3 dicembre 2012
Alex era abituata a prendere decisioni rapide, ma quella era una decisione troppo grande e il tempo era troppo poco. Domenico era pericoloso, probabilmente armato e stava arrivando al capannone. Aveva pensato di ripartire subito, ma non sapeva dove si trovasse Domenico, e se fosse stato a due chilometri da lì? La strada era stretta, se lo sarebbero trovato davanti. Potevano restare nascosti e aspettare che se ne andasse, ma chi le garantiva che non avrebbe pensato anche lui a parcheggiare l’auto sul retro del capannone? C’era un altro posto dove nascondersi? Non aveva visto sentieri oltre a quello che avevano percorso. Vagò con lo sguardo sul pavimento in cemento, concentrata ad ascoltare rumori che potessero venire da fuori. Niente.
«Va bene, cerchiamo di stare calmi. Come li droga, questi due?»
«Gli spara.»
Sollevò la testa, sorpresa.
«Gli SPARA? Col narcotico? Quello che usa nei boschi?»
Le tornarono in mente le richieste per tutte quelle munizioni sottobanco.
Ecco perché, altro che spostare gli orsi.
Era quasi ammirata dalla follia di questa cosa. Lucio annuì.
«È qui il fucile?»
Il ragazzo corse a frugare dentro una delle altre gabbie e le porse l’arma. Alex la prese, gli occhi fissi sulle sbarre.
«Ma da dove arrivano questi? Sono carrozzoni da circo, di quelli che viaggiavano su binari, no? Devono essere vecchi.»
Lucio scrollò le spalle.
«Forse» tentò «papà ha capito che sono qui con te e non verrà.»
Lei sorrise amaro. Domenico Donadio non era uno che scappava, se esisteva una persona con il delirio di onnipotenza era lui.
«Siamo in due, lui è uno» improvvisamente decise. «Lo aspettiamo e lo fermiamo.»
«Alex,» Lucio le si aggrappò addosso «se lui arriva mi ci chiude davvero, in una gabbia.»
«Col cazzo» aveva concluso lei.
E prima che potessero dirsi altro sentirono da lontano il rombo di un motore.
Il rumore dell’auto era stato l’unica alternativa a vento e uccelli, in quella campagna vuota e malevola. Alex aveva spinto Lucio in uno dei carrozzoni, quello più lontano dalla porta. Il ragazzo si era piegato in due solo all’idea, certo che non ne sarebbe mai più uscito, e allora lei aveva trovato un modo per rassicurarlo. Le sbarre scorrevano di lato, le aveva aperte e aveva infilato un pezzo di corda nel binario così che anche volendo non si potessero più chiudere. C’era un grosso telo a spiovere su quella gabbia, sarebbe bastato che lui si rannicchiasse dietro e sarebbe stato invisibile.
«Penso io a tuo padre, ci parlo io.»
«Non puoi parlarci, è inutile, lui non ascolta nessuno, è andato troppo in là.»
Lucio era terrorizzato, batteva i denti, si era morsicato l’interno della guancia e spruzzava sangue.
«Devi stare attenta o rinchiuderà anche te. Se rinchiude anche te io impazzisco.»
Alex cercava di restare calma, si era infilata in bocca il nebulizzatore e aveva ricacciato giù l’asma mentre valutava se arrampicarsi sopra uno dei carrozzoni. Molti avevano dei ghirigori intorno, pieni di buchi da cui spiare, altri avevano dei pannelli con su scritte incomprensibili, c’era modo di nascondersi. Ma alla fine scelse di aprire il retro di una delle gabbie e issarsi dentro per metà, che non le si vedessero i piedi a terra ma potesse uscirne velocemente. Lucio le aveva detto di tenere il fucile, ma lei lo aveva rimesso a posto.
«Se ne accorgerebbe subito.»
