Lena

«Sì, ma come si fa a essere fidanzata con uno e non capire che è uno psicopatico?»

«Cioè, per andare a occuparsi di tutte quelle persone doveva stare via ore se non giorni, e lei dove pensava che andasse?»

«E sul serio a casa si comportava normalmente? Nessun segno? Io non ci credo.»

«Che poi era pure cornuta, perché lui là aveva la sua ex. Più che cieca è cretina!»

«Secondo me in parte la responsabilità è anche sua, perché se si faceva venire qualche dubbio lui lo avrebbero preso molto prima e avrebbe risparmiato della sofferenza alle vittime.»

«Si parla di due pervertiti che costringevano i loro prigionieri a fare sesso, vogliamo credere che con la fidanzata facesse tutto normalmente?»

«Se fosse toccato anche a lei, e Francesco Caparzo non l’avesse salvata, le sarebbe stato bene. La sua era omertà.»

«Francesco è troppo buono a difenderla. Lei non se lo merita.»

Si chiamava Marilena, ma tutti la chiamavano Lena.

Non aveva potuto chiudere i suoi profili social perché servivano per le indagini, ma li aveva oscurati per smettere di ricevere insulti. Non aveva rilasciato dichiarazioni, aveva consentito che la gente parlasse di lei e del suo rapporto con Lucio Donadio senza mai controbattere. Era stata fatta salire con la forza su un’auto, drogata, chiusa nel bagagliaio, portata fino a un capannone dove l’aspettava una gabbia spalancata, si era trovata un fucile puntato addosso e aveva visto morire due persone, ma agli occhi del pubblico era solo la fidanzata idiota di un assassino.

Non era il mio fidanzato.

Ma non poteva dirlo.

Quando era rientrata a Firenze, il mattino dopo, non aveva trovato nessuno ad aspettarla a casa, perché nessuno aveva saputo che fosse sparita. Era stata lei ad andare dai suoi genitori per avvisarli

«Mamma, papà, volevo farvi sapere che sto bene»

andando incontro solo a rimproveri e dichiarazioni di vergogna, gli ennesimi. Negli ultimi anni Marilena Bacarelli aveva disatteso molte delle aspettative di famiglia. Da brava figlia giudiziosa si era trasformata in un’ingrata incosciente, prima andando via da casa, poi fidanzandosi con uno sbandato, quindi cambiando stile di vita e infine facendosi coinvolgere in tutta una serie di situazioni discutibili che avevano costretto i genitori a giustificarsi con amici e vicini.

«Avevi tutto e hai dovuto buttarlo via!»

Avevi tutto.

Era vero, c’era stato un periodo in cui aveva avuto tutto. Casa, lavoro, un bell’aspetto, ma non era quello, il suo tutto. Il tutto di Lena si chiamava Saverio Bartolomei, e a buttarlo via non era stata lei. Per due anni lo aveva pianto, dato per morto, un giovane scapestrato che tutti gli indizi dicevano fosse caduto in Arno durante una notte di pioggia, completamente ubriaco. Avevano fatto il funerale a una bara vuota e lei era stata costretta ad andare avanti in quella che non le sembrava più vita. Poi qualcuno le aveva lasciato un cellulare nella cassetta delle lettere, e su quel cellulare erano arrivati dei messaggi anonimi e delle immagini che le mostravano Saverio vivo, prigioniero di qualcuno che lo teneva in una gabbia. Per i mesi seguenti aveva ubbidito a tutti gli ordini che riceveva su quel cellulare, terrorizzata dalla minaccia di vedere il suo amore ucciso. Non era bastato. L’ultimo video mostrava il ragazzo che correva nudo nella notte mentre un fucile puntato contro di lui esplodeva un colpo.

Per un po’ era morta anche lei.

Dopo i fatti del capannone le voci si erano rincorse, l’ispettore Ridenti l’aveva convocata una, due volte, alla terza le si era seduto accanto e glielo aveva detto piano

«Abbiamo la ragionevole certezza che Saverio Bartolomei sia ancora vivo».

