Giulio
Lena passava le mani sul bordo della scatola azzurra.
Avrebbe scelto l’azzurro anche lui?
Dentro c’erano le ceneri di Argo, il cane di Saverio che non era mai stato davvero suo, morto di vecchiaia a quasi sedici anni in un rifugio privato. La proprietaria del rifugio, Astrid, il cane non glielo aveva mai restituito, ma le ceneri sì, bontà sua.
«Mi hanno già rotto troppe volte le scatole con le norme sanitarie, non posso seppellirli in giardino, non posso spargere le ceneri, finché erano 40 chili d’ingombro posso capire, ma una scatola di legno dovresti riuscire a gestirla» erano state le sue parole magnanime.
E ora eccola lì, la scatola, a ricordarle la sua incapacità.
E oltre la scatola, l’uomo, che aveva la stessa funzione.
Nei primi mesi dopo la liberazione Francesco Caparzo, detto Cecco, era stato prudente, veniva a casa sua solo in veste ufficiale, ammantato del ruolo di salvatore. Ma loro due sapevano come stavano le cose, lei gli doveva la vita e non solo nel modo che vedevano tutti. Era stato la sua ombra per un anno, l’aveva protetta a ogni costo, mettendosi tra lei e Alex, tra lei e Lucio, tra lei e la sua stessa debolezza. Senza di lui forse l’avrebbero presa molto prima, senza di lui probabilmente si sarebbe uccisa. Se salvi la vita di una persona poi ne sei responsabile, si dice, ma si dice anche che quella vita un po’ ti appartiene, ed era questo possesso che Caparzo rivendicava in silenzio, telefonandole a ogni ora del giorno e della notte, facendosi trovare in casa senza essere invitato, solo perché voleva, solo perché poteva.
«Era ’nu bravo cane» aveva commentato davanti alla scatola.
Non era vero, Argo era stato un molosso scontroso e disubbidiente, non l’aveva mai amata. Ma era di Saverio e per questo se l’era tenuto.
«Sei stato gentile a venire, ma non pensavo di fare una veglia funebre. Non ti chiedo nemmeno come lo hai saputo.»
Lena voleva essere sarcastica e invece suonava disperata, come di fatto era.
«Non sto qui per il cane.»
«Ah.»
«Sto qui per il morto e per il casino della bionda.»
«Sì, ho sentito.»
Aveva guardato altrove, come sempre quando si toccava l’argomento del capannone. Lei non voleva sentire di farne parte, era una cosa che non la riguardava. Caparzo aveva tenuto gli occhi sulle dita che seguivano il bordo della scatola, dal basso in alto, da destra a sinistra, erano quasi sensuali.
«T’hanno chiamato i giornali?»
«Un paio.»
«Che hai detto?»
«Niente, non avevo niente da dire. Vorrei che mi lasciassero in pace, tutti quanti.»
«Hai fatto buono.»
Il telefono di Lena aveva iniziato a squillare e lei aveva respinto la chiamata.
«Chi era?»
«Un altro con cui non voglio parlare.»
Per un momento di silenzio, lungo, non avevano aggiunto nulla. Poi
«Statt’accuorta, piccere’»
aveva detto Caparzo.
«Perché?»
«Perché non sai mai come vanno le cose. Vedi com’è capitato al povero scemo. Tu non ci pensi, ti infili in qualcosa e questo ti cade addosso.»
«Non ho capito.»
Caparzo aveva alzato le spalle, fare discorsi alla fanciulla era una cosa che gli riusciva difficile, come parlare davanti ai giornalisti, imparare a pronunciare bene “stress post-traumatico”, visitare la stanza del povero Giovannino senza dare a vedere che cercava dei pastelli colorati.
«Io sto qua, come prima. Per qualsiasi cosa. ’O sai?»
E come faccio a dimenticarmelo?
«Cosa c’entra questo con il tizio che è morto? Non è stato un incidente?»
Caparzo si era sporto in avanti e le aveva levato dalle mani le ceneri di Argo.
