Anna
Non guardarle le mani.
L’ispettore Ridenti aveva fatto accomodare la ragazza nella stanza che gli avevano preparato, niente di troppo austero o formale, non voleva che sembrasse un interrogatorio. Avrebbe dovuto ripetere il procedimento altre sei volte, con il gruppo restante dei sopravvissuti del capannone, escludendo naturalmente i due che erano dementi. Lei era stata convocata per prima perché per prima aveva preteso di uscire dall’ospedale, per prima aveva parlato spontaneamente ai giornalisti e per prima, di fatto, era stata ritrovata. Anna Baroni era stata l’ultima vittima, in ordine di tempo, di Lucio Donadio e Alessandra Gatteschi, rapita l’8 ottobre e ritrovata da Francesco Caparzo quasi cinque mesi dopo, nuda, in mezzo alla campagna, mezza assiderata. Sedeva su una delle sedie di metallo, una sigaretta in mano, le gambe accavallate, bellissima.
«Non sapevo che fumasse.»
«Ho appena cominciato.»
Ridenti si era sporto con l’accendino, cercando di tenere lo sguardo lontano dalle dita. Per quanto gliele avessero ripulite e disinfettate erano ancora gonfie, la carne viva esposta, diverse unghie mancanti. La Baroni avrebbe potuto farsele fasciare, ma gli avevano riferito che aveva detto di no, che voleva poterle guardare ogni volta che voleva. Con quelle mani, con le unghie perse e con pochi frammenti di legno strappati dal fondo del suo carrozzone, quella ragazza dall’aspetto diafano e sofisticato era riuscita a scavarsi un buco nella gabbia e a fuggire. Per questo Ridenti la ammirava, non c’era dubbio, ma già durante il loro primissimo incontro in ospedale, quando ancora si portava addosso quella puzza terribile che due docce non erano riuscite a cancellare, all’ammirazione si era sovrapposta una certa inquietudine. Era per i suoi occhi. Occhi belli, per carità, non si discute, scuri, profondi, ma con una luce cupa.
È normale, con quello che ha passato.
Eppure Ridenti qualche esperienza con le vittime di eventi traumatici ce l’aveva, e quel tipo di espressione non l’aveva vista mai. C’era invece negli occhi dei pazzi che fanno una strage in famiglia e poi ti chiamano per venire a prenderli. Quando arrivi li trovi tranquillamente seduti a tavola o sdraiati accanto alle loro vittime e ti guardano così, come a dire: “Non ho ancora finito”.
Questo dicevano gli occhi di Anna Baroni: non ho ancora finito.
«Possiamo cominciare?» le aveva chiesto.
«Lui dov’è?»
L’ispettore sospirò. Aveva sperato tanto che quell’impuntatura, emersa in ospedale, fosse stata momentanea, dovuta allo stordimento di trovarsi libera dopo quasi cinque mesi di prigionia. Lui era andato a visitare tutte le vittime e raccogliere le prime testimonianze, ma con lei non c’era stato verso.
«Parlerò solo con il poliziotto» se n’era uscita.
«Io sono un poliziotto» le aveva sorriso.
«No.» Lo aveva inchiodato con quegli occhi sinistri. «Il poliziotto.»
È stata la prima persona che ha visto da donna libera, sarà una cosa di imprinting, come quella delle anatre
aveva pensato Ridenti, confidando che con il senno di poi ci avrebbe ripensato. Invece eccola lì.
«Signorina Baroni...»
«Voglio che mi interroghi lui.»
«Ma noi non la stiamo interrogando. La ascoltiamo come testimone, come persona informata sui fatti, le sue saranno considerate dichiarazioni spontanee» aveva tentato.
«E allora informerò spontaneamente solo lui.»
«Non è la procedura.»
«Non me ne frega un cazzo.» Lo aveva detto come avrebbe chiesto di passarle il posacenere. «Io parlo con lui o non parlo con nessuno.»
Ridenti era stato sul punto di aggiungere qualcosa, poi lei aveva avvicinato la sigaretta alla bocca, tenendo le dita stese, e lui aveva di nuovo intercettato, dietro alle croste di sangue, il suo sguardo.
“Non ho ancora finito.”
Così si era alzato, era andato alla porta e aveva chiamato Francesco Caparzo.
