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Si era fatta il bagno. Aveva portato fuori il cane. Spenta la luce si era infilata sotto le coperte ed era rimasta lì, in attesa, le chiavi sul comodino, la porta aperta. Nessun rumore, tranne il russare di Argo, per tutta la notte. Aveva dormito a tratti, dieci minuti, un quarto d’ora, poi sobbalzava e si metteva a sedere con l’orecchio teso. La luce aveva iniziato a rischiarare la stanza verso le sei e mezzo e si era alzata. Era stremata, l’idea che fosse il suo giorno libero peggiorava le cose perché avrebbe significato che non ci sarebbe stato nessuno stacco, nessun allentamento della tensione. Alle nove suonò il campanello.
«Signorina, si è accorta che qualcuno ha tagliato la rete del suo giardino?»
La Tasselli era uscita per verificare se i temporali dei giorni prima avessero ammaccato troppo i cespugli di rose e si era finalmente accorta del danno alle siepi.
«Sì, ho visto ieri sera, ho chiuso tutto a chiave e oggi chiamo l’amministratore.»
«Hanno spaccato il lucchetto della parte comune, sa? E mi han rovinato tutta la siepe.»
«Mi dispiace.»
«Ma cosa cercavano? Da lei sono entrati?»
Le venne da ridere, da lei entravano tutti i santi giorni.
«No.»
Telefonò a suo padre, chiedendogli se tra tutte le copie di chiavi che aveva ci fosse anche quella della portafinestra. Gli disse che ne aveva bisogno perché aveva cercato stupidamente di usarla per
Cosa?
sbloccare un pezzo di fil di ferro che si era incastrato
Dove?
tra la cancellata e la rete e l’aveva piegata. Lo sentì borbottare qualcosa sulla stupidità delle donne e le disse che gliel’avrebbe portata, se non era in casa gliela lasciava nella cassetta delle lettere. Suo padre non veniva volentieri a trovarla, quando andava da loro era sorridente e cordiale, ma casa sua per lui rappresentava un terreno nemico, il simbolo dell’abbandono del tetto paterno
«E per cosa? Mica ti sei sposata!»
quindi un insulto personale. I suoi erano sempre stati molto protettivi, anche se in maniera superficiale, e tutte le volte che Lena aveva puntato i piedi si erano ritratti offesi, increduli per tanta ingratitudine. A lei andava bene, aveva molta pazienza. Telefonò a Marta, la sua veterinaria, per chiederle se potesse controllare la zampa di Argo, tra i salti per la gallina, la camminata del giorno prima e l’acqua presa temeva che la ferita non stesse guarendo bene. Uscì portando con sé il mazzo di chiavi
Tingle tingle.
Cosa?
Niente.
senza usarlo. Si sentiva come un pugile, gonfia per un sacco di botte ricevute. Due telefonate e nemmeno una parola. Un messaggio lasciato sul tavolo e nemmeno una parola. La porta aperta e niente, come nulla fosse. Solo tre giorni da quando era tornato e Saverio stava di nuovo stritolando la sua vita.
No, non è giusto dire così, sono solo stanca.
Infilò Argo in macchina e rimase a guardarlo.
Gli voglio bene?
Pensava di sì. Sedette anche lei sul bordo del bagagliaio e lo accarezzò a lungo, facendogli tirare le orecchie indietro. Argo apprezzava, anche se non ricambiava in alcun modo. Chiuse il portellone e fece appena in tempo a girare intorno all’auto che una Opel Astra rossa la affiancò. Il finestrino del passeggero si abbassò mostrando un volto da ragazzino, le labbra rosse, i tratti delicati come una miniatura dell’Ottocento, un ciuffo ribelle come nel cartone Rocky Joe.
Come sembra giovane. E invece ha ventisette anni.
Oltre lui si sporse una donna corpulenta dai capelli rosso fiammante e la bocca larga, a urlarle
«Ah, ci sei! Abbiam provato a citofonarti, stavamo andando via!».
«Sto andando dalla veterinaria per farle vedere la zampa di Argo.»
