5 gennaio 1976
Un buco nero.
Questo era ciò che Umberto Gatteschi aveva visto quando gli avevano presentato la sua bambina.
Un enorme, raccapricciante buco nero in mezzo a una minuscola faccia.
«Nulla di irreparabile» gli aveva detto il medico. «È un labbro leporino, c’è una palatoschisi importante, ma la piccola è sana, è forte, si può intervenire e aggiustare tutto, vedrà.»
Lui aveva mandato giù il deserto che gli restava in bocca.
«E Mariella come sta?»
«Sta bene.»
«Ma l’ha vista?»
«L’ha vista, l’ha baciata, è felicissima. Vedrà che si risolve tutto.»
Ma a nulla era servito essere un uomo colto, con una solida esperienza di imprenditore alle spalle e un conto in banca che avrebbe consentito alla figlia le mani migliori in cui mettersi. Lui quel buco nero non riuscì a toglierselo mai dagli occhi. Amava sua moglie e sì, amava anche la bambina, quell’Alessandra dal nome importante, lunga lunga e magra magra, che non riusciva a succhiare come si deve il latte dal seno di una madre raggiante, che la guardava come se fosse bellissima. A casa, da solo, aveva pianto a lungo, la faccia nelle mani. Piangeva per tante cose, ma soprattutto per quella vergogna che non lo avrebbe abbandonato mai. Non ne aveva parlato con Mariella, né quando lei e la piccola erano tornate a casa né quando, dopo un tempo troppo breve, le aveva riaccompagnate in ospedale per la prima operazione. Lui non assisteva, non rimaneva in sala d’aspetto, si chiudeva in macchina e attendeva lì, mangiandosi il cuore di vigliaccheria. Le radiografie avevano detto che Alessandra non avrebbe sviluppato correttamente i quattro incisivi, che l’osso poteva non essere sufficiente per un impianto, che le avrebbero messo una protesi e ci si sarebbe abituata. Una protesi, era ancora una neonata e già sapevano che era destinata a mettere una protesi. Lui le avrebbe pagato i denti d’oro per tutta la bocca, ma come faceva ad assistere a cose del genere, le operazioni, prima una, poi tre, poi si era parlato perfino di sette, perché il difetto era molto grosso, poi la logopedia per farla parlare normalmente, ma come avrebbe fatto? Mariella sembrava assolutamente serena, una volta sola aveva ammesso con lei
«Mi sembra qualcosa di troppo grande da affrontare, per una bambina».
«Ma no,» aveva risposto la moglie «c’è di peggio.»
Mariella era così, era sempre stata così, fatalista ai limiti dell’incoscienza, con un afflato animista, vedeva segni e significati in tutte le cose, e ogni segno secondo lei faceva parte di un grande disegno, quindi doveva per forza essere una cosa buona.
«Siamo noi a sbagliare, sforzandoci di capire. Capire non serve.»
Era una creatura tenera, appassionata e gentile e Umberto sentiva da sempre di non meritarla. Aveva tenuto duro per lei tre lunghi anni in cui prendeva Alessandra in braccio lo stretto necessario, voltandole la testa così da non dover vedere i punti di sutura, le gengive vermiglie, gli occhi tanto simili ai suoi. Aspettò che si fosse addormentata, quella sera, e si chiuse in camera con Mariella. Parlò, e pianse, e più volte guardò verso la finestra, chiedendosi se non avesse più senso buttarsi di sotto. Ma lei aveva semplicemente risposto
«Va bene»
e lo aveva aiutato a fare i bagagli. Non era andato a vivere molto lontano, un tiro di schioppo, non aveva avuto altre relazioni, lui e Mariella non avevano mai divorziato. Le passava un assegno mensile che la moglie spendeva solo in parte, le cure mediche per la bambina richiedevano cifre che venivano saldate direttamente all’ospedale senza passare attraverso di lei. Mariella aveva via qualcosa e alla morte dei suoi genitori, quando Alessandra aveva prima cinque e poi otto anni, aveva venduto tutto e vincolato il contante in un fondo a cui la figlia avrebbe potuto accedere una volta maggiorenne. Lei e il marito si ritrovavano di tanto in tanto, gli portava le foto della bambina
«Guarda, hai visto com’è cresciuta? Ecco, in questa le hanno messo i primi denti, visto come sta bene?»
che lui guardava a malapena, aveva preso il suo naso curvo, invece di quello grazioso di Mariella, e la sua stessa corporatura, era troppo alta, dio, che condanna, che condanna. La moglie gli stringeva la mano e lo comprendeva senza giudicarlo.