Anna Baroni era scomparsa da Modena in una tiepida mattina d’autunno. Era uscita da un bar diretta a un appuntamento di lavoro a cui non si sarebbe presentata mai e puf. Nessuna telecamera l’aveva ripresa, la prima registrazione di sorveglianza attiva in quella via, duecento metri dopo, non l’aveva vista passare. Per ritrovarla era stata messa in piedi un’operazione massiccia che aveva riguardato l’intero paese, sconfinando all’estero, eppure niente. Se n’era parlato tantissimo, la madre e la sorella erano andate in tutte le trasmissioni tv locali e nazionali disposte a ospitarle. Anna era una giovane bella, seria, nessuna ombra nella sua vita, nessuna minaccia a incombere su di lei. Per qualche settimana la sua scomparsa aveva tenuto banco, poi la gente si era stufata e aveva smesso di parlarne. La notizia della sua liberazione era arrivata ai media molto prima che si venisse a sapere dell’esistenza del capannone. La donna era riuscita a scappare, aveva scavato un buco a mani nude nel fondo del suo carrozzone, approfittando delle cattive condizioni del legno, vecchio e parzialmente marcito, e della disattenzione dei suoi carcerieri. Scoperta la fuga era stata inseguita, e sarebbe stata uccisa se là fuori, nel gelo di febbraio, il rumore di un’auto in avvicinamento non avesse fatto precipitare la situazione. Anna aveva corso con tutte le forze che il suo corpo, martoriato da cinque mesi di fame, incuria e terrore, le aveva concesso, fino a imbattersi in Caparzo, che l’aveva avvolta nel suo giubbotto e le aveva lasciato il proprio cellulare, dicendo che i soccorsi erano in arrivo. Con la possibilità finalmente di comunicare, dopo l’isolamento completo dal mondo, Anna aveva chiamato sua madre. Le urla della donna avevano attirato i vicini e attivato una serie di telefonate a grappolo che avevano generato su Facebook un primo status a caratteri maiuscoli: ANNA BARONI È STATA RITROVATA. Il popolo di internet si riscoprì improvvisamente partecipe della vicenda e la notizia cominciò a rimbalzare. I giornalisti chiamarono la Questura di Modena, la Questura di Modena si adoperò per verificare subito l’informazione, che trovò conferma in una nota della Questura di Firenze a nome dell’ispettore Ridenti. Una buona fetta di quotidiani riuscì a far uscire la notizia in prima pagina, i tg 24 ore non parlarono d’altro finché non iniziarono a filtrare i dettagli sul capannone. Era stata la prima a poter raccontare cosa succedesse dentro a quel blocco di cemento, la prima a fare dei nomi e a ricostruire per sommi capi quante fossero state le vittime del duo diabolico Donadio-Gatteschi. Poi, improvvisamente, si era zittita. Del sequestro non aveva voluto più parlare con nessuno, né medici o psicologi, né parenti o amici. Alla domanda se volesse andare a far visita ai suoi compagni di sventura aveva risposto con l’unica sonora risata sentita dalla liberazione. E quando le era stato detto che ci si aspettava da lei che rilasciasse un memoriale, le sue parole erano state le stesse pronunciate in ospedale
«Parlerò solo con il poliziotto».
Francesco Caparzo era entrato con calma nella stanzetta, si muoveva lento, come un pachiderma, aveva raggiunto la sedia nell’angolo e si era messo giù. Anna Baroni lo aveva seguito con lo sguardo.
«Buongiorno» aveva detto per prima.
«Buongiorno» aveva risposto lui.
La sola presenza lì di Caparzo era un’ammissione di sconfitta, per Ridenti. Era lui che si occupava delle indagini, ma la realtà era che se si trovava lì lo doveva a Caparzo. Quella specie di bisonte veniva osannato dalla folla come se avesse fatto chissà che, mentre se fosse stato per lui gli avrebbe dato un richiamo ufficiale, altro che riconoscimento. Ma il vice questore aggiunto Gambino gli aveva detto di starsene buono, non potevano promuoverlo, c’era da star tranquilli, gli avrebbero solo dato un aumento e lo avrebbero reso partecipe delle indagini. All’ispettore era toccato portarselo dietro di malavoglia, e quell’altro sempre zitto, testa bassa, come se non sapesse di avere il coltello dalla parte del manico.
«Possiamo procedere?» aveva chiesto senza riuscire a trattenere il sarcasmo.
La ragazza aveva annuito, aveva spento la sigaretta e se ne era riaccesa un’altra. Ridenti era partito subito, seguendo il protocollo.
«Allora, partiamo dall’inizio. Lei è stata rapita l’8 ottobre dell’anno scorso. In pieno giorno. Ricorda com’è successo?»
«No.»
«Qual è il suo ultimo ricordo?»
«Che ero al bar, credo. Stavo facendo una telefonata, o forse scrivevo un messaggio.»
«Niente altro?»
«No.»
«E si è risvegliata nella gabbia il giorno stesso.»
