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I titoli dei giornali erano stati tutti per lui, Fermo Berselli aveva goduto da morto di una notorietà che da vivo non si sarebbe potuto mai immaginare. All’ingiustificato entusiasmo delle forze di polizia, che non avevano contribuito nemmeno a trovare il corpo, si affiancavano le iperboliche ipotesi dei giornalisti, che volevano a tutti i costi ricostruire una storia piena di buchi. Fermo Berselli, spacciatore noto alle forze dell’ordine, aveva capito di essere sul punto di farsi prendere per i suoi traffici di droga e aveva chiesto una consulenza all’avvocato Elisabetta Valacchi, forse per prepararsi un’eventuale difesa. La Valacchi probabilmente non gli aveva prospettato nulla di buono e lui, in preda alla disperazione, si era recato a casa sua, forse per pretendere che gli trovasse comunque una via d’uscita, e in un raptus l’aveva uccisa. Poi era fuggito, il peso della colpa più forte di lui, a schiacciarlo nel luogo dove si era nascosto, consumandolo anche fisicamente e portandolo alla morte. Chi gli aveva offerto protezione fino a quel momento si era precipitosamente liberato del corpo in aperta campagna. Due giorni dopo i suoi vestiti erano stati trovati in un fosso poco distante dal campo, un chilometro in linea d’aria. Dentro c’erano il suo portafogli con i documenti e il mazzo di chiavi di Elisabetta Valacchi. I genitori di Betta avevano rilasciato una dichiarazione davanti alle telecamere.

«Questo non ci restituisce nostra figlia, ma almeno avremo la serenità di sapere che quel mostro non ucciderà nessun altro.»

Chissà il sollievo per le persone coinvolte, per il povero Gianluca Savelli, amante della Valacchi, ingiustamente accusato del delitto, e per Marilena Bacarelli, migliore amica della vittima, creduta la cagione di un delitto passionale!

I giornalisti erano tornati davanti a casa e il telefono aveva ripreso a squillare, i suoi genitori, finalmente rasserenati, Astrid col trionfo rigurgitante in ogni parola che pronunciava

«L’avevo detto o non l’avevo detto? Tutto torna, a quel maledetto non l’ha ucciso il pentimento ma il karma. Son tornate giù tutte le anime dei cani che aveva sulla coscienza a mordergli il culo!»

e perfino Mattia, dalla custodia cautelare, in attesa dello stesso processo che Berselli aveva schivato pagandolo con la vita

«Sono molto contento per te, spero tu sia più serena, adesso. Perché non vieni a trovarmi?».

Lena continuava a vomitare dalla sera prima, dopo che aveva salutato l’ispettore Ridenti ringraziandolo per la bella notizia. La morte di Berselli non le portava nessun conforto, perché se davvero era stato lui a uccidere Betta e davvero aveva organizzato tutto allora adesso Saverio era solo, rinchiuso in una gabbia da qualche parte a morire di sete e fame. Niente più messaggi, niente più ricatti, niente più video e immagini a confortarla, stai calma, è vivo, è ancora vivo. Nessuna forma di razionalità le veniva in aiuto, Caparzo aveva detto che era uno solo, che lo avevano aiutato ma la mente era una, gli altri saranno scappati dopo aver abbandonato il corpo, quanto poteva resistere Saverio? Aveva lanciato infiniti messaggi a Caparzo, attraverso le telecamere sparse per casa, per iscritto, parlando rivolta a cimici che non aveva mai individuato.

«Signor Caparzo, la prego! La prego, venga qui, mi chiami, non abbiamo tempo! Ora dobbiamo dirlo, alla polizia, ora che lui è morto non importa cosa è stato, dobbiamo trovare Saverio.»

Ma lui non si era fatto vivo, mentre il resto del mondo si complimentava con lei per la fine di un incubo che invece iniziava esattamente allora. Quando avevano suonato alla porta era corsa contro ogni logica ad aprire. Invece era soltanto Mometto che l’aveva sepolta in un abbraccio e le aveva detto

«Maremma maiala, l’han beccato, il merda!».

