28
Verde.
Linea nera.
Scintilla.
Niente era andato come doveva andare.
Lucio si era opposto, aveva strepitato, aveva pianto. Lena era stata prima ragionevole, poi brutale.
«Se ci riusciamo Marta vivrà comunque, non dobbiamo rovesciarle tutto il contenuto in faccia, basta uno schizzo. Se invece non ci riusciamo lui ammazzerà Saverio o Alex. E non sarà misericordioso come noi.»
Ma non credeva alle proprie parole, sapeva che al rapitore di Alex non importava, e che se le cose fossero andate male avrebbe ucciso lei, non Saverio, perché non poteva permettersi di perdere il gioco. Ma Lucio non si rassegnava.
«È una cosa mostruosa da fare, deturpare una donna, la sua vita cambierà per sempre.»
«Quindi stuprarla è meno grave perché non le lascia segni?» aveva chiesto Lena, e lui aveva abbassato la testa.
Quella volta aveva pianificato tutto da sola, avrebbe dovuto verificare gli orari di Caparzo, accertarsi che non sospettasse di nulla, trovare una copertura all’hotel che le garantisse di andarsene senza che la sua assenza venisse registrata, come era accaduto la notte al Terzo Giardino. Al suo rientro, bagnata fradicia, non c’era stata una rimostranza, non una nota di biasimo da parte dei clienti, era stata via poco meno di un’ora e nessuno se ne era accorto.
Ma non posso arrischiarmi a rifarlo, anche perché da Marta dovremo andare molto prima, dopo che avrà chiuso l’ambulatorio.
La veterinaria rientrava a casa tra le otto e le nove, Lucio gliel’aveva confermato perché era andata da lui tante volte a quell’ora.
«Niente automobili, portiamo con noi i telefoni ma dobbiamo spostarci a piedi, non dobbiamo mai sottovalutare Caparzo. E procurati dei guanti, che siano spessi, non si sa mai che una goccia possa caderti sulla mano.»
Aveva avuto bisogno di una giornata intera per verificare dove si trovasse e come fosse fatto il palazzo in cui abitava Marta, si era inventata una lunga passeggiata con Argo per questo, cercando zone verdi nelle vicinanze. Aveva scelto il martedì perché gli orari suoi e di Lucio si incastravano bene e non era il giorno di visita di Marta al canile, che quando capitava poteva protrarsi a lungo in caso di emergenze. Il piano era semplice: Marta rientrava a casa, loro aspettavano una decina di minuti e poi le staccavano l’interruttore generale della luce, quello che stava chiuso nel sottoscala. Marta avrebbe prima provato ad alzare il salvavita, poi sarebbe uscita al buio dall’appartamento e lì loro l’avrebbero spinta di nuovo dentro e schizzata con l’acido.
«Fatto, due minuti e saremo fuori, lei griderà, qualche vicino accorrerà ad aiutarla e noi saremo già andati via.»
«Come ti è venuta in mente questa cosa della luce?» aveva chiesto Lucio quasi ammirato.
«Ho avuto un buon maestro» aveva risposto Lena.
Lui si era subito rabbuiato.
«Come facciamo a scappare senza auto?»
«Non scappiamo, usciamo e camminiamo, dà molto meno nell’occhio.»
Si sentiva arguta, intelligente, non era forse vero che la semplicità era sempre la via migliore?
«E se invece lei non grida? Se sviene? Se l’acido le va sulla gola invece che in faccia?»
«Tu mira bene e non succederà.»
Aveva stabilito anche questo, sarebbe stato Lucio a lanciare l’acido, non lei. C’era una doppia motivazione, la prima, quella palese, era che lui avrebbe avuto la sua ricompensa, e Lena di questo non aveva alcun dubbio, la seconda, più sottile, sotterranea, era che se le cose fossero andate storte lui aveva delle ragioni molto più solide di lei di volersi vendicare di Marta, agli occhi del mondo, in fondo si era dimostrata una traditrice, nei confronti di Alex soprattutto.
Se finiamo alla polizia addosserò tutte le colpe a lui.