Era una buona notizia, ma lei lo sapeva già.

E lo sapeva perché glielo aveva detto quell’uomo, Francesco Caparzo, Cecco, l’eroe, il mostro che aveva invaso la sua vita come una pianta infestante, che l’aveva perseguitata tanto quanto quegli altri due

non pensare a loro

tormentandola con la sua protezione non richiesta, una protezione estrema, tossica, corrosiva. Da quando l’aveva rintracciata, dopo la denuncia che non aveva avuto il coraggio di presentare, era diventato un’ombra che aveva avvolto tutto, se lo ritrovava ovunque, sapeva che le entrava in casa, che frugava nelle sue cose, nel suo computer, nel suo telefono, nella sua vita. Non aveva potuto fermarlo, era troppo spaventata, troppo debole. E alla fine lui aveva vinto. Si era ritrovata in quell’orribile capannone, in mezzo a gabbie piene di sconosciuti, il sangue di Lucio

non pensare a lui

schizzato sulle scarpe, le sirene della polizia che iniziavano a tagliare l’aria, e Cecco, l’eroe, l’orco, le si era avvicinato e le aveva detto

«Non l’ha sparato, piccere’. Non te l’ho detto perché volevo che succedeva qualcosa, ma io ne so di spari, non l’ha sparato a lui, all’uomo tuo, ha sparato davanti ma no a lui. È caduto o s’è buttato a terra, ma aveva la schiena pulita. Guardatelo bene, il filmino, guardatelo, perché quel cadavere non lo trovano»

liberandola da un lato e legandola per sempre a sé dall’altro. Lui era l’unico che sapeva tutto quello che era stata disposta a fare pur di riavere Saverio e restava l’unico in grado di salvarla, nonostante tutto. Anche per questo lo odiava. Non avrebbe potuto dire una parola contro di lui, il viaggio di ritorno a Firenze era servito a imbastire una tela di “non so” e “non ricordo” che poi avrebbe dovuto vendere alle forze dell’ordine, sperando se la bevessero. Rientrata a casa aveva controllato il video, come le aveva detto Cecco, ed era vero, maledetto lui, Saverio scappava e poi cadeva, ma non c’erano ferite sulla sua schiena.

Non l’ha ucciso perché era suo amico.

Non pensare a lei.

In poche ore la stampa e l’opinione pubblica avevano smesso di vederla come una vittima e le erano saltate addosso, biasimandola, come poteva non essersi accorta che il suo fidanzato fosse un mostro?

Perché non era il mio fidanzato.

Ma non poteva dirlo.

Undici carrozzoni che provenivano da diversi circhi americani falliti durante i loro tour nell’ex Unione Sovietica e comprati da un collezionista di Rimini.

Un trattore della ditta Morenghi-Salviati di Cerredolo con la pubblicità dell’azienda, completa di indirizzi e numeri di telefono stampati sui lati, tenuto sempre coperto.

Tre fucili in dotazione alle guardie forestali per sparare fiale di narcotico.

Un fucile a pallettoni.

Centinaia di cartucce di narcotico con dosaggio per animali di 80/100 kg.

Fogli di carta da macellaio, pastelli a cera di vari colori, bigliettini stropicciati.

Tre cellulari, un tablet, un laptop, nove microcamere con visione notturna, di cui una non funzionante, powerbank, batterie di varia potenza, un caschetto con visore notturno e videocamera.

Scope, stracci, candeggina, ammoniaca, secchi, ciotole.

Farmaci, creme antibiotiche, integratori, agocannule, disinfettante, un trespolo.

Un chilo di cocaina.

Una cassa piena di bottiglie di soluzione fisiologica, lattato e glucosato.

Quattro stufe a gas con bombola.

Un nebulizzatore per l’asma.

