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Mattia la guardava stranito.
«Devo fare che?»
«Mi devi tenere Argo.»
«Ma se fino a oggi non l’ho mai fatto!»
«Solo perché non te l’ho chiesto.»
«E hai fatto bene, che ti dicevo di no.»
Lena non passava dal negozio da diversi mesi, ormai. Con Mattia di solito si vedevano in un bar poco distante dall’albergo, per due chiacchiere di circostanza che lui ciclicamente si sentiva in dovere di elargirle. Il nuovo commesso non le piaceva, antipatia reciproca, ed era troppo doloroso guardare la porta chiusa dietro la quale si era svolta gran parte della sua storia d’amore. Gli scaffali erano sempre gli stessi, gli oggetti cambiavano a seconda delle stagioni e dei traffici del proprietario, meno Oriente e più Russia, mentre l’Africa restava stabile. Quella mattina c’erano un paio di habitué in più, Germano, vecchissimo amico, anche anagraficamente, di Mattia, e Riccardo, detto Mometto, un uomo nerboruto con la barba da indiano. Lui e Saverio erano stati molto legati, per un periodo, e Lena sapeva la storia del soprannome che gli aveva affibbiato, quando durante una trasferta romana era finito a letto con un ragazzo conosciuto quella sera e a metà dell’opera gli era venuto il dubbio
«Ma ce l’hai il preservativo?»
e l’altro, completamente fumato, gli aveva risposto
«Sì, sì, mo’ m’o metto».
Da quel giorno, grazie alle prese per il culo goliardiche di Saverio, era diventato Mometto. Lui e Argo si conoscevano bene e mentre gli altri parlavano lo grattava sotto il muso, facendogli chiudere l’occhio buono.
«Questa volta è diverso, Mattia, stamattina ho proprio bisogno.»
«Sì, ma perché io? E tutti i tuoi amici animalisti? E cosa, lì, Astrid, non te lo tiene? E la bruttona?»
«È un’emergenza, sono venuti i ladri, stanotte.»
«E dove, a casa tua?»
«Nel mio condominio. E siccome sono passati dai giardini la polizia mi ha chiesto di poter usare il mio appartamento per controllare il percorso che hanno fatto. Quindi adesso sono lì, con tutto aperto, anche il giardino, e ovviamente non posso lasciarci Argo.»
Non stava in piedi, e lo sapeva. Era una bugia a tutto tondo perché quella mattina non aveva sentito voci nell’androne e la Tasselli non pareva essersi ancora accorta di nulla, ma sarebbe successo, questione di ore. Dei pubblici ufficiali, poi, non sarebbero rimasti nell’appartamento senza di lei, le avrebbero chiesto di prendersi un permesso sul lavoro o qualcosa di simile, ma Lena confidava nel fatto che tutti si sarebbero concentrati su una parola sola.
“Polizia.”
L’odio per le forze dell’ordine nella branca tossica degli amici di Saverio era fortissimo quasi quanto nella frangia teppista. I figli di papà che avevano scelto di fare gli alternativi non le volevano sentir nominare, partivano subito gli insulti e serpeggiava una strana tensione, quel senso di disagio che si porta sempre addosso chi ha fatto qualcosa e teme di essere beccato.
«’Sti sbirri di merda, vanno a casa della gente anche quando non c’è, adesso» intervenne subito Mometto tirando su il collo da un lato.
Era uno dei tanti tic che aveva, come quello di far scattare solo metà della bocca in un pezzo di sorriso o di inspirare rumorosamente come se stesse tirando coca. Una volta lui e Saverio erano finiti insieme in ospedale e Mometto era entrato in coma.
«Era tagliata male» ripeteva Saverio agli infermieri che cercavano di bloccargli l’emorragia dal naso e che qualche minuto dopo avrebbero dovuto acchiapparlo per i capelli per arresto cardiaco. Quale che fosse la roba tagliata male, aveva lasciato tracce su entrambi, a volte Saverio si incespicava nel parlare, soprattutto quando era sotto stress, e Lena aveva imparato a non farglielo notare. Un giorno si era bloccato proprio, balbettava senza riuscire a procedere ed era diventato così rosso che per un attimo lei aveva temuto stesse per soffocare. Un’amica di Betta le aveva passato a malincuore il nome di una logopedista, una tizia gentile e corpulenta che aveva incontrato una volta sola il ragazzo e gli aveva insegnato un trucco per sbloccarsi quando non fosse riuscito a proseguire con le parole.
«Devi trovare un suono, può essere tac, può essere ciac, non deve essere qualcosa che abbia senso, ma ti deve venire facile da dire. Se ti inceppi fai quel suono e vedrai che ti sbloccherai.»