Gli aveva dato appuntamento per quella sera indicandogli anche il percorso da fare a piedi, dopo aver parcheggiato l’auto nel posto che aveva scelto lei. Non c’era dubbio che se le cose fossero andate come dovevano, Alex sarebbe stata una fonte di informazioni incredibile, per lei e, in caso estremo, anche per Caparzo. Gli aveva chiesto di parlargli, era girata per casa sventolando un foglietto che diceva PUOI CHIAMARMI?
e lui si era fatto molto desiderare. Poi il Nokia aveva finalmente squillato.
«Guarda che sto lavorando pe’ tte, che vuoi?»
«Questa sera copro due ore in più, entro in hotel alle sette invece che alle nove. Vorrei parlarti, qui non sta succedendo più niente, puoi venire da me, nei garage?»
«No, stasera sto di turno. Tu devi stare buona, che ci penso io a quello che succede e a quello che non succede.»
«Porto Argo da Lucio, va bene? Non lo voglio lasciare solo a casa.»
«Fa’ come vuoi, sicuro che non ti torna più intelligente.»
E si era illusa bastasse. Perché credeva che l’ossessione di Caparzo per lei gli impedisse di vedere quanto improbabile fosse la sua premura, il suo mostrarsi pecorella da difendere, e per lo stesso principio aveva chiesto a Gianluca di sostituirla, pensando che lui dovesse sentirsi ancora in debito.
«Non dirlo a Castellacci, già mi guarda sempre come un cane rabbioso, ma ho bisogno di questa serata.»
«Stai con lui?» aveva chiesto Gianluca con un tono che non aveva bisogno di interpretazioni.
«Sì, è un momento particolare per entrambi e abbiamo bisogno di un po’ di ossigeno. Ma ti prometto che coprirò qualunque altro turno tu voglia.»
Non aveva pensato a quanto sarebbe risultata sospetta la sua assenza proprio la sera di un’aggressione, non aveva pensato che Gianluca non era suo amico, che potevano essersi trovati sulla stessa barca ma quelle foto gliele aveva fatte e con Betta ci aveva scopato “ma mi piaci di più tu”, non aveva pensato che forse non tutto quello che faceva rimaneva nascosto soltanto perché lei voleva fosse così. Aveva fatto tutto male ed era andato tutto male per questa ragione, il senno di poi le avrebbe detto.
La realtà è che tutto sarebbe andato male comunque.
Caparzo si stava preparando con calma. Nello schermo i due discutevano, inquadrati dall’unica telecamera piazzata in casa di Donadio. Non li sentiva, ma non ne aveva bisogno. Lui stava seduto, una mano che passava avanti e indietro tra i capelli, e poi sul viso, sul mento senza barba che lo faceva parere una femmina. Lei invece camminava in giro, spostava le cose, si avvicinava, si allontanava, non lo toccava mai. Avevano preso un sacchetto bianco, là in mezzo a quell’acquitrino di merda attaccato al fiume, e quel sacchetto non era più ricomparso, non era a casa di lei e nemmeno in quella di lui o dentro alle automobili.
E brava che un nascondiglio lo hai trovato.
La Bacarelli aveva contattato il rapitore, nessun dubbio. Forse si era mandata un sms sul telefono suo, che la polizia non controllava più e nemmeno lui poteva, forse si era spedita una mail, che il figlio di puttana sicuro le guardava nella posta, non aveva usato il Samsung e questa era la sola cosa che sapeva. Il Samsung stava quieto, perché chi era dall’altra parte non si fidava, e faceva bene. Aveva trovato un modo, la Bacarelli, sì, e aveva coinvolto il cazzo moscio di Donadio.
Ma non gli hai detto che sapevi cosa era successo alla bruttona sua, eh Marilè? Non glielo hai detto perché avevi troppo da perdere e capace che lui non ti veniva dietro come un cane, che è la cosa sola che sa fare.
Ci erano riusciti, pensavano di averlo agganciato, e invece Caparzo lo sapeva come andavano quelle cose, lui glielo aveva ripetuto, aspetta che è lui a fare la prima mossa, non avere tu l’urgenza, perché l’urgenza è debolezza. E la realtà vera era che era stato il figlio di puttana ad agganciare loro. Nella lista di quelli che potevano morire erano rimasti quattro nomi, lei non avrebbe mai toccato i suoi, della collega all’albergo fregava un cazzo a nessuno, c’era un’unica persona che faceva parte della vita di entrambi. E caso voleva che avesse appena scoperto che era la stessa persona che seguiva il cane della vecchia dell’appartamento al primo piano nel palazzo di fronte a casa della Bacarelli
Sì, la dottoressa Sacchetti, che brava che è, sapesse, il mio Jack lo tratta come un bambino.
e pure i due gatti della famiglia dell’unità di fianco, quella dall’altro lato del giardino, e ci stavano ancora tre animali da verificare in seconda battuta, ma non era poi necessario. Marta Sacchetti era molto conosciuta nelle case popolari, quelle dove il suo omm’ emmerda si copriva la faccia perché non lo riconoscessero.