Questo, oltre agli effetti personali delle vittime, era il bottino di quello che la stampa aveva prosaicamente ribattezzato “il Capannone degli Orrori”. I nomi di alcuni sopravvissuti erano stati resi noti: Nicola Scherillo, 58 anni, originario di Napoli ma residente a Poggibonsi, Giorgio Guccione, 47 anni, di Arezzo, Karina Lusa, 34 anni, di Faenza, Giulio Castagnoli, 41 anni, di San Pietro in Casale, Giovannino Marinoni, 48 anni, di Cantalupo Ligure, Yuri Vignoli, 32 anni, di Marano sul Panaro, Sveva Cugini, 26 anni, di Parma, Anna Baroni, 27 anni, di Modena. C’era poi una donna cieca senza documenti, forse straniera, con cui era stato impossibile comunicare. Finiti i rilievi avevano messo i sigilli alle porte e avevano iniziato a scavare. Tra i nove sopravvissuti, portati in ospedale per verificare le loro condizioni di salute e le conseguenze di una così prolungata assunzione di narcotici, c’era un obeso, un uomo enorme, più di 200 chilogrammi, estrarlo dalla gabbia era stata un’impresa. Si era svegliato prima degli altri, e, dopo un comprensibile shock aveva subito detto

«Ce n’erano altri tre! Sono morti! Mino, Vasco e Saverio!».

Gli inquirenti avevano preso questa informazione con cautela, interrogando prima la ragazza che era riuscita a scappare e man mano tutti gli altri, che avevano puntualmente confermato: Lucio Donadio e Alessandra Gatteschi in quegli anni avevano rapito altre tre persone e le avevano uccise. Non ci volle molto agli agenti per collegare ai sequestri il ritrovamento di un cadavere, l’estate precedente, abbandonato nudo in un fosso a margine di un campo incolto. Era morto di fame. Si chiamava Fermo Berselli, era di Firenze, e frequentava lo stesso ambiente animalista di Alessandra Gatteschi. Della seconda vittima vennero trovati i resti cinque giorni dopo, nel boschetto dietro al capannone, sepolti in una vera e propria fossa. Il dna corrispondeva a quello di Vasco Zavatta, erede del proprietario di carrozzoni, struttura e terreno, scappato quasi due anni prima per evadere il fisco, si era detto. Nessuno lo aveva cercato davvero, nemmeno la madre. Forse era stato a sua volta complice del duo Gatteschi-Donadio, come anche Berselli, noto alle forze dell’ordine per crimini minori. Quando avevano smesso di essere utili i due li avevano uccisi. Restava un solo nome nella lista, ed era un nome che portava guai: Saverio Bartolomei. Ex fidanzato di Marilena Bacarelli, amico della Gatteschi, come testimoniava una foto di gruppo scattata nel 2012 dopo un raid animalista, scomparso per un presunto suicidio in Arno una notte di quasi tre anni prima. Poteva essere il terzo complice, benché tutti i sopravvissuti testimoniassero che viveva esattamente come loro, nudo in gabbia, prigioniero.

«Ma anche la Gatteschi lo faceva. Potevano fingere entrambi.»

Bartolomei aveva trascorsi per droga, un arresto e un’overdose che lo aveva segnato nel fisico e nella mente. Era fragile, insomma, esattamente come Lucio Donadio. Forse la Gatteschi aveva cercato di sobillare lui prima di ripiegare sul fidanzato? Sta di fatto che gli altri avevano testimoniato che una notte Bartolomei fosse riuscito a fuggire e che uno dei due sequestratori, forse la Gatteschi, forse Donadio, lo avesse inseguito fuori dal capannone e gli avesse sparato.

«È morto!» si disperava l’obeso, che sosteneva di essere il suo migliore amico. «È morto!»

Ma non c’erano tracce dei resti di Saverio Bartolomei, né nel boschetto né altrove.

C’erano invece le sue impronte all’interno della cisterna nel cascinale diroccato, solo lì e da nessun’altra parte.

«Potrebbero averlo solo ferito e spostato lì. C’era un grosso cancello di ferro a bloccare la cisterna, non poteva uscire.»

