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Aperta la cassetta delle lettere il cellulare era lì.

Non sembrava nemmeno ce l’avessero fatto cadere, come se fosse stato appoggiato sul fondo e allineato contro la parete. Lena sfilò la bolletta della luce e allungò la mano per prenderlo. Lo scherzo di qualche ragazzino scemo, di sicuro, lo freghi a un amico e lo butti in una cassetta delle lettere, oh che spasso. O magari il proprietario andava di fretta, il telefono si era scaricato, non aveva voluto rientrare in casa e l’aveva buttato lì, sbagliando cassetta. Lesse i cognomi delle due ai lati della sua: TASSELLI e VARANO. I Varano avevano duemila anni a testa, escludeva che possedessero cellulari. La Tasselli sì, invece, era una signora simpatica e piena di vita, sempre in giro per mostre e incontri letterari. Non era da lei, però, non si sarebbe liberata così di uno smartphone solo per non tenerselo nella borsa. Era anche senza protezione, niente gomma sui bordi, cadendo poteva essersi danneggiato. Lo soppesò avvertendo un blando senso di familiarità. Era un vecchio modello, un Samsung argentato e pieno di segni. Il rumore alla sua destra la distrasse. Zampa dietro la porta, snasata a terra: Argo aveva sentito che stava per rientrare. Infilò la mano libera nella borsa per cercare le chiavi e con l’altra provò a sbloccare il telefono, certa di trovare la richiesta del PIN che avrebbe concluso la sua indagine. Invece lo schermo si accese subito, nessun codice. Sfondo standard e pochissime icone, telefono, rubrica, posta, messaggistica, immagini, impostazioni. Infilò la chiave nella toppa e per un istante fu nel dubbio: se lo portava in casa era come rubarlo? Il telefono non era suo. In hotel se una delle cameriere trovava un cellulare in camera nemmeno lo toccava, per paura di essere accusata di furto, e al desk avevano un protocollo strettissimo per gli oggetti abbandonati, c’erano state grane in passato e il proprietario, Castellacci, era diventato paranoico.

Cerco di capire di chi è e se non ci riesco lo porto alla polizia.

Significava buttare metà pomeriggio. Sospirò e spinse la porta, spostando insieme quaranta chili di cane. Argo gliela faceva pagare ogni volta che lo lasciava da solo a casa. Pipì negli angoli, coriandoli di riviste, una volta aveva perfino scavato un buco nel divano. Lena non gli diceva niente, raccattava le macerie con mani pesanti e poi gli preparava la pappa. Argo era vecchio, quattordici anni diceva il libretto, cieco da un occhio ed enorme. Quando poteva lo lasciava da amici, Astrid, Sergio, Alex le volte che la trovava a casa, ma non sempre glielo tenevano. Era capitato che chiamasse qualche dog-sitter, ma ad Argo non andavano a genio gli estranei. Cinque giorni prima, poi, lo avevano operato, levandogli un’unghia della zampa posteriore che gli aveva fatto infezione, e camminava ancora male.

«Ciao, delinquente. Vediamo che disastri hai fatto oggi» disse con finta allegria alla massa scura che si ostinava a darle le spalle, sdraiata contro la porta. La fasciatura sulla zampa era ancora al suo posto, già questo aveva del miracoloso. Mentre perlustrava la casa iniziò a controllare il telefono.

Registro chiamate: niente.

Rubrica: niente.

Posta: niente.

È rubato. Lo hanno resettato e poi se ne sono disfatti, magari stavano per beccarli.

Era quasi un sollievo, se non era di nessuno non sarebbe stato necessario spiegare niente, non le sarebbe toccato parlare con estranei, forse si poteva risparmiare pure il giro alla polizia.

Ma non era vero, sapeva che ci sarebbe andata.

Gli alberi troppo dritti finiscono dentro alle aiuole.

Il ricordo le provocò una piccola fitta, non ripensava a quel dialogo da tanto tempo. Scosse appena la testa e tornò a concentrarsi sul cellulare. Controllò anche le immagini, per sicurezza. C’era un filmato, incomprensibile, due secondi di movimento, schermo scuro, rumore di fondo. Girato per errore, era evidente. Niente altro. La porta del bagno era aperta, Argo era riuscito ad arrivare alla tazza e c’era acqua ovunque. Poteva andare peggio. Lasciò il telefono sul mobile dell’anticamera e andò a prendere il mocio nel ripostiglio, che teneva chiuso a chiave per paura che il cane arrivasse ai detersivi. Forse sarebbe stato più prudente portarlo fuori, prima, teneva la pipì già da sette ore, ma le sarebbe piaciuto farsi un bagno e...

Il suono la interruppe.

Acuto, intermittente, estraneo.

Veniva dal Samsung nell’ingresso.

Lena appoggiò il secchio. Forse era il segnale che la batteria si stava scaricando. Sullo schermo era comparso un bollino rosso accanto all’icona dei messaggi.

Sarà il gestore del traffico telefonico.

Di nuovo un senso di familiarità, stavolta accompagnato da una vaga inquietudine. Allungò la mano.

Non è mio, se apro il messaggio commetto una violazione della privacy.

Che stronzata, il telefono era finito nella sua cassetta delle lettere, quale ne fosse la ragione, lo aveva già scandagliato da cima a fondo, che importava se quel messaggio fosse nuovo o vecchio? Lei voleva solo restituirlo al proprietario, era per questo che...

Secondo trillo, secondo messaggio.

Un movimento poco lontano, il cane si era messo seduto, le orecchie dritte.

«Cosa c’è, Argo?»

Qualcosa non andava. Prese il telefono.

Non dovrei farlo.

Toccò l’icona, aprì i messaggi.

Non erano del gestore telefonico, venivano da un numero privato che il Samsung registrava come utente sconosciuto.

SAI CHI SONO?

e poi

IO SO CHI SEI.

«Bacarelli in Bartolomei.»

Lo compitava sottovoce, compiacendosi di tutte le cacofonie.