«Non decidiamo noi se nascere forti o deboli. Tu non ti sei sottratto alle tue responsabilità, Alessandra è una bambina normale e serena anche grazie a questo. Non essere troppo severo con te stesso.»
Lui la guardava, che occhi bellissimi e limpidi che continuava ad avere, quanto l’avrebbe amata ancora e sempre. Ma non le confessava mai che le informazioni che lei gli dava erano solo una piccola parte di quelle che riceveva da diverse fonti. Che sapeva che Alessandra non era una ragazzina normale. E che era tutto fuorché serena.
La mano della mamma era appoggiata sul suo petto.
«Respira insieme a me, Alessandra, respira insieme a me.»
Lei lo faceva, tirava in dentro l’aria il più possibile, si sforzava fino a diventare paonazza, perché se non ci avesse provato, se si fosse semplicemente infilata in bocca l’inalatore, sarebbe stata una sconfitta. Per due volte, nelle settimane precedenti, era finita a terra con il flaconcino lì accanto, il corpo scosso da tremiti che erano più di paura che altro, e sua madre era accorsa, sollevandola, cercando di aiutarla, ma lei non voleva aiuto. Aveva sette anni, era in seconda elementare e l’asma le era strisciata dentro un anno prima, insieme all’ansia per il primo confronto con i suoi pari.
«Mi prenderanno in giro» aveva detto alla mamma.
«E tu lasciali dire» si era sentita rispondere con il solito sorriso.
Sua mamma sorrideva sempre, era una cosa quasi insopportabile. Le altre mamme quando la incontravano e vedevano l’enorme cicatrice sul labbro e i denti finti le facevano le vocine, la accarezzavano, dicevano cose come “povera creatura” e “sei proprio coraggiosa”. La sua invece no. Sembrava quasi che non vedesse tutte le cose spaventose che non andavano in lei, quelle cose che le cantilenavano i bambini al parco o che lo specchio le restituiva ogni santo giorno. Erano quelle cose che avevano fatto andare via papà, mentre la mamma sembrava cieca, o forse stupida, con la mania di proporle in continuazione di fare cose che lei non voleva fare, come partecipare alle feste di compleanno, andare per negozi, salire su quelle giostre dove poi ti scattano una foto. Alessandra non voleva foto, lo sapeva com’era la sua faccia. Lei era brutta. Lo sarebbe stata anche con i denti e una bocca normale, era brutta perché aveva il nasone, gli occhi piccoli, le gambe troppo lunghe e secche e le mani enormi.
«Sei bellissima» le diceva invece la mamma, ed era una bugia bella e buona. Come quella che a scuola si sarebbe fatta tanti amici, che le maestre sono delle seconde madri, che tutte le cose nuove che avrebbe imparato l’avrebbero resa più forte, e invece era stato tutto il contrario. Così, a contrastare le bugie di sua madre, era arrivata l’asma.
«In parte è nervosa, ma in parte è una reazione prevedibile del suo apparato respiratorio a tutti gli interventi subiti» aveva detto una dottoressa.
La mamma aveva sorriso e le aveva comprato una serie di inalatori, pronti per l’uso se avesse avuto una crisi. Per farle dispetto Alessandra non li usava e ogni volta che il respiro le si chiudeva in gola cercava i suoi occhi sperando di trovarvi allarme, se non paura.
Non c’erano mai.