L’ipotesi più accreditata era che la Gatteschi, dopo l’intervento di Caparzo, avesse aggredito i due paramedici e, preso possesso dell’ambulanza, fosse andata a prenderlo per avere un ostaggio con sé.

«Perché lui e non i paramedici?»

Forse lasciare in vita Bartolomei era rischioso perché sapeva troppe cose, e quindi tornava l’ipotesi del complice.

Di fatto erano spariti entrambi ormai da sei giorni.

Non sono niente.

La rabbia ribolliva, l’angoscia gli rimestava dentro mentre il fallimento se lo mangiava vivo. Aveva salvato la fanciulla

e allora?

guadagnandosi il rispetto dei colleghi e dei superiori

e allora?

che gli avevano spiegato che non avrebbero comunque potuto promuoverlo

e allora?

ma avrebbe avuto un aumento, la nomina ad agente scelto e una stanza nel commissariato dove collaborare all’indagine, visto che incidentalmente aveva conosciuto uno dei colpevoli meglio di chiunque altro.

Uno dei colpevoli.

Uno solo.

«Come lo hai capito che l’ex fidanzata era una complice?»

«Avevo indagato il soggetto, signore. Sapevo che lo aveva lasciato e s’era scappata via. E quando l’abbiamo ritrovata lì m’è venuto da pensare che forse non s’era scappata davvero. Così ho fatto confrontare le impronte della gabbia sua con una che avevo rilevato per scrupolo al tempo della scomparsa, anche se so che non era un’indagine mia. E c’era corrispondenza, ma ormai era tardi.»

«Tutto qui? Hai avuto un’intuizione?»

«Due erano quelli lì dentro che lui conosceva: il padre e la fidanzata. C’era da pensarci.»

«Hai fatto una bella pensata, Caparzo.»

«Grazie, signore.»

Là dove tutti vedevano un grandissimo risultato, Francesco Caparzo vedeva una sconfitta assoluta, gli altri si complimentavano perché aveva salvato dieci vite, lui si tormentava perché aveva ammazzato solo metà del mostro.

Lo avevano chiamato i suoi ex superiori da Napoli.

«Hai visto, Caparzo? Te l’avevamo detto, le tue doti sono sempre state evidenti, dovevi solo indirizzarle nella maniera giusta.»

Non era vero, non gliel’avevano mai detto, e non aveva dimostrato proprio niente. Che gliene importava se ora tutti quei poveracci non se ne stavano più nelle gabbie ma a casa loro? Non era per loro che aveva perso un anno di vita, non l’aveva cercata quella vittoria, con l’eroe del capannone lui ci si puliva il culo. Quella non era mai stata la sua missione, lui doveva salvare la fanciulla, e anche se collateralmente lo aveva fatto non era questo il modo giusto, non così, non per caso, non a metà.

A tutti e due dovevo trovarli.

Era stato così vicino a raggiungere il suo obiettivo, la mano a un niente dall’armatura scintillante. E ora invece gli restava quel fracasso di latta, l’applauso inutile per un’impresa che era una cacata di mosca. Non poteva impedire alla gente di amarlo. Di vedere la sua faccia sui giornali e sugli schermi, di sentirsi lodare quando camminava per strada, perfino di farsi stringere la mano dagli sconosciuti e accettare gli abbracci delle vecchie. Era il loro lo sguardo che aveva sempre cercato, ma non sopportava come l’aveva ottenuto, con la gloria falsa cadutagli addosso come merda d’uccello.

Non sono l’eroe loro.

Non sono niente.