Non era mai stata femminista, ma neppure tradizionalista, a dirla tutta, e lo aveva dimostrato. Però sì, l’idea del matrimonio, del festone, dell’abito da principessa e della chiesa addobbata l’aveva sempre ammaliata. Aveva in mente di sposarsi tre volte, una in comune, una in chiesa e una, prima delle altre due, nella cappella di santa Chiara, la Porziuncola, a Santa Maria degli Angeli, Assisi. Loro due sarebbero entrati al sorgere del sole e si sarebbero guardati negli occhi per un’ora, sbrigandosela privatamente con Dio. Quando ne fossero usciti sarebbero stati sposati, prescindendo dai preti e dalle carte. Quello lì, quello sarebbe stato il suo vero matrimonio. Si era costruita questa cattedrale di sogno nei minimi dettagli, solo girasoli come fiori, dato che il matrimonio sarebbe stato a giugno, rinfresco organizzato da una società equa e solidale, nessuna acconciatura sofisticata ma solo i capelli lavati di fresco e asciugati al sole. Allora, prima che la cattedrale venisse demolita dalle fondamenta, non aveva ancora i dreadlock. Se avesse dovuto spiegare oggi come fosse farsi la messa in piega non avrebbe più saputo dirlo, era una percezione persa, rimossa. I dread glieli aveva fatti una tizia mai vista prima (e nemmeno dopo) nel retro del negozio di souvenir etnici, un pomeriggio di agosto, usando un grosso uncinetto. Lena non era stata convinta fino all’ultimo, pensava a tutti i guai che le sarebbero piovuti addosso per quella faccenda, a casa e sul lavoro. I suoi non avrebbero capito. Non si aspettava che la contestassero, non era quello, ma all’ennesima stranezza, all’ennesimo cambiamento della loro unica figlia, si sarebbero allarmati. Sua madre lo era già, il babbo molto meno, lui risolveva metà dei problemi dell’umanità con una scrollata di spalle. Avevano finto di non notare l’abbigliamento diverso quando era passata dai completini con il tacco dieci a maglie informi e pantaloni alla turca. Quando aveva comunicato che sarebbe uscita di casa, e a ventotto anni era anche tempo, già da parecchio era autonoma e con un’intensa vita sociale, suo padre l’aveva preso un po’ come un affronto, però non si era opposto. Poi era diventata vegetariana, e quella era stata quanto meno una sorpresa. Poi c’era stata la deriva buddhista. Poi l’attivismo animalista. La vedevano sempre meno, notavano il dimagrimento, il viso tirato, ma al lavoro andava tutto bene, i guadagni erano costanti e sua madre lo sapeva, perché aveva la firma sul conto e in banca non le facevano mai storie quando chiedeva di dare un’occhiata. Quindi si erano ripromessi di non mettere bocca. Ma i capelli no, i capelli non se li sarebbero fatti andare bene, perché dei suoi capelli castano ramati Marilena Bacarelli era sempre stata orgogliosa al limite del maniacale. Una volta alla settimana dalla parrucchiera, l’armadietto del bagno stipato di maschere, balsami e oli essenziali, unico elemento bio presente nella sua vita di prima, quando tutto doveva ancora cominciare. Rovinarsi i capelli così non era da lei. Ingarbugliarli per sempre in una maniera risolvibile solo con le forbici era una cosa che non solo non le assomigliava ma andava contro la sua natura. Era un male, era un danno. E quel danno aveva un nome.

«Saverio Bartolomei.»

sospirava Lena seduta sul divano mentre aspettava che il telefono squillasse, che arrivasse il segnale di un messaggio, di una risposta su Facebook, qualcosa. Mentre aspettava che Saverio si degnasse di accorgersi che esisteva. Quando si erano conosciuti lei si era laureata già da tre anni, lavorava alla reception dell’hotel Grand’Arno e aveva preso una supplenza alle scuole medie. Era una giovane donna in carriera, single a tratti, elegante, sicura. Saverio invece era fresco di niente, a ventitré anni aveva evitato la galera due volte per possesso di droga, aiutava un amico a gestire un negozio dalle oscure finalità, forse souvenir, forse abbigliamento etnico, forse articoli da regalo, nel cui retro si era stabilito con il suo cane. A Saverio sarebbe piaciuto farsi i dreadlock, ma aveva i capelli sottili e già radi, la barba che cresceva a chiazze, poteva farsi le treccine incatramate, se voleva, ma niente più. Era stato un bel ragazzo, molti anni prima, poi si era devastato di alcol e canne, con puntatine di coca ed eroina, fino a farsi sbattere fuori casa dai suoi e da allora aveva vissuto ospite dove capitava. Per il lavoro in negozio il suo amico Mattia, rampollo della Firenze bene, non lo pagava, ma lo lasciava vivere lì, nel magazzino inutilizzato, insieme ad Argo, un molosso cieco da un occhio riscattato dopo un combattimento. Saverio collaborava con diversi gruppi animalisti e più di tutto gli piaceva partecipare ai raid notturni in cui venivano liberati centinaia di visoni o bestie destinate alla vivisezione. Qualche volta gli animali liberati, dopo essere stati reintrodotti in natura, morivano male, ma la cosa non lo toccava, a lui fregava solo del principio. Era colto, leggeva molto e la sua tessera della biblioteca, la stessa che aveva sin da bambino, era logora. Aveva scelto di non proseguire con gli studi ma ne sarebbe stato perfettamente in grado. Si era rovinato per la stessa ragione che lo spingeva ad aprire le gabbie ai roditori, voleva essere libero di una libertà assoluta, corrosiva e nichilista. Lui e Lena si erano incontrati sul Ponte Santa Trinita con un gruppo di amici comuni, Saverio fumava seduto sul parapetto e lei si compiaceva di avere messo lo smalto dello stesso colore del vestito. Quella sera l’aveva derisa, benevolmente ma in maniera netta

«Allora ti chiami Maria?»

«No, Marilena.»

«Invece hai proprio la faccia da Maria. Hai un sacco di cose da Maria, ma non quella che piace a me, l’altra».