Che non la possiamo chiamare coincidenza.
Perché queste non erano mai casualità, e che c’entrasse o non c’entrasse la Sacchetti per lui non era il punto. Questa volta non si sarebbe sbagliato, avrebbe dato retta solo al suo istinto e avrebbe mollato Donadio e la Bacarelli per seguire sola la veterinaria, aspettando che fossero loro a venire da lui, e forse non solo. Avrebbe anche portato la pistola di servizio.
Non pioveva più. Lena era andata all’albergo entrando dall’ingresso principale così che Caparzo potesse vederla. Aveva salutato Ilaria, che aspettava il cambio, spiegandole che lei e Gianluca si erano scambiati il turno e che Castellacci ne era stato messo al corrente. Era salita nella stanza 302 e si era cambiata la divisa con una tuta e scarpe comode, poi era scesa nelle cucine ed era uscita dall’ingresso di servizio. Aveva preso i mezzi pubblici per avvicinarsi alla casa di Marta, si era innervosita ad aspettare Lucio, l’appuntamento era in una piccola area verde a cinque minuti dalla casa della veterinaria, se ci aveva ripensato lo avrebbe scritto, al rapitore, Lucio non è voluto venire, gne gne gne, e per lei non avrebbe fatto tutta questa differenza, perché la bottiglia dell’acido
e la responsabilità
ce l’aveva lei, in uno zaino che era rimasto ad attenderla nella 302. Poi lo aveva visto, forse era addirittura arrivato prima di lei ma era così in paranoia che non l’aveva notata e restava lì a dondolarsi tra una panchina e un faggio. Era andata a mettergli una sciarpa intorno al collo da alzarsi sul viso al momento giusto, lei avrebbe fatto altrettanto. Insieme si erano mossi per avvicinarsi a cerchi concentrici alla palazzina di Marta, che aveva un grande portone spalancato su un cortile che conduceva a tre scale. Non c’era portineria ma era meglio entrare prima delle nove, nel caso qualche inquilino decidesse che era ora di chiuderlo. C’era un bed and breakfast, al terzo piano della scala C ed era normale vedere gente andare e venire, si misero lì, appena dentro le scale, pronti a individuarla quando fosse entrata.
«Sei sicura che non ci sono telecamere?»
«Sì, sono sicura.»
Ma non era vero, non aveva controllato affatto, si basava sull’esperienza che palazzoni così vecchi e con così tante unità non mettono mai nessuno d’accordo per mettere su un impianto costoso a beneficio della comunità, non c’erano abbastanza soldi nelle tasche e piuttosto se uno non si sentiva tranquillo le telecamere se le piazzava in casa. Lena aveva messo il cellulare silenzioso e aveva fatto fare lo stesso a Lucio.
Meglio non spegnerli, così lui può sapere per certo che siamo qui.
Anche se deve essere poco lontano, a controllare quello che facciamo.
Era un pensiero blando, distante, Lena si era abituata all’idea di essere spiata e di volta in volta pescava dal mazzo soltanto a chi toccasse quella volta. Alle otto e un quarto Marta aveva attraversato il cortile ed era entrata nella scala. Nel momento in cui l’aveva vista Lucio aveva trattenuto il fiato, ma Lena gli aveva stretto il braccio, forte. Nei dieci minuti seguenti non era passato più nessuno e i due avevano lasciato il nascondiglio per andare nel sottoscala di fronte. Lena aveva tolto dallo zaino la bottiglia di acido e l’aveva passata a Lucio. Erano andati davanti ai contatori, che ronzavano dietro due portelle di metallo, e Lena aveva trovato subito quello giusto. Fuori era ormai completamente buio, eccezion fatta per un lampioncino nel cortile, il portone che vi si affacciava era stato accostato, la luce automatica delle scale si era spenta.
L’ultima volta che mi sono trovata in una situazione simile Alex correva a salvarmi.