Aveva però preso delle munizioni, piccole siringhe di narcotico che conosceva benissimo, ne aveva vendute a centinaia. Il fuoristrada di Domenico si era fermato lì davanti, grattando sulla ghiaia, e lui era sceso.
È come un film, ora entra e fa un discorso ai suoi prigionieri, oppure ci canta una canzoncina dicendo che verrà a prenderci.
Invece Domenico era entrato, aveva bloccato la porta e aveva iniziato a scaricare delle cose dal fuoristrada, senza degnare i suoi prigionieri nemmeno di uno sguardo. Acquattata nell’ombra, Alex lo vedeva andare e venire solo attraverso quattro delle sbarre del carrozzone, e man mano l’irrealtà di quella situazione iniziò a farla sentire distaccata, come se non stesse succedendo a lei. Era solo Domenico, solo quel matto di Domenico Donadio che aveva fatto due prigionieri, credendosi chissà che. Sarebbe bastato portare lì due poliziotti e mandarne altrettanti a casa sua, lei avrebbe passato qualche guaio per le forniture sottobanco, forse avrebbe addirittura perso il lavoro, ma Lucio sarebbe finalmente stato libero, nessuno lo avrebbe accusato, con un padre del genere, sai quanti testimoni a favore avrebbe trovato? Ma mentre la sua mente razionalizzava la situazione al massimo, Alex non si muoveva, non faceva rumore, sospesa su se stessa, gli occhi sul pugno destro stretto.
Quanto è grande la mia mano.
Era grande, la pelle ruvida, le unghie corte, le giunture perfino un po’ nodose.
Sembra la mano di un uomo.
Era una considerazione che non si portava dietro nulla, nessuna amarezza. Tra quelle dita la siringa con il liquido verde sembrava minuscola, un gessetto, un pastello a cera. Domenico aveva finito di scaricare e aveva chiuso la porta. Uscì dalla visuale limitata di Alex e iniziò a trafficare con le cose che aveva portato. Carta che si strappa, qualcosa di pesante che viene spostato, un tintinnio. Poi lo scatto noto del fucile che veniva caricato. E tutto cambiò.
Lucio!
Era una paura insensata, Domenico non aveva detto niente, non aveva canticchiato con la voce di Jack Nicholson, non aveva fatto il giro del capannone, ma il panico che risalì in Alex non aveva nessun aggancio con la realtà, era figlio puro dell’istinto. Scese a terra e si piegò fin quasi ad appoggiare la testa sul pavimento. Le gambe di Domenico erano oltre due gabbie messe parallele, quella di Lucio molto più indietro, ma i piedi dell’uomo si muovevano nella direzione giusta. Si fosse trattato solo di lei forse Alex avrebbe messo insieme una strategia, invece si rialzò e camminò verso il punto da cui sarebbe spuntato, una fiala di narcotico per mano. Domenico si fermò, l’aveva sentita, Alex girò oltre l’angolo di un carro e non fu per niente come in un film. Domenico la guardò sbigottito, il fucile in mano e nessun accenno a sollevarlo. Disse
«Oh, quel coglione»
e Alex gli fu addosso, una mano alzata con la siringa pronta. Domenico le sbatté contro la pancia la canna del fucile e le afferrò il polso per bloccarla. Alex non riusciva a respingerlo, però lo teneva a bada.
Sono forte come lui.
Chi l’avrebbe detto che sono così forte.
