5
Eco di abbai.
Questa era la cosa su cui si soffermava più spesso, per non dare spazio ad altro. Quando Saverio l’aveva chiamata in sottofondo, oltre a quella specie di stridio, c’era un’eco di abbai. Non un cane, non due, almeno dieci, aveva imparato a riconoscere il richiamo del canile. Saverio si era rifugiato in un posto dove c’erano molti cani e questo aveva una sua logica. Se era lì, nei dintorni di Firenze (e ovviamente lo era, visto che la seguiva a distanza) non c’erano moltissime opzioni tra cui scegliere. Esclusi i canili pubblici, troppo frequentati, restavano quelli privati, i rifugi e le pensioni e poi, naturalmente i cani di proprietà. Non esisteva un censimento ufficiale di chi possedeva più di tre-quattro cani, non era stata resa pubblica una norma restrittiva vera e propria. Ma era certo che chi superava quel numero entrasse nel mirino degli animalisti. E il mirino degli animalisti lo stabiliva Astrid.
Astrid aveva fatto personalmente visita a chiunque possedesse cani di taglia gigante e si era premurata di segnalare ai vigili tutte le “aggregazioni eccessive” di animali in ambienti non adeguati. Una volta aveva denunciato una signora anziana che possedeva cinque chihuahua, regolarmente detenuti in appartamento, perché non li portava fuori abbastanza spesso. Era subentrato l’ufficio d’igiene e quella rogna era stata risolta con l’esproprio di due dei cinque cani, che erano finiti, guarda caso, nel suo rifugio. Il figlio della signora l’aveva pesantemente minacciata e qualche giorno dopo qualcuno gli aveva dato una buona dose di botte mentre apriva il suo bar alle prime luci dell’alba. Astrid non aveva commentato e aveva messo in adozione i due cagnetti, segnalando che avevano subìto un trauma da maltrattamento. Da dove attingesse tante informazioni, di fatto private, non si sapeva bene, alcuni dicevano che aveva agganci in Comune, altri che c’entravano i vigili. Ma se tu superavi la soglia dei tre cani o accoglievi in casa un alano o un San Bernardo, Astrid lo sapeva un minuto dopo. Per questo nelle ultime ore di luce del suo giorno libero Lena era andata da lei. Non che volesse cercare Saverio, non nel modo in cui un’altra persona lo avrebbe cercato, ma provava il bisogno impellente di agire, e questa era una reazione fisiologica alla passività. Aveva dovuto subire il telefono, i messaggi, le foto, la canzone, le chiamate, e non aveva potuto in alcun modo intervenire su nulla. Ora poteva cercare di fare qualcosa, magari di inutile, magari di stupido, ma qualcosa. Non si illudeva che l’avrebbe davvero trovato, le bastava cercare di capire come avesse ragionato, perché si fosse nascosto, chi lo aveva aiutato. Tutto pur di non restare di nuovo con le mani in mano in attesa che lui decidesse per entrambi.
Il rifugio di Astrid era nella frazione di Vacciano, nascosto praticamente da qualunque strada, ci si arrivava per una viuzza sterrata e priva di illuminazione. Visto che le era stato impedito di mettere una sbarra che bloccasse l’accesso Astrid appoggiava una lunga asta obliqua attraverso il sentiero, se non sapevi che c’era ci rimettevi il paraurti. Lena scese, impigliandosi nei cespugli, per levarla, e proseguì, Argo irrequieto nel bagagliaio per il secondo spostamento della giornata. Ogni tanto si guardava alle spalle e pensava che era impossibile che Saverio l’avesse seguita fin lì, non c’era modo di nascondere un’auto.
Magari si è rifugiato proprio qui.
Ma non lo credeva. Il rapporto tra Saverio e Astrid era sempre stato sbilanciato. Lei non approvava i suoi metodi estremi, credeva più nel gutta cavat lapidem che negli atti di forza. Lena aveva assistito a una loro discussione, con il ragazzo che cercava di sostenere le proprie idee davanti a un muro di superiore silenzio. Astrid condannava, e quando condannava ogni argomento era chiuso, le rimbalzava tutto addosso.
«È stronza perché è lesbica» commentava Mattia, aggiungendo spesso anche un «Che spreco», visto che Astrid era proprio bella, occhioni da gatta, riccioli neri, bocca carnosa.
Saverio si incazzava perché certi commenti non venivano mai fatti davanti a Mometto, la cui omosessualità era invece sempre stata ben accetta.
«Se non c’avete da pucciare non vi lamentate, eh, ipocriti?»
Lui avrebbe voluto essere rispettato da Astrid, un po’ come Lena desiderava esserlo da parte dei teppisti, ma riceveva in cambio l’equivalente di un “è intelligente ma non si applica”. Dopo la sua scomparsa la ragazza aveva supervisionato da lontano il passaggio di Argo a Lena, di cui si era occupata burocraticamente Alex, senza lesinare battutine sul fatto che fosse l’unica bestia di cui Saverio avesse saputo occuparsi. E quando quel giorno Lena l’aveva chiamata per dirle che andava a trovarla aveva commentato:
«Bene, così controllo come stai andando».
Lo avrebbe nascosto? Per una buona ragione sì. Ma doveva essere davvero buona. E doveva essere molto legale, Astrid non corre rischi.
Le luci del rifugio erano a una decina di metri e aveva iniziato di nuovo a piovigginare. Se non le avesse aperto il cancello per far entrare la macchina nel cortile si sarebbe dovuta fare tutto il sentiero in retromarcia. Astrid uscì avvolta in una cerata verde con il cappuccio alzato. Aveva dei pantaloni grigi amplissimi e un paio di zoccoli da infermiera bianchi, eppure sembrava elegante, quasi la sua tenuta fosse stata studiata da uno stilista.
«Non posso aprirti, ho due cani con la gastrite che escono a vomitare qui davanti ogni cinque minuti. Argo è con te?»
«Sì.»
«Ce la fai a portarmelo dentro? Ha la pettorina?»