A quante fesserie credeva la gente, restava stupito ogni volta. In commissariato e in questura si respirava l’euforia delle grandi vittorie, tutti si facevano complimenti dandosi pacche sulle spalle e anche lui aveva raccolto la propria dose, visto che di Berselli si era sempre interessato, e aveva avuto ragione, cervello fino, Caparzo. La ragione era tutto quello che aveva guadagnato da quella faccenda, visto che i suoi controlli sulle telefonate e sui traffici – miseri, diciamocelo – di Berselli non avevano portato assolutamente a nulla, salvo confermare un avvenuto contatto con la Valacchi di cui già si sapeva. In realtà i due ispettori che si erano occupati del caso avevano moltissime riserve sul reale svolgimento dei fatti, ma tutti gli altri colleghi, più boccaloni, si erano bevuti la storia di Fermo Berselli pericolosissimo narcotrafficante e temuto serial killer. La Bestia continuava a considerarlo un povero senza palle finito in un meccanismo più grosso di lui, e non ci voleva tanto.

Una rotella che salta non ferma il meccanismo.

Erano state ventiquattr’ore molto lunghe, i giornalisti si erano scatenati e avevano assediato subito la casa della Bacarelli per avere un commento qualsiasi e lui aveva ritenuto prudente non far nulla, pur se la vedeva agitarsi, andare avanti e indietro, da una stanza all’altra, parlare, scrivere patetici messaggi.

Domani Ridenti la vuole sentire, pensa che magari con l’emozione le scuce qualcosa, che lui non è convinto. E lei s’ha da calmarsi, così non va bene.

Aveva fatto scorrere tutti i filmati che gli avevano portato, solo una prima visualizzazione per farsi un’idea, e non aveva staccato fino a notte inoltrata. Su quelle strade non c’era un traffico intenso, sarebbe stato possibile catalogare ogni tipo di auto che transitava, modello, targa e orario. Il colleghi stavano setacciando ogni metro quadro lì intorno in cerca di segni di ruote, il cerchio si allargava e non emergeva nulla. Eppure lui non si faceva convinto.

Ma come c’arrivi in mezzo al nulla con la macchina? Lì intorno non c’è niente, solo prati e campi.

Ci era arrivato lentamente, con la saggezza di chi è campato a lungo sulle proprie mani.

Non era una macchina.

Lì giravano un sacco di mezzi agricoli, soprattutto carretti e trattori. Un’auto, di giorno o di notte, poteva essere notata, uno di quei bestioni lenti e con le ruote enormi no.

Non si sono fatti cento chilometri con il trattore. Possono essere stati prudenti finché vogliono, ma il posto in cui si trovava lo scemo di Berselli non può stare a più di un’ora di trattore, che è venti minuti di macchina.

Se le cose stavano come pensava lui allora anche Saverio Bartolomei si trovava entro un raggio di venti-trenta chilometri, tra i poli di Modena, Bologna, Carpineti e Fanano. Era un bel pezzo da setacciare, e lui ora come ora non poteva allontanarsi, non con l’indagine in cui l’avevano coinvolto, non con lei che stava per dare di matto, non con Lucio Donadio da sorvegliare. Aveva convinto Vitale a fare un nuovo confronto, giurava che stavolta non era coinvolto alcun nome eccellente, andavano solo escluse delle ipotesi, gli avrebbe mandato impronte di diversi elementi, tutti quelli della lista sul Samsung. Alcune erano facilissime da recuperare, quella di Donadio invece non era un’operazione semplice. Ne aveva prelevate alcune sull’auto rossa, ma ce n’erano troppe, quell’auto era un porto di mare, ci era salito chiunque, era difficile isolarle e doveva inviarne almeno una di provenienza certa. Sarebbe potuto entrare in casa ma preferiva qualcosa di più semplice. Donadio lavorava in ospedale, sicuramente si cambiava da qualche parte, beveva il caffè dalla macchinetta, usava guanti monouso, sarebbe bastata la sorveglianza di un paio di giorni per trovare un oggetto da prendere e portare via. Doveva aspettare che la bufera passasse e che tutti la smettessero di pensare a Fermo Berselli e alla sua ridicola morte. Chi cazzo muore di fame nel 2017?

