo il suo ritorno a casa eccolo lì che ricominciava ad andare in giro, la gente gli accarezzava la testa e gli porgeva le uova, i bambini gli tiravano i sassi. Per un anno era andata bene. Poi, nel 2018, Giovannino era scomparso di nuovo. Ma quella volta sua madre non si era fatta trovare impreparata, con l’aiuto del parroco gli aveva messo addosso un medaglione che conteneva un tracciatore GPS. Lei non aveva un telefono di quelli complicati, ma il parroco sì, e quando la sera non era tornato a casa lo avevano localizzato. Il segnale diceva che si trovava in montagna, il guaio era che pioveva a dirotto. Giovannino però non si muoveva e sperarono tutti che si fosse riparato da qualche parte. Partirono in sei con le torce, tutti intabarrati, girarono a vuoto per un po’ finché non trovarono a terra il medaglione vicino a una delle sue scarpe. Solo il mattino dopo arrivarono al casotto crollato. Spuntavano i piedi sotto le pietre, uno era nudo. La madre li aveva raggiunti, tenendo stretta la scarpa, per essere certa doveva vedere. Ora era lì, riversa sui sassi, ad accarezzare il viso senza vita del figlio con un pensiero che avrebbe ripudiato fino alla fine dei suoi giorni: almeno quella volta aveva un corpo su cui piangere. Alla fine il medico era arrivato e anche la polizia. Le pietre erano state tolte tutte, in certi punti il corpo presentava deformazioni impressionanti dovute allo schiacciamento. La madre si era sentita male e l’avevano portata via, l’ambulanza era tornata e il dilemma con essa.

«Lo spostiamo?»

La domanda dei paramedici era rimasta sospesa a mezz’aria. Per loro Giovannino Marinoni era solo un povero disgraziato che si era riparato dalla pioggia nel posto sbagliato, ma per la polizia era invece una delle vittime della più grande indagine irrisolta degli ultimi anni, stava a loro decidere. Un agente risalì il sentiero, trafelato.

«Hanno chiamato da Firenze.»

Tutti si zittirono, un brivido li attraversò come una scarica elettrica.

Firenze.

Sapevano chi si trovava a Firenze.

«Dicono di non toccare niente, se si rimette a piovere dobbiamo preservare la scena del crimine con un telo di plastica.»

«Ma quale scena del crimine? Gli è solo crollato addosso il casotto» aveva protestato qualcuno.

«Lui ha detto così.»

Lui.

Nessuno ebbe bisogno di domandare, le bocche si chiusero automaticamente per non nominarlo invano, come si sarebbe fatto con un dio.

Lui era l’uomo che aveva liberato Giovannino e i suoi compagni dalla prigionia.

Lui era l’eroe nazionale a cui tutti si ispiravano.

Lui era Francesco Caparzo.