«Sì.»
«Non gli hai messo lo strozzo, vero?»
Domanda falsa, sapeva bene che da quando l’aveva beccata con Argo che lo indossava e le aveva fatto quella ramanzina durata giorni e giorni Lena non lo aveva più tirato fuori dal ripostiglio.
«No.»
Astrid fece scattare il cancelletto, costringendo con ampi gesti tutti i cani a rientrare nel rifugio. Aveva fatto accomodare Argo e Lena in cucina, chiudendo la grata di separazione dalla stanza grande in cui c’erano, appollaiati su divani, poltrone, brandine e cuscini vari, diciassette cani. Un paio erano lì a pensione, alcuni in stallo per altre volontarie, la maggior parte adottabili senza speranza. Astrid viveva lì con loro, anche se ufficialmente risiedeva in un appartamento in centro città dove non andava mai. Di famiglia era benestante, per il rifugio riceveva diversi tipi di donazioni che arrotondava tenendo a pensione solo cani compatibili con il branco. Offrì a Lena una tazza di tè scaldato al microonde e le si sedette davanti controllando con gesti sicuri i denti di Argo.
«Dovrai fare una detartasi, anche se la situazione non migliorerà molto. I denti andavano curati prima, quando era più giovane. Purtroppo è stato in mano alle persone sbagliate.»
«Va bene.»
Astrid riconsegnò le mandibole di Argo, gli arrotolò le orecchie sulle dita, le fece andare su e giù, poi prese la tazza e puntò gli occhi in quelli di Lena.
«Dimmi.»
Lena non aveva molte carte nel suo mazzo. Dire tutto, ed era escluso. Inventare una storia, e se non fosse stata una storia inattaccabile non avrebbe funzionato. Oppure.
«Ho bisogno di una lista di tutti i posti a Firenze e dintorni dove ci siano tanti cani.»
«Tanti quanti?»
«Da sei-sette in su.»
«Perché?»
«Non te lo posso dire.»
Astrid si tirò indietro, come ad accomodarsi meglio, e continuò a tenerla inchiodata con i suoi occhi azzurri. Se avesse voluto avrebbe potuto fare la modella, o l’attrice. Lena sosteneva il suo sguardo. Non ce l’avrebbe fatta, se fosse stata costretta a mentire, ma ora che si era esposta, mettendosi in una posizione scomoda, si sentiva abbastanza tranquilla. La verità, alle volte, è disarmante.
«Se te lo dico tu poi a chi lo dici?»
«A nessuno, serve a me.»
Astrid faceva girare lentamente il cucchiaino nella tazza e Lena accarezzò di nuovo l’ipotesi che Saverio fosse proprio lì, nella stanza accanto, magari a origliare, pronto a mandarle un messaggio o una foto di loro due mentre parlavano. Ma l’ipotesi le suonò falsa, più ci pensava e più si convinceva che Astrid avesse di sé un’idea troppo alta e troppo morale per prestarsi al gioco del finto morto.
«Marilena, guarda...» era una delle poche che la chiamasse così. «Non ti posso dire niente di più di quello che ti direbbe Google. Ti sei scomodata per niente. Mi ha fatto piacere vedere te e Argo, però...»
«Conosci uno che si chiama Fermo? Ha un rifugio tipo il tuo, ma con dei box.»
La faccia di Astrid cambiò completamente, come un foglio che si accartoccia a contatto col fuoco.
«Ma chi, Fermo Berselli?»
Lena annuì.
«Madonna, ma non me lo nominare! È un delinquente, non sai le volte che ho provato a denunciare lo schifo di quello che fa! Ma com’è che lo conosci?»
«Me l’hanno consigliato per tenermi Argo.»
«Ma tu non l’hai fatto, vero? Non dirmi che l’altro giorno, quando non te l’ho preso io, era lui l’amico di qualcuno che te l’ha tenuto!»
«Sì.»
Fu sufficiente. Astrid si alzò con veemenza, cogliendo di sorpresa anche Argo, e iniziò a vomitare insulti, un po’ diretti a Fermo e un po’ a lei.
«Tu non ti rendi conto! Sei più cretina di quel che credevo! Lo sai i traffici che ha quel figlio di puttana? Si fa arrivare le cucciolate dall’Est e le smercia senza nessun controllo, lo schifoso! Salvatore, si definisce, salvatore un cazzo! Ti porta il parbovirus in intere colonie, una volta ha fatto una strage! E tu gli lasci Argo? Lo ha messo in gabbia, vero? Almeno lo ha messo in gabbia da solo o è stato così deficiente da metterlo con altri cani?»
«No, da solo.»
Lena era stranamente calma, vedere l’altra dare in escandescenze la rinsaldava sulle sue posizioni: Astrid non sapeva nulla di Saverio e non lo aveva aiutato.
«Poi lo sai che si rivende i farmaci? Quelli per animali e anche altri. Una volta ha venduto a una tipa un kit per l’eutanasia e guarda, non farmi dire niente, che non voglio ripensarci. Ho cercato di farlo beccare ma quello è furbo. C’è un via vai a casa sua che te lo raccomando.»
«Quando ci sono andata io però era da solo, non c’era nessuno.»
«Scusa, ma tu da dove sei entrata?»
«Dal cancello.»
«Eh no, dal cancello son capaci tutti, ha anche l’altro ingresso, la proprietà gira tutto intorno per tre lati. È da lì che passa la merda. Non ha visto nessuno, lei! Ora gli spacciatori si mettono a sventolare le bandiere per farsi riconoscere!»
«Come, spacciatori?»
«Marilena, io mi preoccupo, sembri deficiente! Ma se ti ho detto che smercia farmaci, vuoi che non smerci altra roba? E sì che tu dovresti saperlo!»
E dunque, anche se con un giro lungo, si era arrivati a Saverio. Astrid si voltò bruscamente verso il computer sempre acceso che ronzava in un angolo.