«A volte capitano le cose brutte. Capitano a tutti e così è. Ma se stai accuorta allora capace che non succedono.»
Lena aveva iniziato a tremare, il telefono aveva di nuovo suonato, lo aveva spento.
«Cosa mi stai dicendo?»
Caparzo aveva stretto la scatoletta di legno come se l’avesse voluta spaccare.
«Io non voglio che ti succede niente attè, piccere’.»
E allora era stato il suo telefono a squillare, e non avrebbe risposto, non avrebbe risposto se non avesse letto chi era. Lo aveva fatto, aveva detto
«Caparzo»
e dall’altra parte avevano iniziato a urlare.
Si era svegliato dall’incubo e istintivamente aveva chiamato
«Mamma!»
non ricordando che sua madre era morta due anni prima. Era ancora un concetto astratto, la sua mente rimaneva ancorata all’idea che premendo il campanello a terra avrebbe sentito i tonfi sul soffitto, la sedia che si spostava, i passi, il rumore della porta che si apriva, le ciabatte sulle scale e poi lei che sarebbe sbucata dalla porta in una delle sue mille vestagliette a fiori, facendo una domanda che non gli sarebbe piaciuta.
«Non sei caduto ancora, neh?»
Quanto lo faceva incazzare quel “neh”, lo strascico di una piemontesità che quarant’anni di Emilia non avevano corroso. E ora niente più ciabatte o vestagliette a fiori, niente colazione preparata, niente guanto da doccia a sfregargli la pelle, niente caffè bevuto insieme davanti alla finestra in uno dei pochi momenti di pace. Mamma se n’era andata male, gli avevano detto, consumata dal dolore e dall’angoscia, dimagrita in maniera orribile mentre aspettava notizie di lui. Non era mai stata convinta che fosse morto, suicida nel Po vicino a cui avevano trovato la macchina. I segnali c’erano tutti, glielo avevano ripetuto, Caterina, guarda che era depresso, non era mica contento, le leggevi le cose che scriveva su Facebook? Ma lei non ci credeva e non si dava pace.
«Chi lo curerà? Chi gli darà da mangiare? Lo sanno che deve prendere le pillole per la pressione?»
Aveva insistito perché la intervistassero in un’emittente locale e aveva dato tra le lacrime tutte le istruzioni ai presunti rapitori perché si occupassero bene del figlio, nell’imbarazzo generale. Ma glielo avevano fatto fare, perché Caterina Bo, vedova Castagnoli, era una carissima persona e a San Pietro in Casale tutti le volevano bene, chi da prima chi da dopo la tragedia del figlio. “Madre coraggio” avevano detto, e non a sproposito, perché lei si era dedicata anima e corpo al suo Giulio, una dedizione che le aveva divorato ogni aspetto della vita, e “divorato” non era una parola casuale. Giulio era stato obeso sin da piccolo, dalla morte del padre, un uomo robusto ma non grasso, eppure fu al peso che venne imputato l’infarto. Caterina sapeva che non era vero, che non era giusto, che era stata solo la via più breve per liquidare una morte che non interessava a nessuno. Del resto anche se avessero indagato cosa potevano risolvere? Morto era morto. E così quando il piccolo Giulio, di soli otto anni, aveva iniziato a insistere per avere una fetta di pane e Nutella in più lei si era guardata bene dal negargliela. Poi erano raddoppiate le merende e le porzioni di pasta, poi c’erano stati gli spuntini e le vaschette di gelato in estate, ed era stato un attimo in effetti prima che il pediatra le facesse notare che sessanta chili a dieci anni erano troppi, stia attenta che poi con lo sviluppo la cosa potrebbe sfuggire al controllo. Ma Giulio era così sensibile, introverso, dal carattere debole e lamentoso, così abituato a essere protetto a oltranza da chiudersi in una torre di capricci e scene madri che l’avevano straziata. Così aveva ceduto su tutto, sui soldatini americani e i berretti da baseball, passione ereditata dal padre, e sempre più