4 aprile 2015

Giulio diventò la nuova vittima preferita di Lucio. Chiedeva ad Alex dei turni in più solo per tormentarlo. Andava dietro al suo carrozzone e lo colpiva per svegliarlo di notte, lo punzecchiava con la lancia, a volte gli buttava addosso dell’acqua solo per il gusto di bagnare la paglia con cui avrebbe dovuto tenersi al caldo, visto che era inverno inoltrato. Alex interveniva tutte le volte che poteva, perché Giulio era già difficile da gestire senza tutte queste cazzate. Non aveva il fisico per stare in gabbia, non riusciva a mettersi mai in posizioni comode, piangeva, si lamentava, chiamava la mamma e le faceva pena. Una volta una delle piaghe che gli si erano formate sul sedere si era infettata, aveva avuto la febbre, lei gli aveva fatto prendere troppi antibiotici, basandosi sul peso, e quasi lo aveva ucciso per la dissenteria. Gli altri prigionieri non lo aiutavano, Karina e Giorgio lo ignoravano, Nicola rideva di lui. Non stava andando per niente come aveva sperato, nella sua testa quella situazione avrebbe dovuto avvicinare i prigionieri, non allontanarli.

«Anche se non mi vedono è impossibile che non abbiano capito il principio per cui sto facendo tutto questo» diceva a Lucio, tormentandosi le mani.

«E come fanno a capirlo? Sono delle merde, la feccia della società, è per questo che li abbiamo presi.»

«Ma possono migliorare, con il giusto esempio, esattamente come accade ai gorilla.»

«E se nessuno di loro fosse un gorilla? Se non lo fossi nemmeno tu?»

Era stato cattivo, si era pentito subito, le aveva chiesto scusa, ma ormai era fatta. Il seme di quel dubbio si era insinuato in Alex già da tempo, lei non aveva le granitiche certezze di sua madre, non aveva mai sentito di avere la verità in mano.

Tranne una volta.

E sempre a quella notte di tre anni prima tornava, quando era davvero a terra e dubitava del proprio ruolo, a un gruppo di scalmanati che vogliono cambiare il mondo e al loro leader. Così di nascosto andava a vedere Saverio.

Posso essermi sbagliata così tanto?

Lo aveva osservato per settimane, mesi, anni. Faceva sostanzialmente sempre le stesse cose, ciondolava nel negozio in cui lavorava come commesso, ciondolava nel retro del negozio quando era chiuso, ciondolava in giro con i suoi amici, la sua fidanzata, il suo cane. Alex non si era più avvicinata e si riservava ipotesi che preferiva non formulare.

Non devo avercela con lui, è solo un poveraccio.

Non voleva ingannarmi, ho fatto tutto da sola.

Eppure restava ancorata alla convinzione di aver visto qualcosa in lui, quella notte, qualcosa che non era riconducibile solo allo sballo, all’eccitazione del momento, qualcosa che veniva da un luogo più profondo.

Una vocazione.

Parolona. Eppure.

Io l’ho vista.

Prima se n’era tenuta lontana perché si vergognava di quella fantasticheria romantica, poi perché si era arrabbiata con se stessa, poi perché era arrivato Lucio. Una parte di lei aveva cercato di minimizzare, Saverio non era mai stato davvero importante, l’idea che si era fatta di lui, quella sì, aveva avuto peso. Ma non era del tutto vero, e se si segue la legge dell’onestà a ogni costo allora la cosa andava ammessa, almeno con chi aveva il diritto di saperla. Così una sera, rientrando dal capannone, in un momento in cui si era sentita particolarmente stanca, aveva confessato tutto a Lucio.

«Qualche tempo fa mi sono innamorata di un tizio. In realtà non lo conosco per niente, ma abbiamo fatto un raid, sai quella cosa del Mombello? Era lui a guidarci. E quella sera io l’ho visto come un eroe, un condottiero, un puro, hai presente? Pensavo ci fosse stato uno di quei contatti tra spiriti affini, ci ho ricamato un po’ su, poi l’ho incontrato di nuovo e lui nemmeno si ricordava di me. Ma qualche volta vado a vedere cosa fa, perché spero di vedere ancora qualcosa di buono in lui. Però non è importante, solo volevo che lo sapessi.»