«Non lo so. Poteva anche essere il giorno dopo.»
«Certo.»
L’ispettore aveva iniziato a controllare gli appunti e la ragazza aveva lanciato un’occhiata al poliziotto nell’angolo. Il poliziotto guardava a terra.
«E cosa, cos’è successo il primo giorno? Ha avuto modo di capire dove si trovasse? Ha avuto dei contatti con i rapitori o gli altri prigionieri?»
Lei aveva scosso i capelli, come se avesse voluto scacciare lo stesso ricordo che stava ricostruendo.
«C’erano tre di loro, vicino a me. Erano sempre gli stessi, per tutti i nuovi arrivati. Per primi dovevamo incontrare il Rosso, Bella e il coccodrillo, perché con loro non potevamo parlare, erano i pazzi e ci avrebbero fatto ancor più paura.»
«Si riferisce a...» Ridenti controllò gli appunti. «Giovannino Marinoni, che ha effettivamente una disabilità mentale, la donna cieca che non è stata identificata, presumibilmente una senzatetto, e Domenico Donadio, il padre del rapitore, che chiamavate “coccodrillo”.»
«Non lo chiamavamo. Lui ERA il coccodrillo.»
Ridenti prese nota.
«Quindi non ha parlato con nessuno?»
«C’erano delle voci, ma erano lontane» aveva risposto vaga.
«E i rapitori non hanno comunicato con lei.»
Aveva sbuffato una specie di risata.
«Non la definirei “comunicazione”. Hanno cercato di terrorizzarmi, questo sì.»
L’ispettore passò oltre.
«E dopo i primi giorni cos’è successo?»
«Ci ha addormentati. Una volta alla settimana ci addormentava tutti, attaccava i carri al trattore e li faceva girare nel capannone, così ci addormentavamo da una parte con qualcuno davanti e ci svegliavamo da un’altra parte con qualcun altro vicino. La settimana dopo quella dei pazzi era la settimana degli idioti, che ti davano tutte informazioni senza capo né coda, e dovevi arrivare alla terza per essere messa con i saggi. I saggi ti spiegavano le regole. Dei saggi ti fidavi, perché erano lucidi, razionali, erano di esempio perché si erano adattati.» Tirò una profonda boccata di fumo. «Uno dei saggi era lei.»
Finalmente si guadagnò l’attenzione di Francesco Caparzo, che smise di guardare il pavimento e voltò la testa. Questo le diede la spinta giusta.
«Era nella gabbia del serpente. Tutta nuda, le tette cascanti, i capelli unti con una ricrescita lunga cinque dita e quel buco orrendo nella bocca. Fingeva di avere l’asma, non faceva che rantolare, e quando parlava non si capiva un cazzo perché non riusciva a pronunciare le esse e dio, dio, sembrava così devastata, così sottomessa e spaventata, quella maledetta TROIA!»
Aveva urlato, le dita in poltiglia le tremavano e la cenere cadde sul vestito. La spazzò via con un colpo.
«Non ha mai avuto il sospetto che Alessandra Gatteschi potesse essere uno dei vostri carcerieri?» chiese cauto Ridenti.
«No.»
«E non l’aveva mai vista prima?»
Lo aveva guardato con scherno.
«Una faccia così si ricorda.»
«E Lucio Donadio, invece? Lo aveva mai incontrato?»
Anna aveva riso e aveva risposto rivolta verso Caparzo.
«Ma lui cosa? Non l’avete capito che faceva tutto lei? Lui per me non esisteva, là non ci veniva, io lo so. Conosco la sua faccia perché l’ho visto in tv, ma mai incontrato prima. Una volta sola l’ho sentito, c’erano dei rumori in giro per il capannone, cose che venivano spostate, oggetti urtati. Quella volta c’era lui, perché non sapeva proprio come muoversi lì dentro.»
«E come sapeva che fosse lui e non lei?»
«Perché lei ce l’avevo davanti.» La donna inspirava veloce. «Era lì davanti a me, mentre dietro il mio carrozzone qualcuno faceva casino, ed era con trucchetti come questo che mi ha convinta di essere una povera vittima, quella schifosa bastarda!» Il respiro le accelerò ancora. «Di giorno ti spiegava come funzionava lì dentro, e mentre lo faceva ti veniva pena per le sue tette avvizzite, per quel fischio che emetteva, perché le credevi. Poi di notte tornava con la lancia, colpiva le sbarre, ti picchiava, rovesciava il cibo. E tu dormivi sempre con l’orecchio teso, morendo di paura e di freddo sperando che quella sera non toccasse a te essere punita.»