sul cibo, col ragazzino che lievitava, pur sviluppandosi anche in altezza, un metro e ottanta, anche il babbo era un omone. I primi problemi erano stati alla schiena, poi erano sopraggiunte le apnee notturne, la bilancia aveva detto duecento e la pressione aveva iniziato a saltare. Superata la pubertà Caterina aveva diviso in due la casa, piano di sotto solo per Giulio, piano di sopra per lei, con ingresso indipendente. Lui aveva pestato i piedi perché facesse chiudere la scala interna con una botola, casa mia, casa tua, non voglio che entri quando non ci sono, e lei si era rassegnata a salire e scendere da quella esterna quando lui chiamava col campanello. Questo lo riempiva di rabbia che sfogava su di lei, insultandola, dandole la colpa del proprio stato, papà non mi avrebbe fatto ridurre così, perché non sei morta tu invece che lui? E Caterina piangeva, avrebbe dato tutto per quel figlio che amava, e lo amava, lo amava tanto, perché era così cattivo con lei? All’inizio del 2015 era scomparso, suicidio, si era detto, e lei ne era morta. Tre anni dopo la polizia lo aveva trovato, imbottito di narcotico, ed era stato necessario far venire un mezzo speciale per toglierlo dalla gabbia e metterlo nell’ambulanza bariatrica. Per tutto il tempo, nonostante il suono della fresa e le sirene e il balzo nel vuoto quando era stato estratto dall’enorme scatola di legno, lui aveva dormito. Il bianco dell’ospedale gli era sembrato accecante, le parole dei medici quasi incomprensibili. Il suo corpo aveva subito dei danni, l’immobilità in cui era rimasto aveva danneggiato le giunture, c’erano moltissime piaghe da decubito che erano state curate, sì, ma non tutte erano guarite, e il cuore era messo male. Però era vivo, e c’era uno stupore dilagante su questo, Giulio era stato tenuto in vita dal suo rapitore, anzi, dalla sua rapitrice, grazie a una dedizione assoluta. Lavato, medicato, spostato non si sa come, non si sa con che forze, visto che ogni volta che si occupava di lui lo addormentava con un narcotico per orsi. Ma si era presa cura di lui, Alessandra Gatteschi, che Giulio chiamava solo Sandra e che aveva creduto sino ad allora essere una prigioniera come tanti. Aveva pianto, quando gliel’avevano detto, più di quanto non avesse fatto alla notizia della morte della madre. Sandra era una dei buoni! Sandra non era cattiva con lui come Nicola, o come Vasco, Sandra era gentile e affettuosa e lo aveva sempre rincuorato. Non poteva essere stata lei a torturarlo in quegli anni in gabbia, non poteva averlo punto con un’asta di ferro durante la notte per spaventarlo, non poteva aver picchiato improvvisamente contro il fondo della gabbia per fargli paura, Sandra non era così, non era così. Ma gli inquirenti non avevano dubbi, non l’ispettore con l’aria triste che era andato a visitarlo prima in ospedale e poi a casa e non il poliziotto enorme che li aveva salvati tutti. Francesco Caparzo gli era piaciuto subito. Si era avvicinato al suo letto in ospedale, Giulio gli aveva preso la mano e gliel’aveva baciata piangendo. C’erano state due reazioni nell’agente, la prima Giulio la conosceva, ed era quell’immobilità che maschera il disgusto delle persone che non vogliono manifestarlo, per educazione o per dovere, mentre l’altra era stata una specie di sollievo, quasi si aspettasse altro da parte sua. Così gli aveva poggiato la mano sulla spalla, gli aveva dato due colpetti e aveva detto
«Mo’ si’ grande, si ’nu grande guaglione. Hai da esse forte. Vabbuò? Forte hai da esse, che si’ grande»
e che con “grande” intendesse “adulto” oppure “grosso” non faceva differenza, sembrava credere davvero che Giulio avesse delle risorse a cui attingere.
E invece no.
Negli anni di prigionia Giulio aveva perso tutto.