E non poteva imputare questo fatto alla mancanza di affetto, perché la sua mamma la adorava, era sempre con lei, le raccontava storie, la ascoltava, condivideva ogni cosa con quel perenne sorriso stampato in faccia. Alessandra non la ricambiava, perché sorridere senza denti era una cosa brutta e farlo con i denti finti era ancora peggio. I compagni di scuola, in prima, avevano chiesto di toccarli e lei glielo aveva lasciato fare. Ma quando all’inizio della seconda una compagna con le trecce le aveva detto “sdentata” Alessandra si era levata l’apparecchio, l’aveva gettato a terra e poi l’aveva morsa con quello che le rimaneva in bocca. La maestra l’aveva giustificata, i genitori dell’altra ragazzina erano stati convocati e le avevano dato una lavata di testa. Ma non era per quello che aveva smesso di chiamarla “sdentata”, i bambini sanno recepire il vero pericolo e la compagna non aveva fatto eccezione. Anche Alessandra lo conosceva, lo sentiva addosso in quel momento, avvinta nell’abbraccio della mamma che per la millesima volta le diceva
«Respira, Alessandra, respira».
Quel pomeriggio, quando la gola aveva ricevuto lo spruzzo mentolato e l’aria aveva ripreso a entrare, si era arresa e le aveva chiesto
«Perché sei sempre così buona?».
La stretta si era accentuata, ma non era quello che Alessandra voleva. Lei cercava lo scontro.
«Perché sei sempre così buona, mamma, perché sei sempre così felice? Cosa c’è da essere felici?»
Mariella Nanni le si era messa davanti.
«Hai presente quella storia delle anatre che ti ho raccontato? Di quell’uomo che è diventato la loro mamma?»
Alessandra odiava il fatto che sua madre iniziasse ogni discorso con una storiella, ma annuì lo stesso.
«Bene, tutti parlano di questa cosa, che si chiama “imprinting” portando lui, Konrad Lorenz, come esempio. Ma le anatre sono solo alcuni degli animali che imparano così, seguendo l’esempio degli altri. Ho letto un libro bellissimo che parla dei gorilla, e anche i piccoli dei gorilla imparano tutto solo osservando i loro genitori. Ma non si tratta di imitazione, stai attenta. Quello che ci viene mostrato diventa parte di noi. Se un piccolo di gorilla vede sua madre compiere atti di coraggio, per esempio opporsi al capobranco, anche lui diventerà coraggioso. E se tu, che sei nata con qualche ostacolo sul tuo cammino, vedi me, che degli ostacoli non ho paura, cosa succederà?»
La bambina strinse le labbra per non risponderle.
«Tu non sei diversa da qualunque altro animale, amore mio. E io non posso darti miglior insegnamento del mio esempio. È la natura, funzioniamo tutti così.» Le fece una carezza. «Sii il mio gorilla.»
Ma Alessandra non voleva essere il gorilla, lei voleva solo essere una bambina deturpata che si nascondeva dietro alle gonne di una madre piangente, voleva avere un padre che spaccasse la faccia ai bambini del parco, voleva vivere chiusa in una torre d’avorio e tenere tutti lontani, voleva che anche la compagna con le trecce avesse una cicatrice che le andava dal labbro al naso, voleva piangere e urlare e morire soffocata così che tutti si sarebbero sentiti in colpa, voleva che la vita ammettesse di essere ingiusta e feroce. Ma a sette anni questi sentimenti, così facili da provare, sono difficili da esprimere, quindi poté rispondere a sua madre soltanto con il silenzio e un pensiero che le si formava pian piano.
Io non sarò mai un gorilla.