«Da Marta? Allora ci vediamo lì, che ho da chiederle due cose!»
e ripartì sgommando mentre il ragazzino, che ragazzino non era, le faceva ciao con la mano. Le rimase addosso una sensazione vischiosa, un misto di sospetto e senso di colpa. Aveva guardato Alex con occhi nuovi e quel che aveva visto non le era piaciuto.
Marta, la veterinaria, non partecipava ai raid talebani, ma aveva sempre accettato di visitare animali di dubbia provenienza senza fare domande. I capelli biondi, gli occhi azzurri, l’aria angelicata delle creature buone d’animo, a Lena dava sempre la sensazione di essere posticcia, nessuno era così limpido e onesto, lo sapeva per esperienza. Lei e Alex erano molto amiche, la rossa conosceva tutti nell’ambiente, e, anche se ogni volta che si faceva vedere erano guai, godeva di grande rispetto (più di Astrid, che accusava regolarmente i veterinari di essere in combutta con gli allevamenti e finiva sempre male). Lena sospettava che in passato tra Marta e Saverio ci fosse stato qualcosa, era venuta al funerale e si era sciolta in lacrime, promettendole che di Argo si sarebbe sempre occupata lei, gratuitamente. Lena invece aveva sempre insistito per pagare, visto che poteva farlo, scegliendo di cedere la sua visita gratuita a chi ne avesse avuto più bisogno.
«Si capisce proprio perché Saverio ti voleva bene»
aveva concluso Marta, e Lena aveva pensato che no, non si capiva da quello. Il mondo animalista per lei era nuovo e parzialmente alieno, ma se era un’idea consolatoria che se la tenesse. Ad Argo Marta piaceva, e a Marta piaceva Argo, le visite erano sempre rapide e senza intoppi, a posto così.
«La zampa sta guarendo bene, non sembra che l’abbia sforzata. Anzi, sai che ti direi di non bendargliela più? Magari quando esce mettigli un vecchio calzino con intorno un tubolare, giusto per evitare che si sporchi, poi in casa lo lasci libero.»
Lena annuiva. Avrebbe voluto dire qualcosa sui giri obliqui delle fasciature, se fosse una tecnica particolare che magari aveva insegnato a Saverio, ma nell’ambulatorio con lei erano entrati anche Alex e Lucio e allora era meglio di no. Alex si fermò a dare il tormento alla veterinaria perché le procurasse delle tavolette masticabili a metà prezzo e Lucio ne approfittò per coccolare il cane. Ad Argo il ragazzo
Uomo. È un uomo.
piaceva moltissimo, forse perché aveva un odore particolare, da bambino era stato rosso di capelli, rosso fuoco, e ora che si era scurito gli erano rimaste alcune leggerissime lentiggini su naso e guance.
La pelle delle persone rosse ha un odore diverso, dicono.
A Lena invece Lucio non piaceva. Era indubbiamente di bell’aspetto, ma totalmente privo di nerbo, se gli facevi una domanda lui subito si voltava verso Alex in cerca della risposta. Tanto lui era bello tanto lei era brutta, tanto lui era amorfo tanto lei era energica. In realtà Alex non aveva dei tratti sgradevoli, ma insieme non armonizzavano. La bocca troppo larga che metteva in risalto i denti di ceramica, il naso adunco, alta e con le spalle ampie, i capelli tinti di un rosso fosforescente.
«Sembra un trans» era stato il commento più gentile di Betta, mentre Astrid di lei si rifiutava di parlare, da brava talebana, ignorandola dall’alto dell’avvenenza di occhi azzurri sotto riccioli neri. Battutine a non finire sul rapporto con Lucio, ovviamente. Il ragazzo, oltre che di bell’aspetto, era di quattordici anni più giovane.
«O è molto ricca o è molto troia» rideva Mattia.
Anche Lena trovava grottesca la coppia, ma solo a causa della totale indolenza di Lucio. Pensava sinceramente che Alex, in gamba com’era, si sarebbe meritata un uomo più energico. Lo vide guadagnarsi una leccata di Argo e le venne un moto d’odio.
Non devo essere gelosa.