Erano venuti a prenderla perché con i giornalisti lì davanti non voleva uscire, era stanca, non aveva nulla da dichiarare

Ho paura di mettermi a piangere

di mettermi a urlare

di dire tutto di Saverio davanti alle telecamere.

e voleva solo essere lasciata in pace. Per Ridenti invece era vitale incontrarla proprio allora e le aveva mandato una macchina, non una volante, non voleva sembrasse ciò che non era. Se possibile Lena era apparsa agli occhi dei poliziotti ancora più scossa delle volte precedenti, ma non era contenta? Finalmente l’omicida della sua migliore amica non era più là fuori a terrorizzare il mondo, non si sentiva sollevata?

«Sì sì» diceva lei, ma la faccia raccontava un’altra storia.

Ridenti aveva fatto uscire gli altri agenti e le si era seduto accanto, senza mettere la scrivania tra loro.

«Mi dica, che cos’è che la preoccupa?»

Non gli importa niente di cosa mi preoccupi, lui sospetta ancora di me, non ha mai smesso.

Gli devo dire di Saverio.

Se lo faccio Caparzo mi ammazza.

«Siete sicuri che non ce ne fossero altri? Che abbia fatto tutto da solo?» aveva buttato lì. L’ispettore si era subito sporto in avanti.

«Si riferisce al suo collega, a Gianluca Savelli?»

«No.» Doveva andare via, non avrebbe resistito a lungo, così aveva infilato la prima cosa che le era venuta in mente: «Perché aveva le chiavi di Betta? A cosa gli serviva chiuderla dentro, se ormai era morta?».

Ridenti non le aveva risposto subito, perché quella era una buona domanda, un’ottima domanda, e anche lui lo pensava, non c’era senso.

«Non lo sappiamo. Lei ha idee? Sono qui, la ascolto.»

Ora glielo dico, ora gli dico che con Fermo c’era anche Marco Sartori, chiunque sia, e che devono trovarlo perché se trovano lui trovano anche Saverio e...

la porta si aprì senza bussare.

«Signore mi scusi, forse hanno individuato l’auto. Due passaggi, compatibili con la data presunta di morte.»

Ridenti era uscito senza aggiungere nulla e Lena era rimasta lì a tenersi in bocca parole che volevano uscire. Dopo un quarto d’ora le avevano detto che poteva tornare a casa, l’ispettore aveva avuto un impegno improvviso. Dal cortile interno era salita su una volante e il poliziotto alla guida le aveva detto

«Tu ora respiri da qui a casa e io ti spiego tutti i problemi che non mi devi fare».

«Cosa ti avevo detto, io, a te? Che ci pensavo io.»

«Saverio è solo da qualche parte, Fermo non c’è più per occuparsi di lui, ed è morto da dieci giorni! Per quel che ne so anche Saverio...» e non riuscì a proseguire.

«Ah, è questo. Chissà che mi pensavo io. Credevo che stavi agitata perché ti volevano interrogare.»

L’auto attraversava Firenze nell’afa che se ne fregava di settembre.

«Non faccia finta che Fermo non avesse a che fare con Saverio.»

«No, lui c’entra, e come no. C’è un appartamento, dietro a casa tua, al terzo piano, che si vede benissimo il soggiorno tuo. Dentro c’erano un po’ di impronte, una era di Berselli. Era uno di quelli che aiutavano, capace che te lo ha messo dietro per settimane.»

Lena non ci poteva credere.

«Da quanto lo sa? Perché non me lo ha detto?»

«Perché non serve che le sai tu queste cose, le devo sapere io. E Berselli non era quello che cerchiamo e in quella casa non ci entrava da mo’, da quando deve avere sgarrato o non ci stava più al gioco, o ha chiesto cose che non doveva o non serviva più o si è preso paura dopo che l’amica tua avvocato è morta. Io dico che lo ha fatto allora.»

«Che cosa?»

Caparzo aveva guardato nel retrovisore.

«Di metterlo in una gabbia. Quella dell’uomo tuo, per dire. Io dico che lo ha tenuto lì dentro per un po’.»

Erano arrivati davanti a casa sua e la volante si era infilata tra i giornalisti per prendere la rampa, giù nei garage.

«E poi qualcosa è andato male. Perché questa stronzata del pentimento non esiste, quello prima stava bene, il medico legale ha detto che era sano come un pesce. E lo sai di che è morto?»

Erano all’ombra, adesso, il motore che si spegneva. Lena scosse la testa.

«Di fame.»