Ormai era quasi senza fiato, gli occhi solo per Caparzo.
«Lei la deve prendere» gli disse. «La deve prendere o tornerà per finire quello che ha iniziato, glielo dico io.»
«Stiamo facendo del nostro meglio, signorina Baroni...» tentò di rispondere Ridenti, ma Caparzo lo interruppe.
«Punita per cosa?»
Calò un attimo di silenzio.
«Chi non rispettava le regole veniva punito. Di notte, con la lancia. Con il razionamento del cibo. Con la posizione della gabbia. Se ti comportavi bene ti metteva vicino a chi ti piaceva, se ti comportavi male ti trovavi quelli che non volevi.»
«E tu a chi non volevi?»
intervenne di nuovo Caparzo. La Baroni fece un sorriso falso.
«Mi facevano schifo tutti.»
Aveva arricciato le labbra, scoprendo i denti, e in quel momento a Patrizio Ridenti non sembrò più una graziosa ragazza sfortunata ma una belva pronta ad attaccare. Caparzo invece non si era per nulla scomposto.
«Quindi come era era venivi punita.»
«Certo. Lei mi odiava. Puniva me più di tutti.»
«E perché?»
«Perché non mi piegavo, non mi adattavo.»
«No.» Caparzo l’aveva interrotta, calmo ma netto. «Perché ti odiava più di altri, attè?»
«Gliel’ho detto, perché non ubbidivo.»
Il poliziotto aveva scosso la testa.
«Non mi faccio convinto.» Si era fatto pensoso. «Se era solo lei che comandava io non capisco perché ha preso a te. Hanno rapito amici loro, colleghi di animali, gente che stava nella stessa città, ma tu perché?»
«Ma che ne so. Perché era matta.»
«Era matta e apposta a Modena viene per trovarti, che da Firenze so’ 130 chilometri?»
Le dichiarazioni spontanee si erano tramutate in interrogatorio.
«Mi sta chiedendo se fosse colpa mia? Come si chiede alle donne stuprate come fossero vestite?» lo aggredì Anna.
«No. Ma non penso che era un caso. Nessuno di voi era un caso. Voi magari non lo sapete, ma lei lo sapeva.»
«Mi avrà scelta perché non le piaceva la mia faccia, o forse perché avevo tutto quello che mancava a lei, o forse perché non le piaceva il colore del mio vestito, che importanza vuole che abbia?»
«E l’uomo tuo? Saverio Bartolomei era l’uomo tuo, no? Ma era anche un suo amico.»
Le labbra di Anna cominciarono a tremare e se le morse subito.
«Non lo so, non me l’ha detto.»
«E doveva esserlo, se è scappato con lei.»
Subito Anna gli mostrò i denti.
«Non è scappato CON lei, lei lo ha PORTATO VIA, sono due cose diverse!»
Caparzo aveva annuito.
«Ma pure lui era scappato, come te.»
«Non è scappato. Gli ha fatto trovare le sbarre aperte, poi quando è uscito se l’è preso.» Anna aveva avvicinato il filtro della sigaretta, ma era così scossa che non riusciva a centrarsi la bocca. «Lo ha fatto per punirmi. Lo ha portato via per punire me.»
«E poi te ne sei scappata pure tu.»
Improvvisamente la faccia della donna si era spenta, il tono diventato incolore.
«Pensavo di essere stata furba. Pensavo che non si fosse accorta del buco. Il carrozzone non me lo puliva più, perché io mi comportavo male, e allora...» Era rimasta un attimo a fissare il vuoto. «Ho lavorato tanto. Di notte più che di giorno. Ho usato tutto quello che avevo, e lei lo ha sempre saputo. Per settimane ha fatto finta che non fosse così, ha aspettato che il buco fosse abbastanza grande. E quando sono uscita mi ha inseguita con il fucile per darmi la caccia. Come aveva fatto con Saverio.»
«E perché?»
«Perché mi odiava.»
«E perché ti odiava?»
Anna aveva sorriso.
«Un sacco di gente mi odia.»
Caparzo era sembrato soddisfatto e si era ritirato nel suo angolo, gli occhi al pavimento. Ridenti ne approfittò per tentare un colpo di coda.
«Dunque lei crede che la sua fuga sia stata in qualche modo programmata? Prevista, insomma?»
Anna aveva annuito.
«Ma per fortuna l’epilogo è stato diverso e lei si è salvata.»
«Oh, no.» Con una mano Anna si era spostata i capelli, con l’altra aveva preso una nuova sigaretta. «Non fate questo errore. Non c’è nessun epilogo.»