E lei si era sentita infastidita, però in maniera strana, quasi che le prese in giro di quel ragazzo più giovane solleticassero qualcosa di cui non era consapevole. Lo aveva cercato alcuni giorni dopo, con la scusa di vedere il negozio, ma lui non se l’era bevuta e nemmeno mezz’ora dopo l’aveva portata sul retro senza prendersi neppure il fastidio di chiudere la porta. Di nuovo si era divertito a sfotterla, parlava di “giretto nei bassifondi”, se n’era uscito con un

«Il prossimo sarà negro?»

ma si sbagliava, Lena non era così. Non aveva bisogno di cercare brividi proibiti, conosceva se stessa e la sua vita le piaceva quanto bastava da non volerla cambiare. Però aveva sempre ammesso la possibilità di farlo, se ne valeva la pena. Non avrebbe saputo dire cosa avesse visto in Saverio, ma qualcosa c’era, e per quel qualcosa tornò anche nei giorni seguenti, poi iniziò a frequentare gli amici di lui, a cambiare abbigliamento, dieta, filosofia di vita, a partecipare alle scorribande notturne negli allevamenti e infine a fare ai propri capelli quello che lui non poteva fare con i suoi. Voleva essere la donna che desiderava, e voleva esserlo perché aveva intuito il bisogno di Saverio di avere accanto qualcuno che smussasse gli assolutismi in cui si era immerso e che presto o tardi lo avrebbero distrutto. Quando era ubriaco o strafatto andava a camminare sui tetti o sui parapetti del fiume, una sigaretta che pendeva dall’angolo della bocca e lo sguardo assente di chi aspetta una spinta dal destino.

«Saverio vieni giù, non fare il coglione!» gli urlavano gli amici.

«Saverio, devi mettere le gocce nelle orecchie ad Argo!» urlava invece lei, e allora il ragazzo si svegliava, scendeva e tornava dal cane. Perché il cane lo amava per davvero, se ne sentiva responsabile, ammirava la sua purezza, l’istinto intatto, la capacità di vivere per quello che era. Lena invece no, Lena, che lui avrebbe chiamato sempre Maria, perché lo faceva sentire grandioso storpiare i nomi delle persone, non la amava abbastanza da rinunciare agli equilibrismi, e lei lo sapeva. L’avevano quasi licenziata, per quella faccenda dei capelli, e lui era rimasto indifferente a vederla combattere come una leonessa, tirare in ballo gli avvocati, usare le ferie arretrate per restare a casa durante l’ostracismo così da non perdere il posto e poi venire richiamata perché tre lingue come le parlava lei non le parlava nessuno. La vedeva mettersi la retina per sistemarseli indietro e rideva di lei, poi le pescava cinquanta euro dal portafogli per prendersi le sigarette. Lena faceva finta di non accorgersene, Saverio faceva finta che fosse a posto così. Sperava di riuscire a cambiarlo, sperava, aveva sperato, mentre gli anni da ventisette diventavano trenta e la cattedrale di un matrimonio con i girasoli si sfaldava in silenzio.

Poi una notte c’era stato un temporale terribile, a Firenze, erano caduti dei fulmini e il negozio era rimasto senza luce. Alle due di notte Mattia l’aveva chiamata.

«Saverio è da te?»

«No, perché?»

«Il cane è al negozio, abbaia, la luce è saltata, il suo telefono è spento.»

Lo avevano cercato nei locali che frequentava di solito, un barista disse che era uscito prima di mezzanotte, quando si era scatenato il diluvio, che era euforico e parecchio bevuto. Lena era arrivata sul Ponte alla Carraia e aveva visto sul parapetto una bottiglia di birra e il portafogli di Saverio. Il giorno dopo, grazie all’aiuto di Alina, un’amica che lavorava nei servizi sociali, erano riusciti a visionare il filmato di una telecamera di sorveglianza privata che, prima che l’elettricità se ne andasse, lo mostrava camminare trionfalmente sotto la pioggia diretto al ponte. Quel grappolo di macchie grigie di spalle era tutto quello che le rimaneva di lui. Avevano fatto dragare un tratto dell’Arno, molto in ritardo su qualunque tempo, e il capo dei pompieri aveva detto che con quel diluvio o si era impigliato in qualcosa o chissà dove era stato trascinato. Lena aveva portato Argo a casa sua, Mattia non lo poteva tenere, la famiglia di Saverio figurarsi, e gli amici animalisti avevano già troppi grattacapi. Il regolamento condominiale consentiva animali di piccola taglia, ma l’amministratore aveva chiuso un occhio, in fondo lei abitava a piano terra con un pezzetto di giardino. Lì lei e Argo si erano spenti insieme nei successivi due anni. La vita media del cane gli prospettava ancora una breve attesa, prima di ricongiungersi al padrone. Il tempo con Lena sarebbe stato meno galantuomo, salvo una patologia fulminante che non sapeva desiderare, così come non riusciva a suicidarsi. Era integerrima, lo era sempre stata, con un forte senso del dovere e la consapevolezza di essere responsabile per la vita degli altri e non solo per la sua.

«Gli alberi troppo dritti finiscono dentro alle aiuole» l’aveva canzonata una volta Saverio, e lei si era arrabbiata, cosa che non succedeva mai.

«Tu dici che non giudichi mai nessuno, che sei uno spirito libero, però mi hai fatto cambiare il modo di vestirmi, di pettinarmi, di mangiare e pure di scopare. Perché così come ero io non ti andavo bene. Perché sei tu che vedi il dritto e lo storto, non io.»

«E allora perché lo hai fatto?» l’aveva rintuzzata.

«Perché potevo permettermelo. Perché non erano cose che mi definivano. Forse perché dei due quella davvero libera sono io.»

E Saverio se n’era rimasto zitto.

IO SO CHI SEI.

Lena era rimasta in piedi a fissare lo schermo, l’altra mano ancora stretta al manico del mocio.

Si staranno sbagliando. Pensano che il telefono ce l’abbia ancora il ladro.

Ma non ci credeva. Un telefono vuoto e due messaggi che arrivano solo dopo che l’aveva portato in casa, erano evidentemente per lei.

Allora sono io il bersaglio dello scherzo cretino, oh che ridere e tutto il resto.

Argo continuava a fissarla con intenzione e le venne il dubbio che avesse le sue buone ragioni. Lasciò il cellulare sul mobile, il mocio contro il muro e andò a prendere il guinzaglio. Avrebbe dovuto mettergli anche la museruola, Marta, la veterinaria si era tanto raccomandata, un cane grosso come lui poteva portare guai, ma Saverio era sempre stato contrario anche a quella con il laccetto.

