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Idiota.

Idiota idiota idiota.

Rovesciava la vodka nel lavandino, buttava le compresse nel water e le gocce nei rifiuti, sedeva a terra, piangeva, tremava, si rialzava seguita dallo sguardo indifferente di Argo. Ogni tanto buttava un’occhiata al suo iPhone azzurro senza però toccarlo, non più.

Mentre trattavo il Samsung come una bomba a orologeria loro sapevano dov’ero, cosa facevo, scaricavano i miei messaggi, le chiamate, le foto, tutto da qui.

No, non “loro”.

“È uno solo.”

Non doveva aver fatto nessuna fatica, quando era entrato in casa gli era bastato aprire il portatile e leggere la sua posta, username e password per il cloud, ecco fatto.

Non posso cambiarle adesso, non posso fare niente.

Tutti i tentativi per trovare il numero della SIM, la chiamata di Betta al gestore che le era costata la vita, il nome di Marco Sartori mentre l’inganno si consumava in un oggetto che credeva innocuo.

«Se lo è lavorato da prima, son programmetti scemi, lo metti sul telefono, lo nascondi e basta» aveva detto il poliziotto. «Capace che pure il computer tuo lo controlla, meglio che stai attenta a quello che ci fai.»

Ed era ovvio, così ovvio che lei non ci aveva mai pensato. Improvvisamente il Samsung, spento e chiuso nella sua scatolina nella cassetta delle lettere, non le sembrava più minaccioso, mentre il suo vecchio iPhone gridava tradimento e minaccia. E dire che aveva pensato di cambiarlo, l’anno precedente, ma c’erano dentro tutte le foto di lei e Saverio, la gita a Monteriggioni, i messaggi, le mail, e anche se sapeva che era stato scaricato e salvato tutto in più posti, compreso il cloud

Quella a cui accedono anche loro, cioè lui.

che ne stivava i contenuti, non aveva avuto il coraggio. Il sentimentalismo era stato la sua condanna, insieme all’incapacità di assumersi responsabilità.

Sanno sempre dove sono.

Avevano ucciso così una ragazza, l’anno precedente, controllandole il telefono a sua insaputa. Poteva fare la stessa fine. Adesso a decidere per lei erano tre telefoni, uno nascosto nell’anima di un rotolo della carta igienica, in bagno, uno nella cassetta delle lettere e uno lì, davanti a lei.

Sarebbe ridicolo, se la vita di tante persone non dipendesse da loro.

Aveva seguito alla lettera le istruzioni di Caparzo, il mattino dopo era andata a fare una visita a sorpresa ai suoi genitori, aveva accettato l’ennesimo caffè che non voleva bere e con una scusa era riuscita ad allontanarsi e a prendere la chiave di riserva della sua porta blindata. Al lavoro tutti avevano finto di non notare gli occhi cerchiati di nero per il sonno mancato, all’ora di pranzo invece di andare a mangiare era andata in cerca di un caricabatteria per il Nokia, sempre che ne esistessero ancora. Camminava fintamente libera, addosso più occhi di quanti non riuscisse a vedere.

E se si sbaglia? E se si vendicano?

Uno, è uno solo.

Doveva cercare di disintossicarsi meglio che potesse dal veleno che i messaggi del Samsung le avevano inoculato nella mente, isolando i fatti dalle congetture, ma era difficile.

Mi ha chiesto cosa ho fatto di male.

Cosa ho fatto di male?

Le aveva ordinato di ricordare, di andare indietro con la mente e spulciare tutti i torti fatti in vita sua, a partire dal più grande. Ma lei non ci riusciva. Era stata una bambina buona, una brava ragazza, una studentessa modello, forse una figlia deludente, ma per scelte sue, non per altro.

L’unico che ce l’ha sempre con me è mio padre.

Arrivò nel negozio dei cinesi, ritrovò i caricabatteria e mentre ne sceglieva uno spulciò mentalmente tutti i ragazzi con cui era stata, così pochi da poter essere contati sulla punta delle dita.