Lo era. Lei non era riuscita a conquistare qualcosa di importante che invece quel ragazzino scialbo
Non è un ragazzino.
si era preso con grande facilità. Alex aveva finito e i tre uscirono insieme. Due passi fuori dallo studio la donna arrivò subito al punto.
«Senti, non mi è piaciuta mica quella piazzata che mi hai fatto l’altro giorno, sai?»
«Lo so. Ero molto nervosa.»
«Sì, ma esagerata, dai. Non era capitato niente, e poi era un’emergenza. O no? Cos’è che era successo? I vicini avevano fatto cosa?»
«Ci sono stati un po’ di casini nel condominio, gente che entra nelle case, cose così.»
«Come, “gente che entra nelle case”? Ma ladri?»
«Non ho detto ladri.» Lena si fermò di colpo a guardarla in faccia. «Ho detto “gente che entra nelle case”.»
Qualcosa era scattato. Spinto dall’esasperazione, dalla privazione di sonno, dall’angoscia, dalle domande. Una piccola pressione. Clic.
Si fissarono.
«Dovrei capire qualcosa?» fece Alex.
«No, certo. Ora scusa ma vado a casa, è il mio solo giorno libero e devo...»
«Non ti scuso e non vai a casa. Cosa succede?»
Le si mise davanti ergendosi in tutta la sua altezza, la passava via quasi dell’intera testa.
«Niente.»
«Non è vero, c’è qualcosa. Lucio, anche secondo te c’è qualcosa?»
Lui la guardò stolido, impreparato, e Alex riprese.
«Io lo so quando hai qualcosa, fai sempre la stessa faccia, quando hai qualcosa.»
«Sei sicura che Fermo non conoscesse Saverio?»
Alex si spalancò in un sorriso, quasi sollevata.
«No, stella, non ne sono sicura. È questo allora? Ha detto qualche cazzata?»
«Non mi ha praticamente parlato. Non ha risposto a nessuna domanda, salvo dire che non ti sente mai, che non siete amici.»
«Non è molto carino ma è abbastanza vero. È uno degli appoggi del gruppo per le emergenze, sempre stato disponibile, anche con Marta. Le volte che abbiam dovuto far sparire dei cani che erano in mano a cerebrolesi li abbiamo portati lì finché le acque si calmavano e poi li abbiamo sistemati. So che è affidabile, che non parla con gli sbirri, cosa importantissima, e che tratta bene gli animali.»
«Sai che li fotografa?»
«Chi?»
«Gli animali nelle sue gabbie.»
«Senti, ma me lo dici cosa ha fatto? Vuoi che andiamo da lui a parlarne? Andiamoci subito.»
«No.»
«Ma sì, invece, andiamoci, dai. Resta Lucio con Argo, andiamo e chiariamo la faccenda.»
«Non lascio Lucio in casa mia.»
Successero due cose insieme. Il sospetto di Lena aveva virato bruscamente, prendendo la strada del complotto, credendo che sì, Alex e Saverio fossero d’accordo, che la foto della gabbia se la fosse fatta mandare lei da Fermo e che il mondo intero sapesse che il suo ragazzo era vivo, tenendola all’oscuro. E Alex era stata toccata nella sola cosa a cui tenesse al di sopra di tutto, forse l’unica cosa bella della sua vita, Lucio, e improvvisamente abbandonava il collaudato ruolo di protettrice dei deboli e degli oppressi per assumere un tono diverso.
«Cos’è che hai detto?»
«Lo sai.»
Era una risposta, era un’accusa.
«Cioè, non vuoi Lucio in casa tua? Non vuoi LUCIO in casa tua? Dopo che LUCIO e la sottoscritta hanno fatto qualunque cosa per te eccetto pulirti il culo per settimane?»
«Tanto non avete bisogno del mio permesso per entrare in casa mia. Giusto?»
La stanchezza, lo stress, la paranoia, tutti insieme strappavano lembo a lembo la razionalità di Lena. Era più facile credere al complotto, più facile trovare un colpevole e tre complici che continuare ad annegare nei dubbi e nelle ipotesi. Quindi decise che due di loro erano lì con lei sul marciapiede.