Lucio non aveva risposto subito, guardava la strada di campagna che si srotolava davanti a loro con aria assente. Alex lo conosceva abbastanza da sapere che quel silenzio significava che il ragazzo si stava caricando, come fosse stato un’arma.

«Se ha ingannato te vuol dire che ha recitato bene.»

«Non ho mai detto che stesse recitando.»

«Hai detto che non ti ha riconosciuta, un condottiero riconosce i suoi soldati.»

«Probabilmente quella sera era drogato.»

Nuovo silenzio, nuovo proiettile in canna.

«Quindi da drogato tu lo ammiravi e ti sei innamorata, invece da pulito no. Giusto?»

«Non è mai del tutto pulito, per quel che ho visto. Ma non è mai stato più così drogato.»

Altro silenzio.

«E quale dei due è quello vero? Quello drogato o l’altro?»

Alex si era presa due secondi, due di numero, perché Lucio non poteva essere lasciato in sospeso, tendeva a innervosirsi e poi si fissava.

«L’altro, purtroppo.»

L’onestà a tutti i costi la azzannò alla gola, bugiarda! Bugiarda! ma non sarebbe stata certa di nessuna delle due risposte, quello era il male minore, non era importante.

«Quindi ti sei sbagliata.»

«Immagino di sì.»

«Strano, credevo non ti sbagliassi mai.»

Il viaggio proseguì tranquillo, molte volte Alex fu sul punto di fermare l’auto, scuotere forte Lucio, rimetterlo al suo posto, che la smettesse, la smettesse di metterla in discussione, e altrettante volte ricacciò indietro l’impulso, perché se lei lo stava rieducando l’unica posizione da cui farlo era il giusto assoluto, e lei non era nel giusto e nemmeno nell’assoluto.

Saverio Bartolomei rimase tra loro da quel giorno.

Andava tutto male.

Andava tutto malemalemale, anche se no, in realtà andava tutto bene. Giulio aveva smesso di piangere di notte, le piaghe erano guarite, ma già ora si vedevano i primi risultati, nei toni, nei modi.

Forse funziona, forse funziona davvero.

Eppure Alex non riusciva più a sentirsi sicura di sé, seguendo le insinuazioni di Lucio aveva iniziato a mettere in discussione ogni propria scelta, da dove venivano le sue decisioni, quanto erano arbitrarie, quante variabili influivano sul suo comportamento. Avrebbe preso Nicola, senza quella faccenda di Jumbo? Avrebbe preso Karina se quel pomeriggio invece che al parco fosse rimasta in aula? E Giorgio, soprattutto Giorgio, quale scelta era emersa dal grembo del fato più di quella di Giorgio?

Se metto in discussione le mie scelte, però, non vale più niente.

Ma scelte quali, scelte quante, la componente di casualità era forte, troppo. Forse la sua non era una missione, forse stava diventando qualcos’altro. Si era incupita, Lucio se n’era accorto e aveva cominciato a riempirla di piccole attenzioni irritanti che non facevano che sottolinearlo. Avrebbe voluto trascorrere più tempo al capannone e invece continuavano a spedirla a destra e a manca a tenere corsi e presentare nuovi farmaci. Ce n’era uno in particolare che le interessava, aveva chiesto più volte ai veterinari di farle sapere se funzionava, perché avrebbe potuto sostituire il composto che somministrava attualmente agli inquilini delle gabbie. Meno effetti collaterali, possibilità di usarlo con maggior frequenza, scorte infinite perché lo produceva la CO.LI.SAN. Ci aveva riempito una siringa a dardo e la teneva sempre in borsa, sarebbe sembrato meno strano che avere una siringa normale, col mestiere che faceva. Lei e il dardo si facevano compagnia, ogni tanto infilava la mano tra portafogli, mentine, fazzoletti di carta e ne accarezzava il piumino verde. Era come una promessa. Marzo stava finendo, c’erano state un paio di giornate tiepide e aveva preso l’abitudine di passeggiare sul lungarno, dal lato del Terzo Giardino, prima di rientrare a casa. C’era una ragione e quella ragione portava il cane lì, durante la pausa per il pranzo in cui chiudeva il negozio. Non lo trovava sempre, Saverio, ma abbastanza spesso da voler provare. Anche quando se lo chiedeva in piena onestà non riusciva a spiegarsi perché lo seguisse ancora. Era passato tanto tempo, lui fisicamente era deperito, sciupato, spento. Aveva ancora la stessa fidanzata che lo seguiva adorante, ma di lei ad Alex non importava nulla. La realtà era che il dubbio non si era mai spento del tutto.