«Ti piacerebbe andare in giro con un bavaglio sulla bocca? Be’, a me non piacerebbe, cazzo!»

e lei non se l’era sentita di andare contro questa sua

volontà

convinzione, lui quel cane lo adorava, mangiava pane e cipolla ma a quella bestia comprava carne rossa che cucinava su un fornelletto da campeggio.

«Poi gliela mescolo col cibo secco, altrimenti non va bene. Zero sale, però, e va scottata con una padella antiaderente, niente grassi. Guarda e impara, se un giorno dovessi fargli da mangiare tu.»

Nessuno dei due pensava che sarebbe davvero successo. Oggi Lena conosceva almeno sei macellai, di cui due di un supermercato, che una volta alla settimana le davano a prezzo irrisorio gli scarti. Lei puliva tutto, pesava tutto e poi congelava le dosi. Argo non sarebbe morto per malnutrizione, questo era certo. Uscirono sotto il sole tiepido di marzo, ancora qualche settimana e sarebbe arrivato il caldo. Il pensiero del cellulare le ronzava pigro nella testa, si chiedeva chi potesse avere organizzato lo scherzo. Nessuno dei suoi amici, vecchi o nuovi, non erano quel genere di persone. Qualcuno del palazzo? Magari uno che ci voleva provare, il tizio del secondo piano, quello sposato, che le faceva sempre delle gran battutone? Non le era parso così interessato. Ragazzotti nei dintorni? Qualcuno delle case popolari dietro alla sua, quello con la Polo rossa, oppure l’altro, il ragazzino che giocava a basket? Tutto poteva essere.

Come la risolvo?

Polizia, e basta. Non era un grande scherzo e lei non aveva energie da sprecarci sopra. Avrebbe buttato il resto della giornata, pazienza. Argo aveva iniziato a mettersi seduto spesso, la zampa gli faceva male, meglio farlo rientrare e dargli la pappa, se avesse avuto bisogno subito dopo il giardinetto sarebbe bastato. Non glielo lasciava aperto quando non era a casa perché abbaiava di continuo e i vicini si lamentavano anche dell’odore dei suoi bisogni. Accarezzò di nuovo l’idea di trasferirsi da un’altra parte, magari più fuori, verso la campagna, vicino al rifugio di Astrid. Ma non se la sentiva di affrontare un altro trasloco.

E poi lui non vivrà ancora a lungo.

Non voleva pensarlo. Non voleva ammettere di non riuscire ad amare quel cane quanto

Saverio

avrebbe voluto. Non voleva essere il tipo di persona che aspetta pazientemente la morte di un animale per liberarsene. Si chinò a cingergli il collo, appoggiando la testa alla sua, e restò così. Argo stava fermo, un po’ subendola e un po’ godendo del gesto. Non la leccava mai, non l’aveva mai leccata, aveva un codice tutto suo per esprimere l’affetto, ma non mancava di farle capire che non la considerava la sua vera padrona.

Rientrarono con lentezza.

Sganciata la pettorina e appeso il guinzaglio, Lena fece un passo verso il congelatore

e in quel momento il Samsung trillò.

Un suono uguale a prima, un sms.

Argo si mise sull’attenti, orecchie dritte, zampe tese tranne quella fasciata, che teneva sollevata.

Ma davvero pensano che sia divertente? Davvero credono che porterà a qualcosa?

Lo stesso si avvicinò. Lo stesso aprì il messaggio. Non c’erano parole, ma una fotografia. Lei e Argo, a cinquanta metri da casa, Lena piegata in avanti ad avvolgergli il collo col braccio, la guancia tra le sue orecchie, il cane seduto ad aspettare. Cinque minuti prima, forse meno.

No, non è divertente per un cazzo.

Pensò di uscire, poi no, se non era sicura di chi fosse era meglio aspettare. Dall’angolazione sembrava che la foto fosse stata scattata proprio davanti a casa sua, magari da un’auto parcheggiata.

E se chiamassi la polizia?

La polizia si chiamava solo per le cose serie.

E se fosse uno stalker? Qualcuno dell’albergo, o un ospite, magari uno di quelli con cui ho chiacchierato di più. Con chi ho parlato di recente?

Sentiva l’agitazione crescere, ed era un evento, per la maggior parte della giornata si sentiva intorpidita, quasi addormentata. Non era depressione, era abulia, per quella le avevano dato del ricostituente e qualche flaconcino di ginseng.

Pillole per l’elaborazione del lutto.

Tornò con gli occhi sul cane e si sentì più tranquilla. Nessuno l’avrebbe aggredita, finché fosse stata in compagnia di Argo. Nessuno sano di mente, insomma, era un cane grosso, nero e aveva una bella bocca grande. D’accordo, zoppicava, ma se voleva era in grado di correre, la fasciatura era ancora bella tesa e...

Fu allora che mise a fuoco.

La fasciatura di Argo era perfetta.

Gliel’aveva fatta quella mattina presto, appena sveglia, per paura di dimenticarsi. Saranno state le sette, la benda notturna era tutta sbavata e morsicata, molti giri allentati anche se non era riuscito a levarsela. E di notte aveva dormito, ne era certa, lo aveva sentito russare. Possibile che invece di giorno, in più di sette ore di solitudine senza grandi svaghi, anche con il pasticcio del water, fosse rimasta al suo posto?

Si avvicinò con cautela e iniziò a osservarla. I giri erano tutti intatti, coprivano perfettamente i cuscinetti sotto e raddoppiavano intorno all’unghia mancante. Lei non ricordava quel raddoppio. Non ricordava nemmeno di avere fatto tanti giri obliqui.

Sto correndo troppo con la fantasia, devo calmarmi.

Ma aveva ragione. Lei non era brava con le bende, come non lo era con le iniezioni, e quando aveva dovuto fargliele sottocutanee Argo si era sempre lamentato voltandosi di scatto e minacciando il morso. Lei non sapeva bendarlo così.

Non è vero.

Sì, invece.

Non me ne sarò accorta, lo avrò fatto soprappensiero.

No.