La preside del liceo linguistico aveva la faccia di Alessandra Gatteschi marchiata a fuoco nella mente, sotto la categoria “peggiori elementi”, primo posto. La Gatteschi era un problema multiplo, perché apparteneva alla schiera degli intoccabili, i ragazzi con handicap (per quanto ormai il labbro leporino fosse ampiamente risolto e la protesi in bocca non si notasse per niente) ed era figlia di Mariella Nanni, uno dei membri di istituto. Aveva esaurito tutto il campionario di azioni sanzionabili, da buttare fuori dalla finestra il banco di una compagna a fare a botte in cortile, a fumare erba nei bagni. Non era stupida, anzi, col minimo dello sforzo aveva voti perfettamente nella media, se si fosse impegnata solo un po’ sarebbe stata tra le prime della classe. Ma la Gatteschi non si voleva impegnare, sembrava essersi fatta un punto d’onore di avere la peggior fama possibile. Era alta e molto magra, i capelli tinti di nero, un grosso naso aquilino e gli occhi di un colore strano, tra il marrone chiaro e il verde oliva. Dal collo in giù era una bella ragazza, forse con le mani un po’ troppo grandi, ma la faccia era un disastro. In una scuola elitaria, straripante di paninari, era il solo elemento che sembrava fregarsene delle mode. Come tutti i bulli che si rispettino anche la Gatteschi aveva un codazzo di seguaci, soprattutto due compagne della stessa sezione, Sara e Isabella, una grossa e scema e una antipatica come la morte. Quelle tre facevano il bello e il cattivo tempo, soprattutto con le ragazzine dei primi due anni, che se ne arrivavano belle fresche dalle medie. La Gatteschi incaricava le altre due di rubare loro le cose più carine e le faceva ritrovare alle legittime proprietarie affogate nei cessi o dentro un cestino dell’immondizia dato alle fiamme. Non teneva mai niente per sé e non permetteva alle altre due di farlo, non aveva bisogno di nulla, avrebbe potuto farsi comprare qualunque cosa ma non le interessava. Non le importava nemmeno di piacere ai ragazzi, con loro aveva un rapporto strano. Per un periodo era stata presa in giro, anche pesantemente, poi un giorno aveva chiesto un incontro con il più popolare di loro, un trascinatore di idioti, firmato dalla testa ai piedi. Si erano dati appuntamento nel bagno dei maschi, lei era entrata a testa alta, lui tracotante, seguito da uno stuolo di risatine. Quando erano usciti, dieci minuti dopo, lui non rideva più. Da quel giorno i ragazzi avevano preso a ignorarla e poi, con il tempo, a rispettarla. Il suo unico scopo sembrava fosse sfidare le autorità per farsi punire, ma ogni volta che le sarebbe toccata una lezione esemplare, come la sospensione da scuola, intervenivano l’elemento handicap e il nome della madre a smorzare la rigidità del contrappasso. Mariella Nanni non aveva mai chiesto nulla, in verità. Veniva convocata in presidenza, ascoltava la sequela di bravate della figlia e alla fine sorrideva e sospirava. La preside insisteva che non sarebbe stato possibile tollerare più a lungo l’atteggiamento della ragazza, insomma, ha sedici anni, bisogna rendersi conto che tra altri due sarà perseguibile penalmente, se non le mettiamo un freno adesso poi sarà troppo tardi. La madre rispondeva semplicemente
«Ha ragione»
e sorrideva. Così la figlia si beccava dei compiti aggiuntivi, le veniva negata la ricreazione, era costretta a trascorrere i pomeriggi per ricatalogare i volumi della biblioteca e il giorno dopo ricominciava come prima.
Fino a quella mattina.
Quando la bidella era entrata nell’ufficio la preside aveva capito subito che stavolta era successo qualcosa di grave, perché le mani della donna erano sporche di sangue.
«Si è fatto male un ragazzo?» aveva chiesto subito.
L’altra aveva scosso la testa.
«Alessandra Gatteschi ha rotto il naso al professor Morato.»
Il professor Morato era il più amato della scuola, un giovane vicario che faceva lezione di religione. Gli volevano bene tutti, ma proprio tutti, perché era sempre disponibile, giocava a pallone in cortile con un foglio accartocciato, ascoltava le pene d’amore delle ragazze di quinta e faceva una discreta imitazione di Jovanotti e Vasco Rossi. Della Gatteschi aveva sempre parlato bene
«Ha un gran cuore, non fatevi ingannare dai modi, è una ragazza che ha sofferto».
Tutti alzavano gli occhi al cielo, ma da Morato cos’altro c’era da aspettarsi? Era un pezzo di pane e vedeva del buono anche in un sasso. Il professore si trovava nella saletta degli inservienti, il naso sanguinava copiosamente, diversi fazzoletti imbevuti di rosso erano nel cestino accanto a lui.