Cosa ho visto, quella notte?

Un ragazzo strafatto preda dell’esaltazione, diceva la logica. Non si era mai più comportato così, mai stato più pieno di vita.

Forse non riesce a esserlo da solo.

Ma no, la spinta del gruppo non bastava, frequentava anche alcuni balordi, erano andati insieme alle manifestazioni per spaccare tutto e non era cambiato.

“Quindi ti sei sbagliata” aveva detto Lucio.

E lei aveva risposto di sì, ma dentro una voce le urlava invece che no, no, era successo davvero, si erano riconosciuti, in cima a quel muro, che fosse stata la droga o una missione in cui credeva davvero, una parte di Saverio che viveva dentro di lui si era svegliata quella sera. Come un assassino dentro a una persona innocua, ma al contrario. L’eroe, il condottiero, l’anima pura dentro di lui c’era. Era lì, forse in agonia, costretta a un letargo forzato da quello schifo che erano la vita, le convenzioni, la società.

Forse se smettesse di drogarsi...

Sì, forse. Ma sembrava che a nessuno importasse, era quello messo peggio, dei suoi amici, eppure continuavano a passargli roba, a lasciarlo vivere ai margini, anche la fidanzata.

Perché nessuno ti aiuta, Saverio?

Perché nessuno ti vuole davvero bene?

Quel giorno, al Terzo Giardino, lo aveva visto guardare alternatamente il cane e il fiume, il fiume e il cane. Seduta in mezzo all’erba alta e alle sterpaglie Alex aveva tenuto stretto il dardo, le gambe pronte a scattare.

Se si butta lo vado a prendere.

Ma poi il ragazzo aveva abbracciato forte Argo, che gli aveva leccato insistentemente l’orecchio, e si era rassegnato ad alzarsi e tornare al lavoro. La sua infelicità era palpabile.

Perché nessuno la vede?

Tornata a casa non aveva detto niente a Lucio, era il primo segreto tra loro, l’onestà a ogni costo messa da parte. Aveva tenuto d’occhio Saverio con il freddo e i primi soli, assistendo a uno spreco di vita incalcolabile. Di giorno, quando Argo era con lui, si tratteneva, ma la sera, da solo in mezzo a frotte di amici, si dilaniava pezzo per pezzo. Per questo non era andata come per Nicola o Karina o Giorgio, per questo la sua anima aveva finalmente trovato modo di placarsi, perché con Saverio aveva deciso.

Se non valesse niente potrebbe anche buttarsi via.

Ma io so cosa ho visto.

Pioveva, una pioggia torrenziale come non se ne vedevano da un po’, a Firenze. Saverio era rimasto solo, i falsi amici seminati, la fidanzata a casa sua, il cane chiuso in negozio. Era uscito dal secondo bar ubriaco perso e aveva marciato verso il ponte alla Carraia, una bottiglia di birra in mano e l’assenza negli occhi. Aveva appoggiato sul parapetto il suo portafogli e poi ci era salito sopra, sbottonandosi la patta per pisciare. Alex lo aveva aspettato paziente. Poi lo aveva afferrato per la vita e tirato indietro, mentre gli conficcava il dardo attraverso la maglietta. Saverio non si era dibattuto, le era piombato addosso a peso morto e solo grazie all’allenamento del capannone lei era riuscita a rimanere in piedi. Tenendolo per la vita, la testa incastrata tra spalla e collo, lo aveva portato dall’altro lato del ponte, poi aveva chiamato Lucio. Era venuto a prenderli senza una parola, lo sguardo torvo.

«Ce ne hai messo per deciderti.»