Provò ad aprire i nodi, ma erano troppo stretti. Andò in bagno e prese la forbicina per le unghie, scivolando sull’acqua e rischiando di cadere. Passò di nuovo accanto al telefono, lo guardò e quel guizzo, quella memoria sepolta si fece ancora sentire.

Saverio ce l’aveva uguale.

«No.»

Lo aveva detto a voce alta e il suono improvviso la sorprese. Si accucciò accanto al cane e iniziò a tagliare la benda. Al secondo giro capì che non era la garzina che usava lei, era più spessa, e più scura, fatta di un altro materiale.

Chi gliel’ha messa? Quando gliel’ha messa? Come ha fatto a entrare in casa?

Ammise e scartò ipotesi a raffica, un’amnesia, la veterinaria chiamata dai vicini, un’incursione di sua madre, ma nessuna era plausibile. Stava facendo mente locale su chi potesse avere avuto accesso alle sue chiavi quando la vide.

La parte terminale della benda era leggermente sporca di siero, l’unghia non sanguinava più ed era stata coperta con una garza leggera. In compenso all’interno c’erano due parole scritte in maiuscolo col pennarello nero.

CIAO MARIA

Perché Argo non l’ha sbranato?

Questa era la domanda. Questa, non le altre venti, non quelle che l’avevano spinta a digitare il 113 per denunciare un’effrazione e poi cancellarlo. Questa. Il telefono era come quello di Saverio, non poteva più negarlo. Non ci aveva badato subito perché lo cambiava spesso, non sapeva attraverso che giri ma capitava che passasse da uno smartphone di buona marca a un muletto di origine indefinibile nell’arco di due settimane. La cosa gli rimaneva indifferente, aveva delle pagine social ma le usava in maniera discontinua, quasi sempre preferiva gli sms, spesso le telefonate, il più delle volte il nulla. Le sparizioni di Saverio dai radar erano all’ordine del giorno, se volevi parlargli dovevi andare a pescarlo al negozio o in uno dei suoi bar o in giro. In passato, quando Argo era stato più giovane, si erano fatti insieme una bella fetta di Europa. Treni, passaggi in auto, autobus, pure il cassone di un camion, bastava che lasciassero salire il cane. Ma con gli anni il molosso aveva iniziato ad accusare qualche acciacco, soffriva spesso di otite e non ci vedeva granché dall’occhio buono, così Saverio si era fermato, anche se non del tutto. Aveva un’anima inquieta e pellegrina e non riusciva a restare a lungo nello stesso posto, si trattasse anche solo dello spostamento da una sedia al letto. Voleva andare, doveva andare. E mentre andava niente rotture di cazzo, affari che bippavano, vibrazioni di notizie inutili, spegneva tutto e via, il cane al fianco da Villamagna all’Arco di San Pierino, da piazza Santo Spirito al Giardino della Montagnola. Quando il negozio chiudeva per ferie Lena poteva non rintracciarlo anche per due, tre giorni. Era nei patti, non se l’erano mai detto ma era nei patti, eppure non poteva impedirsi di immaginarlo tra le gambe di qualcuna o con qualcuna tra le gambe e starci male e sentire che tutto quanto era ingiusto e sbagliato. Ma poi Saverio tornava, forse per i soldi delle sigarette, forse per lei, e allora si raccontava tutta un’altra storia e fingeva di non sapere che il solo aggettivo che definisse il loro rapporto agli occhi degli altri era “malato”, come diceva sempre la sua amica Betta. Gli ultimi mesi prima di sparire Saverio aveva avuto un Samsung. Grigio, uguale a quello intorno a cui girava da mezz’ora. Ne osservava i segni, i graffietti sullo schermo, la forma, lo spessore, e più lo guardava più le sembrava di riconoscerlo.

E non lo riconosco solo io.

La reazione di Argo ai suoni dei messaggi era stata immediata, ma non si trattava di fastidio o di sorpresa.

Li ha ricordati.

O semplicemente li aveva ricondotti al padrone

quello vero

che non vedeva più da tempo.

Lena sentì irrompere nella testa un’ipotesi che non doveva nemmeno formulare, che andava respinta perché infondata, folle, sbagliata, ma quella si impose con forza.

Magari lo ha visto stamattina.

Che figure patetiche quelle che non si rassegnano alla morte di qualcuno. Che anche davanti all’evidenza dei fatti si aggrappano al corpo non ritrovato, rinnegano il dna e preferiscono affidarsi a maghi e fattucchiere per sentirsi raccontare che va tutto bene, ma quale morte, si tratta di fuga, Caraibi, ascetismo. E ci credono contro ogni logica e buon senso. Lena non voleva essere una persona simile, conosceva Saverio, sapeva benissimo che si sfilava il portafogli di tasca ogni volta che andava a fare gli equilibrismi, perché non voleva che, nel caso malaugurato il suo corpo non fosse stato trovato subito, nessuno si occupasse di Argo. Sfidava la morte senza remore per se stesso ma in maniera responsabile per il cane. Il portafogli sul ponte, quello, raccontava una storia ben precisa.

Potrebbe aver nuotato.

Ubriaco nella tempesta?

Potrebbe essere finito comunque a riva.

Non in quel punto del fiume.

Qualcuno potrebbe essersi buttato per salvarlo, non è impossibile.

Impossibile no, ma a meno che non fosse annegato insieme a Saverio perché non dirlo? Perché non chiamare un’ambulanza, perché non soccorrerlo, perché non cercare banalmente aiuto? E infine

Potrebbe non essere mai caduto.

il pensiero definitivo.

Lo respingeva a forza ogni giorno da due anni, perché c’era la testimonianza del barista, e quel video, e il portafogli appoggiato, ma lo stesso la speranza non mollava, morsicava la logica a sangue chiedendo spazio e ascolto, raccontando una fiaba che non stava in piedi e vedeva Saverio da qualche parte ad Amsterdam o a Den Haag o a Tampere, dove aveva sempre detto di volersi trasferire, con la barba lunga e occhiali senza lenti, intento a dipingere quadri o a suonare le percussioni per strada.

Ma senza Argo.

Era qui che si infrangevano tutti i suoi sogni folli. Scappando via nella notte Saverio non avrebbe mollato lei, o il negozio, o Mattia, o Firenze, o la famiglia e gli amici. Saverio avrebbe abbandonato Argo. E mai, mai, mai nella vita e nella morte Saverio avrebbe voltato le spalle al suo cane.