Aveva tirato una boccata, lo aveva guardato e aveva sorriso a sua volta.
«Lei con noi non ha ancora finito.»
Alta, un naso enorme, quattro denti mancanti e una protesi in bocca, capelli tinti di rosso, quarantadue anni appena compiuti, di cui quasi uno intero nascosta al mondo, Alessandra Gatteschi avrebbe dovuto spiccare come un papavero nel deserto. E invece era sparita nel nulla. Era stata diramata una foto, avevano messo blocchi su tutte le strade, allertato i confini, ma nessuna segnalazione attendibile era arrivata nelle prime 12 ore, nessuna entro le 24, poi erano arrivati i mitomani. Vennero riaperti tutti i casi di persone scomparse, alla coppia diabolica vennero attribuiti tutti gli omicidi e le sparizioni compatibili con il cosiddetto periodo di “attività”, i sopravvissuti furono messi sotto protezione fintanto che la loro aguzzina era ancora in giro. Del capannone venne fatto un plastico con tutti i modellini delle gabbie, i sopravvissuti raccontarono a più voci la loro esperienza, le indagini si propagarono per tutto il paese e oltre i confini. Era iniziata una vera e propria caccia alla strega. Donadio ormai era morto, alla gente non restava che concentrare su Alessandra Gatteschi tutto il proprio odio, le proprie paranoie, la propria paura. Gli avvistamenti si susseguivano sempre più numerosi, nelle stazioni, in aeroporto, sugli autobus, in procinto di imbarcarsi, appostata davanti a una scuola, nascosta in un vicolo, in fuga nelle campagne, armata, folle, senza denti, rideva, dio come rideva. Per contro, bisognoso di una figura autorevole, onesta e coraggiosa che lo rassicurasse, il popolo aveva continuato a riversare un amore sproporzionato sull’uomo che da solo aveva salvato tutti. Francesco Caparzo li faceva sentire al sicuro e loro lo amavano. Nelle settimane seguenti, non si parlò d’altro. Poi iniziarono a circolare le prime informazioni sul prossimo royal wedding e ora di maggio tutti avevano dimenticato, tranne i protagonisti della vicenda, gli inquirenti e, naturalmente, Caparzo.
Per registrare l’intero memoriale ci erano voluti tre giorni e infinite sigarette. Anna Baroni aveva raccontato che Donadio e la Gatteschi avevano dei criteri personali per la distribuzione del cibo, della paglia per tenerli caldi durante l’inverno e di altri oggetti che potessero rendere la prigionia meno dura. Chi si comportava male subiva privazioni e umiliazioni, come la mancata pulizia del carrozzone o l’isolamento, le sbarre rivolte contro un muro, invece che di fronte a un’altra gabbia. Tra le forme vessatorie c’erano le ronde con una sbarra di ferro con un lato appuntito che loro definivano “lancia” e che veniva usata per picchiarli e punzecchiarli quando si comportavano male. Un altro metodo punitivo era colpire i compagni con cui si creavano legami, chi disubbidiva non ne pagava le conseguenze ma assisteva al castigo di un amico. E poi c’era il sesso. I soli chiusi in una gabbia collettiva erano i quattro che Anna chiamava “le scimmie”, due uomini e due donne. A loro era consentito avere rapporti soltanto durante il ciclo mestruale delle donne, ma c’erano stati casi di violenza e stupro.
«Le donne non sempre erano d’accordo» aveva raccontato la Baroni. «Ci sono stati degli incidenti.»
Indagando era emerso che il più giovane degli uomini aveva usato violenza, non solo sessuale, sulla più giovane delle donne. Anna non era andata nel dettaglio, diceva che era successo di notte, che non aveva visto bene, ma che sapeva che il colpevole era stato punito. Quando Ridenti le aveva chiesto di parlare dei suoi compagni lei non aveva omesso nessun dettaglio, ma di molti di loro non aveva mai pronunciato il nome, solo il soprannome. Gli altri avevano confermato che i dati personali là dentro erano vietati, ma lei sembrava proprio non voler riconoscere loro una dimensione umana al di fuori della prigionia. Erano le scimmie, il coccodrillo, il Rosso, Bella, i soli nomi che pronunciava erano quelli di Giulio, Nicola e Saverio, che nonostante tutto continuava a considerare il suo uomo.
«Lei ci ha fatto credere di averlo ucciso. Invece lo voleva tenere tutto per sé. Ma se riesce a sfuggirle tornerà da me.»