Lei gli fece una carezza. Forse quella volta sarebbe riuscita a salvare entrambi.

Saverio aveva pianto, e pianto, e pianto.

Come tutti era stato messo con Giovannino, Greta e Domenico, ma non ne era sembrato turbato, a lui facevano impazzire le sbarre, l’idea di non essere più libero. Dopo un’intera giornata di urla e strepiti aveva iniziato a minacciare chiunque di qualsiasi cosa, compresi Alex e Lucio che lo ascoltavano da dietro i carrozzoni, scrivendosi biglietti per commentare la cosa.

«TI STRAPPO LE BUDELLA, FIGLIO DI TROIA! E POI LE USO PER IMPICCARMI! TU NON MI CHIUDI QUI DENTRO, STRONZO!»

MA HA SEMPRE FATTO COSÌ?

«TANTO NON OTTIENI NIENTE, FROCIO DI MERDA! NON TE LA DO LA SODDISFAZIONE DI SUPPLICARTI!»

NO, DI SOLITO È ABBASTANZA TRANQUILLO.

Alla fine di ogni frase Saverio faceva questo verso, “pam!”, che serviva per sbloccarsi quando iniziava a balbettare. Giovannino si era molto innervosito per il frastuono e aveva cominciato a urlare a sua volta, Greta lo aveva seguito dando grandi pugni alle pareti del carrozzone.

«OHI, ROSSO, CREDI DI FARMI PAURA, ROSSO? NON MI FAI PAURA, E NEMMENO TU, BELLA!»

“pam!”

Alex non poteva saperlo allora, ma Saverio aveva la passione per i soprannomi, ne dava a chiunque e negli anni di capannone non si sarebbe smentito. Giovannino divenne il Rosso per tutti, Greta si trasformò in Bella e la stessa sorte sarebbe toccata al suo futuro migliore amico, Giulio. Si conobbero la settimana seguente, la fragilità dell’obeso e l’aggressività del tossico si incontrarono, e invece di scontrarsi si accolsero. Giulio aveva paura di Nicola e non si fidava di Giorgio e Karina, ma Saverio gli sembrò un appiglio a cui aggrapparsi.

«Finalmente una persona normale, qui sono tutti cattivi» si era lamentato.

«Le gabbie non sono di certo un posto per buoni.» “pam!”

Dopo una settimana in cui non aveva potuto nemmeno fumarsi una canna, Saverio aveva iniziato a stare male, ma non voleva darlo a vedere.

«Non gliela do questa soddisfazione» ringhiava tra i denti.

Gli faceva male la pancia, non voleva mangiare, a volte batteva i denti e restava con le dita dei piedi sempre contratte in giù.

«Mangia, invece» lo supplicava Giulio. «Se non mangi verrai punito.»

«Voglio vedere. Voglio vedere COS’ALTRO PUÒ PORTARMI VIA, IL BASTARDO FIGLIO DI PUTTANA! NON HO NIENTE DA PERDERE!» aveva inveito Saverio, e Giulio era scoppiato a piangere, così gli aveva detto: «Sta’ zitto, pustola» e il soprannome gli era sembrato molto divertente, così lo aveva ripetuto, ancora e ancora.

Quella notte era arrivato addosso a Giulio un secchio di acqua gelata, mentre dormiva, e per la paura era andato in iperventilazione.

«È solo acqua, pustola, è solo acqua, cazzo. Magari ce l’avessi io tutta quell’acqua!»

Il giorno dopo non aveva mangiato niente e la notte la lancia era entrata nella gabbia di Giulio e gli aveva rovesciato il contenitore del cibo, sparpagliandolo ovunque e terrorizzandolo.

«Ti prego!» lo aveva supplicato il mattino dopo. «Ti prego, mangia. Comportati bene o continuerà a tormentarmi!»

«E chi se ne frega! Nemmeno ti conosco, pustola.»

Allora Giulio si era messo seduto con un’espressione da bambino disilluso e aveva detto

«Hai ragione. Questo non è un posto per buoni».

Saverio aveva resistito fino a sera. Poi aveva preso dal sacchetto che si trovava in fondo alla gabbia una manciata di riso e se l’era messa in bocca.