Aveva funzionato, forse non era nemmeno un metodo vero e proprio ma solo una trovata per sviare la mente quando andava in loop, però da allora, quando mente e labbra andavano in cortocircuito, Saverio diceva pam! e ripartiva. Nei giorni seguenti Lena lo aveva trovato spesso in un angolo del negozio, con colori e pennelli, a dipingere una minuscola tela, meno di una spanna, che poi aveva spedito alla dottoressa. Aveva tratteggiato dei fiori viola, probabilmente iris. Era stato il solo gesto di vera gratitudine che gli avesse mai visto compiere. Mometto invece aveva fatto una scelta più radicale e si era pulito, pulito del tutto. Saverio lo ammirava moltissimo per questo, perché non aveva chiesto aiuto e aveva fatto da solo, soffrendo come una bestia.
«La cosa più difficile è che non può più bere nemmeno una birra o prendersi una pastiglia per dormire» diceva, sapendo di non avere altrettanto spirito di sacrificio. Di tutte le dipendenze Mometto se ne era lasciata una perché mitigasse almeno in parte la devastazione lasciata dal resto: una sigaretta al giorno. Se la metteva come segnalibro, perché leggeva tanto (anche in questo lui e Saverio erano simili), e la fumava la sera prima di andare a letto. Sapere che era lì, pronta ad aspettarlo, era perno del suo equilibrio. Ora tratteneva abbastanza bene i tremori alla mano mentre accarezzava Argo, i guizzi dei muscoli che si vedevano sotto la pelle.
«Sì, ma per quanto tempo? Quando lo puoi riportare a casa?» insisteva Mattia.
«Quando ho finito il turno, alle quattro.»
«No, ma scherzi? Non se ne parla.»
«Oh, io non lo tengo, eh? Piuttosto chiudiamo baracca e ciao» ci tenne a sottolineare il commesso, barricato dietro il bancone e pronto a fuggire se Argo si fosse avvicinato.
«Ma dai, lo si piglia noi e si porta a fare un giro.»
Mometto non attese autorizzazioni e levò il guinzaglio dalle mani di Lena.
«Però non deve camminare troppo, lo hanno operato alla zampa dietro.»
«E tu non devi rompere i coglioni, abbiam detto che lo teniamo e stai zitta, no?»
Sorrideva, il barbone che sfiorava le orecchie del cane, e anche a Lena venne da sorridere.
«Grazie, vi devo un favorone.»
«Poi fai sterilizzare la casa, dai retta. Sbirri di merda.»
Lena si allontanò sventolando la mano, incredula su come fosse stato facile, visto che si aspettava una vera guerra. Doveva saperlo al sicuro, quella mattina
Visto, Saverio? Non lo lascio solo, lo lascio con Mometto. Lo porterà in quella focacceria dove andavate sempre e gli darà delle schifezze, così stanotte mi vomiterà sul cuscino.
perché non sarebbe andata all’hotel prima di due ore e aveva una cosa da fare.
Non era mai stata una bugiarda, non le piaceva mentire, ma era capace di farlo. Lo aveva dimostrato negli ultimi due giorni ma le era successo anche in passato, di mentire per una giusta causa. Con sua nonna in ospedale, per esempio, quando le chiedeva con gli occhi spaventati e rapaci se il suo male fosse davvero brutto e lei scuoteva la testa dicendo che no, non era bruttissimo, ora vedevano come sistemarlo, e una settimana dopo non c’era più. Quando Elisa era stata lasciata da Mirko e con le altre amiche facevano a turno a stare con lei per paura che si ammazzasse, a tenere su il teatro che lui fosse un bastardo maledetto, meglio perderlo che trovarlo, mentre la colpa era di lei, soffocante, invadente, che pretendeva di fargli cambiare lavoro, testa e vita. All’hotel, il giorno che una turista cingalese si era riempita la borsa di brioche e arance della prima colazione per andare a fare una gita e i camerieri l’avevano bloccata, lei era intervenuta per dire che il direttore era d’accordo. E poi aveva mentito dozzine di volte a Saverio quando, a bufera passata, le chiedeva se le avesse fatto male. Certo che le aveva fatto male, e quello fisico era il meno importante, ma era disposta a pagare quel prezzo, pur di stare con lui. Perché? Perché aveva deciso così, la pelle e l’anima erano le sue, poteva farci quel che voleva. Adesso cercava una bugia buona per giustificare il suo ritorno al rifugio di Fermo. Il cane ha perso la medaglietta, si è sentito male ieri sera e forse ha mangiato qualcosa qui, vorrei prenotare un soggiorno per quando vado in vacanza, preferisco pagare tardivamente per il disturbo, non funzionava niente. Ovviamente non poteva dirgli “il mio ragazzo creduto morto è venuto qui ieri a fotografare Argo in un box dove non sapevo che l’avresti messo e vorrei sapere se tu lo hai visto e se lo conoscevi”. Quindi esitava davanti al portone di metallo sprangato.
Magari nemmeno c’è.