Lei ispirò, inspirò così a fondo che lui lo sapeva che avrebbe urlato, e si era voltato e le aveva premuto una mano sulla bocca, schiacciandola contro il sedile. Lena gli urlò nel palmo, si divincolò, provò a morderlo, ma aveva la testa inchiodata contro il tessuto, e lì rimase finché non smise di agitarsi. Respirava a singulti, se avesse vomitato in auto sarebbe stato un guaio. Il poliziotto scese e fece scendere anche lei. Si guardò intorno e poi la portò nello stanzino dei contatori.

«Tu mi devi aiutare, piccerè, e così non mi aiuti proprio.»

«A lei non frega niente di trovare Saverio.»

«Vero.» Non aveva avuto difficoltà a dirlo. «Ma voglio pigliare a quello che ti vuole fottere, e questo vuol dire che troverò pure a lui. Ma tu devi giocarmi il gioco o non ci riesco.»

«Non c’è più nessun gioco, Fermo è morto, in gabbia o non in gabbia è morto, e infatti sul telefono non arriva più niente.»

«Non è vero, è solo la pausa sua solita, una settimana o due, solo questa. Berselli era solo due mani, non è lui che guida.»

«Non riesco ad aspettare stando ferma a far niente. A vivere come se niente fosse. A far finta che tutto si aggiusterà. Non sono capace.»

Il buio dello stanzino le sembrava denso, come budino, sentiva l’aria comprimerle le guance e in quel buio Caparzo non emetteva alcun suono, sembrava fatto lui stesso di quell’oscurità.

«Adesso ti dico io te cosa sei capace.»

La voce vicinissima, gli sentiva il fiato acre di chi non mangia da troppe ore.

«Sei capace che trovi un telefono e non lo consegni. Sei capace che scopri che c’è qualcuno che ti entra in casa e non avvisi nessuno. Che non cambi la porta, che non vai via. Sei capace che ti chiudono il cane fuori e non chiedi aiuto, e quando ti ridanno la chiave quasi dici grazie. Sei capace che lasci che la gente ti fruga nella borsa e ti segue nei posti e tu zitta, sotto come una pecora. Sei capace che ti dicono di farti duecento chilometri di notte e ci vai. Che ti fanno vedere l’amica tua che scopa e ti dicono che lo fa con l’uomo tuo morto e tu ci credi. Che l’amica tua muore e tu non consegni tutto quello che hai perché così trovano chi è stato. Che l’altra amica tua viene buttata fuori da un treno e tu fai finta che è scappata con uno che non esiste. Che ti chiedono di fare un filmino porno alla tua amica di scuola e lo fai. Che ti chiedono di piazzare la droga a uno e lo fai. Che scegli il nome di una che non ti è simpatica che sai che le faranno del male. Che mescoli del veleno che non sai che è finto con la carne e provi ad avvelenare delle bestie. Che ti metti in mano a uno solo perché ti dice faccio io.»

Lena sentiva dietro la schiena il muro screpolato dello stanzino, era arretrata senza accorgersene, Caparzo sempre addosso, senza sfiorarla.

«Io non dico che sei cattiva. Io lo so come sono i cattivi. Ma non sei la bella anima, non sei innocente. Di quello che è successo hai colpa anche tu. Dell’avvocata, della volontaria, se parlavi non succedeva niente a loro. Ma a te di loro non fregava un cazzo, a te fregava solo dell’uomo tuo, e manco davvero di lui, ma della favola che ti racconti di lui. Perché quello che ti racconti non è esistito, ci credi solo tu, l’amici suoi erano più onesti. E poi non ti devi scordare la colpa.»

Le piazzò il dito indice in mezzo alla fronte e cominciò a ruotarlo, leggero, senza premere.

«Qual è la cosa più brutta che hai fatto a papà tuo? A mammà, che gli hai fatto?»

«Non ho fatto mai niente di male ai miei.»

«Tutti lo fanno. O con le parole, o con i fatti.»

«Mio padre non è stato contento che sia andata via di casa, voleva che lo facessi solo da sposata.» Era l’unica cosa che le era venuta in mente. «Mia mamma si preoccupa perché sono dimagrita, non era contenta quando sono diventata vegetariana, ma poi ho smesso.»

«E quando è successo?»

«Ma perché ha importanza?»

«Rispondi.»

«Tre, quattro anni fa.»

«E che succedeva quattro anni fa?»

Lena aveva esitato.