Con la mano libera cercò di conficcargli una siringa nel collo, come aveva visto fare in Dexter, ma non era possibile, e allora gliela iniettò tra il fianco e l’ascella, in un punto ibrido. Nei film l’effetto dei narcotici è immediato, la realtà raccontava un’altra storia, prima c’era l’intorpidimento, poi la confusione, la perdita di equilibrio, ci voleva qualche minuto perché
la persona
l’animale si addormentasse. Domenico mollò il fucile ma non smise di lottare, prese con due mani il polso di Alex, che impugnava l’altra fiala, riuscì a fargliela cadere, poi barcollò, tirò un’enorme boccata d’aria, un rutto all’incontrario, quindi cadde sulle ginocchia e istintivamente lei lo sorresse. Lui le si aggrappò al bordo dei jeans, ancora forte, le alzò contro uno sguardo pieno d’odio e Alex si buttò a terra per riprendere la seconda fiala. E mentre era lì che l’afferrava sentì il rumore di metallo che striscia per terra
CAZZO, IL FUCILE!
e pensò fuggevolmente che era proprio una maniera cretina di morire. Poi si voltò e vide Lucio che teneva in mano l’arma e premeva il grilletto contro il padre.
Non successe niente.
Lucio premette e premette, mentre Domenico le stramazzava addosso, come a voler compiacere il gioco infantile del figlio.
Non era carico. Mi sono sbagliata.
Pensava che fosse finita lì. E non capì perché il suo ragazzo, il suo principino dolente, la candida vittima dell’uomo che le stava bloccando le gambe con il peso del corpo girasse il fucile, lo tenesse per la canna e lo sollevasse in aria. Il primo colpo prese la testa di Domenico solo di striscio, il secondo la centrò sulla nuca, il terzo più in alto, e non ci fu un quarto perché Alex si mise a sedere e, ancora bloccata, si piegò col busto sulle spalle dell’uomo gridando
«BASTA! BASTA!».
Nei film fanno grandi discorsi, anche mentre lottano, si sparano, muoiono. Ma i film non sono la realtà, e nessuno di loro, Domenico compreso, avrebbe mai creduto che
«Oh, quel coglione»
sarebbero state le sue ultime parole.
C’era un avvallamento nel cranio di Domenico Donadio che non avrebbe dovuto esserci. Alex afferrò il fucile per il calcio e lo lanciò lontano.
«Ma perché lo hai fatto? Ti avevo detto che ci avrei pensato io, lo avevo narcotizzato!»
Lucio restava a guardarli, svuotato, come un pupazzo.
«Non mi avrebbe mai lasciato in pace. Non ci avrebbe mai lasciati in pace. Lui non lascia in pace nessuno.»
Alex si sfilò da sotto il corpo di Domenico e controllò se respirasse. Era vivo.
«Se fosse sveglio si lamenterebbe, farebbe qualcosa, ma così non si capisce. Come devo metterlo? Qual è la posizione?»
Lucio non rispondeva.
«Lucio, perdio! Sei tu l’infermiere, come devo metterlo perché non si soffochi con il suo vomito?»
Senza accennare un gesto, Lucio le diede le istruzioni per la posizione laterale di sicurezza e Alex la eseguì. Ora bisognava prendere una decisione.
«Dobbiamo portarlo in ospedale.»
«Se lo porti in ospedale finisco in prigione.»
«Diremo che è stata legittima difesa. Racconteremo di questo posto, di quello che faceva, diremo che mi hai portata qui per farlo smettere, che poi è la verità, no?»
«Non ci crederanno che non ero d’accordo.»
«Crederanno a me.»
«Davvero?»
Lucio le aveva rivolto uno sguardo pieno di cinismo, un cinismo che non riguardava lei ma il mondo intorno a lei.
Chi crederebbe alla fanatica animalista con il labbro leporino, brutta, sgraziata, coi capelli tinti di rosso, che si scopa un uomo più giovane di quattordici anni?
Aveva ragione, ed era una verità che faceva meno male del previsto, ma non aiutava a trovare una soluzione.
«Non possiamo lasciarlo così. E anche gli altri due non li possiamo lasciare rinchiusi lì. Dobbiamo liberarli.»
«Se li liberi moriranno. Non sanno vivere fuori da qui. Lui li ha scelti apposta, li ha scelti perché potessero rimanere i suoi giocattoli per sempre.»
«Ma tu lo sai chi sono? Sai almeno dove li ha presi?»