Pensò ad Alex e alla brutta figura che stava per farle fare, era andata lì raccomandata da lei e ora si ripresentava per
Cosa?
disturbare. Non poteva concedersi altro tempo in esitazioni, le restava un’ora libera e suonò il campanello. Sentì i passi sul ghiaietto e Fermo le aprì con la stessa espressione neutra del giorno precedente. Era un uomo qualunque, maglione e jeans sporchi, non c’era nulla di inquietante in lui a parte quell’aria distaccata e indifferente, così lontana dall’aspetto focoso di tutti gli animalisti che aveva conosciuto, Saverio compreso. Non la salutò, non fece nemmeno cenno di riconoscerla.
«Ciao, posso entrare?»
Si spostò, due passi e Lena era dentro, tre passi e il cancello era chiuso.
«Ieri sono venuta e andata di fretta e non abbiamo avuto nemmeno il tempo di parlare un attimo.»
Fermo fece cenno di sì, non sembrava essere in attesa di una spiegazione. C’era un silenzio irreale, non si sentivano le macchine fuori ma soprattutto non si sentivano i cani dentro. Lena decise di tagliare la testa al toro, andare per la via più breve, gli allungò la mano e disse.
«Sono Marilena Bacarelli, la ragazza di Saverio Bartolomei.»
Niente, non un cenno di riconoscimento, Fermo prese la mano e le diede una vaga stretta, poi la abbassò di nuovo lungo il fianco.
«Tu lo conoscevi, Saverio?»
Ecco fatto. Tutto lì, non era stato difficile. Fermo la guardava e non rispondeva, non gli era cambiato nulla nello sguardo. Restava neutro. Sempre che “neutro” fosse la parola giusta. Forse quel suo essere sospeso non era manifestazione di disinteresse ma di sospetto. E tutto taceva. E i cani non abbaiavano.
«Ti ha mandata Alex?» si decise finalmente a dire.
«Sì, come ti ho detto ieri siamo amiche, anche lei l’ho conosciuta tramite Saverio.»
Pausa. Non cambiava niente, restavano lì nel cortile, circondati di ghiaia e piante in vaso, a guardarsi. Lena si sentiva tesa, ma non avrebbe mollato.
«Tu lo conoscevi, Saverio? Eri nel gruppo animalista?»
«No.»
Nessuna esitazione. O diceva la verità o aveva la risposta già pronta. Di nuovo Lena scelse la via più diretta.
«Posso vedere la gabbia dove hai messo ieri Argo?»
«Perché?»
«Perché vorrei vederla.»
Fermo si avviò nella stessa direzione in cui era sparito il giorno prima insieme al cane, oltre delle specie di palme in enormi vasche di cemento. Non aveva negato di averlo messo in gabbia, quindi non la considerava una colpa, qualcosa di sbagliato come invece l’avrebbe considerato Astrid. A ogni passo Lena si rendeva sempre più conto di essere da sola in un posto che non conosceva, con un uomo che non conosceva e nessuno che sapesse che si trovava lì.
Brava, ben fatto.
Eppure non era spaventata, avrebbe dovuto ma non lo era. Svoltarono un angolo e improvvisamente esplose un boato di latrati, la parte posteriore del cortile era suddivisa in rudimentali recinti, box e anche qualche gabbia vera e propria, tutti stipati di animali. Astrid avrebbe dato in escandescenze, a lei invece frullava nella mente un solo pensiero: nessuno sarebbe potuto entrare in quello spazio senza farsi notare. C’erano dozzine di allarmi viventi pronti a mettere in allerta il proprietario.
Ammesso che stia sempre qui.
«Senti, tu per caso ieri sei andato via? Nel senso, resti a sorvegliare i cani oppure c’è qualcuno che ti aiuta, che ti sostituisce?»
«È questo.»
Invece che risponderle Fermo si era fermato davanti a un box in cui adesso stavano chiusi due cagnetti di taglia media. Aveva un’apertura in metallo fatta a griglia ondulata e dentro c’era un bello spazio, tre metri per quattro, a occhio. Quello in cui era stato chiuso Argo era più stretto, scuro, e aveva le sbarre.
«No, non era questo.»
L’uomo si voltò a fissarla, e questa volta lo sguardo era diverso, spazientito. Il coro dei cani non si attenuava ma Lena a malapena lo sentiva.
Mi sta mentendo. Non ha risposto a nessuna delle mie domande, risponde solo a quello che vuole in ordine casuale.
Forse vuole coprire Saverio.
Forse vuole proteggerlo.
«Ascoltami, Fermo, non voglio creare problemi, so che ieri Saverio è stato qui. Magari è vero che non lo conosci, ma se lo conosci guarda che va tutto bene, è in contatto anche con me. Vorrei solo che mi dicessi
Cosa?
come sta, se ti ha raccontato qualcosa, come...»