E io la vedevo per l’ultima volta.
Presto ci incontreremo di nuovo.
Tirò giù la leva, prese Lucio per la mano gelida e sudata e lo portò su per le scale. Si fermarono accanto alla porta, in attesa, nascosti in modo che se lei fosse uscita con una luce non li avrebbe potuti vedere, pur con la sciarpa sul viso. Aveva sentito dei rumori dietro alla porta e aveva svitato la bottiglia in mano a Lucio
Ora scopriamo che c’è dentro dell’acqua.
e l’odore dell’acido le arrivò subito alle narici.
È tutto vero.
Ma non si torna indietro.
La porta si aprì, Marta aveva in mano il cellulare con la torcia accesa, una luce modesta, quasi solo un
lumino
brillio. Poi successe tutto alla svelta, Lucio si mosse, il cellulare di Marta finì a terra, il brillio soffocato dallo zerbino, Lena udì un tonfo e un verso lieve, di sorpresa, ma subito dopo ancora un altro rumore e il verso le era sembrato più forte, e ancora colpi, colpi, colpi, e la cosa che registrò subito era che l’odore dell’acido non era affatto aumentato, restava lì ad aleggiare nell’aria.
Lucio, cosa cazzo fai?
ma lo aveva solo pensato, perché non poteva parlare e non poteva scoprirsi il volto, la sola cosa che poteva fare era mettersi giù a tastare per terra fino a recuperare il cellulare e la sua misera luce, rivolgerlo intorno dove non c’era nessuno. A terra, accanto alle scale, la bottiglia di acido intonsa, e i rumori venivano da dentro, dalla casa. Aveva afferrato la bottiglia, era entrata e aveva chiuso la porta, ma non vedeva niente, sentiva solo altri colpi e dei gemiti lievi che però non venivano da Marta ma da Lucio. Alzò il telefono e nella flebile luce azzurrina lo vide chino sul corpo di Marta che menava colpi sempre più deboli, quasi tutti al viso. La faccia di Marta era una maschera di sangue, il naso era storto, la bocca aperta. E Lucio la picchiava e non si fermava e Lena vedeva bene che aveva cominciato a piangere, con il rischio che le lacrime e il muco cadessero su di lei, e questo voleva dire dna. Aveva cercato di tirarlo indietro, ma era inutile.
«Smettila!» aveva urlato sottovoce.
I colpi erano rallentati sempre di più fino a fermarsi, Marta era a terra svenuta e il suo respiro gorgogliava, probabilmente un po’ di sangue le era finito in gola.
«Ma perché lo hai fatto? Volevi essere sicuro che non gridasse?» aveva insistito, e Lucio non rispondeva. Allora gli aveva allungato la bottiglia
«Dai»
ma lui non l’aveva presa.
«Lo faccio io?» e aveva appena accennato al movimento, perché comunque non sarebbe stata una cosa facile da fare, Marta era sdraiata, non poteva versarglielo in faccia, significava ucciderla e lei non era arrivata
ancora
a questo punto. Per schizzarlo sarebbe stato meglio metterla seduta, così avrebbe anche respirato meglio, almeno dalla bocca, perché il naso non
«No»
aveva detto Lucio, e le aveva afferrato il polso, forte, con una forza che lei non credeva
Non è vero, anche quando mi ha messa a terra in casa mia era forte.
impedendole di muovere la bottiglia.
«Che cazzo fai?»
«Basta così, l’ho sfigurata abbastanza, per mesi se ne andrà in giro con la faccia ridotta male e dovranno rifarle il naso, come a me. È sufficiente.»
«Non è quello che ci ha chiesto!» urlò di rimando con un filo di voce.
«È quello che sono disposto a fare.» Lucio piangeva, ma la sua voce era ferma.
«Lo faccio io» ripeté Lena, e di nuovo Lucio le afferrò il polso, questa volta con una seconda mano, entrambi avevano i guanti, la bottiglia non poteva scivolare, ma ondeggiò, uno schizzo cadde davvero sul guanto di Lena, e lei fece un piccolo grido, perché aveva sentito caldo e passò la bottiglia nell’altra mano per toglierlo, e Lucio ne approfittò per prendere la bottiglia e lanciarla. Si sentì solo il suono del vetro, poi l’odore fortissimo dell’acido che permeava la casa.