Quella notte Giulio era riuscito a dormire sereno.

Saverio non lo aveva chiamato più “pustola”.

Alex ne era stata felice.

Dopo i rapimenti, Alex e Lucio cercavano le notizie riguardo alle loro vittime nella cronaca locale. Su Nicola non era uscito nulla per un sacco di tempo, per Giorgio c’erano voluti due giorni, di Karina si era parlato la sera stessa anche su Teleromagna mentre Giulio aveva avuto risonanza nazionale perché la madre aveva fatto molti appelli in tv. Quando il caso esplodeva si facevano un giro nella zona insieme agli altri curiosi, ascoltando le chiacchiere e i pettegolezzi. Si parlava spesso di suicidio, e Saverio non aveva fatto eccezione. I giornali avevano raccontato di un idiota tossicodipendente che, ubriaco, si era messo a fare equilibrismi sul ponte alla Carraia e poi era caduto, o forse si era buttato. Fine, niente altro, presto le ricerche erano state sospese e la famiglia aveva deciso di celebrare il funerale con una bara vuota. Questo aveva reso Alex inquieta. Per la prima volta gli effetti delle sue azioni erano davanti ai suoi occhi, nella sua città, coinvolgevano persone che conosceva, come Marta, che l’aveva chiamata in lacrime per raccontarle l’accaduto.

«Dio, Alex, se penso che sono stata io a fartelo conoscere!»

Era stata sul punto di dire qualcosa, poi le era sembrato più prudente restare in silenzio. Passando davanti al negozio in cui abitava Saverio aveva visto la fidanzata andarsene via col cane. Era stata una delle sue remore, il riguardo nei confronti del cane.

Soffrirà.

Se gli levo il padrone soffrirà.

La scelta di Saverio di riscattare quel molosso vecchio e cieco da un occhio era stata una delle tante cose che l’avevano colpita di lui.

Un sacco di ragazzotti si prendono il cane grosso per machismo.

Ma questo poteva essere davvero una bestia pericolosa e Saverio era un uccellino spiumato, non sembrava in grado di gestirlo.

Invece l’amore tra cane e padrone era stato evidente, assoluto, intriso di devozione reciproca. Ad Argo non piacevano gli altri cani, ma se Saverio faceva la voce grossa si tratteneva. Erano stati inseparabili fino all’ultima notte e forse se il cane fosse stato con lui Alex avrebbe desistito dal prenderlo. Per tre anni aveva osservato Argo da lontano, e solo ora che il padrone era stato messo al sicuro da se stesso poteva finalmente stabilire un contatto con lui. Se qualcuno avesse parlato di canile, o peggio di soppressione, si sarebbe fatta avanti dichiarandosi vecchia amica di Saverio e lo avrebbe preso lei. Invece, a sorpresa, se l’era sobbarcato la fidanzata, quella donnina scialba e ossequiosa che trottava dietro al ragazzo con più solerzia del cane.

Non ce la farà

aveva pensato Alex quando l’aveva vista uscire dal negozio portandolo al guinzaglio. E in effetti era goffa, impacciata, sembrava non avere nessuna confidenza col cane. Così, quando era stato annunciato il funerale di Saverio, bara vuota e tutto, Alex si era detta

perché no?

Io ho fatto il danno, i cocci sono anche miei

e aveva deciso di parteciparvi con Lucio. Era nota nel mondo animalista, nessuno avrebbe dubitato che lei e Saverio si conoscessero, potevano pure essere amici per la pelle da quanto i vari gruppi non si parlavano tra loro. Si erano mescolati agli altri, facendo un cenno con la testa a Marta e alle conoscenze comuni e avevano aspettato che quella inutile cerimonia terminasse. Poi Alex era andata da lei, da quella Marilena Bacarelli vista finora solo da lontano, il viso regolare, i capelli castani massacrati in grappoli di dreadlock, le si era avvicinata dicendole quattro fesserie, ero amica di Saverio, avevamo fatto questo e quello, aveva citato il Mombello e lei, invece di dire la cosa più logica, ovvia, evidente, cioè che strano, lui a me di te non ha parlato mai, si era limitata ad alzarle addosso due occhi acquosi che chiedevano aiuto disperatamente, proprio quell’aiuto che chiedono i vitelli strappati alla mamma prima di montare sul camion, e le aveva detto

«Senza di lui io non so cosa fare».