«Ti mando gli articoli, ho scritto al giornale, ne hanno parlato due anni fa, sembrava stesse per scoppiare un casino e invece niente. La mail è sempre la stessa?»
«Sì. Astrid, ora me lo dai quell’elenco?»
L’altra si voltò a guardarla mentre premeva invio.
«Tu me lo dici a che cosa ti serve?»
«No.»
I tasti ticchettavano mentre ci pensava un po’ su.
«Facciamo così. Facciamo che mi fido. Facciamo che ti do l’elenco. Tu mi dai la tua parola che se trovi qualcosa su Berselli me lo passi? Qualunque cosa, poi mi arrangio io.»
«Va bene.» E poi: «Puoi tenermi Argo, domani? In orario di lavoro? Te lo porto e lo vengo a riprendere?».
Lo scanner degli occhi azzurri la passò e ripassò da cima a fondo. Poi Astrid prese carta e penna.
Si era aspettata di trovare una ritorsione a casa, invece non c’era nulla. Chiamò sua madre, disse due sciocchezze sulla portafinestra, inventò di avere ritrovato la chiave dietro al divano, proprio come aveva detto il babbo, anzi, ringrazialo, promise di andare a cena da loro domenica dopo il turno, lo so, non si dovrebbe lavorare nel fine settimana ma è un albergo, sono i giorni più pieni, pensa se avessi fatto la commessa, aggiunse qualche osservazione inutile sulla pioggia e i vestiti del cambio di stagione e la salutò. Passò il resto della serata a studiarsi la lista di Astrid, molto più corta di quanto credesse. Una dozzina le voci di reale interesse, altri posti erano o troppo esposti o lontani dalla filosofia animalista di Saverio. Li avrebbe visitati tutti
A che serve?
A fargli vedere che non sono un’idiota.
con calma nei giorni seguenti. La notte si stava portando via gli ultimi lembi di quel venerdì e con loro se ne andavano le emozioni dentro di lei. Le sembrava di non provare più niente. Paura, rabbia, dolore, speranza, felicità. Era spenta. Restava un battito sordo, un pulsare sotterraneo che le testimoniava di essere ancora viva, e la pompa cardiaca non c’entrava. Quattro giorni da quando aveva trovato il telefono, una vita fa. Di nuovo Saverio era entrato in scena come un tornado, facendo a pezzi quel poco che restava della sua esistenza ibrida, mettendo in discussione tutto e tutti. Guardandosi intorno Lena vedeva solo macerie.
Devo chiedere scusa ad Alex.
Pura logica, se Fermo era il bastardo che diceva Astrid aveva perfettamente senso che Saverio si fosse indignato nel vedere il suo cane in gabbia. E quindi decadeva l’ipotesi che avesse architettato tutto insieme ad Alex.
E la foto come se l’è procurata?
Se era vero il viavai nella proprietà di Fermo allora anche mettere le mani sul suo cellulare poteva essere stato relativamente semplice. Magari Saverio era andato lì con qualcuno
Tipo Sergio?
a comprarsi della roba ed era riuscito a spedirsi la fotografia. O forse l’aveva chiesto direttamente a Fermo, allungandogli qualche soldo in più. Se lo immaginava
«Voglio fare uno scherzo alla mia ragazza, acqua in bocca, mi raccomando»
improvvisare qualcosa, era sempre stato bravo con le parole.
Se. Magari. Forse.
La teoria del complotto globale si sgonfiava, i pezzi tornavano al loro posto, era una faccenda tra lei e Saverio, di certo qualcuno lo aveva tenuto nascosto in quei due anni, o comunque da quando si era rifatto
vivo
vedere in città. In un posto pieno di cani, uno di dodici. Aveva in mano le prove che le servivano, aveva il telefono, le foto, i messaggi, il biglietto. E non riusciva a provare niente. Il lutto urticante aveva lasciato spazio a un senso di vuoto, di desolazione. Prima o poi lo avrebbe rivisto. E non riusciva più a esserne felice.
Un sabato di sole a Firenze porta la gente a rovesciarsi per le vie del centro come formiche al ritorno della primavera. Astrid si era presa Argo senza ulteriori domande, Katia le aveva chiesto come stesse la mamma, Castellacci si era fatto vedere al pomeriggio per precisare che eventuali variazioni di orario e cambi di turno dovevano essere concordati PRIMA. Gianluca, arrivato da due minuti fresco di barbiere, aveva sorriso, Lena si era limitata a guardare l’orologio e annuire. Quel pomeriggio, a metà turno, il Samsung aveva bippato e lei era stata bravissima a nascondere ogni emozione, aspettando fino a trenta secondi prima di andare a vedere. Nessuna fotografia o frase emblematica, nemmeno un video. Era l’offerta del gestore per approfittare di due gigabyte in più durante il weekend. Non arrivava nulla già da ventiquattr’ore. Aveva costeggiato l’Arno fino al parcheggio, dieci giorni e sarebbe caduto l’anniversario della
fuga
scomparsa di Saverio, il 4 aprile. I suoi avrebbero fatto celebrare una messa, si compiacevano molto di queste cose, pur sapendo che a lui avrebbero dato fastidio. Come l’anno prima, invece, gli amici si sarebbero incontrati sul Ponte alla Carraia, niente fiori o pupazzetti, solo loro tutti insieme a guardare il punto in cui era stato trovato il portafogli. La volta precedente era stato un momento molto intenso, c’erano state parecchie persone, nessuno aveva detto niente. Mattia aveva passato il braccio dietro le spalle di Lena, Mometto aveva tenuto Argo, Sergio, Serena e Alessio erano vicini, le mani in tasca, Alex stringeva la mano di Lucio, Astrid se n’era rimasta in disparte. Poche lacrime, Saverio sarebbe stato contento. Quest’anno la cosa si sarebbe ripetuta, Mattia aveva sentenziato che ogni 4 aprile lui ci sarebbe andato, fino alla fine dei suoi giorni e gli altri non avrebbero voluto essere da meno. Lena non sapeva se sarebbe riuscita a tenere la parte davanti a tutti. Sperava che Saverio prendesse la decisione di mostrarsi almeno ad alcuni di loro. Guidò fino a due pensioni private per cani, una fotografia di Saverio appoggiata sul sedile del passeggero. Era stato difficile sceglierla, non apriva il file contenente le foto di loro due insieme da tantissimo tempo e non se ne parlava di prelevarne una dalla scatola che teneva chiusa nell’armadio, quelle erano foto che lui aveva toccato, una l’aveva anche bucata con la sigaretta per “renderla unica”. Quella che aveva scelto se l’era fatta stampare al volo durante la pausa pranzo da un ottico con servizio di stampa fotografie che aveva il negozio vicino a piazza Carlo Goldoni. Saverio aveva in mano una bottiglia di birra e sorrideva rivolto all’obiettivo. Non era una foto che amava particolarmente, non avrebbe saputo dire perché avesse scelto proprio quella.