La rabbia, la speranza, la razionalità, era diventato una massa gelatinosa di paura, regredito allo stadio infantile, lo stesso di quando suo padre era morto. Otto anni mentali per quasi trecento chili. Uno staff di psicologi aveva seguito tutti loro, e man mano che gli altri tornavano a casa l’attenzione rimaneva su di lui. Aveva sviluppato un’ossessione mistica per i simboli e i segnali, seguendo i dettami di un qualche santone americano che aveva scritto un libro sugli equilibri del cosmo. Si prevedeva il futuro con l’I Ching fino a venti volte al giorno, aggrappandosi a significati che vedeva solo lui per negare il concreto del reale, troppo difficile da gestire. C’erano state delle donazioni per intervenire in fretta e furia sulla casa, ormai di sua esclusiva proprietà, la porta andava allargata, il piano di sotto adattato a un disabile, ci voleva un letto ospedaliero e la sorveglianza dei servizi sociali. Dovevano tentare di farlo dimagrire e poi provare con la riabilitazione, anche se le possibilità di farlo tornare a camminare erano quasi nulle. Da pochi mesi aveva rinunciato alla sorveglianza notturna, dopo infiniti colloqui e verifiche. Il peso scendeva gradualmente, quasi quaranta chili, era stato bravo e ubbidiente. L’obbedienza gliel’aveva insegnata Sandra ed era diventata un riflesso. Ma ancora rifiutava di alzarsi in piedi e il fisioterapista non riusciva a motivarlo, ogni volta che ci provava Giulio gli spiegava infantilmente che avrebbe camminato al momento giusto, quando avesse colto un segno che gli dicesse che era il momento.
Ma poi il Rosso era morto.
Giulio non lo aveva mai più visto, l’ultimo ricordo che ne conservava era mentre russava nella sua gabbia, con l’aria beata di chi sta benissimo dov’è. Non era potuto andare a trovarlo là in Piemonte, dove viveva
come la mamma, neh?
così come non era potuto andare a trovare Bella in clinica con tutti gli altri. Avrebbe voluto che fosse possibile, avrebbe voluto andare da ciascuno di loro, toccarli e baciarli e dire che gli mancavano, sì, gli mancavano sul serio, gli mancavano tutti. Non erano rimasti altri legami nella sua vita, dei parenti non gli importava niente, amici non ne aveva mai avuti, il lavoro era andato. Aveva solo quelle otto anime con cui aveva condiviso l’inferno.
E Saverio.
E Sandra.
Non poteva dirlo a nessuno, non a voce alta, ma non riusciva a odiarla. Non poteva essere stato tutto finto, non quando giocavano a inventarsi le sequenze da bussare sul bordo del carrozzone, non quando gli diceva che era forte, più forte di quanto credesse, non quando lo guardava con gli occhi umidi sforzandosi di sorridere senza denti.
Su quello non può avere mentito.
O sull’asma.
Aveva stabilito che a condurre il gioco dovesse essere il fidanzato, quel tizio che aveva visto solo in foto e che forse era l’unico cattivo di quella storia, era lui che lo aveva punto con la lancia e che gli tirava i secchi d’acqua di notte, e doveva essere stato lui a dare la caccia a Saverio e a uccidere Mino, era andata così, ne era sicuro.
Ma ora il Rosso era morto, Karina era impazzita e Giulio aveva paura.
Dicono che sono cose che capitano.
Ma non ci credeva. Credeva fosse stato il destino a trascinarlo in quella chiusa del Po, e sempre il destino a liberarlo tre anni dopo.
È un segno.
Il grande disegno.
Il poliziotto grande e grosso era andato a spiegargli e a metterlo tranquillo, non c’era nulla di cui avere paura. Ma se non c’era perché aveva sentito il bisogno di confortarlo? Da allora stava così, riverso sul letto a uggiolare, l’acchiappasogni di vera fattura artigianale Lakota che pendeva su di lui, il cellulare in mano, il pensiero al Rosso che era morto. Ogni tanto si addormentava e si svegliava convinto di essere ancora in gabbia, poi le lucine notturne sparpagliate per la stanza lo confortavano, chiamava la mamma, ma la mamma era morta e allora
TOC TOC
Si scosse.