Dario era sollevato che ci lasciassimo, non ci eravamo mai davvero amati. Con Fabrizio ormai eravamo amici e basta. Michele mi ha tradita e mi ha lasciata lui. Emanuele no, eravamo ragazzini, sarà durata un mese.

Storie senza grandi traumi, strascichi, remore. Solo con Saverio poteva dire di essersi sentita davvero innamorata, di aver sofferto, dio, quanto aveva sofferto, e di aver immaginato un futuro. Forse era lì che doveva cercare, nella vita di Saverio, nelle ragazze che potevano essere state gelose di lei, ragazze di cui magari ignorava l’esistenza e che l’avevano vista come una ladra.

Lui ha sempre fatto quello che voleva, anche quando stava con me.

La sua scomparsa, allora. Qualcuno avrebbe potuto attribuirle la colpa? Non era stata in grado di gestirlo, di aiutarlo, di correggerlo? Non aveva saputo badare a lui, non era stata una buona compagna?

E nemmeno una buona padrona per Argo?

Non le sembravano motivazioni forti, rimaneva solo il lavoro. Era entrata dritta al Grand’Arno senza fare fatica, aveva sostenuto un regolare colloquio dopo aver lasciato un curriculum post laurea. Le avevano detto di fare così con i principali alberghi e semplicemente era successo, Castellacci l’aveva chiamata e il posto era stato suo.

C’erano altri candidati? Qualcuno che aveva più bisogno di me?

Le risposte non arrivavano nemmeno da lì. Ma sapeva che avrebbe dovuto darle, al poliziotto, quando l’avesse chiamata. Lui non aveva messo in dubbio questa cosa, era certo che Lena dovesse avere una dose di colpa per quello che stava succedendo.

La mia più grande colpa è di non avere colpe.

La parte più difficile era stata trasferire tutto il materiale ricevuto sul Samsung dal portatile a una chiavetta USB comprata sempre dai cinesi e scrivere un memoriale dettagliato di ogni cosa che era successa da quando lo aveva trovato. Rivedere tutto, ascoltare tutto, trascrivere tutto, sempre con addosso l’angoscia di affidare la vita di Saverio a mani altrui.

Non gliela affido, se l’è presa e basta.

Aveva nascosto la chiavetta USB insieme alla chiave dietro lo zoccoletto della scala.

Perché non si è scaricato i dati da solo? Erano sul portatile, poteva scaricarseli mentre non c’ero.

Perché è un uomo di legge, deve avere la mia autorizzazione.

Ma per entrare in casa non me l’ha chiesta.

Nel memoriale della sua vita dal 21 marzo fino a quel giorno aveva scritto tutte le cose che le erano sembrate importanti, tralasciando forse i dettagli più intimi e dolorosi, tanto a lui non sarebbero serviti. Vedere nero su bianco le tappe di quell’incubo non l’avrebbe aiutata a dormire. Aveva avuto la tentazione di chiudersi dentro, poi non si era fatta illusioni.

La chiave ce l’hanno in due, se vogliono entrano e mi fanno a pezzi.

O peggio.

La telefonata di Ridenti era attesa, l’ultima volta che lei e l’ispettore si erano sentiti le aveva detto

«A venerdì»

e così era stato. Ci era andata a piedi, nemmeno pensarci di spostare l’auto, le strade rigurgitavano di gente. Fu una chiacchierata amichevole, di routine, Lena si aspettava che da un momento all’altro Caparzo entrasse dalla porta, anche se sapeva che non lavorava lì, ma non successe. Ridenti le confermò che tutti i sospetti si stavano concentrando su Fermo Berselli, era emerso che lui e l’avvocato Valacchi si erano incontrati almeno una volta, c’era un testimone. Lei era sempre certa di non esserne stata messa al corrente? Lena non aveva avuto la prontezza nemmeno di scuotere la testa, le pareva ancora una follia.

«Vede, questa cosa mi lascia sempre un senso, come dire, di incredulità. Lei della vita della sua migliore amica non sapeva nulla, signorina Bacarelli, ma com’è possibile? Aveva una relazione e non lo sapeva, incontrava suoi conoscenti e non lo sapeva, stava scrivendo una denuncia a nome suo e non lo sapeva.»