Perché non la sento mia.
Forse. L’aveva mostrata ai due proprietari delle pensioni, tendendo bene l’orecchio all’abbaiare interno, ma negarono di conoscerlo o di averlo visto in quei giorni.
Non importa. Se è stato qui riceverà comunque il messaggio che sono passata.
Non sono un’idiota, Saverio.
Non sono un’inetta incapace di prendere iniziative.
Il pulsare sordo era sempre lì, sottotraccia. Decise di rimandare le altre visite e si diresse verso il rifugio di Fermo. Non intendeva entrare, solo farsi un giro lì intorno, vedere il fantomatico ingresso sul retro, controllare quanta gente andava e veniva. Non sarebbe rimasta molto, dieci minuti, un quarto d’ora, non più di mezz’ora. Parcheggiò la Clio e si fece il primo giro a piedi. L’ingresso c’era, un cancelletto ad arco schermato da una lastra in vetroresina ondulata. Di nuovo non si sentiva nessun rumore da dentro, eppure il cortile dei box doveva essere lì dietro. Lena tirò dritta, fece il giro, arrivò davanti. Nessuno. Non c’erano telecamere montate in cima al cancello, eppure aveva la sensazione di essere spiata. Tornò all’auto, si sedette dentro per un po’, tenendo d’occhio la strada da cui si accedeva all’ingresso posteriore. Rilesse sul cellulare gli articoli che le aveva inviato Astrid, definirli così era un’esagerazione, si trattava di invettive pubblicate su un paio di giornaletti locali in cui campeggiava la scritta CHIUDIAMO IL RIFUGIO LAGER!, tutto in maiuscolo come l’avrebbe scritto Saverio. Se solo la metà di quelle accuse fosse stata vera le forze dell’ordine sarebbero già intervenute, almeno in un mondo ideale. Non passava anima viva, stava per fare buio. Scese di nuovo e tornò al cancelletto.
Cosa sto cercando?
Si avvicinò a uno spiraglio tra il ferro della grata e la lastra. Era una feritoia di nemmeno un centimetro, e guardando dentro non distingueva nulla, se non forse la sagoma di una delle gabbie piccole a terra. Poi una cosa di un attimo, a esserci e non esserci, la fece tirare indietro.
Una lucciola?
No, le lucciole non c’erano a luglio, figurarsi a marzo. Guardò ancora. Era la brace di una sigaretta, laggiù, oltre le gabbie. Qualcuno che fumava in silenzio, nel buio del cortile. Brace. Buio. Brace. Buio.
Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere Fermo.
Ma gli era stata vicina, aveva respirato l’odore acre del suo fiato e non aveva sentito traccia di tabacco. Lei lo sapeva che odore avesse un fumatore, lo era Saverio, lo era stato anche suo padre, pure Betta fumava, e avrebbe giurato che no, Fermo non lo fosse. La persona che fumava era esattamente di fronte al cancelletto, avrebbe potuto vederla, se non ci fosse stata la grata. Brace. Buio. Brace. Buio. Buio. Buio.
Luce.
Lo schermo di un cellulare nella mano. Attorno la sagoma di un uomo.
Magro. Sembra giovane. Non troppo alto.
Potrebbe essere
no
potrebbe essere.
Iniziò a mancarle l’ossigeno, i pensieri caddero come pezzi del domino, l’ipotesi remota che Saverio potesse essere lì a una decina di metri la annientava. Di colpo la vibrazione che le risaliva sulla schiena, partendo dalla tasca posteriore dove teneva il Samsung.
È stato lui. Stava scrivendo.
Lo sfilò con le dita gelide, premette il tasto centrale e vide la spunta sull’icona dei messaggi.
Una sola parola.
CORRI.
Il rombo le arrivò fortissimo dietro la schiena, Lena si voltò di scatto e urlò, urtando le sbarre nel buttarsi di lato. Ma l’auto le passò di fianco indifferente mentre un tuono di abbai esplodeva tutto insieme oltre la vetroresina e con esso partiva lo scricchiolio della ghiaia calpestata da passi sempre più rapidi diretti verso il cancello. D’istinto partì di corsa, attraversando senza guardare, sentendo un cigolio alle sue spalle. Raggiunse la Clio e vi si buttò dentro. Rimase immobile a trascinarsi il respiro fuori dalla gola.
Cosa credevo stesse per succedere?
Qualcosa. Qualcosa che aveva a che fare con Saverio e Fermo e quel posto. Il cancelletto era aperto, di poco, una spanna, affacciato sul buio. Qualcuno la guardava.
È lui?
Poi lo vide chiudersi lentamente, l’eco di abbai che piano piano andava spegnendosi in silenzio.
Mi ha avvisata, mi ha fatta allontanare.
Lo sguardo intorno, a percorrere la via, la biforcazione, le auto parcheggiate.
Niente.
Nessuno.
Era qui.
Domenica la cena dai suoi era stata desolante. Suo padre aveva detto sì e no venti parole, sua madre le aveva servito porzioni gigantesche, a testimonianza che era preoccupata.