Cosa mi ha svegliato?
Fuori era buio, il telefono diceva che erano le 21.48.
TOC TOC
Di nuovo.
Giulio rimase immobile nel buio, l’enorme torace glabro che si sollevava e si abbassava in mezzo alle lenzuola bianche. Non era un sogno.
Sarà il vento.
Le persiane erano vecchie, ballavano, e anche se lui aveva fatto montare i fermi e la volontaria che passava per ultima la sera a portargli una cena sana ed equilibrata gli aveva garantito di averle bloccate, a volte succedeva che col vento forte facessero rumore.
TOC TOC
Non era il vento. Il suono non veniva dalla finestra e nemmeno dalla porta. Il suono veniva dal piano di sopra, nel punto in cui i gradini erano stati chiusi con una botola di legno.
Attenta a non aprirla, mamma, o caschi giù.
TOC TOCTOCTOC TOC
Una sequenza.
Vediamo se riesci a farla uguale?
Quel gioco lo aveva inventato Saverio e quando lui era
morto
scappato lo aveva ripreso Sandra. Sandra lo faceva vincere, delle volte.
TOC TOCTOCTOC TOC
Non è lei. È il vento, sono i ghiri, è il fantasma di mia madre, chiunque ma non lei.
Si era messo seduto e aveva guardato il deambulatore e la sedia a rotelle, col fiato rotto. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta, non sapeva nemmeno stare in piedi.
TOC TOCTOCTOC TOC
Prese il cellulare e pensò di chiedere
cosa?
aiuto a una delle volontarie, qualcuno che venisse lì ad assisterlo, ma poi gli prese la paura, era riuscito a ottenere di restare da solo la notte, se li chiamava i servizi sociali gli avrebbero rimesso in casa qualche megera a fissarlo mentre dormiva e lui non voleva, non ne poteva più, no no. Poggiò i piedi a terra.
Ma dove credi di andare? Quella ti prende prima che arrivi alla porta!
Scosse la testa, non c’era nessuna “quella”, ma c’era la macchina fuori, il suo pick-up pieno di meraviglie statunitensi, la mamma non lo aveva venduto e glielo avevano appena revisionato per portarlo in giro alla prima occasione, al parco oppure al ristorante, in una saletta privata. Se fosse arrivato all’auto...
TOC TOCTOCTOC TOC
Sempre la stessa sequenza, non cambierà finché non rispondo.
Tutto il castello di congetture costruito negli ultimi mesi gli crollò addosso. Il fidanzato di Sandra era morto, i morti non bussano dalle botole, la gente si riempiva la bocca di Alessandra Gatteschi, ma era stato lui, non loro, ad aver trascorso tre anni in una gabbia da elefante aspettando ogni notte che Sandra
non il fidanzato
venisse a torturarlo, pregando perché non succedesse, scoprendo che pregare non serviva a niente, lui aveva vissuto sulla sua pelle quanta tenacia e pazienza e ferocia la spingesse
lei, non lui
che di giorno era così tenera e buona, con il suo buco in mezzo alla bocca e l’aria da vecchia, ma che di notte si trasformava in un orco e un drago e un mostro pieno di zanne che si nutriva delle paure più primordiali, come questa, questa di adesso che gli scatenava bussando alla botola
TOC TOCTOCTOC TOC
per vederlo rovesciare la lampada, aggrapparsi al comodino, dire con voce tremante
«Sono stato bravo, Sandra! Sono stato ubbidiente, non ho fatto niente di male!»
mentre cercava di alzarsi mentre ripensava a Saverio
Saverio! Diglielo! Diglielo, Saverio!
che non c’era, non c’era più da tanto tempo, se n’era morto da qualche parte e lo aveva lasciato solo con lei al piano di sopra e non era vero che tutto era finito, che Sandra fosse lontana, forse morta, la gabbia gliel’aveva impiantata nel cervello e quella tortura non sarebbe finita mai, mai, mai
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come questo calore che gli si arrampicava lungo le spalle e gli levava il respiro
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mentre perdeva l’equilibrio e cadeva a terra, il cellulare ancora stretto nella mano
non sei caduto ancora, neh?
la botola che da lì si vedeva benissimo, così vicina, e se si fosse aperta...
impazzirò
perciò aveva allungato la mano a terra e aveva bussato anche lui.