«Non conosco nessun Saverio, qui ieri non è venuto nessuno e io non sono andato via. E il box era questo, ci ho spostato gli altri due cani dopo che te ne sei andata.»
Con un sospiro Lena infilò la mano nella borsa ed estrasse il Samsung. Selezionò la foto ricevuta il giorno prima e gliela mostrò. Fermo la osservò aggrottando la fronte. Poi infilò la mano nella tasca posteriore dei jeans e tirò fuori il suo cellulare.
Ora chiama Alex.
Si mise a digitare e poi borbottò
«Ah, ecco»
alzando il dito in un gesto vago, e attraversò il cortile. Lena lo seguì fino a un box dalla parte opposta, occupato da un setter con gli occhi cisposi.
«Ho fatto casino tra il tuo cane e questo. Stava qui, ieri.»
Lena controllò la foto e sì, era il box giusto. Guardò Fermo e lui le mostrò il cellulare. C’era una foto, identica alla sua, di Argo dentro al box. Lena sentì il sangue che le defluiva dal viso.
«Ma quando te l’ha mandata?»
«Nessuno me l’ha mandata, l’ho fatta io. Faccio sempre le foto ai cani nei box quando arrivano, nel caso poi vomitino o sporchino, che poi i padroni cagano il cazzo a me dicendo che il box non era pulito. Vedi?»
Fece scorrere col dito le altre immagini ed erano tutte di cani dentro ai box o nelle gabbie piccole. Non poteva averne la certezza ma la logica diceva che non le stava mentendo. Le girava la testa, si attaccò alle sbarre per non cadere.
«E tu non l’hai mandata a nessuno?»
«No. A chi la dovevo mandare?»
«Nemmeno ad Alex?»
«Non la sento da mesi, me l’hai nominata tu ieri.»
«E allora come spieghi che ce l’abbia io? Se tu non me l’hai mandata...»
E improvvisamente il dubbio: chi era quell’uomo? Davvero non conosceva Saverio? Conosceva Alex ma diceva di non vederla da mesi, eppure lei l’aveva mandata lì, il giorno prima, quando aveva avuto bisogno di sistemare Argo dopo quella faccenda della gallina... Le fischiavano le orecchie, voleva solo andare via. Si mosse verso le vasche di cemento, aspettandosi che Fermo la seguisse, cercasse di fermarla, le facesse delle domande. Invece arrivò fino al cancello di metallo sprangato.
Non uscirò mai da qui.
C’era un bottone con lo scrocco. Lo premette e quello si aprì.
La sala dell’hotel era immobile, incupita dalla scarsa luce esterna, i mobili pesanti di legno scuro e lucido che affondavano nei tappeti. Odore di polvere, unico suono quello dei fogli di carta spostati, a volte un colpo di tosse, mancava giusto una pendola a stabilire che le ore non sarebbero passate mai. Katia avrebbe finito il turno prima di lei e l’ultima ora l’avrebbe condivisa con Gianluca, di nuovo. Lena sentiva la testa pesante, schiacciata da pensieri come macigni. Come era arrivata la fotografia di Fermo dal suo cellulare al Samsung? L’aveva mandata lui a Saverio, che diceva di non conoscere? L’aveva mandata ad Alex e Alex a Saverio e Saverio a lei, quindi Alex sapeva tutto? Erano tutti d’accordo, Saverio, Alex e Fermo, per punirla? In quei due anni l’amica aveva saputo che era vivo, era rimasta in contatto con lui, gli aveva passato informazioni su quanto lei si stesse comportando in maniera inadeguata? E se lo sapeva Alex allora lo sapeva anche Astrid? E Mattia? Lei era stata l’ultima? Era un’enorme, terrificante presa in giro in cui tutto il mondo fingeva che Saverio fosse morto e lei era l’unica che ci credesse davvero?
Paranoia.