Eppure questa mattina qualcuno si è introdotto in casa mia, gli ha cambiato la fasciatura alla zampa e mi ha lasciato quel messaggio. Poi il cellulare. Poi il resto.

Prese in mano il telefono, rilesse i due messaggi. Cliccò sull’icona per rispondere automaticamente e digitò

CHI SEI?

poi premette invio. Arrivò subito la notifica, accompagnata da un punto esclamativo, nessun destinatario, digitare il numero. Ci riprovò, ma niente. Provò a salvare il contatto ma lo spazio del numero rimaneva bianco. Da quello SCONOSCIUTO poteva soltanto ricevere ma non era possibile rispondergli. Com’era familiare, tutto questo. Si chinò verso il testone bruno.

«Perché non l’hai attaccato, Argo? Perché non l’hai morso, perché non hai abbaiato così forte che quegli stronzi dei Varano mi cercassero per l’ennesima volta sul cellulare minacciando di chiamare l’amministratore?»

Argo sollevò il muso e le piantò il naso vicino alle labbra, inspirando a piccole raffiche. Lena credette che stesse per leccarla. Ma non lo fece nemmeno quella volta.

Gli aveva rifatto la fasciatura. Teneva nelle mani la vecchia benda da un tempo così lungo che ogni luce all’esterno si era spenta. A malapena poteva percepire le lettere.

CIAO MARIA

È solo uno scherzo.

Il telefono squillò, il suo, quello regolare.

Era Betta.

Della sua vita precedente, quella prima di conoscere Saverio, Betta era stata l’amica più ostica, l’unica a cui si sentiva legata solo da affetto e questioni scolastiche, non per affinità. Si sentivano con regolarità, un po’ come la telefonata d’obbligo ai parenti durante le feste comandate, ma avevano pochi argomenti. Betta lavorava come avvocato in un ambiente maschilista e competitivo, nel quale si era guadagnata il proprio posto azzannando a destra e a manca. Non leggeva, non amava il cinema e le serie tv, non andava ai concerti o alle mostre, non aveva la patente e si spostava solo in taxi, era allergica a tutti quei piaceri lievi e gratuiti che per Lena erano puro nutrimento. Era cinica, materiale, non aveva la minima vena romantica e sembrava del tutto priva di spiritualità. Compensava con una buona dose di simpatia e humour, anche se tutte le sue battute avevano un fondo di cattiveria. Quando aveva saputo della relazione con Saverio, Betta aveva preso per il culo Lena in tutti i modi possibili, prima dandole della vecchia col toy boy, poi dicendo che era così imbottito di droga che poteva sballarsi semplicemente leccandogli la schiena, come ai rospi, e infine sperando avesse almeno un’attrezzatura come si deve, così se la sarebbe spassata. Questo i primi tempi, poi si era fatta aggressiva.

«Seriamente, ma sei cretina? Gli hai fatto fare almeno le analisi? Guarda che dalla sieropositività all’aids è un attimo. Cioè, basta guardarlo, è scheletrico! E poi è pieno di tic, si inciampa nel parlare, mica avrai cominciato a farti anche tu, vero? Giuro che se capisco che prendi qualcosa ti faccio disintossicare a suon di sberle! Se volevi uno stallone te ne procuravo uno io, anche di totale disimpegno, porca merda! Ma poi cosa vi dite? Cosa avete da dirvi voi due? È una specie di rifiuto umano, un emarginato borderline, quello non arriva ai trent’anni, te lo dico, e se non lo scarichi alla svelta finisce che con lui ci seppelliscono anche te!»

Lena l’aveva ascoltata con pazienza, sapeva che era il suo modo di volerle bene, e sapeva anche che non aveva torto su tutto. Saverio invece aveva ricambiato con veemenza l’odio di Betta, la definiva l’incarnazione di ciò contro cui lottava, il consumismo, il capitalismo, il vitello d’oro delle regole sociali. Una volta le aveva persino detto:

«O la molli tu o ti mollo io»

e Lena si era spaventata perché sembrava facesse sul serio, ma poi aveva avuto la prontezza di rispondere:

«È esattamente quello che mi ha detto lei»