Invece la ragione di tutto, il primo motore, lo guardava come si guarda il diavolo. Marilena Bacarelli la incontrava soltanto in commissariato, dove veniva se obbligata, mandata a chiamare, costretta a fornire ancora un dettaglio e poi un altro. La loro storia reggeva, il poliziotto buon samaritano che aiuta la donna indifesa che non vuole denunciare. L’avevano fatta passare per un’iniziativa di entrambi, lui che aveva contravvenuto ai suoi doveri per proteggerla, lei che aveva fatto pressioni sul suo buon cuore per avere aiuto. Era stata brava, aveva capito che meno diceva e meglio era. Avevano fatto cose, loro due, in quell’anno, che era meglio non si sapessero. Ora lei lo odiava, e gli stava bene, era un suo diritto, l’odio è un legame come un altro. Aveva comunque il vecchio fidanzato a cui pensare, redivivo, mai morto, vittima, complice, erano dettagli. Serviva a farla stare buona, chiusa nella sua torre in attesa che lui finisse il lavoro che aveva iniziato. Ma ancora

non è cosa

non ci riusciva. Il successo improvviso gli aveva legato le mani. Non poteva più fare indagini private, esporsi, aveva addosso gli occhi di tutti, dentro e fuori dal corpo di polizia. La Gatteschi lo stava giocando per la terza volta. La prima quando l’aveva creduta amica della Bacarelli, la seconda quando non aveva pensato a lei per l’impronta, mano da uomo, s’era pensato, la terza quando l’aveva presa per una delle vittime e così ora lei aveva messo in gabbia lui, chiuso in un ufficio che ufficio non era, con davanti scatoloni per tutti, uno scatolone per ciascun morto, uno scatolone per ciascun sopravvissuto, uno scatolone per ogni testimone e uno scatolone bello grande pure per lei. Se ancora non aveva perso il controllo e fatto qualche stronzata era solo perché restava concentrato sul pezzo mancante, il drago che aveva fatto del male alla sua fanciulla da salvare.

Non il povero stronzo, lei.

Era stata più brava di lui, era stata più furba di lui, era riuscita a giocarlo per un anno intero e per quelle due ore di troppo nel capannone.

Ma poteva ancora recuperare, se la trovava per primo.

Perché lui non ci credeva, che fosse sparita come dicevano, la gente non sparisce così, non improvvisando, soprattutto se è stata capace di tenere in piedi un circo simile per tanti anni. La Gatteschi era riuscita a scappare perché era preparata a farlo, il piano di fuga già c’era, programmato per chissà quando. Forse, mentre lui si concentrava sul povero stronzo, lei aveva avuto la sensazione di avere l’acqua alla gola, e si era organizzata.

Ma perché rapirne un’altra, allora?

Perché prendere anche la Bacarelli, se avevano a scappare?

Questo non gli tornava, ma non ci avrebbe perso il sonno. La Gatteschi aveva un piano? I piani si fanno un pezzo alla volta, e lui avrebbe potuto ricostruirlo. Sarebbe bastato conoscerla, impararla, ragionare come lei, entrare nel capannone della sua testa e aprire le gabbie una per una. Se fosse stato abbastanza bravo l’avrebbe potuta scovare, e allora sì, allora avrebbe vinto.

Devo imparare a essere come a lei.

Molti non ci sarebbero riusciti, identificarsi in una pazza assassina era contrario alla loro coscienza, ma lui invece ce l’avrebbe fatta. Perché da tanto tempo la coscienza di Francesco Caparzo si era smarrita chissà dove.

Non era un ospedale come gli altri, si trattava di una clinica privata a Bologna e Lena aveva fatto fatica a trovarla, pur seguendo le indicazioni che le aveva dato l’ispettore Ridenti. Non avrebbe voluto andarci, lo aveva detto chiaro e tondo sin da subito, lei era stata perseguitata per un anno, poi rapita e rilasciata, questo era quanto le era successo, niente altro, con i nove sopravvissuti del capannone non voleva averci niente a che fare, non avevano niente in comune, esperienze lontane, lontanissime, tranne che erano finiti tutti nel mirino di Lucio e Alex.

Non pensare a loro.

Ma uno di quei sopravvissuti aveva chiesto di lei.

«Posso parlare con Maria?»

Tutti la chiamavano Lena, qualcuno la chiamava ancora Marilena, ma c’era stata una sola persona al mondo che l’aveva chiamata sempre Maria, e quella persona era Saverio. Dapprincipio aveva rifiutato di vedere quell’uomo, la scusa era che non se la sentiva, e poteva starci, nessuno aveva il diritto di obbligarla. Ma l’ispettore aveva deciso di intercedere.