«Mi sono messa con Saverio.»

Silenzio.

«E mamma tua non era contenta.»

«No.»

«E all’amica tua? Quella del filmino? Prima che male gli hai fatto?»

«Sara? Non ho fatto niente a Sara.»

«Neanche a mamma. Sara non la vedi mai però stava tra le foto e le hai girato il filmino. Che le hai fatto?»

«Eravamo amiche, a scuola, anche dopo, ma poi ci siamo allontanate.»

«E quando?»

Lena aveva capito dove voleva arrivare.

«Lei vuol farmi dire che la mia colpa è stata Saverio? Innamorarmi di lui? Mettermi con lui?»

Caparzo restava immobile, ma sembrava sporgersi sempre di più.

«Chi era contento che stavate insieme?»

E Lena cercò, cercò disperatamente di pescare un nome, uno qualunque.

«Nessuno, solo io. Voglio dire, io e lui.»

«Sicura che lui era contento?»

Le prese in giro, i dreadlock, la canzone degli Articolo 31, la gita a Monteriggioni, gli equilibrismi, le serate in gruppo, i tradimenti, le storie raccontate dopo l’amore, la corsa in ospedale, i soldi pescati dal portafogli, le botte. Cercava di fare di sì con la testa, ma il collo non si muoveva.

Non gli ho mai fatto niente di male.

«Saverio mi voleva bene.» E infantilmente aveva aggiunto: «Mi ha lasciato il cane».

«Non ti ha lasciato niente. È cascato da un ponte.»

A Lena iniziò a tremare un labbro.

«Allora lei dice che quella persona mi sta facendo questo perché mi sono messa con Saverio?»

Lena sentiva il suo respiro, e nel respiro l’odore che c’era sul suo cuscino.

«L’odio nessuno lo regala. E se quella è l’unica cosa che hai sbagliato nella vita tua allora è lì che lui lo devi cercare, come ha fatto l’avvocata, che per te si è presa tutti i rischi che poi l’hanno strangolata. E sai perché? Perché lei aveva capito chi era questo.»

Al dito si sostituì tutta la mano, enorme, che le passò sulla fronte, sul naso, sulla bocca, scendendo al mento.

Ora strangola anche me, gli resta solo quello da fare.

«Ora ascoltami, picceré, e ascoltami buono. Tu non hai fatto niente per salvare l’uomo tuo, niente. Io sto facendo qualcosa per salvarlo, e mi sto giocando tanto sulla salvezza tua e sua.»

La bocca sostituì la mano e Lena si chiese come avesse potuto credere che non avesse odore, quell’uomo era impregnato di mille sfumature di acido pungente e amaro. Le parlava sulla faccia, bisbigliando così piano che a malapena lo sentiva.

Mi divora.

«Tu da ora mi ubbidisci, sì? E ti calmi. E mi dici tutto quello che succede, ogni cazzata, ogni colpo di tosse me lo dici a me. Io lavoro per tutti e due ma devo sapere che se ti dico di stare sicura tu ci stai e che se ti dico che ti butti nel fuoco ti ci butti. Come se sono il tuo dio, devi avere fede cieca. Perché» bocca su bocca «io te lo trovo e gli mangio il cuore. E dopo, quando avremo finito, mi piglierò la mia ricompensa.»

L’indizio su quale fosse le premeva addosso.

«Hai solo me, picceré. Hai solo me.»

Si era tirato indietro tutto insieme, il calore che spariva con il suo corpo, l’aria che tornava respirabile. E improvvisamente

«Perché a te ti chiamava Maria?».

Lei battè le palpebre, erano umide.

«Gli piacevano i soprannomi.»

«E a me come mi avrebbe chiamato?»

Era tutto surreale.

«Avrebbe usato un diminutivo. Qualcosa di tradizionale, Cesco, Cecco, Checco. Checco si usa più tra ragazzi, Cecco è della generazione dei nostri padri, Cesco non si usa praticamente più.»

«Sono tutti nomi ’emmerda.»

Aveva pensato a Saverio che gridava “O grullo!” per prendere in giro i suoi amici tutti yeah e termini americani. “Non c’è niente di più innovativo di un termine vecchio” se n’era uscito una volta.

«Cecco» disse a bassa voce. «Avrebbe scelto Cecco.»