«Ma di cosa parli?» Alex si sforzava di moderarsi, come si fa con le persone scentrate.
«Ditegli che così non va bene» la voce di Lena aveva iniziato a tremare.
«Ditegli a chi?» chiese Lucio.
«A Fermo, si è fissata con Fermo. Ora lo chiamo.»
Fermo. È ridicola.
Ma non appena Alex si era sfilata il cellulare di tasca, dalla borsa di Lena era uscito un trillo, e la ragazza aveva riso, una specie di singulto mentre infilava dentro una mano.
«Cos’è? Lo hai avvisato?»
Alex, presa in contropiede, rimase con il telefono a mezz’aria, poi glielo allungò sbigottita.
«Amore, non l’ho ancora nemmeno sbloccato.»
«Digli che non va bene» concluse di nuovo Lena con le labbra che tremavano. «Diglielo, che non va bene.»
Portò Argo nel bagagliaio, si chiuse dentro e aprì il nuovo messaggio. Era un video. Un video di quattro secondi, identico a quello che aveva trovato nel cellulare il primo giorno, solo più lungo. Ombra che si muove, stop. Buttò il Samsung sul sedile, afferrò il volante e urlò forte. Il cane abbaiò, spaventato. Mise in moto. Passò accanto a Lucio e Alex che la guardarono andare, attoniti.
Suo padre era passato, nella cassetta delle lettere c’era una busta cincischiata chiusa con lo scotch, dentro la sagoma rigida della chiave. Le sarebbe piaciuto credere di poterlo trovare dentro, sarebbe bastato che avesse provato la maniglia e fosse entrato ad aspettarla, magari con il rimprovero in canna. Ma naturalmente no, la casa era vuota e silenziosa, il tavolo più del resto.
Sto perdendo il contatto con la realtà.
Il complotto, il grande complotto di Saverio, la grande punizione di Saverio, Saverio scontento di come avesse gestito la sua morte, il lutto
Sa di Gianluca?
Lo sa Alex, quindi sì.
e il cane, Saverio che si riservava di parlarle e decideva di tormentarla, perché era così che faceva, le sparizioni, il telefono spento, sempre lo stesso metodo e ogni volta lei ci cascava, anche adesso. Forse era tornato da qualche mese, forse da prima, forse aveva chiesto agli amici di nasconderlo e quindi di fornirgli informazioni su di lei. Perciò non era solo Alex ma anche Astrid, Mattia, Mometto. E poi c’erano i teppisti, loro erano stati sicuramente i primi a cui chiedere aiuto: Alessio, Sergio, Serena. Erano quelli che, dopo averla conosciuta al finto funerale, se la incrociavano per strada le facevano appena un cenno col capo, lei, la borghese figlia di papà piena di soldi che non aveva avuto il fegato di mollare tutto, di dedicarsi a una causa, che non era né carne né pesce e non meritava il rispetto di chi sa essere radicale, uno strappo e via, così come aveva fatto Saverio, che lui sì, lui era uno con cui valeva la pena lottare. I tre che lei conosceva erano gente che andava in giro pronta a menare, imbrattare, spaccare tutto in nome della libertà. Sergio era il leader non dichiarato, alto, serio, non lo aveva mai visto sorridere.
«Strano, con me ride sempre» la rintuzzava Saverio, che manteneva nei confronti degli amici un atteggiamento di difesa aprioristica che sfiorava l’omertà.