«Le mangi due seppie ripiene? Il pesce va bene, no? Son stata attenta a non mettere carne.»
«Non sono più vegetariana, mamma. Ho smesso da un anno, lo sai, te lo dico tutte le volte.»
«Ma io non voglio che mangi qualcosa che non ti va solo per farmi contenta.»
«Se non le piacciono mangerà qualcos’altro, questo non è un ristorante.»
Suo padre aveva chiuso la questione accatastando un’incomprensione sopra l’altra, ancora arrabbiato per come aveva trovato la casa, o lei, o entrambe. Lena si servì delle seppie che non le andavano, mangiò in fretta, voleva andare via. Argo era chiuso fuori, nel giardinetto privato, sdraiato sotto il portico in attesa anche lui di andarsene. Risentiva dello stress della padrona, della tensione nel guinzaglio quando lo portava a spasso, dell’obbligo di dormire insieme a lei. Era vecchio e abitudinario, tutti questi cambiamenti lo rendevano nervoso. Lena non dormiva più. Lasciava la porta aperta per un contorto senso del dovere, ma poi le appoggiava contro una sedia e sopra ci metteva una valigia in bilico, certa che il rumore l’avrebbe svegliata. Ma nessun risveglio era davvero necessario, perché il sonno era lieve come carta velina.
Saverio mi ha avvertita, c’è qualcosa che mi minaccia. Qualcosa legato a Fermo.
Si trattava di un impasto di sensazioni sostenuto da un sms arrivato con straordinario tempismo, non aveva nulla in mano al di fuori di questo, ma bastava per avvelenarle ulteriormente la vita. Aveva perso peso, e sua madre se n’era accorta. Andava avanti e indietro dalla tavola, trascinando le pantofole vezzose col pelo, le mani pronte a tormentarsi se avessero avuto un attimo di tregua dalle pignatte. Nutrire, coprire, tenere in ordine erano i soli tre modi in cui riusciva a prendersi cura di chi amava. Ogni tanto suggeriva timidamente a Lena che i capelli corti le sarebbero stati benissimo, che forse era tempo di liberarsi di quelle specie di cannoli stopposi, se si fosse sentita a disagio avrebbe potuto comprarsi dei cappelli, i cappelli stanno tornando di moda, sai? Non faceva domande, non indagava sulle origini di quel nuovo malessere della figlia, non tirava in ballo chi non doveva essere nominato tra quelle quattro mura, anche se non sapeva rallegrarsi del fatto che fosse morto.
«Se era ancora vivo a quest’ora eravamo noi due a far visita a una tomba!» sentenziava suo marito, ma lei non ci credeva. Lena era forte, lo aveva sempre saputo, era più forte di loro due messi insieme, e a suo tempo si sarebbe sentita sollevata nell’affidarsi a lei per gli ultimi anni della sua vita. Lena era onesta, solida, leale, non avrebbe fatto un torto a nessuno dei due. Ma queste cose non sapeva esprimerle a parole, riusciva solo a tradurle in intingoli, rosolature, ripieni. L’assenza di un segno di reale comprensione rosicchiava nella figlia i lembi di un cratere già bello ampio. Aveva iniziato a considerare i genitori come surrogati di figli da tollerare molto prima di Saverio, lui le aveva dato solo la spinta finale per il distacco definitivo, quanto meno emotivo. Il ragazzo portava rancore ai suoi, per non averlo capito, per averlo giudicato e poi condannato, Lena invece era solo rassegnata. La rabbia era un sentimento che non le apparteneva, lei aveva la tendenza ad accogliere e a smorzare, se necessario a sacrificarsi. A tranquillizzare due genitori incapaci sul male che la stava divorando dentro.
Non riesco a essere felice.
Questa era la base del tormento. Erano trascorsi cinque giorni da quando aveva trovato il cellulare nella cassetta delle lettere e aveva capito che Saverio era tornato. Nell’ascoltare la canzone aveva provato una fiammata di felicità assoluta, di sollievo, di speranza, con il biglietto era subentrata una quiete profonda che aveva spento le artigliate del lutto, eppure nemmeno allora aveva avuto alcuna aspettativa. Il ritorno di Saverio si era portato via il dolore, aveva cancellato il passato, chiuso una parentesi che poteva definire inferno senza credere di esagerare. Ma non aveva aperto nessuna porta. Lena da lui non si aspettava niente, e per quanto non volesse ammetterlo, non stava colmando in alcun modo il vuoto che aveva lasciato. La piramide a due punte raccontava quanto fosse cambiato, simile a se stesso ma diverso. Cervellotico, cosa che non era in passato, anzi, agiva troppo d’impulso, parlava prima di pensare e spesso le mani prendevano il posto delle parole.
Non accadeva spesso.
Ma non sarebbe dovuto accadere mai.
Si era dimostrato rancoroso, un aspetto che era sempre stato marcato, ma ora si manifestava in modo ossessivo. E agiva senza senso della misura, delle proporzioni. Lo voleva vivo, certo, preferiva mille volte che lo fosse, però...
Perché è così cambiato? Cosa gli è successo?
Due anni sono tanti, le esperienze vissute da Saverio potevano essere state di ogni genere. Fingersi morto, perdere la vita che si aveva prima, gli affetti, le abitudini, tutto questo poteva essere liberatorio come destabilizzante. Si era perso, e mentre vagava smarrito per il mondo...
Qualcosa.
Le labbra toccarono il caffè bollente di sua madre nelle tazzine del servizio buono, quello che avrebbe dovuto essere suo, se si fosse sposata. Non le piaceva molto il caffè, lo beveva per dovere, per non dover discutere ogni volta. Prima non lo avrebbe fatto, avrebbe spiegato che la caffeina era dannosa, i depositi sulle pareti dello stomaco, il reflusso gastroesofageo, lo avrebbe lasciato lì subendo gli sguardi di riprovazione, forte delle sue scelte.
Anche io sono cambiata.