Sì. E no. Saverio poteva anche essere andato al rifugio, aver visto Fermo che scattava la foto e poi lasciava il cellulare da qualche parte, essersi spedito l’immagine e poi averla girata a lei. Impossibile che non si fosse fatto scoprire, a meno che Fermo non le avesse mentito e fosse andato via lasciando il cellulare incustodito. Un po’ troppo cervellotica come soluzione ma poteva essere. Solo: perché? Perché non scattarne una lui, già che era lì? E di nuovo ecco che rispuntava l’ipotesi di Alex. Alex aveva sempre avuto una vera e propria venerazione per Saverio, lo considerava l’esempio perfetto del Giusto Animalista, colui che agisce per il bene, con senso pratico, senza perdersi dietro a questioni filosofiche e morali che poi alla fine di bestie non ne salvavano una in più. Quando raccontava del loro raid al Mombello le brillavano gli occhi e diventava quasi carina. Lena non le diceva che Saverio parlava di quella notte come di una spedizione punitiva in cui avevano pisciato in testa al sistema e che i dettagli non se li ricordava perché era troppo ubriaco e troppo fatto. Le sarebbe piaciuto credere in quel Saverio d’animo nobile che voleva salvare il mondo, ma purtroppo non era così, non era stato così. Di tutte le persone che dal giorno del funerale in poi erano entrate nella sua vita Alex era quella che maggiormente l’aveva fatto per Saverio. Lei e Lucio, il suo ragazzo, l’avevano presa sotto l’ala nella stessa maniera pratica in cui, secondo loro, l’avrebbe fatto lui. Lucio le aveva portato a casa innumerevoli zuppe di legumi e verdure dell’orto, Alex, che aveva doti più organizzative, si era occupata del passaggio di proprietà del cane, dell’assicurazione, del separatore per l’auto così che potesse viaggiare a norma di legge. Quando Lena aveva dimostrato di riuscire a stare di nuovo sulle sue gambe avevano allentato le briglie, senza però mollarle mai del tutto. Alex la credeva un’incapace fortunata, su questo non c’era dubbio, ma era buona d’animo e ogni volta le dava una possibilità in più di smentirla. Le sembrava impossibile che avesse cospirato con Saverio contro di lei, ma quella era una situazione estrema, e nelle situazioni estreme le persone fanno cose imprevedibili. Come Saverio che se l’era presa col cane. Non in senso stretto, non aveva fatto del male ad Argo, figurarsi, però per dimostrare che lei era una cattiva padrona e che aveva agito male lo aveva fatto impazzire dietro alla gallina di gomma e poi lo aveva chiuso fuori, sotto l’acqua, di notte. Magari lei la faceva tragica, magari quando si era svegliata Argo era chiuso fuori da pochi minuti
Quindi lui era appena uscito di casa.
ma era comunque marzo, pioveva, faceva freddo, non era da lui, non era da vecchio vertice della piramide. Cosa voleva? Per cosa la puniva?
APRI, MARIA.
Voleva che lasciasse la porta aperta, che gli dimostrasse di fidarsi completamente. E lei non ci riusciva, perché la modalità che aveva scelto era troppo strana, non aveva senso entrare di nascosto in casa sua quando non c’era e poi non volerla incontrare di persona. Mandarle messaggi e non chiamarla. Seguirla ovunque, seguire Argo e restare comunque nascosto.
Non con il cane, il cane lo ha incontrato, gli ha cambiato la benda, e Argo se l’è lasciata cambiare. È me che non incontra.
Forse in quei due anni era successo qualcosa. Forse aveva addirittura FATTO qualcosa, e il suo stare nascosto assumeva nuovi significati. Del resto se quella notte aveva deliberatamente lasciato il portafogli sul ponte per far credere di essere morto forse stava già coltivando strane idee. Le domande e le ipotesi si affastellavano le une sopra le altre, soffocandosi a vicenda. Non c’erano risposte, non ci sarebbero state fino a quella sera, forse, quando sarebbe tornata a casa. Per dimostrare buona volontà non aveva chiuso la porta a chiave e aveva lasciato un biglietto sul tavolo. Non una cosa troppo lunga perché l’aveva scritto all’alba, con Argo felice di aver riconquistato il suo angolo di soggiorno, la porta sul giardinetto ancora sprangata, le persiane chiuse. Il biglietto diceva così:
Saverio, mi stai spaventando molto. Ho capito che c’è qualcosa che vuoi dirmi ma non riesco a capire cosa. Aiutami, prenditi il tempo che vuoi, solo non farmi preoccupare per Argo. Non sono una padrona perfetta, ma faccio quel che posso. Resto qui, ti aspetto. Bentornato, amore mio.
L’ultima frase aveva fatto fatica a scriverla, non avrebbe saputo dire perché. Era certa che se non l’avesse aggiunta Saverio si sarebbe risentito, quello era il primo contatto da parte sua, la prima volta che LEI diceva qualcosa a LUI e non viceversa, la mancanza di un moto d’affetto l’avrebbe presa male. Sperava di trovare una risposta, al suo ritorno. Katia se ne andò alle tre in punto, felice di sfuggire a quel silenzio, e Gianluca prese il suo posto, impettito nella giacca fresca di tintoria.
«Sta per venire un altro temporale.»
«Davvero?»
Non trovarono altri argomenti. L’ora seguente trascorse, se possibile, ancora più lentamente. Lena mandò un messaggio a Mattia chiedendogli di portarle Argo davanti all’hotel, così sarebbe andata direttamente a casa.
Devo essere preparata a non trovare nessuna risposta sul tavolo.