Sergio aveva intorno a sé l’alone del Giusto, come se fosse fatto interamente delle proprie convinzioni, che viveva come innegabili verità. A queste si abbeveravano sia Serena che Alessio, un po’ più vecchio degli altri due ma con addosso un nervosismo da adolescente. Fumava, imprecava, non sapeva stare fermo, era costantemente contro, contro tutto e tutti. Magro, meno alto di Sergio, gli piaceva indossare cappellini ed era sempre abbronzato, lavorava saltuariamente come muratore, in nero, prediligendo i tetti, passione che condivideva con Saverio. Si erano ammazzati di canne, lassù, tra tegole e coppi, a raccontarsi quanto il mondo facesse schifo. Serena era la più dura dei tre, seguendo il principio che come donna doveva farsi valere soprattutto in atteggiamenti maschili. Quindi ruttava, scorreggiava, beveva e fumava, si era riempita di piercing ma non poteva far nulla contro il faccino tondo, la bocca imbronciata e i capelli lunghi, castani e ricci che non riuscivano a darle un’aria selvaggia ma la facevano sembrare un’orfanella che cantava nel coro della chiesa. Lena li ammirava, vedeva in loro una convinzione, un ideale, un disgusto sincero per le regole e la società e avrebbe voluto avere la loro risoluzione, il loro sacro fuoco. Invece la sua unica fiamma, quella per cui sarebbe stata disposta a tutto, si era spenta sotto un ponte, in Arno. Fino a tre giorni prima. Anche Sergio le aveva tenuto Argo, nei primi mesi dopo la
fuga
scomparsa di Saverio. Era un ragazzo taciturno che quando glielo chiedeva rispondeva solo «va bene», si incontravano, prendeva il cane, glielo restituiva all’ora stabilita, le mani in tasca, gli occhi a sfiorarle una spalla perché in faccia non la guardava quasi mai, poi un saluto e via. Compressa nel suo lutto Lena avvertiva appena la dolenza di quel disprezzo, lei che invece ammirava ogni forma di fede, lei che ne era priva. Con il tempo invece il disagio era salito a livelli tali che si era sentita costretta a eclissarsi, pur sapendo come sarebbe stata interpretata. Rifletteva sul fatto che Sergio faceva l’operaio e aveva affittato un minuscolo appartamento nella zona più scomoda possibile, attaccato alla ferrovia, ma tutti quanti, loro tre e un’altra dozzina di persone, si ritrovavano in un ex colorificio in periferia, una specie di casermone attrezzato pure per accamparsi, se necessario. Forse Saverio era lì. Forse era sempre rimasto lì. Lena pensava queste cose tutte insieme, muovendosi in maniera stanca e meccanica dal freezer al fornello, preparando per il cane, scordandosi di farlo per sé, sentendo le guance bagnate e un pulsare sordo alla fronte.
Devo dormire, ho bisogno di dormire, penserò poi.
Versò tutto quanto nella ciotola, tolse la chiave dalla porta e la mise sul tavolo, si infilò sotto il piumone con i vestiti addosso, pensò che il dolore scaccia tutto, perfino la paura, e si addormentò.
La svegliarono i rumori, piccoli e discreti.
Piatti che vengono spostati, posate che tintinnano, il ticchettio delle unghie sulle piastrelle.
È entrato.
Aprì gli occhi e rimase lì ad ascoltare. Le sembrava di seguire tutti i movimenti nell’angolo cottura, sorvegliati con attenzione da Argo che sperava in un bocconcino extra. Sentì di nuovo dentro quel senso di sollievo caldo, un po’ come quando da bambina faceva la pipì nel letto e la prima sensazione era di meraviglioso calore, a cui si sostituiva poi il freddo e il fastidio del bagnato.
È entrato, è finita.
Non importava più niente, la congiura, le punizioni, tutto passato. Adesso poteva succedere qualunque cosa, che le spiegasse, che l’abbandonasse di nuovo, che l’ammazzasse
Cosa?
bastava non vivere più nell’attesa. Mise i piedi a terra pensando marginalmente a quanto dovesse essere orribile, pallida e con gli occhi gonfi, ma anche quello non importava, adesso.
Entrò scalza in soggiorno e vide suo padre.
Il freddo le si arrampicò di nuovo addosso dalla pianta dei piedi, la delusione, l’amarezza, la rabbia.
«Babbo?»
Lui si voltò, stava svuotando la lavastoviglie del giorno prima, lei si era dimenticata persino di averla fatta.
«Guarda che avevi lasciato la porta aperta! Va bene che c’è il cane, ma devi stare attenta, non hai mica dieci anni.»
Tingle tingle.
Di nuovo la sensazione di qualcosa che aveva scordato. Il padre la squadrò, non c’era molto da interpretare, si vedeva che qualcosa non andava in lei, ma non disse niente.