Ed ecco che il vaso di Pandora si apriva. Due anni di lutto avevano cambiato anche lei, l’avevano prosciugata trasformandola nella dolenza stessa. La sua vita se n’era andata insieme a quella di Saverio, tutte le certezze, ogni consapevolezza. Era finita a guardarsi allo specchio chiedendosi chi fosse quella tizia. Aveva smesso di piacersi perché tutto quello che era rimasto di lei piaceva solo a Saverio, e Saverio non c’era più. Non era stato solo il vertice della piramide a sdoppiarsi, anche la base non era più allineata con il resto. La Lena di due anni prima si sarebbe colmata di vita solo all’idea di rivedere il ragazzo che amava, questa Lena ci era andata vicina e si era sentita mancare, priva di quel poco ossigeno a sua disposizione. C’era troppo spazio da riempire.
Non gli piacerò più.
E lui non piacerà a me.
Cosa restava, dopo tutto questo? Sollevò gli occhi verso i suoi e le sembrarono incredibilmente lontani. Ma era un punto di vista sbagliato.
Non sono loro. Sono io.
Trascorsero il lunedì e il martedì. Il Samsung taceva. Lena aveva fatto visita alle restanti voci della lista di Astrid senza esito.
Dovevo provarci.
Si atteneva a
gli ordini
le disposizioni di Saverio, lasciava le porte aperte e affidava il cane solo ad Astrid, che le aveva chiesto senza mezzi termini di pagarle la pensione come tutti gli altri. Non si era ancora scusata con Alex, non l’aveva più sentita e questo le dispiaceva. Mattia si era fatto vivo all’uscita dell’hotel per sapere come andava, offrendosi a metà di tenerle Argo un’altra volta (ma non di più), se avesse avuto bisogno. L’avvicinarsi del 4 aprile lo rendeva sentimentale, quasi affettuoso le disse che alcuni amici, capitanati da Serena del gruppo dei teppisti, avevano in mente di fare un murales in memoria di Saverio. C’era un posto interessante lungo i binari, poco distante dalla casa di Sergio, probabilmente l’avrebbero fatto lì nella notte tra il 3 e il 4. Dal canto suo gli era venuta l’idea di lanciare nel fiume una ghirlanda o una corona di fiori in memoria dell’amico, stava cercando la formula migliore, quella che più gli sarebbe piaciuta. Lena non aveva commentato, sentiva di non poter disporre delle proprie parole come voleva. Le lesinava anche con Betta, che ogni giorno al telefono sondava con cautela il terreno.
«È arrivato ancora qualcosa, scema? Sicura che non ci sia niente di nuovo?»
E Lena la sentiva scalpitare sotto la pressione di una gita alla polizia che però avrebbe concluso poco, se lei non l’appoggiava.
Lei non sa quello che so io. Lei non ha visto il biglietto.
Trovava ogni scusa per non doverla incontrare, temeva che sotto il fuoco di un nuovo interrogatorio avrebbe ceduto e le avrebbe mostrato tutto il resto. Non poteva farlo per svariate ragioni, la prima perché Betta non si sarebbe convinta comunque, la seconda perché se qualcosa stava minacciando lei forse avrebbe minacciato anche l’amica, la terza perché Saverio
forse
non aveva detto a nessuno di essere ancora vivo e lei voleva rispettare la sua scelta.
Poi c’è la quarta ragione.
Dura da ammettere, difficile. Saverio era cambiato. Pur amando il suo cane e
forse
anche lei, aveva messo entrambi in situazioni difficili solo per principio, per tenere il punto, per dimostrare qualcosa. E Saverio odiava Betta. Se avesse saputo che conosceva il suo segreto avrebbe potuto rivalersi su di lei. Non farle del male
forse
ma spaventarla di certo sì. E Lena le doveva una bella fetta di protezione. A complicare le cose, quella sera, percorso il sentiero per il rifugio, la doccia fredda di Astrid.
«Da domani Argo non posso più tenertelo. Mi arrivano altri cani.»
«Ma nemmeno a pagamento? Ti do qualcosa in più.»
L’altra aveva messo su un’aria da lesa maestà.
«Ma ti pare che ne faccia una questione di soldi? Non posso perché avrò da gestire un casino che non ne hai idea, e poi tu non ne hai davvero bisogno, ti sei solo spaventata per quella faccenda dei ladri, ma a nessuno verrebbe in mente di rubare Argo. Hai messo tutto a posto? Hanno riparato la rete?»
Lo aveva fatto lei, preferiva non avere altra gente per casa. Aveva usato delle fascette da elettricista.
Così se devo tagliarle di nuovo ci metto un attimo.
«Ma se ci fosse un’altra emergenza?»
«Marilena, hai trentadue anni, sono trentadue, giusto? Una soluzione la trovi. Basta che non sia una soluzione di merda.»
«Non ti preoccupare, da Fermo non lo porto più.»
«Non c’è dubbio» aveva risposto l’altra con un sorrisetto.
Si era allontanata in retromarcia, un’eco di abbai forte quanto quello di Fermo che la inseguiva fino a svanire dietro alla curva. Non avrebbe potuto lasciare il cane a casa, non senza chiudere la porta, era troppo pericoloso, a Saverio sarebbe bastato girare la maniglia e le sarebbero piovuti addosso guai infiniti. A chi l’avrebbe potuto affidare il giorno dopo? Stava accarezzando l’ipotesi di Mattia (poi però avrebbe dovuto toglierlo per sempre dal mazzo) quando la risposta la chiamò, appena rientrata nel traffico cittadino. Alex, dopo quattro giorni di silenzio.
«Sei a casa?»
«No, sono per strada.»
«Ah. Sono qui davanti. Cosa faccio, ti aspetto? Tra quanto arrivi?»
Non aveva voglia di vederla, ma i sensi di colpa l’ebbero vinta. La trovò lì, in piedi davanti al portoncino nonostante il freddo. Le sembrò stanca, aveva il viso tirato.