Lui aveva scelto il telefono, per comunicare, il telefono, non carta e penna. Ma non si sapeva mai, sarebbe bastato poco, una parola sola a margine del suo biglietto. Cinque minuti prima delle quattro andò a recuperare il soprabito, che già pioveva. Elvio arrivò lamentandosi dell’acqua e un attimo dopo lei era già alle porte scorrevoli, la borsa con i due cellulari stretta contro il fianco, l’ombrello portatile in mano pronto a scattare. Uscì e vide Mattia lì davanti, il cappuccio tirato su, Argo di fianco tutto bagnato. E davanti a loro Betta, sotto un ombrello di Louis Vuitton, che si voltava verso di lei e tuonava
«Come sarebbe che sono venuti i ladri?».
Erano finite in un bar gremito di gente che sfuggiva alla pioggia, la proprietaria doveva essere una cliente di Betta perché subito aveva trovato loro un tavolino libero, non aveva detto niente in merito al cane e aveva pure portato un canovaccio per asciugarlo un po’.
«L’ho messa giù un po’ spessa con Mattia perché volevo che mi tenesse Argo, ma non è stata tutta questa tragedia.»
A Betta non aveva raccontato la balla della polizia che restava in casa sua senza di lei, era un avvocato, sapeva quale fosse la procedura. Ma le aveva detto che erano entrati e avevano girato un po’ in casa, e ora lei voleva accompagnarla, pretendendo di entrare per vedere se avessero lasciato le cose in ordine oppure se avevano abusato della loro posizione. Era successo una volta a casa di un suo collega, era venuta la guardia di finanza a cercare non si sa cosa e aveva fatto più danni di un caterpillar.
«Ma quel caso era diverso, Betta, c’era un’indagine, lo sai che non ci vanno per il sottile.»
Lena le aveva detto che non c’era ragione di accompagnarla, quella aveva insistito, allora le aveva spiegato che il furto non la riguardava e Betta si era inalberata insinuando che era strana, che c’era qualcosa che non andava se non voleva stare con lei alla fine del lavoro, pure con il cane che non l’aspettava a casa, proprio quando si era presa un’ora libera apposta. Piuttosto che innescare Betta aveva accettato di bere qualcosa insieme, aspettando che spiovesse, e ora eccola lì a pensare al tavolo di casa, al biglietto, all’eventuale risposta.
«Allora, scema, cosa c’è che non va?»
«Ma niente, Betta, le solite cose.»
«Anche quel coglione di Mattia dice che ti ha vista strana, agitata.»
«Gli sono sembrata strana perché gli ho chiesto il primo favore in due anni, e perché ho insistito.»
«Scusa, ma perché non hai chiesto a me, per Argo? Lo sai che se serve vengo, mi basta attaccarmi al wi-fi e lavoro anche da casa tua.»
Lo sapeva, per quello non l’aveva chiamata.
«Diciamo che l’ho fatto per una questione di principio, non è possibile che lui non mi dia mai una mano.»
«E te lo deve. Il cane era praticamente mezzo suo.»
Il terreno si faceva pericoloso. Betta non conosceva granché i vari amici di Saverio, quello che aveva visto maggiormente, incrociandolo a casa di Lena mentre arrivava e lei se ne andava o viceversa, era proprio lui, e si erano sputati addosso tutto il veleno possibile. Però della sua cricca si era fatta un’inevitabile opinione che andava da “parassiti” a “delinquenti” e ne aveva per tutti. Quella che tollerava di meno, da brava conservatrice, era la frangia teppista, di cui Mattia, almeno di facciata, faceva blandamente parte. Se sapeva di doverli incontrare indossava i suoi abiti più costosi, con marche in bella vista, e andava loro incontro canticchiando: «Allons enfants de la patrie». A volte Lena trovava la cosa divertente, altre solo irritante, in ogni caso si sforzava di gettare acqua sul fuoco, come adesso.
«Argo viveva nel suo negozio, ma con lui non aveva tutta questa confidenza, non sarebbe stato un bravo padrone.»
«E quindi era giustificato che te lo mollasse sul groppone? Senza darti mai una mano?»
«Mi ha aiutato con la recinzione.»
«Uh, gli si saranno rovinate le mani, poverino.»
La cameriera portò i bicchieri e Lena calcolò che in un quarto d’ora sarebbe riuscita a liberarsi. Argo, sdraiato tra i loro piedi, sospirò annoiato.
«E tu come stai, Betta?»
«Un uccellino mi ha detto che hai un nuovo moroso.»
Lena si concentrò sull’orlo del bicchiere. Katia, o molto più probabilmente Gianluca, entrambi conoscevano superficialmente Betta, avevano amicizie in comune. Forse nessuno dei due aveva parlato direttamente con lei, eppure nemmeno ventiquattr’ore e un pettegolezzo fatto di nulla era arrivato là dove non doveva.
«Katia è una cretina.»
«Eppure, eppure io dico che qualcosa c’è. Perché se anche il coglione di prima dice di averti vista agitata...»
«Non c’è nessuno, Betta. Te l’ho detto, sono giornate strane.»
«Tipo che tua madre sta male e invece sta benissimo?»