Alex era stata presa in contropiede. Lei e Lucio al funerale ci erano venuti per altre ragioni, per il cane, per stare a vedere, in fondo era successo anche altre volte che stessero a vedere, no? Avevano assistito a false contrizioni, dolori di latta, avevano ascoltato l’eco della malvagità di coloro che avevano preso, coloro che avrebbero rieducato. Ma a quella disperazione profonda, sincera, assoluta, a quella non era stata pronta.

«Hai da mangiare, a casa?»

le era venuto spontaneo rispondere, diretta, pratica. Lucio le aveva scoccato un’occhiataccia, Alex aveva scrollato le spalle. Lena non era stata in grado di rispondere, i genitori improvvisamente accanto, il padre che cercava di condurla via con aria imperiosa.

«Ce la fai con Argo?» chiese di getto.

«Non lo so.»

«Domani veniamo a trovarti e proviamo a organizzarci insieme.»

Era cominciata così, con una manciata di parole in mezzo alla folla.

«Ma perché lo hai fatto?» aveva protestato Lucio.

«Nessuno rimpiange gli altri, lo hai visto. Giusto la madre di Giulio, ma capirai che vita faceva con un figlio simile, l’abbiamo liberata, povera donna. Ma Saverio aveva degli affetti, e la fidanzata gli voleva bene. E poi sono preoccupata per il cane. È vecchio, povera bestia, quella non so mica se ce la fa a gestirlo.»

«Ci metterai nei casini.»

Ma poi le aveva preso la mano e lei gliel’aveva stretta, mentre intorno a loro gli amici di Saverio sciamavano via verso le loro vite senza di lui.

«La mia Maria, se voi sapeste com’è la mia Maria. È bellissima, ma non fuori, cioè, anche fuori, ma è bellissima soprattutto dentro. È un’anima candida, è pulita, pura, incontaminata. Ma oh, non è mica scema, eh? È sveglia, intelligentissima, è laureata, sa tre lingue, proprio come se ci fosse nata. E i libri, non avete idea dei libri che non ha letto. La mia Maria è superiore a tutti, non solo a voi, che siete delle merde, dei rifiuti umani, lei è una spanna sopra anche a tutti quelli che conosco fuori, quelli che mi hanno preso per il culo per una vita, quegli stronzi dei miei e pure quel bastardo che ci ha presi, tutti. Se c’è qualcuno che ci tirerà fuori, quella sarà la mia Maria. Perché lei non ci crederà mai che io me ne sia andato, nossignore, lei non se la beve, lo sa che non l’avrei fatto, lo sa che non avrei abbandonato Argo così, lei mi conosce. E capirà chi è stato, seguirà ogni pista, senza fermarsi mai, la vedo già là fuori incatenata davanti a Montecitorio a tirar su un casino che metà basta, a parlare con i giornali, a fare lo sciopero della fame. La mia Maria non si fermerà davanti a niente, perché lei mi ama, non so cosa abbia fatto per meritarmelo ma lei mi ama come nessuno mi amerà mai e arriverà qui e a quel merdoso gli farà il culo a strisce e ci salverà tutti, come Rambo. È come Rambo, la mia Maria.»

Alex ascoltava Saverio farneticare, inciamparsi ogni due parole, condire di “pam!” ogni frase, la balbuzie che peggiorava o migliorava a seconda dello stress e si chiedeva

Ma di chi sta parlando?

Aveva iniziato questa tiritera della sua Maria dopo qualche giorno che si era svegliato in gabbia. Si raggomitolava in un angolo e lanciava lunghi lamenti simili ai versi di un gatto in amore.

«Mariiiiiiiaaaaaa! Mariiiiiiiaaaaaa!»

Le ci era voluto un po’ per capire che non si stava riferendo alla Madonna ma alla fidanzata, Marilena, che tutti chiamavano Lena tranne lui. Anche lei era stata colpita dalla sua fissa per nomignoli e soprannomi.