«E Lucio?»
«Ancora al lavoro, volevo parlarti da sola.»
Erano entrate senza una parola, Alex che accarezzava distrattamente il cane mentre Lena fingeva di aprire la porta
Tingle tingle.
e il ricordo le risuonava sempre più vicino, quale che fosse, magari senza importanza. La donna si era seduta sul divano senza essere invitata a farlo, un inizio di ricrescita sotto i capelli accesi che contrastavano con l’incarnato spento.
«Allora, adesso l’ho capito perché ti sei tanto incazzata per quella cosa di Fermo. E ti dico: hai ragione. Però io non lo sapevo, te lo giuro.»
Lena si preparò mentalmente un giro tortuoso per dirle che non c’era niente da spiegare, anzi, che toccava a lei scusarsi.
«Guarda, l’ho presa davvero troppo male, in modo esagerato. Avrei dovuto immaginarmelo che ci fossero dei box...»
«No, io parlavo del sequestro.»
Un attimo di silenzio perplesso, poi Alex continuò.
«Gli hanno sequestrato i cani, a Fermo. È venuto fuori che dietro al rifugio c’era tutta una storia di droga, i dettagli non sono noti, hanno fatto un blitz tra ieri e oggi. Non lo sapevi?»
Lena scosse la testa. Ripensava agli articoli che le aveva inviato Astrid, al messaggio di Saverio
CORRI!
e all’uomo che fumava nel cortile.
«Ma lo hanno arrestato?»
«Non si fa trovare.»
«E dove andranno i suoi cani?»
L’espressione di Alex si indurì.
«Da quella grandissima figlia di puttana psicopatica, ecco da chi.»
Astrid.
«Si è messa in combutta con il Comune, nemmeno è stata fatta una valutazione delle disponibilità, per il canile ci voglion troppe carte, se li è presi subito lei e basta, la stronza. Alcuni erano di Fermo, proprio suoi suoi.»
Alex era amareggiata, a disagio, si tormentava la bocca come faceva sempre quando era nervosa. Da bambina aveva avuto il labbro leporino e una grave malformazione al palato, così anche se ora era tutto a posto e le restava solo una cicatrice sopra i denti finti, quando qualcosa non andava lei istintivamente ritornava lì, a quell’insicurezza atavica mai davvero compensata. Respirava male, effetto residuale di un’asma nervosa che si faceva viva in primavera e in situazioni di grave stress. Le fece pena, e non era la prima volta, di solito la compativa quando sentiva i commenti alle sue spalle, certa che sapesse cosa diceva la gente. Si sedette accanto a lei e le strinse la mano.
«Mi dispiace, me la sono presa con te e non era giusto.»
«Non lo sapevo che era un delinquente, Lena. Poco simpatico e un po’ strano in certe cose, ma chi non lo è?»
Era la prima volta, in due anni, che Alex abbassava la testa davanti a lei e non riusciva a goderne. In fondo i punti di forza di quella donna brutta erano pochi, perderne anche uno solo davanti a una ragazza bella, laureata e ricca, doveva avere un sapore amaro. Glielo addolcì.
«Ti chiedo scusa anche per Lucio.» E poi, tutto d’un fiato: «Lui non mi piace. Non mi ha fatto niente, solo che tra noi non c’è sintonia. Non volevo essere offensiva».
«Non fa niente.» Alex sorrideva, più sollevata che altro. «Piace a me.»
E Lena vide il vastissimo territorio di paure di una donna come Alex legata a un uomo come Lucio, lui avvenente e giovane, lei no. Ogni donna doveva sembrarle una minaccia, una guerra implicitamente persa. Non doveva essere semplice vivere così.
«Non mi aspetto che la gente lo veda come lo vedo io. Quando l’ho conosciuto è stato come raccogliere un gatto per strada, con quel padre di merda che si ritrovava. Non lo ha mai toccato, fisicamente, ma dentro lo faceva a pezzi ogni giorno. Solo dopo che se ne è andato Lucio ha iniziato a respirare. Il mio ci ha mollate, me e mia mamma, poi è arrivato il cancro e tutto il resto e mi son dovuta crescere da sola, ma forse è stato meglio non averlo che subirne uno come il suo.» L’aveva guardata, accennando un mezzo sorriso. «Anche se io, al posto suo, non avrei subito.»
Pace era fatta, Alex promise di tenerle Argo nei giorni a venire, compatibilmente con il lavoro, ma non sarebbe dovuta ripartire per quasi una settimana, il prossimo incontro di formazione l’avrebbe tenuto il lunedì seguente, a Modena.
«Ti piace insegnare?»
«Non agli imbecilli.»
Alex era tornata Alex.
Il messaggio era arrivato di notte, alle 3.57, e non l’aveva svegliata. Lena l’aveva trovato il mattino del mercoledì, quando si era messa a sedere un po’ intontita sul letto.
Ho dormito tutto il sonno arretrato insieme.
Un altro video, identico ai primi due, solo più lungo, arrivava a sei secondi. Buio, movimento e si fermava su una trama di legno, un’asse forse.
Perché mi manda questi video? Cosa significano?