Betta aveva sganciato con calma la bomba mentre girava la cannuccia nel liquido arancione. Ecco, adesso i pezzi andavano a posto, Katia aveva detto a qualcuno che sua madre era stata male, questo qualcuno aveva riferito a Betta, Betta si era informata e ora eccola lì.
«Me lo dici da sola o devo torturarti, scema?»
Lena sentì la cappa di calore che l’opprimeva sgretolarsi poco a poco e lasciare il posto a un freddo pungente che le mise addosso una voglia incredibile di piangere. Betta allungò una mano e le sfiorò l’orlo della giacca.
«È una cosa imbarazzante? Hai scopato con un tipo sbagliato?»
Lena fece cenno di no.
«Hai beccato un altro stronzo?»
«Non ho beccato nessuno. E Saverio non era uno stronzo.»
«Hai ragione, Saverio era un figlio di puttana manesco.»
Freddo, freddissimo.
«Betta, smettila.»
«La smetto ma tu mi dici cosa succede. Perché non è da te raccontar balle in giro, Lena.»
Le parole le salirono in gola. Quanto avrebbe voluto dirglielo, dirle del telefono in borsa e del biglietto sul tavolo, della fasciatura di Argo e della chiave scomparsa, dirle che non sapeva come gestire la situazione, che era colma di speranza da star male ma che aveva anche
paura
il dubbio di dove potesse portarla tutto quello. Schiuse le labbra e forse avrebbe detto qualcosa, ma
il suono
il suono improvviso del Samsung. Un suono acuto, prolungato, uno squillo che non era messaggio e non era foto e non era batteria scarica ma era telefonata, di nuovo telefonata. E le mani che le si infilavano nella borsa a forza, buttando fuori tutto, la scritta SCONOSCIUTO a riempire lo schermo, la sedia che si rovesciava nell’impeto di alzarsi in piedi, il cane che sollevava la testa reagendo al suo
«Pronto!»
prima ancora di Betta, che restava lì, sconcertata, e improvvisamente tutto il caos del locale che le impediva di sentire, la corsa verso l’ingresso, il freddo inatteso a saltarle addosso, senza giubbino, sotto la pioggia
«PRONTO!»
urlato con tutto il fiato che era riuscita a raccogliere, e dall’altra parte silenzio in ascolto, poi uno stridio come unghie sulla lavagna, pioggia anche lì, e in sottofondo eco di abbai.
«Saverio! Saverio, dimmi qualcosa! Parlami, sono io, parlami!»
Un passante le urtò la spalla e istintivamente lei si piegò a proteggere il telefono mentre alle sue spalle la porta si apriva di nuovo
«Ma cosa cazzo dici?!»
e Betta le piombava addosso, più spaventata che arrabbiata, l’impermeabile griffato messo in qualche modo, la borsa appesa al gomito e Argo strattonato dietro.
«Chi è al telefono? Con chi parli?»
E lei, disarmata, gli occhi pieni di lacrime e pioggia, incapace di mentire.
«Saverio.»
L’altra si era buttata come una furia con la mano libera verso il cellulare, e Lena a tirare indietro, tenendolo stretto all’orecchio con due mani, il pianto che aveva avuto il via libera, inarrestabile.
«No, Betta! Lascialo! Saverio parlami! Ti prego, parlami, parlami!»
«Dammi qui, chi cazzo sei, chi cazzo sei, stronzo?!»
Betta restava aggrappata alle sue mani, a urlare nel telefono cercando di portarglielo via, e il guinzaglio cadeva a terra, e uno Yorkshire col cappotto che seguiva correndo il padrone passava dall’altro lato della strada e Argo scattava
e i freni
e i clacson.
Non era successo niente.
Mentre Argo raggiungeva lo Yorkshire il padrone se n’era accorto e aveva cercato di prendere in braccio la bestiola. Complice la vista scarsa il molosso aveva speronato entrambi, serrando la mandibola a due dita dal muso del cagnetto, azzannando il polsino dell’uomo. Aveva continuato a tirare ringhiando, l’uomo si era spaventato, aveva perso l’equilibrio gridando qualcosa e la ragazza che era con lui aveva mollato l’ombrello per afferrare Argo per il collare. Lui, strattonato indietro, si era voltato e le aveva morso l’impermeabile, strappandolo. Betta si era subito buttata in mezzo alla strada per cercare di riprenderlo e il cofano di una Yaris le si era fermato a pochi centimetri dal bacino. L’autista le aveva urlato qualunque cosa scendendo dall’auto mentre lei recuperava il guinzaglio e tirava il cane lontano dall’uomo e dalla ragazza. Poi erano volati stracci e parole, la signorina era l’interprete dell’uomo, un tedesco, e aveva minacciato denunce per sé e per il suo cliente, che l’impermeabile strappato era un Burberry. Qualcuno aveva chiamato i vigili perché Argo non aveva la museruola e Betta fece del suo meglio, acconsentì a pagare una multa, scambiò biglietti da visita con le parti lese, garantì risarcimenti promettendo che una cosa del genere non sarebbe più successa. Pochi spettatori restavano a guardare la donna accartocciata a terra dall’altro lato della strada, il corpo avvolto intorno a un cellulare muto.