Lena si vergognava ma era esattamente così.

«Ero molto concentrata su me stessa. Stavo male. L’egoismo del dolore... ma lei ha ragione, ero una cattiva amica.»

ERA UNA CATTIVA AMICA

ERA UN CATTIVO AMICO

Ridenti non aveva detto nulla per consolarla e dopo un po’ l’aveva lasciata andare, rimandando a una prossima chiacchierata eventuali considerazioni. Questo significava che l’attenzione su di lei non era calata, la vedevano come una dama nera, una mantide che ammaliava gli uomini, li faceva impazzire e poi a farne le spese erano le persone a lei vicine. Mentre usciva dalla questura chiamò Mometto, che l’aspettava con Argo dentro a un furgoncino Volkswagen

«Come quello della Dharma, ma ’un c’è paragone, il mio l’è più bono!»

che si era risistemato da solo. La gita fuori porta per consentire a Caparzo di riempirle la casa di telecamere e microfoni era stata organizzata insieme a Germano e altri ragazzi del gruppo di Saverio. Mattia gliel’aveva sempre buttata lì, perché non vieni con noi, ci facciamo un giro in campagna, è estate, non era certa che fosse un invito vero, forse tutti davano per scontato che non ci sarebbe andata mai. E invece, oggi che Mattia non poteva nemmeno uscire di casa, eccola lì. Quando il furgoncino accostò per tirarla su rimase a bocca aperta, perché dentro c’erano anche Sergio e Serena e, evento straordinario, Lucio e Marta. Mometto era stato bravissimo, aveva organizzato tutto perché sperava sul serio di poterla rimettere in sesto raccogliendo un gruppo di semisconosciuti in nome di un amico ufficialmente morto. Gli altri avevano apprezzato lo sforzo, per questo si trovavano lì. Era stata la gita delle colpe, quelle non dette, quelle insinuate, quelle evidenti. Erano andati nell’agriturismo del cugino di qualcuno, dove si mangiava così così ma c’era una bella vista. Lena aveva chiacchierato, incassando tutti gli “Oh, finalmente ti si vede sorridere”, “Mangia un po’ di più, che si vedono le ossa”, “E quel faccia di merda lo hanno licenziato? Che assassino no, ma faccia di merda sicuro” e le battute e gli scherzi e le canne passate ma no, grazie, lei restava sulla sua linea. E ogni istante pensava al telefono che teneva in tasca e a quello chiuso nella cassetta delle lettere, alla porta aperta e le persiane chiuse, a quell’uomo estraneo in casa sua. Era tutto falso, posticcio, ma visto che i ragazzi recitavano bene e anche lei se l’era cavata. Aveva notato quanto Marta stesse appiccicata a Lucio. Lui aveva un aspetto migliore dell’ultima volta che lo aveva visto, ben rasato, in ordine, i vestiti sembravano addirittura stirati. Aveva il viso meno tirato e le era parso strano, credeva che niente al mondo lo avrebbe fatto riprendere.

Oggi è qui con Marta.

Una piccola fitta, non di gelosia ma di delusione. Lei aveva respinto Mattia e lui invece si stava consolando. Aveva sempre vissuto Lucio come un’appendice di Alex e non se lo sarebbe aspettato. In fondo però aveva senso, anche Marta era molto più vecchia di lui e tendeva ad accudirlo, con la differenza che era molto avvenente.

Se non lo deve ad Alex figurati se lo deve a me.

Aveva aspettato che la veterinaria si distraesse e si era avvicinata per parlargli da solo.

«Come ti senti?»

si era stretto nelle spalle, indifferente a tutto, la nuova magrezza che gli dava un’aria più adulta. Argo gli si era steso di fianco e lui aveva iniziato ad accarezzarlo.

«Mio padre diceva che quella umana è la specie peggiore. Che ci meritiamo solo di soffrire.»

«Lo diceva anche Saverio» rispose lei.