«Cecco. Allora tu da adesso non mi chiami più agente Caparzo ma mi chiami Cecco. E mi dai del tu. E da domani ti chiudi dentro e fai solo quello che ti dico io.»

«Va bene.»

Cecco allungò la mano e se avesse voluto le avrebbe afferrato di nuovo tutta la faccia. Ma si fermò poco prima.

«Io te lo prendo.»

E poi si prende me.

Gli era dispiaciuto che avesse pensato al sesso. Non c’entrava il sesso, gli era venuto duro perché sempre il potere gli faceva così, a ogni carica e a ogni manganellata gli veniva sempre più duro, quasi un fastidio. Ma andava bene, poteva essere una motivazione in più. Non era cattiva, no, ma la debolezza è sempre una forma di male, più nascosto, sotterraneo, ma fa marcire il raccolto. Certa debolezza non ce la si poteva permettere. Quella sera Ridenti avrebbe controllato l’auto che gli aveva segnalato sul filmato di sorveglianza, una Fiat Tipo station wagon che secondo lui in quella zona ci passava perché il proprietario abitava lì, a Vignola o a Bazzano. Ne avrebbero controllate comunque a decine, di auto, aveva solo anticipato i tempi. A margine di quel lavoro inutile nei giorni seguenti dovette studiarsi come recuperare le impronte di Donadio, che a questo punto era tanto quanto Bartolomei o Berselli, i tre deboli, in quella storia. E i deboli erano pericolosi. Donadio non sembrava più tanto affranto per la scomparsa della bruttona, qualche mese ed era tornato un fiore. Possibile che davvero volesse solo infilzarla, la Bacarelli, ma Caparzo non si era mai fermato alla prima ipotesi, pure se spesso era quella giusta. Figlio di genitori separati, per un periodo era stato con la madre e poi con il padre, guardia forestale, che gli aveva trasmesso l’amore per gli animali. Restava a carico del padre anche dopo i diciotto anni, una pensione in due, poi a ventuno entrava a lavorare in ospedale, aveva frequentato un corso di 90 ore e da allora si era occupato della sterilizzazione del materiale operatorio. Fine. Il resto si sapeva, il rapporto con la Gatteschi, la dipendenza da farmaci. Nessun incidente, nessuna frequentazione strana, se non si conta quella donna brutta di quattordici anni più vecchia di lui che si era sostituita alla madre.

Niente.

Quale uomo non lascia alcuna traccia?

Quale uomo riprende a vivere improvvisamente dopo una convivenza di anni, cinque per l’esattezza, finita sotto le rotaie di un treno?

“Uno che ha ammazzato la bruttona, per esempio.”

Ma no, le telecamere lo scagionavano, per quella notte. La Bestia cercava di restare concentrato su Donadio, ma il collega, Ronchi, entrò nella saletta dove andavano a rullo i filmati delle strade e gli disse:

«Ci hanno passato una grana, Caparzo, una mano alla polfer dalla fine della settimana, stanno cercando di beccare un gruppetto che fa casino sui treni. Ci facciamo la settimana prossima in stazione e quella dopo sui regionali, se non li beccano prima».

La Bestia aveva annuito, pur se non gli piaceva, il treno lo portava via da Firenze e se c’era bisogno non sarebbe potuto tornare in tempo. Doveva far organizzare i turni della Bacarelli perché coincidessero con i suoi e lei fosse in albergo mentre lui era via.

«L’orari li abbiamo?» chiese, e Ronchi gli allungò un foglio.

Caparzo pensò che poteva andare peggio.

Castellacci era stato comprensivo, probabilmente c’era stata una telefonata di Ridenti, era possibile sollevare la signorina Bartolomei dai turni per un paio di giorni? Finché la buriana non cala? Il proprietario aveva modificato il calendario e lei era rientrata al lavoro una settimana prima dell’apertura delle scuole. I giornalisti davanti a casa avevano quasi tutti mollato, vedevano entrare un tizio barbuto che se ne usciva col cane e rientrava poco dopo, i genitori di lei e una volta sola una donna bella con i capelli neri ricci che gli aveva inveito contro, dandogli dei parassiti.

«Con tutto lo schifo che c’è nel mondo questi non trovano di meglio che stare addosso a te?»