Tra le poche cose che univano Ridenti e Caparzo c’era l’incredulità che Bartolomei avesse avuto un simile ascendente sulle donne coinvolte in quella storia assurda. Marilena Bacarelli era quasi finita in gabbia per andarselo a prendere, Anna Baroni era riuscita a sopravvivere aggrappandosi al pensiero di lui e Alessandra Gatteschi aveva rischiato la cattura per poterlo portare con sé. Cosa avesse di speciale quel tossicodipendente biondo ed emaciato non riuscivano proprio a capirlo.
Firmato il memoriale, Anna aveva chiesto di essere portata a casa da Caparzo, ed era stata accontentata. In macchina erano stati zitti un po’.
«Ci sono microfoni qui dentro?» gli aveva chiesto.
«È la macchina mia.»
«E allora? Potrebbero averglieli messi i suoi colleghi.»
«La macchina mia la controllo io.»
Anna aveva estratto il pacchetto di sigarette e Caparzo aveva detto, semplicemente
«No»
così lo aveva rimesso via. Poi glielo aveva chiesto
«Come lo sapeva, lei, delle gabbie?».
Caparzo non aveva risposto, ma una parte di lui si era sentita sollevata. Tenere separati noto e reale era una fatica maggiore di quella che aveva creduto. La ragazza insistette
«Quando mi ha trovata lei mi ha chiesto dove erano le gabbie. Eravamo in mezzo a un campo, il capannone non si vedeva, ma lei lo sapeva già».
Caparzo aveva annuito e Anna si era rilassata.
«E loro non lo sanno, la polizia non sa che lei lo sapeva.»
Caparzo aveva annuito di nuovo.
«Perché?»
«Perché non posso dire come lo sapevo.»
«C’entra quella, quella che ha inseguito fino a lì, Maria?»
Di nuovo l’uomo aveva fatto di sì.
«Allora so come lo sa.»
L’auto si fermò davanti a casa di lei, dove li aspettava un’auto civetta a cui Caparzo fece i fari. La Baroni aprì lo sportello e si voltò verso di lui.
«Abbiamo un segreto, non è bello?»
«Più che uno ne abbiamo.»
Anna esitò un istante, poi annuì.
E con questa minaccia reciproca si salutarono.
Si sarebbero rivisti fin troppo presto.
Caparzo aveva iniziato a lavorare sui telefoni trovati nel capannone solo quando i colleghi avevano smesso di occuparsene. Erano parecchi, alcuni appartenevano alle vittime, altri erano degli usa e getta da pochi soldi che i due sequestratori usavano a turno per comunicare. Tutti gli spostamenti erano stati tracciati, chiamate e messaggi catalogati, la maggior parte erano tra Donadio e la Gatteschi, la mappa delle varie celle un reticolo intricato, impossibile da sbrogliare. A differenza dei colleghi, però, lui aveva un vantaggio, un reperto privato: il telefono su cui Marilena Bacarelli aveva ricevuto le minacce per un anno intero. Leggendo in sequenza tutti i messaggi che aveva ricevuto lì sopra, senza fare alcuna distinzione, aveva iniziato a sentire due voci: quella di Donadio e quella della Gatteschi. Quelle voci le aveva ritrovate nelle loro conversazioni private, lui era impulsivo, pressante, a volte inviava messaggi a raffica, preda di qualcosa di simile all’ansia da abbandono.
HAI FINITO?
A CHE ORA TORNI?
PERCHÉ NON MI RISPONDI?
DEVI DIRMI COSA FARE.
Lei era più diretta, essenziale, pratica.
PARTO TRA UN’ORA E MEZZA, CHIUDI TUTTO ED ESCI, PASSA DAL GIARDINO SUL RETRO, PULISCI BENE DOVE HAI TOCCATO.
Caparzo aveva avvertito il disequilibrio tra i due, lei era la mente, lui il braccio, ma un braccio piccolo, rachitico.
Lui non decideva niente, solo lei.
Eppure era stato lui da solo a rapire la sua fanciulla da salvare, mentre la Gatteschi era rimasta nel capannone a seguire la fuga di Anna Baroni. Gli aveva mandato un messaggio, al povero stronzo:
ANNA ESCE, QUESTIONE DI ORE. LA GABBIA DI SAVERIO È PRONTA
e lui aveva risposto, col solito tono vorace
MI STAI DICENDO CHE POSSO PRENDERE LENA?
CAZZO, NON CI SPERAVO PIÙ!
ORGANIZZO TUTTO SUBITO.
L’HO CHIAMATA, CI TROVIAMO AL PARCO TRA MEZZ’ORA.
HO PRESO LA SIRINGA NELL’ARMADIO, IL DOSAGGIO È GIUSTO.
DIMMI SE TI STA BENE L’ORARIO.