«Ma che cos’ha, si sente male?» aveva chiesto l’interprete.
«Sì, per questo mi ha lasciato il guinzaglio, non è mica cretina. Poi a me è scappato.»
L’altra aveva squadrato Lena.
«Se sta messa così forse non dovrebbe averlo un cane, che dice? E magari le farebbe bene un po’ di comunità.» Poi a mezza voce aveva aggiunto: «Fatti curare» ed era tornata dal suo cliente.
Betta l’aveva guardata andare, il fastidio per i capelli bagnati dalla pioggia, i tacchi nelle pozzanghere, magra, griffata. Assomigliava incredibilmente alla Lena che fu, quella prima di Saverio, del telefono, della follia.
Lena aveva confessato. Non tutto, aveva raccontato a Betta solo di aver trovato il cellulare e di aver ricevuto dei messaggi. Glieli aveva mostrati facendole giurare prima di non toccare il telefono e aveva omesso le due fotografie e la canzone. Nessun accenno agli ingressi in casa e alla chiave rubata. Betta l’aveva ascoltata in silenzio, guardandola con gli occhi lucidi, come se avesse la febbre. Stava trattenendo tutto, reazioni e parole, perché si era resa conto che l’amica era sconvolta. «Ti prego, Betta, non fare niente. Non parlarne con nessuno, non prendere iniziative, ho trentadue anni.»
Lei aveva annuito.
«Con chi altro ne hai parlato? È successo l’altro ieri, che l’hai trovato?»
«Sì.»
Non le pareva vero, sembrava molto di più.
«Allora senti, io te lo dico: non mi piace. Già la chiamata in sé, uno che sta zitto, i cani che abbaiano, quel rumore strano... Ma molto di più questa cosa che ti lasciano un cellulare e ti mandano i messaggi...»
«Lo so, lo so, hai ragione, è uno scherzo cretino, di sicuro.»
«Per forza.» Pausa. «Perché Saverio è morto.» Pausa. «Tu lo sai che è morto, vero?»
«Sì.»
Doveva mentire a Betta, doveva, perché Betta era una bomba a orologeria e se scoppiava
Non deve scoppiare.
era un guaio grosso. Non avrebbe comunque capito, e non solo perché non era romantica, non avrebbe capito perché per lei i rapporti di coppia si dividevano in due sole categorie: sani e malati. E di rapporti sani, a detta di Betta, praticamente non ne esistevano. Per questo era single, per questo praticava solo il sesso e rifuggiva ogni tipo di relazione, perché secondo lei non era possibile averne una che non ti intossicasse in qualche modo. Lena invece credeva che l’amore fosse una malattia da prendere, vivere e superare. L’amore nasceva dagli anticorpi a se stesso, nasceva dal suo tentativo di ucciderti e dalla tua sopravvivenza, se gli resistevi abbastanza, se riuscivi a essere più forte di lui allora sareste diventati una cosa sola.
«Una goccia di veleno al giorno» aveva detto a Saverio una volta, spiegandogli la sua teoria, e lui l’aveva guardata senza dire niente, come se provasse un fondo di vergogna per non essere assolutamente disposto a un sacrificio simile, almeno non per lei. Ma Lena era forte per tutti e due e disposta a soffrire per tutti e due. Quella situazione era malata, certo, ma come ogni malattia poteva essere affrontata e pure guarita. Se era sopravvissuta alla morte di Saverio allora poteva sopravvivere anche a questo suo distorto ritorno.
«Lascia che l’affronti io, qualunque cosa sia. Lascia fare a me.»
Betta tratteneva e tratteneva, schivava tutta una serie di frasi che le sfrecciavano nella testa e guardava l’amica di sempre, zuppa come un pulcino, seduta al posto di guida in un’auto che puzzava orribilmente di cane bagnato e si chiedeva come aiutarla.
«D’accordo.» Le passò i biglietti da visita del tedesco e dell’interprete da risarcire per i danni ai vestiti e tenne per sé la multa. «Io ti lascio fare, Lena, ma tu mi devi promettere una cosa.»
«Sì.»
«Se succede qualcosa di anomalo tu me lo dici. Se su quel cellulare ti arriva qualcosa di strano, se incontri qualcuno di strano, qualunque cosa tu me la dici. D’accordo?»
«Certo.»
Mentiva a metà, perché era già successo tutto.
Arrivò a casa che era buio pesto. Provò la maniglia, la porta era ancora aperta. Tutto il resto era al suo posto.
Tranne il biglietto, che non c’era più.