«Ma sei impazzito?!» disse strappandosi il guanto bucato.
Parlavano alla microscopica luce del cellulare di Marta che era di nuovo a terra.
«Alex è nata sfregiata, e anche dopo le operazioni la sua cicatrice e i denti che le mancano sono la prima cosa che la gente guarda. Lei ci soffre tantissimo, fa finta di no, ma...»
«Alex morirà chiusa in una gabbia grazie a questa stronzata che hai appena fatto!»
«Va bene. Lei preferirebbe così. Da questo Marta può guarire.»
Lucio era davvero calmo, adesso, i singhiozzi che si dominavano man mano. Si voltò a prendere Marta e la mise seduta contro un mobile.
«Sei un vigliacco senza palle, Alex aveva ragione.»
Lucio scrollò le spalle.
«Almeno non sono un mostro.»
Si voltò verso di lei e allungò la mano.
«Mi dai la chiave della camera d’albergo? Vado a prendere le mie cose, aspetto da casa.»
Senza una parola gli diede la scheda. Già alla porta Lucio si voltò.
«E la combinazione della cassaforte?»
«È la data di nascita di Saverio.»
«Non la conosco.»
«Arrangiati.»
Lucio uscì sulla scala togliendosi la sciarpa e scese lentamente senza sentire alcun rumore mentre una pistola veniva lentamente abbassata e un orco gigantesco lo lasciava andare via.
Lena rimaneva nel buio a respirare l’odore dell’acido.
Era andata male, era andata malissimo.
Ma glielo avrebbe detto, gli avrebbe detto che era responsabilità di Lucio, che lei era andata lì con le migliori...
«Fai buono a uscire, piccerè.»
Il cuore le perse un battito.
«Qua pulisco io.»
Non ci sarebbe stata nessuna denuncia, non c’erano gli estremi, al massimo si sarebbe potuto parlare di frode, perché le regole sono uguali per tutti e pagare non basta. Castellacci le aveva allungato un foglio su cui apporre la firma per le dimissioni spontanee, la finivano così, pulita, e amici come prima. Gianluca non si era presentato, al cambio turno, e Ilaria non aveva saputo che fare, così prima aveva chiamato Katia e poi Elvio, ed entrambi non si erano voluti prendere nessuna responsabilità, così non le era rimasto che chiamare Castellacci. C’era stata una sorta di riunione nella hall dell’albergo, quella sera, il proprietario che sbraitava, tre receptionist che non sapevano cosa dire, gli altri due irrintracciabili.
«Ma se ne sono andati insieme?» aveva sbraitato lui, e loro avevano scrollato le spalle, che ne sapevano? Quanto ne avevano abbastanza di quei due e di tutti i guai che avevano portato sul lavoro. Verso le undici Castellacci aveva deciso che per quella sera bastava, assegnò il turno a Elvio e si riservò di decidere il da farsi il giorno dopo. Al mattino, al momento di smontare, Elvio aveva parlato con Mariuccia, che gli aveva riferito di una stanza in particolare sulla quale Marilena Bacarelli faceva un po’ la misteriosa. Allora Elvio, invelenito per l’inattesa nottata in bianco, aveva chiamato Castellacci e al suo arrivo si erano messi sul computer, per scoprire che da settimane la 302 risultava occupata senza che ci fosse un ospite al suo interno, salvo essere registrata a nome di tale Marco Sartori di cui non esisteva documento. La stanza era stata regolarmente pagata, a volte inserendola nelle fatture dei gruppi dei pullman, a volte singolarmente. Erano entrati ed effettivamente la stanza era stata utilizzata, il letto era in disordine, c’erano impronte di scarpe bagnate, la cassaforte era spalancata, su una sedia c’era una delle divise da receptionist e non ci volle molto per capire a chi appartenesse.