«Amava gli animali e odiava le gente. Quando ero piccolo cercava di insegnarmi a distinguere le poche persone buone da quelle cattive, lui le capiva al volo, diceva. Invece io faccio ancora fatica.»

«Per mio padre non esistono brave persone, secondo lui tutti vogliono imbrogliarlo, me compresa.»

«Forse quella che stava meglio era Alex, che il papà non l’ha avuto.»

«Lo diceva anche lei.»

Un brivido lo aveva scosso e Lena aveva buttato un’occhiata a Marta.

«Lucio, ma stai

prendendo le tue medicine?

bene?»

«Aspetto che torni» aveva bisbigliato.

Non tornerà.

Lena controllò di nuovo Marta e poi, un po’ di nascosto, gli prese la mano. Lucio la guardò stupito. Si sorrisero, ed era la prima volta da mesi, forse la prima volta sincera in assoluto.

Argo aveva ringhiato. Immediatamente, nell’istante in cui avevano rimesso piede in casa. Aveva puntato le zampe, non voleva rientrare. Mometto era stato oltremodo carino, aveva voluto accompagnarli fino lì, forse si sarebbe aspettato l’invito a entrare, ma lei aveva detto che Argo era stanco, si è fatto delle belle sgroppate, ci vediamo presto, sono stata proprio bene, grazie di tutto, ciao, ciao. E ora, sulla soglia, non riusciva a convincere il cane a entrare.

Sente il suo odore.

Strano, perché lei gli era stata vicino e di odori non ne aveva sentiti.

«La fregatura è questa, abbiamo perso ogni istinto» sentenziava sempre Saverio. «Un tempo se una persona era malata noi lo avremmo saputo dall’odore, invece adesso niente, con gli occhi bendati non riconosceremmo le nostre mutande da quelle di un altro.»

Lena l’odore di Saverio se lo ricordava, aveva dei suoi maglioni che dopo due anni, nonostante tutto, odoravano ancora flebilmente di lui.

Riuscì a far entrare il cane e a chiudere la porta. A quel punto il molosso piazzò il naso a terra e seguì vari percorsi, cucina-soggiorno-camera, camera-bagno-sgabuzzino, sgabuzzino-soggiorno-bagno, avanti e indietro, snasando ogni tanto e fermandosi a ringhiare ai mobili. Ce l’aveva particolarmente con l’armadio di Lena.

Ora apro le ante e lui è lì dentro.

Lui poliziotto, lui assassino, c’era poca differenza. L’aveva fatto, aveva aperto tutto e naturalmente c’erano solo vestiti. Controllò il biglietto, il Samsung, la scatola con le foto di Saverio, era tutto lì. Eppure sapeva che quell’uomo era stato lì dentro. Il letto era rifatto. Al mattino lei buttava indietro le coperte e come restavano restavano, invece adesso era a posto. Anche in bagno gli oggetti che aveva lasciato sul lavandino, i trucchi, tutto era nel pensile.

Avrà anche spazzato, lavato i pavimenti?

Ma l’ironia non attecchiva. Le faceva paura. E quelle parole le risuonavano nella testa.

“La casa è pulita.”

Ora non lo è più.

Aveva cercato, guardando in alto, nei punti nascosti, ma non aveva visto niente.

Eppure ci sono, so che le ha piazzate.

Allora si era messa in corridoio, tra l’ingresso del soggiorno e quello della camera, aveva abbassato la testa e aveva detto

«Mi ascolta?»

Come doveva chiamarlo? Agente? Signore?

«Signor Caparzo, mi ascolta? Mi sente?»

Silenzio, niente di fatto. Pensò di riprovare dal soggiorno ma dal bagno arrivò un suono buffo, come un verso di grilli. Andò al portarotoli di riserva, sfilò con delicatezza il Nokia. C’era un messaggio. Il testo diceva solo:

SÌ.

Si era comunque chiusa a chiave in camera con Argo e al momento di andare a letto, quando aveva posato la testa sul cuscino, con il cane che sbuffava a terra, allora e solo allora lo aveva sentito, ovunque, tra le lenzuola, sulla federa.

L’odore del poliziotto.