Ha una bella fantasia.

Assodato il fatto che la Maria di cui parlava non esisteva, Marilena, Lena, la fidanzata vera, era quanto di più lontano dalla sua descrizione. Debole, di una debolezza molle e senza forma, succube, smarrita, incapace di reagire e di affrontare il dolore. Dal giorno del finto funerale Alex l’aveva vista quasi quotidianamente, era stata a casa sua, l’aveva accompagnata al lavoro, le aveva insegnato come gestire il cane e mai, mai, mai nemmeno una volta Lena aveva dato prova di un barlume di nerbo.

«La mia Maria mi salverà» piangeva il ragazzo.

La tua Maria non sa nemmeno allacciarsi le scarpe, senza chiedere consiglio a qualcuno.

E non verrebbe a salvarti nemmeno se le dessi una mappa e la chiave della tua gabbia.

Saverio inneggiava a un fantasma, la sua fidanzata non si era capacitata della sua morte e se aveva avuto dubbi non li aveva mai espressi. Per quanto ne sapevano lei e Lucio la polizia le aveva fatto due domande in croce, informali, una vera e propria indagine non c’era stata, la famiglia aveva piazzato la lapide in fretta e tutti avevano fatto un passo indietro davanti a un tizio così imbarazzante da cadere da un ponte da solo.

Non ti cerca, Saverio, nessuno ti sta cercando.

Eppure lui continuava a pontificare, convinto della superiorità morale della sua donna, la sua salvatrice, la Santa.

«Lei non mi ha mai giudicato per quello che facevo, lei ha sempre visto cos’ero, vedeva me, ME, avete capito, coglioni? Me vedeva. E nessuno mi aveva visto, prima, e nessuno dopo mi vedrà mai. HAI CAPITO, STRONZO? TU A ME NON MI VEDI!»

Alex lo ascoltava strepitare, senza mai prendersela, attraversata da un brivido di inquietudine. Perché Saverio era così convinto dell’irreprensibilità di Marilena? Perché la raccontava come un’eroina ottocentesca quando avrebbe sfigurato anche come personaggio di terza fila in una telenovela? Stava mentendo a se stesso mentre magnificava il loro sogno di sposarsi ad Assisi, nella cappella di Santa Maria degli Angeli, secondo un rito mormone o quacchero o giù di lì? Erano tutte balle la scelta della canzone degli Articolo 31 Ohi Maria come inno del loro amore di cui raccontava a chiunque gli capitasse a tiro? O davvero credeva a tutte quelle balle?

Potrebbe averlo intortato lei.

Se si era fatto intortare da una simile idiota allora non c’era nulla in lui del condottiero, nessuna nobiltà, nessun potenziale per diventare un uomo migliore.

No. Io non mi sbaglio.

Se avesse messo in discussione l’elevazione di Saverio avrebbe dovuto mettere in discussione tutto il resto, e non se lo poteva permettere.

Forse è davvero una Santa.

Forse non l’ho osservata abbastanza a lungo.

Era allora che si era ripromessa di stare più vicino a Lena.

Molto, molto più vicino.

Con l’arrivo di Saverio, per Alex nel capannone tutto era cambiato. Andava e veniva più spesso, osservava le immagini, ascoltava i dialoghi, prendeva appunti. Aveva scoperto che il ragazzo aveva una cicatrice per l’unico morso che gli aveva dato Argo, e che quando sentiva la mancanza del cane se l’accarezzava pensoso. Interagiva sempre di più con gli altri, come aveva intuito era una creatura empatica, poteva berciare quanto voleva ma alla fine non era capace di danneggiare nessuno. Ogni volta che si comportava male lei colpiva chi aveva di fronte, davvero o per finta, perché Greta e Giovannino non li avrebbe mai toccati, e lui reagiva subito. Bastava un rumore forte o l’idea che qualcosa stesse per succedere e

«VA BENE, VA BENE, STRONZO, LA SMETTO! LA SMETTO!».

Quando il meccanismo era stato ben compreso e lo aveva ritenuto pronto, gli aveva lasciato il primo biglietto, scritto in stampatello

COSA VUOI FARE?

e lui si era tormentato a lungo su cosa rispondere, poi aveva ceduto davvero per la prima volta

FARÒ IL BRAVO.