«No.»
«E allora molliamoli davanti a un ospedale, se ne occuperanno i medici.»
«Se tu li porti in ospedale allora devi portarci anche mio padre, e se porti mio padre in ospedale verranno a prendermi, e tu lo sai cosa mi faranno in galera, tu la vedi la mia faccia, sai cosa faranno alla mia faccia, ai miei denti, al mio cazzo e al mio culo, tu lo sai.»
Alex lo guardava tremare, la saliva che gli usciva tra i denti come una leggera schiuma.
«E allora qual è la tua soluzione? Cosa mi stai chiedendo, Lucio?»
«Uccidiamoli tutti e andiamo via. Andiamo via io e te, all’estero. Mio padre ha dei soldi nascosti, ma anche senza soldi, anche senza niente andiamo via, andiamo via io e te.»
Alex si sentì morire dentro
amore mio, quanto c’è da riparare
e gli fece una carezza.
«Lucio, noi non uccidiamo nessuno.»
Le afferrò il polso, si strinse la mano contro la faccia.
«E allora sono fottuto, allora faccio prima ad ammazzarmi.»
Alex si sentì presa in mezzo, come in una tenaglia. Ecco dove andava a finire la sua onestà a ogni costo, ecco i saldi principi, si passava sopra a tutto nel nome della giustizia, ma se sotto le ruote avevi il tuo ragazzo vedevi come cambiava. In tutto quel delirio una cosa sola le andò a fuoco come definitiva: se Domenico fosse morto per Lucio sarebbe stata la fine, comunque, in ogni caso. Avrebbe anche potuto portarlo via con sé, all’estero, in capo al mondo, nasconderlo in un buco, ma la consapevolezza di avere ucciso suo padre avrebbe distrutto il buono che c’era in lui, e c’era, Alex lo sapeva.
Sempre se non lo prendono.
Perché anche quello che gli succederebbe se lo prendessero è vero.
Si aggrappò di nuovo alla razionalità.
«Hai detto che tuo padre teneva qui dei farmaci, che ti ha chiesto di prenderli dall’ospedale per tenere in vita queste persone anche contro la loro volontà.»
Lucio annusò la speranza e annuì.
«Sono qui dentro? Li ha qui da qualche parte?»
«Sì, in uno degli scatoloni.»
Alex lo guardò fissa, uno sguardo che non ammetteva repliche.
«Non deve morire. Al resto penseremo poi, ma non deve morire.»
Lucio abbassò gli occhi.
«Posso curarlo io.»
E scoppiò a piangere, voltandole le spalle per andare a prendere le medicine.
Non piange per il rimorso, piange all’idea di dover aiutare suo padre.
Dio, quanto lo odia.
Lei si mosse per andare in cerca di un posto dove metterlo, non potevano lasciarlo lì per terra. Delle gabbie vicine ce n’era una verde, bassa e lunga, mezza coperta da uno dei teli. Alex lo tirò giù, scoprendo la scritta
крокодил
che lingua è, russo?
cercando a tentoni il meccanismo per aprirla. Era sul retro, a scorrimento.
Questi carri sono tutti diversi, non vengono dallo stesso posto, è una specie di collezione.
Lo ripulì dalla polvere, più tardi sarebbe tornata a Firenze per prendere coperte, lenzuola, cuscini, tutto l’occorrente per rendere l’ambiente il più sterile possibile.
Quindi hai già deciso.
Ignorò il pensiero, doveva concentrarsi sul qui e ora, Domenico doveva sopravvivere e, se si fosse ripreso, non doveva scappare.
Lo cureremo chiuso qui dentro, quando si riprende prepareremo la nostra fuga e prima di andarcene avviseremo la polizia di venire qui. Lasceremo un memoriale, se non dovessero crederci pazienza.
Le sembrava un buon compromesso, chiamò Lucio e gli chiese di aiutarla a spostare il padre lì dentro, poi gli avrebbero attaccato le flebo, e così fecero.