e anche se non era vero ebbe il suo effetto, perché Saverio non avrebbe mai voluto essere accomunato a Betta. E così se li era tenuti entrambi, un muro di carta velina tra due odi feroci che fortunatamente non si incontravano quasi mai. Poi c’era stato il temporale e il fiume, e mentre intorno a lei si creava il vuoto Betta era rimasta, unica delle sue vecchie amiche. Da fuori non sembrava così, su Facebook tutte manifestavano la loro presenza, tra like e cuoricini e commenti, e c’erano i messaggini e le chat. Ma anche se tra di loro sembrava non parlassero d’altro, e quando al supermercato incrociavano i suoi genitori erano baci e abbracci e come sono preoccupata per lei, Lena non le vedeva mai. Aveva avuto delle aspettative su Sara, la storica amica del cuore, scuole insieme, università insieme, apparentemente inseparabili finché all’orizzonte non era sorto il sole di Saverio. Allora Sara si era ritratta, vampiro tardivo, fidanzata con lo stesso ragazzo dalla quarta liceo, entrata nella ditta del padre il giorno dopo la laurea. Non aveva sentito il bisogno di partecipare più alla sua vita, ora che si faceva trasgressiva, meglio mettersi in ombra, al sicuro. Pur lavorando vicino aveva evitato di passare davanti all’hotel soprattutto negli orari in cui Lena sarebbe entrata e uscita. Da due anni lei e le altre evitavano di coinvolgerla in cene e serate per non essere insensibili, poverina, con quello che stava passando. Non la chiamavano per non schiaffeggiarla con le loro felicità da Instagram, frutto di scelte tanto migliori della sua. Lei voleva credere che non fossero cattive, non tutte, che solo non sapessero davvero cosa dire o cosa fare. Finché si trattava della torrida relazione con un tossico di matrice violenta erano state tutte lì, assetate di quell’avventura da cui erano ben tutelate, osservandola da un mondo a parte, sotto la campana di vetro che impediva l’ingresso della sporcizia. Alcune erano state sinceramente dispiaciute per lei, altre le avevano dato della cretina, dello zerbino, le più romantiche avevano sperato che Saverio mettesse la testa a posto, si spostasse da davanti a dietro il bancone di un bar e che sarebbero vissuti felici e contenti. I pianti di Lena, gli accessi d’ira di Saverio, le umiliazioni, i rischi legali dei raid notturni animalisti e perfino le sporadiche botte non avevano spinto nessuna di loro a fare un passo indietro. Ma la morte era un’altra cosa. La morte è una faccenda sociale, la più ingestibile, quella per cui non esistono consigli prefabbricati, al massimo ce la si fa dopo lunga malattia, che poverino ha smesso di soffrire. Ma una morte come quella, una morte da ubriaco giù da un ponte, e nemmeno in macchina, dove almeno si poteva dare la colpa all’asfalto, proprio da coglione testa di cazzo quanto era stato in vita, una morte così nessuna aveva saputo maneggiarla. E quindi sì, erano andate tutte al funerale voluto dalla famiglia di lui, bara vuota e la feccia a seguirla, la gentaglia che l’aveva portato nei gorghi di quel fiume, tenendosi ben lontane, sfiorando Lena in abbracci retrattili e lei che non mollava quella bestia orrenda e sfigurata che teneva con un guinzaglio borchiato. La sua disperazione era talmente scomoda e ingombrante che nessuna se l’era sentita di affrontarla, per paura che invadesse i loro spazi e magari levasse un po’ di ossigeno allo smalto per le unghie. Si erano ritirate come la marea, a poco a poco, lasciandola in balia di tutte quelle persone che invece c’erano ma in maniera altra, gli amici di Saverio, semisconosciuti in molti casi conosciuti al funerale che lei non l’avevano capita mai, sì, carina, si sforzava di aggregarsi, di partecipare, ma diciamocelo, se una non c’è nata non c’è nata, però gli aveva voluto bene, questo lo sappiamo, nessuno lo mette in dubbio, mica vorremo mollarla anche noi, no? E Lena era rimasta così, con una famiglia che non la comprendeva e non sapeva esserci, le amiche andate in fumo e un pugno di estranei che le regalavano sorrisi forzati e zuppe di farro. La vita precedente andata, la vita attuale sfumata, un cane enorme che non la voleva e davanti nulla di visibile. Betta invece era rimasta, perché Betta era una mente semplice, pragmatica, sapeva che era suo dovere e l’aveva fatto. Nel suo turbinio di donna in carriera che ogni giorno doveva schiacciare l’antagonista maschio le aveva dato ininterrottamente della deficiente, prima, durante e dopo Saverio. Ma l’aveva fatto preparandole tazze di tè, avvolgendola in plaid, portando a spasso il bestione puzzolente e ubriacandosi con lei quelle due volte che gliel’aveva concesso. Il dolore non aveva mai spento la mente di Lena, e lei quella fedeltà se l’era appuntata come sacra e intoccabile, per Betta si sarebbe buttata nel fuoco, anche se le cose che le accomunavano si contavano sulle dita di una mano monca.

Prima di rispondere, per un attimo, la tentazione fu fortissima.

Glielo dico.

E poi? Poi Betta le avrebbe chiesto se era andata alla polizia e lei avrebbe dovuto rispondere di no. Allora le avrebbe domandato perché, e se la risposta non le fosse piaciuta – e non le sarebbe piaciuta – avrebbe iniziato a sbraitare e le cose sarebbero andate come sempre, la voce aspra che superava i confini dell’auricolare, Lena che sillabava scuse a mezza voce, l’amica che la minacciava di dire tutto ai suoi genitori, di prenotarle un TSO e compagnia bella.

Non ho bisogno di questo. Non ora.

Ignorare la chiamata non sarebbe servito, Betta non mollava al primo tentativo, meglio disinnescare.

«Ciao Betta.»

«Ciao, scema. Esci?»

«Non stasera. Argo è agitato, gli fa male la zampa.»

«Abbatterlo no?»

«Per adesso passo. Ma grazie per il suggerimento.»

«Hai la voce strana, che c’hai?»

«Mal di testa. Oggi è stata una giornata pesante.»

«Va bene, se cambi idea chiama e ti aggreghi, okay?»

Tutto qui. Finito. Si sentiva come Pinocchio dopo che il martello aveva ucciso il Grillo Parlante. Era di nuovo sola con il Samsung, muto e immobile. Non sapeva cosa fare.

Betta mi sarebbe piombata in casa, lo so com’è fatta. Meglio così.

Eppure un’inquietudine diversa le era rimasta appiccicata addosso.

Non sto facendo niente.

Sono entrati in casa mia.

Mi hanno toccato il cane.

Mi hanno fotografata di nascosto.

E io non sto facendo niente.

Solo perché non accetto che Saverio sia morto.

Così prese la decisione tutta insieme, da un momento all’altro. Non era una scema, come la chiamava sempre Betta. Non era una debole. Aveva subìto da Saverio, sì, ma solo perché era troppo importante e se per caso avesse avuto ragione, se fosse stato quello giusto, l’amore della sua vita che aveva solo deviato un pochino dalla strada ma poi si sarebbe ritrovato, se loro fossero state anime gemelle per sempre nei secoli dei secoli allora andavano bene pure due schiaffoni, anche se quelle volte che si era arrabbiato erano stati pugni nella pancia e poi sigarette consumate seduto in un angolo, senza chiedere scusa perché non ne era capace. Si era piegata a Saverio. Si era fatta calpestare da Saverio. Ma Saverio era il solo a poterlo fare.

E questo cellulare non è il suo, è solo uno scherzo, pure del cazzo, io esco e non me ne frega niente, non ci credo che sono lì ad aspettarmi, prendo la macchina e vado alla polizia.