STO PER USCIRE. POI LA PORTO DIRETTAMENTE LÌ!
MANDAMI L’OK.
SONO QUASI AL PARCO, COSA FACCIO CON ARGO?
STA ARRIVANDO, LO LASCIO QUI.
È CON ME.
FATTO, STO ARRIVANDO, PERCHÉ NON MI RISPONDI?
Tutti i messaggi erano stati cancellati subito dopo l’invio, dopo l’ultimo aveva cominciato a chiamarla, sette volte man mano che si avvicinava al capannone, lasciandole messaggi in segreteria.
«Sono io, l’ho presa. Ho tolto il tracciatore dall’auto, sono per strada, devo sapere se dormono e se la sua gabbia è pronta. Richiamami o mandami un messaggio.»
Poi era arrivato al capannone ed era andata com’era andata. Sette chiamate e dodici messaggi, e la Gatteschi non aveva mai risposto, non aveva mai visualizzato, perché si stava occupando della Baroni.
Così importante era, lei che scappava, da lasciare il povero stronzo da solo?
«Un sacco di gente mi odia»
gli aveva detto la Baroni, soprattutto la Gatteschi, sosteneva.
Ma la odiava tanto da far saltare tutto?
Da sapere che l’uomo suo era stato sparato perché lei non aveva risposto al telefono?
Era una sbavatura enorme in un piano che fino ad allora aveva funzionato perfettamente.
Sulla carta i giornalisti non avrebbero dovuto esserci, era un servizio fotografico esclusivo per una rivista, ma lo stesso davanti al cancello si era assiepato un centinaio di persone, tra cui almeno una troupe. Le macchine erano sfilate lentamente, all’interno del cortile veniva richiesta la massima attenzione per evitare rumori che potessero turbare i pazienti. La struttura non accoglieva nessuno senza il versamento di una quota mensile, ma il caso era stato così eclatante che la direzione si era detta che il ritorno d’immagine per un’offerta così generosa sarebbe valso i soldi persi. Così avevano allertato le autorità e reso disponibile una stanza singola al secondo piano. Delle nove persone salvate dalle gabbie nel Capannone degli Orrori l’unica di cui non si era rintracciata l’identità era una donna cieca di età stimata sui settant’anni che tutti chiamavano Bella. A detta dei suoi compagni di sventura non sapeva parlare ed era stata una delle prime a essere rapite.
«È sempre stata lì» aveva raccontato un sopravvissuto. «La prima volta che mi sono svegliato è lei che ho visto.»
Bella era stata visitata a lungo e giudicata innocua. Il suo aspetto da vecchia strega era frutto di un’incuria molto più antica di quella subita da Gatteschi e Donadio. Nessun documento che le appartenesse, niente vestiti, ma sul corpo i segni di anni di vita di strada, ferite guarite male, quasi tutti i denti persi. Gli psicologi avevano provato a rivolgerle domande in diverse lingue, inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, ma la donna non aveva mostrato di riconoscere alcun idioma e avevano concluso che fosse italiana, una barbona scomparsa da una grande città senza che nessuno se ne accorgesse.
«Sei anni sono tanti per chi si è lasciato dietro una famiglia, figurati per chi non aveva niente e nessuno, è come se avesse vissuto due vite» aveva concluso l’ispettore Ridenti. L’opinione pubblica si sarebbe certamente sollevata, se non fosse stata trovata una sistemazione per Bella, l’ultima degli ultimi, e aveva esultato quando la struttura psichiatrica di Prato si era fatta avanti per accoglierla. Oggi, un mese dopo la liberazione, i suoi compagni di prigionia venivano a trovarla per la prima volta. Non potevano esserci tutti, Giovannino Marinoni non sarebbe stato una presenza opportuna e Giulio Castagnoli non poteva essere spostato. Una terza persona era assente, una delle cosiddette scimmie, Yuri Vignoli, che dopo il memoriale dei compagni aveva avuto i guai suoi, vittima o non vittima. Così alla casa di cura si erano presentati in cinque, e tra loro c’era Anna Baroni. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma sua madre e il suo avvocato le avevano fatto un discorso.
«Che prendano o non prendano la Gatteschi, ci sarà un processo. E in questo processo molto farà la tua immagine. Sei la ragazza che è riuscita a scappare, sei la prima che è stata salvata dal poliziotto, ma sappiamo che i favori del pubblico non sono dalla tua parte. Appari troppo forte, troppo sicura, e i tuoi compagni di prigionia non sembrano amarti molto. Dobbiamo ottenere il massimo da quel processo, quindi non ci devono essere ombre su di te.»