Da quella gabbia, Domenico Donadio non sarebbe uscito mai più.
Per due giorni non se n’era andata da lì. Aveva dato a Lucio indicazione di portar via la macchina di Domenico, lasciarla vicino alla stazione di Montevarchi-Terranuova, tornare a casa del padre e nasconderci il telefono con aperta qualche app che consumasse la batteria. Quindi rientrare al lavoro e da lì chiamarlo almeno due volte. Da parte sua lei aveva chiesto telefonicamente un permesso per malattia e glielo avevano accordato senza problemi, aveva un’infinità di arretrati. In quelle quarantotto ore aveva tenuto spesso la testa di Domenico in grembo, siringandogli l’acqua in bocca e battendogli piano piano sulla gola perché la deglutisse di riflesso.
«Una cosa sola devi fare per tuo figlio, Domenico, una, l’unica che avrai mai fatto nella vita: non morire.»
L’effetto del narcotico doveva essere passato, il dosaggio nella fiala era per animali di taglia media, cerbiatti o tassi, non per cinghiali o cervi, quindi se non si svegliava era per i colpi alla testa. Aveva attaccate delle flebo che non gli davano che un nutrimento base, Lucio aveva promesso che si sarebbe procurato di meglio, ma non aveva più un mezzo per portarle nulla, sarebbe dovuta rientrare lei, prendere nuove scorte e tornare al capannone. Aveva imparato a conoscere i due ospiti delle gabbie, cercando di capire se fossero pericolosi o meno. Di uno solo, l’uomo irsuto, Alex sapeva il nome, ricamato sul taschino della maglietta, forse lavoro delle suore di qualche istituto: GIOVANNINO. Alex aveva provato a parlarci, ma non sembrava che lui la capisse.
Era già così, non ci è diventato. Una di quelle che Domenico chiamava “tare della razza”.
Stesso risultato per la donna cieca, con la differenza che probabilmente lei non era sempre stata così, aveva ancora degli atteggiamenti, soprattutto avversi, dettati dalla volontà. Non parlava, non capiva, ma ad Alex sembrava una scelta. Bloccando la porta e tenendo il fucile a portata di mano aveva provato ad aprire la gabbia a entrambi. Lei non si era mossa, ribellandosi a quel cambiamento con una serie di colpi che dava alle pareti di metallo del suo carrozzone, lui invece era sceso subito, mite come un bambino, e aveva iniziato a camminare a grandi falcate in giro. Alex non aveva granché da dar loro, si era allontanata solo una volta per fare rifornimento in un supermercato di Sassuolo, non fidandosi a farsi vedere nei paesi più vicini, e aveva preso lo stretto indispensabile. A Domenico aveva siringato in bocca un po’ di omogeneizzato diluito, agli altri due aveva dato tonno in scatola, pane e banane.
Andrebbero lavati, ne hanno parecchio bisogno.
Ma una cosa simile non poteva farla, avrebbe significato troppe cose.
Aspetto solo che Domenico si riprenda. O che peggiori. O che muoia. Tutto il resto viene dopo.
Tornata a Firenze aveva preso i farmaci di Lucio, altre coperte, lenzuola pulite, per quanto assurdo e ipocrita le sembrasse.
È dentro a una gabbia, a che gli servono le lenzuola?
Il ragazzo le era sembrato provato, era quasi venuto il momento di telefonare al corpo della guardia forestale per sapere se suo padre fosse stato richiamato per una consulenza, visto che non gli aveva risposto al telefono e che a casa non c’era, ma lei era titubante, non sapeva se avrebbe retto alla tensione.
«Tuo padre lo faceva, di andarsene in montagna per conto suo anche per una settimana intera. Aspetta, ora come ora la tua preoccupazione suonerebbe come un eccesso di zelo. E se qualcuno si accorgesse che sei teso di’ che avete litigato e basta, crederanno anche a questo.»