«Vede, signorina Bacarelli, quest’uomo, Giulio Castagnoli, dice di essere stato molto amico del suo fidanzato, quello di prima, Saverio Bartolomei.»

Non c’era un prima, non c’è stato un dopo.

Ma non poteva dirlo.

«Castagnoli è affetto da una patologia, è un uomo abbastanza fragile, lo stress di quest’esperienza lo ha confuso e fa fatica a ricordare. Ci tiene molto a parlare con lei, forse se lo incontra riuscirà a raccontarle molte più cose di quelle che ha detto a noi.»

Lena non voleva andarci. Ma aveva alzato gli occhi verso il poliziotto che sedeva poco più dietro Ridenti, intento a leggere qualcosa, forse una deposizione, forse una serie di fogli bianchi, chissà. Caparzo non aveva ricambiato il suo sguardo, ma lo stesso aveva annuito. Lena aveva mandato giù anche questo rospo, il figlio di puttana continuava a darle ordini, a controllarla, ma del resto la sua posizione aveva ancora troppe ombre, se non avesse collaborato avrebbe attirato l’attenzione. Così aveva preso l’indirizzo e ci era andata. La targa di fianco al cancello diceva CLINICA MARRAGGI - CHIRURGIA BARIATRICA e lì intorno stazionava ancora qualche giornalista locale che sperava di strappare una dichiarazione o un’intervista. Ottenere una foto di Castagnoli sarebbe stato straordinario, perché quelle scattate dopo la liberazione erano sfuocate e confuse. Lena aveva mostrato il proprio permesso ed era stata condotta dentro da infermiere vestite come suore, tutte molto eccitate dall’idea di incontrarla di persona.

«Lei è stata graziata» le avevano detto. «Com’è Francesco Caparzo di persona?»

Non aveva saputo cosa rispondere, non esistevano parole adatte.

Nella stanza in cui l’avevano condotta c’era solo lui. Giulio Castagnoli era un obeso patologico, Lena non avrebbe saputo stimarne il peso, superava di certo il quintale e occupava un letto molto più grande di quelli classici da ospedale. Non si erano mai visti prima, ma forse qualcuno gli aveva mostrato una foto, perché nel vederla era subito scoppiato a piangere e le aveva teso entrambe le mani, come un bambino. Lena era a disagio, ma le aveva prese.

«Maria! Hai tagliato i capelli!»

aveva detto lui tra i singhiozzi, e lei si era ritrovata a rispondere

«Si erano rovinati»

rendendosi conto di quanto la situazione fosse surreale. Un poliziotto era entrato e aveva piazzato un registratore su un piccolo tavolo tra di loro. Non aveva chiesto il permesso a nessuno, non aveva nemmeno salutato, nessuno finse che ci fosse qualcosa di strano. Giulio aveva la schiena appoggiata a diversi cuscini, Lena immaginava che fosse per consentirgli di respirare.

«Come sta Argo?»

La prima domanda era stata per il cane di Saverio, che lei aveva ereditato e mai amato davvero. Dopo il rapimento lampo era stato affidato a una volontaria sua amica, Astrid, che per il momento non glielo restituiva, perché prima avrebbe dovuto superare il trauma e anche lui è scosso, povera creatura, è vecchio, non può subire certi stress, meglio che resti con me per un po’. Non si era opposta, sapeva che Saverio l’avrebbe biasimata, ma stava meglio con Astrid che con lei, in attesa che il padrone tornasse.

Non ha mai smesso di aspettarlo, lui.

Per questo non mi accettava.

Ma era un discorso troppo lungo da fare a uno sconosciuto, così si limitò a rispondere

«Bene».

Giulio sembrò sinceramente sollevato.

«Io ero amico di Saverio.»

«Me l’hanno detto.»

«Parlava sempre di te.»