Lena era talmente stritolata tra quelle quattro mura che era stata felice di preparare un tè ad Astrid, facendo finta che fossero i bei tempi andati. Tutte le banalità possibili su Fermo erano state dette, i lavori al rifugio erano andati avanti grazie alle donazioni di alcuni filantropi e adesso sembrava di stare in un bunker.

«Saranno pure a circuito chiuso ma mi sento addosso gli occhi di quelle telecamere, mi sembra di soffocare» si era lamentata Astrid.

Aveva trovato bene Argo, forse starsene tranquillo a casa gli aveva giovato, del resto con il caldo che faceva ancora, tutta colpa dell’inquinamento e dei maledetti americani.

«Hai saputo di Marta?»

«Cosa?»

«Niente, ha tagliato i ponti un po’ con tutti, non vuole più collaborare con i rifugi e cazzate simili.» Astrid aveva strofinato pollice, indice e medio a intendere che fosse una questione di soldi. «Sarà in premenopausa» aveva aggiunto maligna.

Le settimane di silenzio erano diventate quattro, Lena aveva cercato così tante volte i dati per sapere quanto può resistere un corpo senza cibo né acqua, c’erano siti che dicevano dieci giorni, altri che dicevano che dipendeva dalla forma fisica, altri che si basavano sulla temperatura esterna e sulle attività dell’organismo. In ogni caso il limite era stato superato.

Se è morto lo è già da almeno una settimana.

Quando la temperatura era calata, il nove di settembre, Lena si era presentata al Grand’Arno puntuale per preparare tutto prima dell’arrivo dell’ultimo pullman di alta stagione. Non era riuscita ad attraversare le porte automatiche perché un tizio alto e magro era riuscito a intercettarla un attimo prima.

«Signorina Bacarelli, posso farle qualche domanda sul caso Valacchi-Berselli?»

Aveva chiuso gli occhi sperando che succedesse qualcosa, un fulmine, un’emorragia cerebrale che la stroncasse lì, sui gradini, e invece le porte si erano aperte, una voce aveva detto

«Le ho detto di andarsene! Chiamo la polizia!»

e si era sentita trascinare dentro, al fresco. Quando aveva avuto la forza di guardare si era ritrovata Gianluca lì, a osservarla per vedere se stesse bene, e così da vicino non le era sembrato perfetto e impeccabile, ma esausto e provato. D’istinto gli si era appoggiata contro, forse stanchezza, forse gratitudine, e aveva sentito il brivido che lo percorreva, e le braccia a cingerla e le parole tremanti

«Scusa, scusa cazzo. Scusa, quelle foto erano una merda, scusa».

Poi si era messo a piangere, per il sollievo, perché per lui era il momento di andare oltre. E anche Lena aveva pianto, ma per le ragioni opposte.

A Santa Maria Novella c’era il malumore diffuso delle vacanze finite, la gente aveva fatto le valigie perché la settimana dopo tutto ricominciava, la scuola, il lavoro, il tran tran, lo spauracchio dell’inverno dietro l’angolo. Caparzo aveva consegnato una lista di altre sette auto che erano andate e venute in un arco di tempo sospetto nelle giornate tra il 22 e il 24 agosto, il 21 era troppo presto, il 25 troppo tardi. Molto difficili i rilievi notturni, ma il traffico era ridottissimo e addirittura scompariva a tratti. Le ronde avanti e indietro sui binari lo aiutavano a pensare. Aveva spedito le impronte a Vitale quella mattina, recuperando un bicchierino da caffè in cui Donadio aveva bevuto, e prima ci aveva passato un tampone per prendere il dna, come aveva fatto sul bidet del vecchio. Aveva buttato lì se potesse fare anche un confronto con le impronte schedate di Saverio Bartolomei, piccolo tossico locale sparito dalla scena da un po’. Era in ritardo sulla tabella di marcia, aveva deciso di levare dal mazzo alcune carte, partendo dai tre teppisti amici di Bartolomei su cui poteva far improvvisare un’indagine. Di norma avrebbe piazzato della roba e poi l’avrebbe fatta trovare, ma questo lo aveva già ordinato lo stronzo alla Bacarelli e non voleva che pensasse che non sapeva avere idee migliori. Il fine settimana seguente c’era una manifestazione patriottica a Roma e i tre stronzi, sicuro come l’oro, si sarebbero organizzati per andare a fare casino, se si giocava le sue carte quella poteva essere un’occasione buona per beccarli a fare qualcosa.