Mentre lo pensava stava già chiudendo a doppia mandata la porta

Poi devo chiamare un fabbro.

tirandosi dietro Argo con la consapevolezza che se l’avesse lasciato in auto troppo a lungo avrebbe di nuovo fatto a pezzi i poggiatesta. Salirono sulla Clio amaranto e via subito, un occhio al retrovisore ma davvero non c’era nessuno dietro, il traffico era pigro, una buona ora per andarsene in giro. Il commissariato San Giovanni di via Pietra Piana era il più vicino, sarebbe andata lì, con un po’ di fortuna avrebbe trovato parcheggio in zona. Più viaggiava meglio si sentiva, era stata solo questione di muoversi, uscire da quella paralisi che la prendeva sempre quando la vita si voltava indietro. Arrivò in meno di dieci minuti e sì, il posto c’era. Tirò giù due dita di finestrino, faceva fresco fuori e con un po’ di fortuna Argo si sarebbe appisolato subito, ma non si sapeva mai, fosse passato un animalista talebano

come Saverio

poteva farsi venire in mente di spaccare il vetro per farlo uscire. Gli fece una carezza e il Samsung trillò. Argo si tese, lei fece altrettanto.

Non leggo. Tanto non è lui.

Aprì la portiera e non seppe come il telefono le finisse in mano e il pollice premesse sull’icona. Era un messaggio audio.

Ora mi minacciano. Ora ridono.

Invece partì una musica. Leggera, ritmata. La prese una vertigine folle e si aggrappò al tettuccio per non svenire.

Poi risalì in macchina.

Tornò a casa.

Non c’erano stati solo tempi di botte, con Saverio. Quel che pensava Betta era tutto vero (anche se le analisi alla fine le aveva fatte e gliele aveva mostrate con aria di sufficienza) e la preoccupazione della famiglia di Lena era giustificata. Però quella strana coppia aveva avuto momenti buoni. Cosa avesse portato Saverio a provare quella rabbia ribollente Lena non lo aveva mai scoperto, anche se era chiaro che c’entrava suo padre e ancor di più c’entrava sua madre. Per contro, però, a quella rabbia si era accompagnato un infantilismo ancora integro, fatto di bisogni semplici e facilmente accontentabili. Saverio rideva con niente, di primo acchito gli piacevano tutti e si entusiasmava per cose minuscole. Era un amante bizzarro, passava da un atteggiamento dominante e aggressivo a quello sottomesso di un bambino in cerca di coccole. Prima del sonno le sue difese si abbassavano e allora chiedeva a Lena

«Raccontami una storia»

e lei iniziava a parlare sommessamente, accarezzandogli i capelli, finché non si addormentava. “La mia Karen Blixen” l’aveva chiamata lui, e quelle storie avevano finito con l’essere il punto più alto della loro intimità, quando lui le metteva la testa in grembo e seguiva il movimento delle sue labbra con occhi acquosi. Una sera si erano accucciati nel retro del negozio, Argo russava e Lena aveva portato una bottiglia di vodka al melone che le aveva regalato un cliente dell’albergo a cui aveva pazientemente tradotto una piccola guida per gli Uffizi. Saverio aveva fumato e bevuto, ma con meno furia del solito, perso in una strana malinconia. Dopo l’amore l’aveva chiamata

«Vieni, ti faccio sentire una cosa»

e aveva trafficato con lo smartphone che aveva a quel tempo, un’enorme tavoletta bianca. Lena gli si era messa addosso, pelle contro pelle, che era quasi estate, e lui aveva fatto partire un video. Era Ohi Maria degli Articolo 31, e a Lena venne da sorridere perché nelle riunioni di gruppo, animaliste o tossiche, di J-Ax si diceva peste e corna e Saverio era sempre in prima linea. Invece quella sera le confessò

«La prima volta che l’ho sentita ero piccolo, avrò avuto cinque anni. Credevo fosse una canzone sulla Madonna, e allora la ballavo così».

Mise giù il cellulare e giunse le mani ondeggiando. Lena rideva e lui anche, poi tornò a sedersi.

«Dopo hanno scritto solo merda, e adesso non c’è neanche da parlarne. Però questa mi è sempre piaciuta. E per me resta una canzone sulla Madonna. Magari sulla mia, ecco.»

Poi l’aveva guardata con una strana reticenza ragazzina.

«Sei tu la mia Madonna.»

E aveva aggiunto.

«Non dirlo a nessuno.»

Ohi Maria riecheggiava nella cucina per la settima volta di fila. Argo si trascinava di qua e di là, inquieto. Il busto appoggiato al tavolo della cucina, il braccio disteso, la testa sul gomito, il cellulare davanti agli occhi gonfi, Lena ascoltava. La certezza che Saverio fosse ancora vivo la invadeva come acqua calda. In tanti sapevano che la chiamava Maria, pochi avevano dimestichezza con Argo, solo alcuni avrebbero saputo riconoscere il cellulare, ma quella canzone, di quella canzone, di quella sera sapevano solo loro due.

Saverio è vivo.

Non è mai caduto, non è stato trascinato per metri, non è finito in fondo all’Arno, chissà dove.

Se n’è andato via come aveva detto mille volte che avrebbe fatto.

Le altre domande, dozzine, milioni di domande, non superavano la barricata di questa nuova certezza. Piangeva, è vero, ma di un pianto nuovo, liberatorio, il pianto del sollievo. Non importava quale fosse la nuova realtà che si profilava, ovvero che Saverio l’avesse abbandonata, che avesse anche mollato il cane, che se n’era fregato di tutto e di tutti, della pena e del dolore che si sarebbe lasciato dietro come una scia, dell’estenuante ricerca del suo corpo, di un lutto falso e senza forma che avrebbe contribuito a creare. Non era morto, questo era tutto. E aveva voluto farglielo sapere, dopo due anni di agonia. Non l’aveva fatto di persona, non aveva chiamato, ma aveva scelto di sollevarla da quel baratro. Le ultime note terminarono, calò il silenzio e Lena riavviò il messaggio per l’ottava volta. Era l’unica a poterlo capire fino in fondo, quella canzone apparteneva solo a loro due, Saverio teneva con tutti la facciata del purista musicale e storceva il naso anche di fronte a De André, non avrebbe mai ammesso nemmeno di conoscerla.

Quella canzone era per lei.

L’agonia era finita.

Argo si sdraiò per terra ansimando e Lena gli sorrise.

«Ti ha lasciato perché sapeva che saresti rimasto con me. Fattene una ragione.»

E il cane sbuffò.