Alex aveva conservato il biglietto, soddisfatta, le sembrava che il meccanismo complessivo cominciasse a ingranare. Aveva recuperato fiducia in sé, le piaceva pensarsi il gorilla, le piaceva immaginarsi prete in mezzo a tanti cani feroci. E soprattutto le piaceva occuparsi delle sue otto anime. Il momento più bello arrivava una volta alla settimana, quando tutti dormivano lei indossava le galosce, la tuta, il visore notturno, caricava il fucile con il narcotico, passava di gabbia in gabbia e sparava. Andavano addormentati uno alla volta, con metodo e seguendo un ordine ben preciso, perché potesse controllare la progressione dei risvegli nelle ore seguenti. Una volta finito preparava i secchi di acqua, gli asciugamani, il sapone, il disinfettante, i detersivi e gli spazzoloni. Poi, con le prime luci, iniziava. Apriva le gabbie di Giovannino e Greta, lui usciva cauto, gironzolava, toccava gli altri attraverso le sbarre, lei si metteva seduta per farsi lavare. Alex era pratica e metodica, così come lo era stata con sua madre più di vent’anni prima. Giulio era il più complicato da pulire, doveva occuparsi delle pieghe della pelle, le ulcere, le piaghe da decubito che lo affliggevano insieme a Domenico. Farlo da sola era una fatica immane, ma chiamava Lucio solo quando si rendeva conto che non sarebbe riuscita a stare nei tempi. Sul soffitto della gabbia dell’elefante avevano fissato un passante in metallo attraverso cui infilava delle fasce di tessuto con cui lo avvolgeva. Gli sollevava di volta in volta le gambe o il busto, lo faceva ruotare, sempre evitando di metterlo prono perché temeva che potesse soffocare. Lo lavava piano, asciugando le ulcere, cospargendolo di pomate e borotalco, facendo iniezioni di antibiotico e antinfiammatorio quando le sembrava necessario. Giulio era già molto cambiato, un po’ troppo fragile però per poter esercitare una volontà matura, aveva bisogno ancora di tempo.

«Devi saper fare da solo» diceva al suo corpo addormentato mentre finiva di raderlo.

Quando era arrivato lì camminava ancora, ma entro un anno il peso in più e l’inattività glielo avrebbero reso impossibile.

Una volta tornato a casa potrà dimagrire e recuperare la mobilità

si raccontava.

Quando la sua gabbia era richiusa si occupava dei carrozzoni, che venivano puliti e attrezzati in proporzione al comportamento dei loro occupanti. Se erano stati bravi, ligi alle regole e rispettosi allora toglieva tutta la sporcizia, dava una bella lavata con lo spazzolone e rimpinguava le scorte di cibo e acqua. Altrimenti li lasciava com’erano oppure spargeva il cibo per terra in mezzo agli escrementi, contaminava l’acqua, sceglieva alimenti che si sarebbero deteriorati in fretta, imponendo ai suoi prigionieri un ordine ben preciso di consumazione e conservazione. Partiva dai bisogni primordiali, cercava di immettere in loro l’automatismo fai bene/vivi bene, fai male/vivi male. Quando aveva finito tutto andava davanti alla gabbia di Saverio e lo guardava dormire. Non lo sfiorava mai, le sarebbe sembrata una mancanza di rispetto verso Lucio, e nemmeno gli parlava. Ma lo osservava, cercando di trovare chissà quali segnali nel suo respiro, quali conferme. Averlo lì aveva dato senso a molte cose. Nei giorni più ispirati si fermava ad attendere il risveglio di tutti in una delle gabbie vuote, la più brutta e spoglia, con le sbarre ravvicinate e fitte.

Chissà che animale ci mettevano.

Gli altri cercavano sempre di trovare una correlazione tra loro stessi e la parola scritta sulle gabbie, quando invece era solo una casualità, e questo la faceva sorridere del suo piccolo ecosistema, di cui era un dio ma anche una discepola. Si sentiva in pace, tutto stava andando come previsto.

Poi però era arrivato Vasco.