In un modo o nell’altro via dal mazzo.

Mentre lui e Ronchi tornavano indietro dal binario 3 il telefono aveva cominciato a vibrare. La Bestia era in servizio, non avrebbe risposto, non prima di aver finito il turno, ma poteva essere elastico almeno sul buttare un occhio al numero. Non lo conosceva, evidentemente era un errore. Ma qualche minuto dopo arrivò una seconda telefonata, e fu dura far arrivare le undici per il cambio. Stava andando all’auto che aveva già composto le cifre.

«Pronto?»

«Agente Caparzo, ho provato a chiamarla tante volte.»

«Chi sei?»

Un’esitazione infinita, e da questo lo aveva riconosciuto.

«Ci siamo visti qualche giorno fa, si ricorda? Io ero un» scelse bene il termine «consulente esterno dell’avvocatessa Valacchi. Informatico. È venuto da me a chiedermi...»

«Ho capito. Dimmi.»

«Niente, mi aveva detto di avvisarla se capitava qualcosa su quel numero.»

«E allora?»

«Questa sera, alle 21, il telefono ha ricevuto un messaggio.»

Vicino alla sua auto aveva riconosciuto subito la sagoma familiare dell’Opel Astra, e appoggiato al cofano c’era Lucio.

«Ciao, Lena.»

«Ciao, ti ho cercato tantissimo, ti ho lasciato un sacco di messaggi.»

«Sì, li ho visti.»

«E perché non mi hai risposto?»

Lucio aveva subito distolto gli occhi, guardando altrove.

«Ho avuto... ci sono stati alcuni giorni difficili...»

«Sì, Marta mi ha detto che avete discusso.» Le orecchie del

ragazzo

l’uomo erano subito diventate rosse.

«Ho chiesto di te anche al lavoro, scusa ma mi ero preoccupata. Mi han detto che eri in malattia.»

«Sono rientrato, era appunto... così.»

Cercava di essere spiccio, ma non gli riusciva del tutto, si vedeva che era a disagio.

«Non sono bravo in queste cose. Io ti volevo dire che tu sei stata gentile, sei stata molto gentile con me e io l’ho apprezzato.» Fece una pausa, sembrava dovesse raccogliere le parole una per una e metterle in fila. «Però adesso preferirei che mi lasciaste tranquillo. So che volete aiutarmi, ma faccio da solo.»

Volete. Parla di me e Marta.

«Sì, d’accordo. Ad Argo mancherai un po’.»

Lucio strinse le labbra. Poi le tese la mano come un burattino, un gesto fuori luogo, ridicolo. Lena provò a mettergli la sua sulla spalla, ma lui scattò indietro, come temesse di essere toccato.

«Allora ciao. Stai bene.»

Era salito e l’Astra se n’era andata sgommando. Le dispiaceva, era stato strano, come aveva detto Marta, e pure per Marta le dispiaceva un po’, ma erano dolori minimi, cosa potevano significare per lei in quel momento? Non c’era via d’uscita, le vie erano finite, non poteva fare niente, povera pedina inutile.

Non capisco perché vado avanti.

Finché non trovano il corpo.

I gesti meccanici, era arrivata a casa, aveva portato fuori il cane, solo in giardino, poi si era cambiata e aveva annaffiato sulla pipì perché così volevano i vicini, poi era andata alla cassetta delle lettere e aveva preso il Samsung senza più nascondersi, era una pantomima inutile ormai, poteva tenerlo in casa, ma Caparzo il Grande e Terribile le aveva detto di non cambiare nulla e lei non cambiava nulla, ubbidiva a testa bassa, perché lui aveva ragione, solo di questo era capace.

Dopo l’accensione il Samsung aveva bippato.

Un messaggio.

Non è vero, non crederci.

Numero sconosciuto.

È un bluff, è Caparzo che vuole farmi credere che il gioco prosegue ancora.

Ma erano parole terribilmente convincenti.

FERMINO È DURATO QUATTRO GIORNI. VEDIAMO QUANTO DURA SAVERIO.

E prima di nuovo l’oceano del sollievo a invaderla.

Poi il freddo.

Perché a quel messaggio non ne erano seguiti altri che le dicessero come salvarlo.