Tornata al capannone aveva trovato Domenico con gli occhi aperti
«Era ora, ci hai fatto ammattire»
e per un attimo aveva sperato che tutta quella situazione si potesse infine risolvere con due cerotti e una chiacchierata. Ma Domenico non le rispondeva, non si muoveva, si faceva tutto nel pannolone che gli aveva messo e la fissava senza vederla. Dunque non era morto ma nemmeno si poteva dirlo vivo. Era in un limbo, una via di mezzo che lo incatenava a lei.
Ha bisogno di assistenza continua, se voglio che sopravviva non posso andarmene.
Di nuovo pensò di portarlo in ospedale, di nuovo scartò l’idea, pensò di fare una segnalazione anonima, ma chissà quante impronte e quanto dna c’erano lì dentro, e forse alla polizia sarebbe bastato tracciare il cellulare di Domenico, e poi quello di Lucio e poi il suo.
«Siamo in trappola. Hai visto? Non ti serviva nessun carrozzone, ci hai messi in trappola lo stesso» aveva detto a quello che restava dell’uomo, e lui le aveva guardato attraverso, gli occhi vuoti.
Si era concessa un quarto d’ora di disperazione
è una punizione, deve esserlo, per forza
poi era uscita per snebbiarsi la mente. Aveva camminato verso il boschetto, lo aveva attraversato riprendendo contatto con il mondo, era sbucata davanti a una foresta di gelsi, l’aveva fiancheggiata e là in fondo, tra i campi incolti e le piante, aveva visto una costruzione. Aveva fatto fatica a raggiungerla, quel che rimaneva del sentiero era dal lato opposto, infestato di erbacce. Era un vecchio cascinale diroccato, una parte del tetto era crollata e un’altra aveva ceduto piegandosi in avanti su quello che un tempo doveva essere un fienile. Alex ci era girata intorno, era entrata e aveva assaporato quella sensazione di fresco umido delle vecchie costruzioni in pietra. Non entrava quasi luce, se non dal tetto, le finestre erano state tappate da anni di abbandono e di crescita selvaggia di piante e cespugli.
Non è un brutto posto.
Dicevano sempre che non si doveva entrare nelle strutture cadenti perché ti sarebbero potute crollare in testa, ma perché proprio in quel momento, dopo aver resistito a temporali, nevicate, vento? Sedette per terra e cercò di ridurre le ipotesi a due soltanto.
Uno: io e Lucio scappiamo, facciamo trovare Domenico e gli altri due ma ce ne andiamo all’estero, sperando che non ci prendano mai. Per fare questo abbiamo bisogno di soldi, documenti e un posto sicuro in cui rifarci una vita.
Due: ci occupiamo di Domenico e degli altri due esattamente come si fa con un parente disabile, ci organizziamo, facciamo dei turni e la viviamo come una qualunque vita di volontariato, non è diverso dal gestire un canile.
Nessuna delle due era una vita comoda, nessuna delle due era un sogno realizzato, ma questa era la situazione. Un’ipotesi, poi, non escludeva l’altra. Avrebbero potuto occuparsi del capannone fintanto che non mettevano via i soldi, preparavano dei documenti falsi e studiavano un piano di fuga che assomigliasse a un’aspirazione, qualcosa a cui pensare sorridendo.
Ci prendiamo un paio di mesi, gestiamo il capannone e organizziamo tutto.
Ora si sentiva meglio, quel posto le aveva fatto bene.
È anche vicino al capannone, potremmo usarlo come base.
“Base” per cosa restava fumoso, evitò di pensarci tornando indietro, la mente sgombra pronta ad accogliere una novità positiva: Domenico si era messo supino, da solo. Poteva muoversi, e se poteva muoversi era possibile che riuscisse anche a mangiare.
Due mesi, forse uno e mezzo.
Invece durò quasi sei anni.