«Ti ho aperto la finestra. Come hai fatto a rompere la chiave di fuori, se era chiusa?»
Il rimprovero era l’unica modalità che riusciva a usare in casa sua, e Lena non aveva la forza di combattere.
«L’ho solo persa e non volevo che ti arrabbiassi.»
«E sarà qui dentro, allora, guarda te che casino, ma come fai a vivere così?»
«La cercherò. Grazie per essere passato.»
«Non sei una zingara, anche se stai da sola ti devi tenere per bene. Te e anche l’appartamento.»
Lei fece di sì, voleva solo che uscisse.
Perché non mi abbracci e non mi chiedi cosa succede? Perché te la prendi con me per il fatto che sto male? Perché non mi aiuti? Sto passando l’inferno, perché non mi aiuti?
Perché non era mai successo, nemmeno prima di tradire le sue aspettative. Argo assisteva alla scena indifferente, lui e suo padre avevano una sorta di tacito accordo, Lena era certa che quando non li vedeva tra loro ci fosse qualche gesto di affetto ma in sua presenza si ignoravano.
Per entrambi non sono la persona che dovrei essere. Sono uguali.
E il pensiero passò velocissimo.
Babbo ha le chiavi di casa, ha tutte le chiavi di tutti e con Argo va d’accordo.
Era una cosa indegna da immaginare, ma non riuscì a impedirle di prendere forma e poi svaporare.
Tra un po’ penserò che mio padre ha ucciso Saverio per rubargli il cellulare e fingere che fosse vivo per punirmi di essere andata via di casa.
Tra un po’ penserò che sono stata io e che ho uno sdoppiamento di personalità.
L’uomo chiuse lo sportello della lavastoviglie e si infilò l’impermeabile. Per un attimo sembrò sul punto di chiederle qualcosa, ma poi si affrettò a dire
«Chiama la mamma, altrimenti si preoccupa»
e uscì. A Lena rimaneva la cucina un po’ più in ordine, la porta con la chiave infilata dentro e il Samsung in ricarica che si beffava di lei. Il cervello congestionato in un cortocircuito di ipotesi, Saverio vivo, Saverio morto, tutti che sapevano, nessuno che sapeva, Fermo, Alex, Astrid, Mattia, Sergio, Mometto, Betta, Marta, Gianluca, Katia, suo padre, porte sbarrate, porte spalancate, tutto vero, nessuna verità. E lei lì, incastrata in mezzo a quel magma, senza la forza di voltarsi in una sola direzione dove guardare. Argo grattò alla portafinestra chiedendo di uscire e lei andò ad accontentarlo, di malavoglia perché c’era la rete tagliata nel giardinetto da sistemare. Avrebbe potuto dirlo direttamente a suo padre, l’uomo bricolage, ma era stato così sgradevole, di nuovo, era talmente insofferente a quella casa che...
Di colpo se ne rese conto.
Suo padre detestava venire in casa sua, eppure quel giorno lo aveva fatto due volte, una volta per lasciare la chiave di scorta, la seconda perché? Le dita erano ancora strette sull’anello di ferro della portafinestra aperta mentre si voltò verso il tavolo. La busta che aveva trovato nella cassetta delle lettere, chiusa con lo scotch, era ancora lì, intonsa. Non l’aveva lasciata suo padre. Mollò tutto e corse ad aprirla. Dentro c’era la chiave, la chiave originale della portafinestra, e un pezzo di carta marrone, quella dei sacchetti del pane o del salumiere. Sopra, scritta con qualcosa, non una penna, non una matita, forse un gessetto o un pastello a cera, la frase
FARÒ IL BRAVO.
Era la calligrafia di Saverio. Mentre la scrittura sulla benda di Argo non era riconoscibile, qui non c’erano incertezze. La “f” allungata, la “a” più bassa delle altre lettere, l’accento che svirgolava all’indietro come un ricciolo.
Poteva avere dubbi sul telefono.
Poteva avere dubbi sulla canzone.
Ma non poteva avere dubbi su quel biglietto.
Lo aveva scritto lui.
Saverio era vivo.