«Sono contenta.»

«Diceva che non lo avresti mai abbandonato, che avresti continuato a cercarlo.»

«È così.»

Ascoltava quell’uomo parlarle dell’amore della sua vita, notizie vere, reali, informazioni preziose dopo anni, e non provava niente, non riusciva a provare niente. Guardava le braccia e le gambe dell’obeso piene di lesioni, piaghe, cicatrici, annusava l’odore di crema e disinfettante e quell’altro odore sotto, nascosto

pus, infezioni, cancrena

è stato fermo troppo a lungo

pensando soltanto ad andarsene via. Quanto sarebbe dovuta rimanere? Dieci minuti? Mezz’ora?

«Non credere a quello che ti diranno.»

«Come, scusa?»

«Le cose che ti diranno su di lui, non crederci.»

«Ma quali cose?»

«Che era un loro complice. Non è vero. Non è vero perché nessuno si fa ridurre in quello stato per fare finta, non come era conciato lui. Soffriva, soffriva tantissimo e non ha mai, mai saputo chi lo avesse preso e perché.»

Lena si era trattenuta.

Lei ha finto, e tutti le hanno creduto. Compreso te.

Non devo pensare a lei.

«Lo so, non ci credo, stai tranquillo» aveva invece risposto.

«E non credere anche a quella cosa di Anna.»

Un brivido, il primo.

«Chi?»

«Anna, Anna Baroni, quella che è scappata. Ti diranno che loro stavano insieme, be’, non crederci.»

Giulio si era infervorato, il viso rosso, e quando aveva pronunciato il nome di Anna aveva arricciato le labbra, come se avesse sentito un cattivo odore. Lena era sinceramente stupita, con un principio di divertimento.

«Non ho dubbi che non stessero insieme, come avrebbero fatto?»

«Oh, non credere, là potevano succedere tante cose. Anche io e Saverio non ci siamo mai incontrati davvero, ma ci siamo visti e parlati, mi ha raccontato tutto di sé e io gli ho raccontato tutto di me, tipo quando lui è andato in overdose e io mi sono rotto la caviglia scivolando sulle scale. Tutto, hai capito? Per questo siamo diventati amici.»

Nonostante il tono concitato e un po’ sopra le righe Lena aveva iniziato ad ascoltare con maggior attenzione quello che l’uomo le diceva.

«Ti ha raccontato dell’overdose?»

«Sì, era con quel suo amico, quello col nome strano, Mometto. Ed è da allora che ha iniziato a balbettare, e dopo tu lo hai mandato da una dottoressa e ha cominciato a dire “pam!” per sbloccarsi, te lo ricordi?»

Lena se lo ricordava. Ricordava la dottoressa, per ringraziarla Saverio le aveva dipinto una miniatura. Iniziò a sentire caldo.

«E questa Anna allora? In che senso stavano insieme?»

«Oh, tu non crederle, non crederle mai. Anna è cattiva. Saverio diceva di essere cattivo anche lui, ma non era vero, al massimo era un po’ dispettoso, ma mi ha sempre aiutato, se non fosse stato per lui io sarei impazzito, quando ero da solo non riuscivo ad andare avanti, poi è arrivato lui e insieme...»

«Sì, ma questa Anna?»

Lena lo aveva interrotto e i poliziotti stavano ascoltando.

Chi se ne frega.

Giulio cercò di afferrare il triangolo sopra il letto, le dita gli scivolarono, ci riprovò e Lena glielo tenne fermo finché non riuscì a mettersi un po’ meglio. Era paonazzo, il respiro corto e acre.

«Era cattiva. Gli ha fatto credere di amarlo, di considerarlo speciale. E allora lui si è fatto coinvolgere, ma solo perché a qualcosa dovevamo aggrapparci! O alla speranza di essere liberati o alla speranza di morire o gli uni agli altri. Io mi ero aggrappato a lui e a...»