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Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.
E poi
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Sentì il sangue defluire.
Ora svengo.
Ma non poteva. E allora aveva chiamato la sola persona che Saverio gli aveva sempre detto che li avrebbe salvati, lei, la Santa: Maria.
Maria, aiutami.
Ma dopo due squilli la linea era caduta, e lui si era messo sulla schiena. L’anca gli faceva un male del diavolo e non riusciva a respirare.
Devo mettermi su un fianco.
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Poi un tonfo, la sedia che si spostava, i passi verso la porta.
Sta venendo!
Aveva rifatto il numero
Maria! Maria! Rispondimi, Maria!
ma di nuovo la chiamata era stata interrotta. Di sopra la porta si apriva e lui riprovava a fare il numero, ma l’utente desiderato non è al momento raggiungibile mentre la scala esterna rimbombava dei passi, e allora aveva fatto il solo altro numero possibile, e quando aveva sentito
«Caparzo?»
aveva iniziato a urlare, e urlare, finché il peso del petto non gli aveva schiacciato il fiato e tutto si era fatto buio e buio ancora.
Giulio Castagnoli non aveva avuto un infarto.
Caparzo aveva inviato un’ambulanza a casa sua e i paramedici lo avevano trovato a terra, collassato e in stato confusionale ma in condizioni generali buone. L’appartamento del piano di sopra era effettivamente stato ritrovato aperto, ma non mancava nulla, era probabile che semplicemente non fosse stato chiuso a chiave e che qualcuno fosse entrato a curiosare. Un’ora dopo il poliziotto arrivava insieme a Marilena Bacarelli. Per tutto il viaggio la donna aveva pianto, dicendo che non era giusto, che lei quel tizio non lo conosceva, che aveva solo diviso la prigionia con il suo fidanzato, il che non lo legava a lei e non gli dava il diritto di chiamarla quando pensava di stare per morire. Ma lo stesso era andata a Bologna insieme al suo aguzzino, perché le sue erano solo parole. Giulio era subentrato nel vuoto di affetti di Saverio quando lo avevano portato via da lei, gli era stato amico, aveva pianto la sua scomparsa e lei gli doveva gratitudine per questo. Era entrata in quella casa estranea a braccia conserte, aveva osservato a distanza gli infermieri che tenevano monitorate le condizioni dell’obeso e Caparzo che gli si sedeva accanto e diceva
«Hai fatto brutti pensieri, sì? Hai pigliato paura, è normale, pure che tutto solo stai. Epperò te l’agg’a dicere che non fa ’bbuono accussì»
mentre quell’omone gigantesco piagnucolava, gli baciava le mani e poi, come già avvenuto in clinica, tendeva le proprie verso di lei come un bambino alla mamma.
«Maria, vieni qui.»
Non mi chiamare Maria.
Gli si era seduta accanto mentre Caparzo parlava con i colleghi. Giulio l’aveva tratta a sé, aveva abbassato la voce e in tono cospiratorio le aveva detto
«Lei era qui».
«No che non era qui» gli aveva risposto ragionevole.
«Sì, era qui, giocava a bussare, lo facevamo sempre nei carrozzoni.»
«Ti sarai sbagliato.»
Ma Giulio scuoteva la testa con forza, gli occhi gonfi per il troppo piangere e la troppa paura.
«Diglielo tu, Maria. Diglielo che sono stato bravo, che non ho detto cose brutte. Diglielo.»
Lena si era svincolata da quell’abbraccio parassita.
«Ma diglielo a chi, Giulio, santo cielo!»
Gli occhi dell’obeso erano velati, non del tutto presenti, il tranquillante che gli avevano somministrato stava facendo effetto.
«A Saverio.»
Un brivido di freddo l’aveva percorsa da capo a piedi.
«Saverio non c’è, Giulio. Saverio non torna più.»