«Bisogna portarlo in ospedale» aveva insistito la bidella.
La preside aveva scoccato un’occhiata alla figura seduta nel lato opposto della stanzetta. La Gatteschi sedeva composta come una brava scolaretta, un sorriso appena accennato e nessuna aria di pentimento.
«È stato un incidente» aveva detto a mezza voce Morato. «Mi sono rialzato troppo in fretta e sono andato a sbattere.»
«Non è stato un incidente» era intervenuta di nuovo la bidella. «I ragazzi mi hanno detto che lei era uscita interrogata, ha fatto cadere una penna a terra, lui si è chinato per raccoglierla e lei gli ha dato una ginocchiata proprio sul naso, lo ha fatto apposta!»
«È vero?» chiese la preside.
«Penfa che darei del bugiardo al profeffore?» fu la risposta.
Perché parla così?
e prima che la risposta più ovvia arrivasse, la Gatteschi le aveva sorriso: si era staccata la protesi e al posto dei quattro incisivi superiori aveva una voragine. Mariella Nanni fu convocata per l’ennesima volta, prese la mano della ragazza senza un rimprovero, chiedendo solo
«Quanti giorni?».
«Tre.»
«Va bene» e se la portò via.
La preside le aveva osservate andarsene insieme e si era resa conto di quanto la donna fosse magra.
Con una figlia così
aveva pensato.
Invece no.
La discussione era esplosa già in auto.
«Avanti, dimmi che ho fatto bene! Dimmi che è stato grandioso che mi levassi i denti e spaccassi la faccia al professore!»
Sua madre scuoteva la testa, sorrideva e diceva
«No, non è stato grandioso. Ma ormai l’hai fatto».
Alessandra aveva sperato che almeno quella volta sua madre si sarebbe arrabbiata, che avrebbe mollato quell’aria zen e le avrebbe tirato due ceffoni, o tagliato i viveri o rinfacciato che le stava rendendo la vita un inferno. E lo faceva, oh se lo faceva, era sostanzialmente il suo scopo principale. Ma Mariella guidava serena la sua Saab, dopo aver lasciato la farmacia in cui aveva preso la pasta per riattaccare la protesi a sua figlia.
«E quindi ti va bene anche questo. A te va bene tutto, sempre.»
«Non mi va bene, preferirei che trovassi un’altra maniera per esprimere le tue emozioni, ma se è questa allora pazienza.»
«Io non sto esprimendo le mie emozioni, io spacco la faccia alla gente. Non tutto ha una spiegazione elevata e morale, a volte la merda è solo merda, la pesti e puzza.»
«D’accordo allora» aveva sospirato Mariella. «Se merda deve essere, merda sia.»
«Oddio, mi fai impazzire!» tuonò Alessandra. «Ma non ti rendi conto di essere ridicola? Quelle in cui credi tu sono stronzate. Non c’è niente di nobile in quello che faccio o in quello che sono! Io non diventerò buona solo perché tu sei buona, non sarò una persona dedita, retta e onesta perché lo sei tu. Io non sono te! Non c’è nessuno di più lontano da te!»
«Non è vero, tesoro. Tu sei buona, hai un gran cuore, io lo so.»
«Ma Cristo santo, mi sembra di parlare con una deficiente, cazzo! Io sono cattiva, lo sanno anche i sassi! Ho preso dall’altro ramo della famiglia, da quello stronzo che ci ha mollate tutte e due!»
«Tuo padre non è cattivo, tesoro, è solo debole. Tu invece sei forte, e lo sai.»
«E tu lo sai a cosa mi serve la forza? A mettere sotto gli altri! E perché? Perché meno sempre tutti? Perché fumo?»
«Fumi?»
«Sì, fumo!»
«Non ti fa bene all’asma fumare. Scegli qualcos’altro di trasgressivo, se proprio devi bevi, ma il fumo no.»
«Mi piace proprio perché mi fa male. Perché fare male, a me o agli altri, è la cosa che mi riesce meglio! Io non sono come te, e non voglio assomigliarti.»
«Tu mi assomigli già.»
«NON È VERO!»