Anna sapeva perché i suoi compagni non l’amavano, luridi animali che avevano tutte le ragioni per essere stati rinchiusi lì, compreso Giulio che le aveva spalato addosso tutta la merda possibile, altro che amico. L’esperienza in gabbia non aveva tirato fuori il meglio di lei. Ma era vero anche che non tutto era stato detto, alcune cose successe nel capannone erano rimaste nel capannone, nessuno ne aveva parlato.
Perché abbiamo colpa tutti quanti.
A lei del processo non importava, ma di non avere la gente contro sì. Stavano tutti vedendo cosa capitava a chi finiva nella lista dei cattivi, quella povera merdina di scimmia non poteva nemmeno più uscire di casa, e lei una cosa del genere non la voleva. Quindi si era vestita bene, si era messa un paio di guanti per coprire le mani martoriate ed era andata a fare visita a quella vecchia pazza di cui non le fregava assolutamente nulla. Erano state piazzate le luci, loro cinque erano stati messi in fila e poi avevano aspettato. Perché il servizio era solo in parte su di loro, e lo sapevano, comprimari di contorno al protagonista. Francesco Caparzo aveva fatto il suo ingresso stretto in una divisa che gli stava esplodendo addosso. Le scimmie e Nicola gli si erano avvicinati con fare ossequioso, lui li aveva guardati come una cesta di gattini ciechi salvati dall’annegamento, erano superflui, ma ci voleva benevolenza. Anna gli aveva fatto un cenno di saluto e lui aveva ricambiato, anche lei era solo una gatta, ma almeno ci vedeva. Bella era stata portata fuori dalla sua stanza lo stretto tempo necessario per scattare la foto, e poi tutti erano andati ipocritamente a salutarla, trattenendo la ripugnanza che nel capannone avevano sempre manifestato. Anna sapeva che i fotografi stavano scattando anche allora e che era importante fingere affetto per quella vecchia mostruosa e i suoi bulbi oculari deformi. Quando era arrivato il suo turno, mentre gli altri erano passati alle foto di coppia, si era chinata a baciarle la guancia, rendendosi conto che Bella non puzzava, incredibile che nessuno di loro puzzasse più, e quella era scattata. Le aveva tirato un cazzotto in bocca, infilandole per pura casualità il pugno tra i denti. Anna si era ritratta, toccandosi gli incisivi, e si era ritrovata sulle dita dei granelli rossi.
Ma non è sangue.
La vecchia si agitava ancora, le inservienti non volevano legarla davanti ai membri della stampa, ne andava del buon nome dell’istituto, così la accarezzavano cercando di calmarla a parole. Anna prese la mano che l’aveva colpita, attraverso il guanto non riusciva a sentire bene, ma le sembrava che tenesse qualcosa tra le dita.
«Che cos’hai in mano, Bella?»
Gliel’aveva aperta facendo grandi sorrisi alle inservienti, che fraintendessero quella confidenza fisica per abitudine, senza collegare che tra i prigionieri i contatti fisici fossero stati impossibili, e aveva estratto un mozzicone di pastello. Un pastello a cera, innocuo, rosso. Avvertì una leggera nausea.
Lei.
Lei ci faceva usare i pastelli per scrivere.
Poche volte nei carrozzoni era stata richiesta una comunicazione scritta, e il mezzo era un frammento di carta da macellaio insieme a un pastello a cera. Perché con un pastello non ti puoi ferire ma nemmeno lo puoi cancellare.
«Perché Bella ha un pastello?»
«Oh, li usiamo nelle attività ricreative» avevano risposto le inservienti, continuando a tenerla ferma a furia di sorrisi.
Attività ricreative con i pastelli per una donna cieca?
Anna si era guardata intorno, ma non c’era nulla da vedere, a parte luci troppo forti e il cicaleccio dei suoi ex compagni che facevano i carini con Caparzo.
Lui ci vedrebbe una coincidenza.
Poi pensò alla reazione degli altri alla vista del pastello. Si sarebbero agitati, ecco, lo vedi? La maledetta stronza che cerca di farci star male anche in questo momento di rinnovata serenità, che se loro erano sereni lei era una suora laica. Lo aveva fatto cadere a terra e poi, senza una vera ragione, lo aveva pestato col piede e frantumato.
Il rumore della cera che si crepava aveva subito calmato Bella.
I fotografi avevano scattato.
Qualcuno aveva riso.
Anna restava con gli occhi sui granuli rossi a terra, sparsi sul linoleum.
La voce che usciva dalle sue labbra aveva detto
«Devo raggiungere gli altri».
Mentre la voce nella sua testa diceva
non ha ancora finito con noi.