«Oh sì, invece.»
La mano paffuta era caduta oltre il bordo del letto, a indicare una delle gambe del comodino. Lena si era chinata e aveva preso da terra un pastello blu scuro.
«Se segui i pastelli lo trovi. Portano alla chiusa del Po»
aveva biascicato l’obeso. E prima che la donna potesse chiedergli altro, aveva rovesciato gli occhi e si era addormentato.
Il motore brontolava regolare, la velocità era fissa sui 120, erano le tre di notte ma Lena non sarebbe riuscita a dormire in nessun caso. Pensava a Giulio, pensava a Saverio e soprattutto pensava a Caparzo, così vicino a lei che ne sentiva il calore. Se in quel momento fosse scoppiata una gomma e si fossero schiantati morendo sul colpo ne sarebbe stata felice. Tutto, pur di non avere più paura di lui.
«Non sta a te.»
La sua voce aveva rotto il silenzio, un ruggito basso.
«Che cosa?»
«’O ciccione. Non sta a te. Nessuno ’e quelli sta a te. Penso io a loro.»
«Lo so come pensi alle persone.»
Credeva di aver formulato la frase nella sua mente, e invece aveva parlato. Stava per imbastire delle scuse quando Caparzo aveva messo la freccia. Non c’erano autogrill in vista, l’auto si fermò su una piazzola di emergenza e il poliziotto spense il motore.
Non disse niente, non dissero niente.
Lena sentiva caldo, la temperatura saliva di secondo in secondo, traspirata direttamente dal corpo dell’uomo. Non si era resa conto di quanto l’aria fosse satura del suo odore che era un non odore, un misto di aspro e dolce e untuoso e nessuno dei tre. Invadeva i suoi pori, le sue molecole, si nutriva del terrore che produceva a ogni respiro di attesa.
Fai qualcosa.
Fammi qualcosa.
Qualunque cosa ma smettila di non fare niente.
Lo schifo che provava per lui, l’odio e l’orrore erano così viscerali da avere un retrogusto quasi erotico, come quei cibi che mangi apposta perché ti facciano vomitare. Era tossico, velenoso, e lei non poteva farne a meno, come lui non poteva fare a meno di lei. Caparzo si stava trattenendo. Tratteneva le mani e gli occhi e quella pressione stupida in mezzo alle gambe. Stava implodendo per non esplodere. C’era qualcosa nell’ingratitudine di quella donna che lo toccava nel profondo, forse facendogli del male, forse no. Era un richiamo molto antico, qualcosa che aveva provato da ragazzino, quando tirava il collo ai polli e sua madre gli rifaceva la schiena a suon di legnate. Un senso di appartenenza.
Io non sono quello.
Io non voglio essere quello.
Respirava profondamente, contando tra il pieno e il vuoto, il dentro e il fuori, assaporando la paura acida di lei, il sudore, il vago sentore di urina.
La fanciulla da salvare.
Non si stupra la fanciulla da salvare.
Non si uccide la fanciulla da salvare.
Eppure voleva così tanto salvarla che l’avrebbe divorata. Sentì qualcosa alle mani, una corrente che le percorreva, e non era un buon segno. Allora chiuse gli occhi e pensò ad Alessandra Gatteschi. Ai pastelli a cera. Alle ore trascorse a pulire la merda nei carrozzoni, alla pomata sulle piaghe, ai guanti di spugna passati negli incavi dei corpi, ai polmoni pieni dello scarico del trattore, ai morsi della delusione.
La stimava.
Quanto la stimava quella donna brutta e pazza che lo aveva messo in scacco.
Riaprì gli occhi quando si sentì nuovamente calmo.
«Non sta a te» ripeté a Lena, e mise in moto.
L’aveva lasciata davanti a casa col cielo che si rischiarava appena. Subito dentro era corsa in bagno e aveva vomitato anche l’anima. Quando era riuscita a riprendere fiato le erano caduti gli occhi su una virgola viola alla sua sinistra.
Sul bordo della vasca la aspettava un pastello a cera.