«Si è fatta il pied-à-terre» aveva ringhiato Castellacci, quando gli avevano confermato dalle cucine che sì, la Bacarelli entrava e usciva da lì e qualche volta lo faceva anche il suo nuovo fidanzato, quel ragazzo bello, moro con i capelli mossi. Castellacci si era preso la briga anche di guardare i filmati di sorveglianza delle ultime serate e aveva visto che c’era stata un’occasione in precedenza in cui la Bacarelli e il suo ragazzo erano usciti dall’hotel insieme per rientrare quasi un’ora dopo. Ce n’era abbastanza da impedirle di lavorare in qualunque altro albergo per il resto della vita, ma tra poco sarebbe stato Natale, la Bacarelli aveva avuto i suoi guai e adesso si stava consolando con il nuovo fidanzato, era comprensibile. Con questo che si consolasse lontano dal suo hotel e possibilmente senza fare altro baccano, che ne avevano avuta abbastanza, di pubblicità. Quando finalmente era riuscito a parlarle lei non aveva negato nulla, non aveva obiettato, aveva ascoltato con sguardo assente, annuendo ogni tanto. E poi aveva firmato. Quando era uscita Castellacci si era furtivamente toccato i coglioni, perché cominciava a farsi convinto che quella donna portasse sfiga. Sarebbe stato felicissimo se si fosse trasferita altrove, lontana dalla sua Firenze, tanto bella quanto intossicata da fattacci di cronaca quotidiani, solo la sera prima l’ennesima rapina in appartamento e quasi la proprietaria ci restava secca. Sospirò, ora sarebbe toccato a Savelli, un altro che portava solo grane, ma almeno lui si era limitato a scambiare il turno senza avvisarlo e poi non presentarsi. Peccato il suo telefono risultasse spento ormai da quindici ore.
Sedeva al tavolo del soggiorno, il cane sdraiato a terra, le tende spalancate sulla prima neve di quell’inverno che si era quasi completamente sciolta anche negli angoli in ombra. Aveva vinto il rigurgito d’odio contro Lucio ed era andata a casa sua ogni giorno da quella sera chiedendogli se c’erano novità. Lucio, le occhiaie livide e il viso smunto, le diceva di no e le mostrava il telefono di Alex. Aveva mandato la sera stessa un messaggio al rapitore, rispondendo a vuoto all’ultimo che aveva ricevuto.
NON POSSO FARLO. SE HAI UN CUORE DILLE QUANTO LA AMO.
E Lena quasi era scoppiata a ridere
Sei hai un cuore condividi.
aveva pensato, a dimostrazione di quanto miserabile fosse quel ragazzino
Che non è un uomo.
a cui aveva affidato la cosa più importante della sua vita. Aspettava da un momento all’altro una chiamata di Ridenti, o di Astrid, o di sua madre che annunciassero che il corpo di una donna scheletrica con i capelli rossi era stato trovato, mangiato dagli uccelli, in qualche altra campagna.
Non è stata colpa mia, Alex, è stata colpa di Lucio, lui non ti ama quanto io amo Saverio.
Eppure, quando aveva dovuto avvelenare i cani di Astrid, anche lei aveva sentito le urla di Saverio e aveva saputo quanto quella salvezza non sarebbe stato disposto a tollerarla.
È stato lo stesso per Lucio.
Scacciava via il pensiero e quello ritornava. Il suono arrivò dalla camera da letto, e non lo sentiva da così tanto tempo che le servì Argo che alzava la testa per capire. Andò a sedersi sul letto e recuperò il Samsung dal comodino. L’icona dei messaggi mostrava il numero 1.
Sarà il gestore.
Ma non lo era.
Perché a me?
Perché lo manda a me e non a Lucio?
Forse lo ha mandato a entrambi.
Lo aprì e vide che era un video, resistette qualche secondo prima di premerlo, non era pronta a veder morire Alex. E infatti non avvenne.
Verde.
Lo schermo era di quel colore, l’ennesima visione notturna, però diversa, perché era un verde uniforme che inquadrava qualcosa di compatto, liscio, una parete, o forse una porta, e infatti quella si aprì, e la telecamera inquadrò un pezzo di campagna, abbastanza brullo, uno spiazzo, o uno sterrato, degli alberi di un boschetto sulla sinistra, sterpaglie sulla destra, in mezzo un sentiero, sul sentiero qualcosa che si muoveva, un corpo, un corpo di spalle. Da fuori campo si sollevò una lunga linea nera. A vederla così sembrava una bacchetta da mago, e infatti dalla punta di quella bacchetta partì una scintilla. Il corpo che correva cadde a terra.
Il filmato era tutto lì.
Verde.
Linea nera.
Scintilla.
Questo fu quello che Lena vide per tanti, lunghissimi secondi, prima che il suo cervello accettasse di elaborare che aveva appena visto uccidere Saverio con una fucilata alla schiena.