Si era preparata sentendo gambe e testa pesanti, forse le stava venendo l’influenza. Si vestì come tutti i giorni, sistemò i capelli, si occupò del cane che non aveva nessuna voglia di essere scorrazzato di nuovo qui e là e uscì lasciando la casa in balia di Saverio. Lucio prese in consegna Argo, Alex era sotto la doccia. Le offrì un caffè e Lena lo accettò in segno di pace, piegandosi di nuovo alle stupide regole dell’educazione di sua madre. Glielo servì in una tazzina con su scritto LEI mentre se ne versava un altro nella tazza LUI, una delle mille futilità di coppia che costellavano l’appartamento. La casa di Lucio e Alex portava l’impronta predominante della personalità di lei e solo qualche traccia di quella di lui, per esempio la PlayStation. Argo lì era a suo agio, non c’erano altri animali, cosa che preferiva, perché i lavori di Lucio e Alex impedivano loro di tenerne. Avevano avuto un gatto, ma un giorno era uscito e mai più tornato, e Alex ne aveva fatto una malattia. Quando era uscita dalla doccia, avvoltolata in un accappatoio verde con le antenne, era rimasta spiazzata nel vederla lì, restia a mostrarsi senza trucco. Lucio l’aveva capito, si era avvicinato e l’aveva baciata. Ogni volta che si baciavano Lucio sembrava un bebé che poppava dalla tetta della mamma e Lena distoglieva lo sguardo perché ne rimaneva un po’ disgustata. Si erano dati appuntamento per quella sera, le avrebbero riportato il cane a casa
«Così Lucio dà un’occhiata alla rete di fuori, che tra i vicini stronzi e i topi d’appartamento magari la rinforziamo»
per darle modo di rientrare senza ansia. Tutto come sempre, tutto come prima, non una parola su Fermo o Astrid. In hotel aveva sfogliato «La Nazione» e trovato un trafiletto sul sequestro del rifugio, poche righe che non riportavano nomi o dettagli. Il tempismo di quell’operazione di polizia era inquietante, legato a doppio filo alla foto di Argo dietro le sbarre.
Cos’hai fatto, Saverio? Cos’hai fatto in questi due anni? Chi sei diventato?
Aveva mal di testa ed era inquieta, le pesava quella parvenza di normalità, si sentiva addosso l’enorme menzogna del 4 aprile che incombeva, e mancavano solo sei giorni. Katia era particolarmente premurosa con lei, quella mattina, le aveva portato un caffè al ginseng
«In tazza grande, come piace a te»
per tirarla su quando aveva detto di sentirsi fiacca e l’aveva intrattenuta a lungo raccontandole facezie varie, piccoli pettegolezzi sul personale, evitando in maniera fin troppo palese di accennare a Gianluca. All’ora di pranzo le aveva detto
«Dai, vai a prendere qualcosa al bar qui di fianco, oggi mi han detto che fanno le torte salate con le verdure. Quando hai finito magari portane una fetta anche a me, quella che vuoi»
e Lena era stata contenta, prendere una boccata d’aria le avrebbe fatto bene, pochi minuti e sarebbe tornata. Non aveva messo nemmeno il soprabito ed era uscita nell’aria tiepida, ma dopo cinque passi si era fermata. Qualcosa non andava. Una percezione istintiva, alimentata dalla perenne allerta di quei giorni.
Katia è troppo gentile. Non è mai così gentile.
Fece per tornare indietro, ma di nuovo la sensazione la bloccò.
Aspetta. Aspetterà anche lei.
Per cosa?
Non lo sapeva, stava agendo all’interno della nube di malessere in cui era sprofondata da quella mattina, il senso di stordimento aveva spento alcune parti del cervello, quelle inutili e accessorie, lasciando accese quelle barricate in difesa. Contò fino a cento, poi si voltò e rientrò veloce in hotel, pronta a trovare una scusa, che voleva cambiare una banconota da cinquanta che teneva nella borsa così avrebbe avuto gli spicci per il parcheggio, qualcosa del genere. Al bancone Katia non c’era. Lena fece piano, si spostò veloce verso la stanzetta subito dietro e la pescò con le mani nella borsa, la sua borsa. Katia si rialzò immediatamente
«Madonna, che paura mi hai fatto!»
«Ho pensato che vorrei cambiare dei soldi che ho lì dentro, così poi li uso per il parcheggio.»
Si guardavano. Katia rispose con prontezza, giusto con un secondo di esitazione di troppo.
«Ce l’hai una delle tue pastiglie per il mal di gola? Mi fa male a deglutire, pensavo fosse colpa dell’aria secca, ma magari ho preso freddo.»
Lena si avvicinò alla borsa, estrasse da uno scomparto la scatola bianca e gialla e gliela porse.
«Oh, grazie. Scusa se frugavo, ma già che non c’era nessuno...»
«Sì, va bene, non ti preoccupare.»
Entrambe stavano mentendo. Entrambe lo sapevano. Lena mise la borsa sulla spalla.
«Zucchine o spinaci, nel caso li avessero entrambi?»
«Zucchine.»
Tornò verso le porte scorrevoli, il pugno stretto sulle maniglie della borsa, in mente l’immagine di Katia nella stanzetta, un attimo prima che si accorgesse di lei. Era chinata sulla borsa, dentro fino ai polsi.
Aveva in mano il Samsung. Ed era acceso.
Il controllo. Non aveva mai fatto grande affidamento sul proprio controllo in trentadue anni. Al funerale di Saverio aveva pianto senza ritegno, la notte della sua scomparsa aveva urlato aggrappata al parapetto, la pioggia che la prendeva a schiaffi, i giorni immediatamente seguenti era rimasta immobile a letto, gli occhi pesti, una processione di amici e parenti a dirle che doveva farsi forza. Se n’era fregata di quello che avrebbe detto la gente, era stato lo stesso quando per amore di Saverio aveva estirpato tutte le proprie abitudini sotto l’occhio giudicante della società. Eppure già allora, inconsapevolmente, aveva esercitato una forma di controllo su di sé per mantenere un equilibrio che il resto del mondo cercava di destabilizzare. Oggi quel controllo era diventato pienamente consapevole. Aveva mangiato la torta salata, l’aveva portata a Katia, avevano scherzato su quell’ospite ricorrente dell’albergo, già negli “anta” da un pezzo, chiedendosi per chi di loro due tornasse così assiduamente. Era uscita sventolando la mano in direzione di Elvio, Gianluca che tardava ad arrivare, e aveva raggiunto la macchina con passo fermo, cadenzato.
Nel caso mi stessero guardando.
Chi?
Saverio. E Katia. Astrid, Fermo. Gianluca e Betta, Mattia, Marta. Mometto, Alex. Sergio, Serena, Alessio. Lucio. Suo padre.
Il mondo.