«Capisco benissimo che trovi la cosa irritante, ma è così. E non puoi farci niente, perché è la tua natura, sei quel che sei tuo malgrado.»
«NON È VERO!»
«E lo sarai sempre di più, diventerai una donna meravigliosa, perché hai tanto, delle risorse enormi che ti aiuteranno ad affrontare qualsiasi cosa.»
«NON È VERO! SMETTILA!»
«Io la smetto, ma non per questo le cose cambieranno.»
Aveva iniziato ad accostare, anche se erano ancora a dieci minuti da casa.
«Sono tutte balle che ti racconti, questa cosa dell’imprinting è una stronzata, come le altre faccende animaliste! Gli animali non sono migliori degli uomini, siamo tutte bestie, tanto quanto.»
«Sono perfettamente d’accordo, per fortuna è così» sorrise Mariella, e spense il motore.
«Io non sono un cazzo di gorilla! Sono il tuo peggior fallimento, con me hai sbagliato su tutta la linea!»
«Come vuoi, tesoro, ora calmati, la nostra non è una gara.»
«Ma mi ascolti? Sto dicendo che io ho ragione e tu hai torto!»
«Ho capito, Alessandra.»
«Devi ammetterlo! Io ho ragione e tu hai torto!»
«Va bene.»
«IO HO RAGIONE E TU HAI TORTO!»
«No, amore. Io ho il cancro.»
Nell’auto calò il silenzio.
«Ma non ho paura, perché so che ce la farai benissimo, perché ho fatto in tempo a prepararti e sei esattamente come speravo che diventassi. Anche se sbraiti e fai un mucchio di sciocchezze per dissimularlo, ma del resto è proprio una cosa che appartiene alla nostra specie.»
Le accarezzò il viso oblungo, bagnato dalle prime lacrime di una lunghissima serie.
«Tu sei il mio gorilla.»
I primi due mesi furono terapie in ospedale. Poi decisero tutti insieme che era inutile accanirsi, la forma era troppo aggressiva, lo stadio avanzato, meglio che rimanesse a casa. Alessandra usciva da scuola, prendeva due autobus e tornava a casa, tutto il contorno era sparito. Da quel giorno non si era più tolta la protesi, aveva smesso di fumare, usava regolarmente il nebulizzatore e nessuno era stato picchiato. Quello che le stava succedendo era noto all’intero istituto, ma lei della pietà non se ne faceva niente. Presero due infermiere, una per il giorno e una per la notte. Dopo tre settimane la seconda venne mandata via perché Alessandra le aveva detto che la madre preferiva affidarsi a una professionista con esperienza ospedaliera. Quella del giorno fece la stessa fine con l’inizio delle vacanze estive. Alla sorella e al cognato di Mariella la nipote chiese di non passare, perché l’agitavano troppo. Ci volle diverso tempo e i sospetti di tutto il parentado per capire che la ragazza aveva mandato via tutti e si occupava da sola della madre, dall’igiene personale ai massaggi, dalla somministrazione dei farmaci allo svuotamento della padella. Provarono ad alzare la voce, non si poteva affidare una malata terminale a una ragazzina di sedici anni, ma Alessandra li sfidò a chiamare un medico per dimostrare che non stava facendo le cose esattamente come andavano fatte.
«Lasciatela stare» bisbigliava Mariella. «Sta uscendo dalla crisalide.»
Sopravvisse fino alla fine di agosto, le labbra secche, gli occhi infossati, le costole che sporgevano sempre più, eppure non rinunciava a raccontare storie alla figlia, trascinate fuori dalla gola con la voce stentata.