Si fermò. Le labbra grassocce da putto gli tremavano, una goccia di sudore esitò sulla conchetta, poi gli rotolò in bocca. Lena sentì una morsa allo stomaco e si piegò in avanti.

Non ha detto il suo nome, non lo ha detto.

Non devo pensare a loro.

Non devo pensare a lei.

«Sai, quando mi hanno preso non mi hanno addormentato bene. Perché sono grosso.» La voce di Giulio si era fatta trasognata. «E così io mi sono svegliato un po’, ed ero in un posto, un posto che devo ancora capire, perché non vedevo bene, un posto con odore di acqua e di metallo, con un grande tubo curvo. Sapevo di non essere a casa mia, ho avuto paura. Così mi sono agitato e mi sono fatto male con un gancio che spuntava da terra. Un gancio nel cemento, quello me lo ricordo. Mi hanno fatto una puntura per sedarmi e dopo la puntura una mano mi ha disinfettato la ferita. Era una mano gentile. Lei era così gentile.»

Aveva mollato il triangolo, si era coperto la faccia con le mani e aveva gridato

«Anche lei era mia amica. Oh Dio! Dio!»

e la fatica di quei giorni venne vinta, il muro crollò, tutti i ricordi di Lena rotolarono fuori. Alex seduta sul suo divano mentre sorseggiava il tè, Lucio che le portava la zuppa di farro, la loro casa piena di ninnoli di coppia, Alex che l’abbracciava cercando di farle forza, Lucio che giocava con Argo, Alex che fingeva di essere scomparsa, Lucio che fingeva di piangere, Lucio che le puntava il fucile in faccia, Alex che si fingeva in coma nella gabbia.

Erano miei amici.

Era mia amica.

Alex lo era stata di Saverio prima e sua poi, o almeno così le aveva raccontato. Forse non era vero niente. Fu come se Giulio avesse sentito il suo pensiero.

«Non la conosceva, Maria. Ti giuro che non la conosceva.»

«Non chiamarmi così.» Si alzò in piedi. «Non credo di essere ancora pronta per questo.»

Giulio riprese a piangere.

«Non la amava davvero Anna, ne sono sicuro! Se resti ti racconto ancora!»

Ma io non resto.

Si mosse veloce verso la porta, ma la voce di Giulio la raggiunse.

«Un’ultima cosa.»

Si fermò ad ascoltare. Il tono improvvisamente si era trasformato, diverso, serio, adulto.

«Non credere che sia andato con lei di sua volontà. Lo ha preso, Maria. Lo ha preso ed è scappata con lui.»

Alex aveva preso Saverio.

Per la seconda volta.

Uscì.

In macchina aveva pianto come non piangeva da secoli. Aveva pianto per il tradimento dell’amica, aveva pianto per il tradimento del suo uomo, aveva pianto perché glielo avevano sottratto tutti quanti, in tutti i modi possibili, aveva pianto per l’invidia provata verso quel grassone schifoso che aveva potuto guardare il suo Saverio, e parlarci, per anni, aveva pianto perché subiva tutto questo e non poteva farci niente, se non aspettare che passasse, di abituarsi, di nuovo.

Un suono l’aveva distratta, un suono nuovo, alieno.

Era il cellulare, la polizia le aveva sequestrato quello che aveva al momento del rapimento ed era stata costretta a comprarne uno nuovo, di certo già sotto controllo. Non si era ancora abituata alla suoneria.

Lo schermo diceva “Numero sconosciuto”.

Ma lei lo sapeva, chi era.

E urlò contro quegli squilli che le trapanavano il cervello, urlò per tutte le parole che non poteva dire e che l’avrebbero soffocata, prima o poi.

Urlò.

E non servì a niente.

A cento chilometri di distanza Caparzo interruppe la chiamata.

Sapeva già tutto quello che era successo nella clinica e sapeva che lei era ancora lì, a disperarsi nel parcheggio.

Per questo l’aveva chiamata.

Non perché gli rispondesse, non aveva nulla da dirle.

L’importante era che sapesse che lui c’era.

Che non lo dimenticasse mai.