«Una volta avevano sequestrato un cane cattivissimo a un padrone ancora più cattivo, e siccome nessuno lo voleva ed era destinato a essere soppresso lo aveva preso un prete. Il cane era così feroce che sbranava chiunque gli si avvicinasse, così il prete lo teneva in giardino, legato, con un lungo bastone attaccato al collare così che non fosse necessario avvicinarsi. Tutti i giorni il prete gli portava da mangiare e il cane cercava di saltargli addosso, ma grazie al bastone non gli riusciva. Al prete dispiaceva per il cane, così, dopo un po’ di tempo, aveva deciso di sostituire il bastone con una catena corta. Il cane cercava comunque di saltargli addosso, ma lui gli spingeva vicino la ciotola con una scopa e non si avvicinava. Passati altri giorni il prete aveva deciso di allungare la catena, così facendo lui non poteva muovere che pochi passi in giardino, ma il cane se ne andava in giro. Alla fine il cane si era placato, non gli abbaiava più, lo ignorava quando gli portava il cibo, e il prete aveva deciso che sarebbe bastato essere molto prudente quando fosse uscito, così lo aveva liberato. Finché un giorno aveva aperto la porta sul giardino, con la ciotola in mano, e non aveva visto il cane. Subito si era preoccupato ed era uscito, solo di qualche passo. Aveva sentito un rumore alle sue spalle e aveva capito subito che era troppo tardi. Il cane lo aveva buttato a terra con un salto e istintivamente il prete si era coperto il viso con le braccia. Aveva sentito il naso del cane addosso, sul collo, sulle mani, e poi una leccatina sul mento. Allora lo aveva abbracciato piangendo, e aveva detto: “Hai capito, hai capito”.»
Arrivata a questo punto stringeva con le poche forze rimaste la mano di Alessandra.
«Quindi tu sei il prete e io sono il cane. E pensi che sia stato sufficiente trattarmi con amore e gentilezza perché io imparassi a essere amorevole e gentile» aveva concluso la figlia.
«È più di questo. Tu sei più di questo.» Gli occhi erano velati, come se nemmeno la vedesse più. «Ora che hai imparato, insegna.»
Non erano state le sue ultime parole, ma erano quelle che Alessandra avrebbe ricordato per sempre. Prima di avvisare tutti aveva dormito un’intera notte abbracciata al cadavere, lasciando scivolare via da sé tutta la rabbia. Legalmente sarebbe toccato a suo padre occuparsi di lei, ma si fecero avanti solo gli zii. Alessandra fece loro un discorso lucido e sensato che li convinse a supervisionare la situazione ma a lasciarla sola a casa. Mancavano solo un anno e quattro mesi alla maggiore età. Al funerale salì al leggio per fare un discorso su quanto sua madre fosse troppo lieve per rimanere su questa terra, poi scese, sedette in prima fila e fissò suo padre, seduto in disparte, finché non lo costrinse ad alzarsi e andarsene. Completò gli ultimi due anni di liceo con una buona media, il giorno dopo il diploma mise in vendita la casa e svincolò i soldi che sua madre aveva messo via per lei. Entrò come volontaria a Greenpeace, trascorse due anni con loro e rientrò con la convinzione che lavorare su vasta scala non servisse a molto. Poteva essere più di aiuto se contestava gli allevamenti di polli in batteria a casa sua che sventolando una bandiera su una nave. Entrò a far parte di una serie di associazioni animaliste che si costituivano e scioglievano come niente, rimase in un rifugio calabrese per sei mesi e poi prestò servizio in un canile-lager per due anni. Più passava tempo con le bestie e più capiva che il problema erano gli uomini. Accarezzò l’idea di una laurea in veterinaria, poi scelse di sfruttare la sua rete di conoscenze per costruire ponti tra teste che la pensavano diversamente. Fece tanti lavori, prendendo prima in affitto una casa a Imola per poi spostarsi a Pistoia, finché, grazie anche alla conoscenza di tedesco e inglese, non venne assunta come stagista per una ditta che commerciava in materiale veterinario, la CO.LI.SAN, vicino a Firenze. Lì dentro fece carriera, occupandosi di forniture per gli enti nazionali e le guardie forestali. Comprò un appartamento in periferia e un’Opel Astra Station Wagon di seconda mano con i tergicristalli che cigolavano, che attrezzò per il trasporto animale, collaborando come staffetta per vari gruppi animalisti, italiani e non, legali e non.
Come sua madre era diventata assoluta, onesta a ogni costo, pronta a contrastare le leggi degli uomini in favore di quelle della natura.
A differenza di sua madre, non sorrideva mai.