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«Se vuoi essere lucida, bevi.»

Era una delle massime di Saverio, gliel’aveva propinata subito, al secondo appuntamento, quando Lena gli aveva detto delle difficoltà che stava trovando a insegnare a scuola, i ragazzini già aggressivi che non le ubbidivano, le madri ai colloqui sempre con qualcosa da ridire sulla sua scarsa esperienza, il preside che ogni tanto le buttava lì delle normative sconosciute, facendola sentire in difetto.

«Se vai lì con la mente piena di menate ti metteranno sotto tutti. Devi liberarla un po’, silenziare le cazzate. Beviti due shottini di vodka prima di uscire e vedrai che la paura passa.»

Una volta l’aveva fatto, con il terrore che l’odore le si sentisse nel fiato, e in effetti aveva avuto effetto, ma non aveva trovato il coraggio di rifarlo e a fine anno non aveva rinnovato la disponibilità per la supplenza. Quel giovedì mattina aveva consegnato Argo direttamente ad Alex che le aveva chiesto

«Tutto bene, sì?»

ottenendo in risposta un plausibilissimo

«Tra cinque giorni saranno due anni che Saverio non c’è più. Sto facendo un po’ fatica, ma tengo botta»

costruito con grande accuratezza, frase giovanilistica compresa. E Alex ci aveva creduto, aveva sorriso e preso il guinzaglio, raccomandandole di trovarsi qualcun altro da lunedì, che lei sarebbe andata a Modena per il corso di aggiornamento.

Magari non è vero.

Ma il dubbio ebbe scarsa presa, la vodka stava facendo il suo lavoro. Si era concentrata su due poli di sospetti: da un lato Saverio, che in combutta con Astrid l’aveva sorvegliata e giudicata e manipolata per ottenere lo sgombero di Fermo, dall’altro Fermo, amico di Alex (e forse anche di Katia), che la considerava complice della denuncia e si sarebbe voluto vendicare. Tra i due gruppi c’era una rappresaglia, e lei era lì in mezzo.

Katia non mi è mai sembrata un’animalista.

Non doveva esserlo, non tutti si muovevano seguendo principi intoccabili, un sacco di gente lo faceva per altre ragioni.

Magari era il suo spacciatore, magari Katia ha una dipendenza e io non lo so.

Nella percezione paranoica e alterata della realtà che le rimaneva, era comunque nel centro di un mirino. Là fuori loro la osservavano, la seguivano, la controllavano, usavano il Samsung per condizionarla.

Magari il telefono da cui è stata mandata la foto di Argo non era di Saverio.

Magari Fermo aveva il mio numero.

Magari ha sempre saputo chi sono.

Volute di fumo che andavano e venivano mentre lei metteva su la sua faccia migliore, riceveva gli ospiti, consegnava chiavi, faceva firmare consensi, prendeva prenotazioni, ricambiava la gentilezza di Katia andandole a prendere un caffè americano due bar più in là, dove lo facevano davvero buono, sentiva sua madre per farla stare tranquilla, chiamava Alex per concordare il ritiro di Argo e dentro di sé affondava in una colata di catrame.

Non riuscirò a reggere per molto.

Ne era consapevole, eppure non aveva più margine di azione, l’elenco di Astrid era stato l’unica carta che si era potuta giocare. Parlare con Katia sarebbe stato inutile, con Astrid men che meno, Alex le era sembrata sincera e Fermo ormai era uccel di bosco.

O no?

Poteva solo aspettare. Aspettare che Saverio facesse qualcosa, che uno dei suoi amici facesse qualcosa, che uno dei suoi nemici facesse qualcosa. Poteva sorridere. Poteva eseguire gli ordini senza sbagliare. Poteva pregare che tutto finisse presto.

Una nuovo venerdì mattina, la sedia appoggiata alla porta, la valigia appoggiata sulla sedia, il cane nel giardinetto, la testa pesante che le sembrava stesse per scoppiare. Il campanello ebbe l’effetto di un trapano nelle orecchie e non si stupì nel veder entrare Betta, carica come Babbo Natale.

«Ciao, Maometto, sono la montagna.»

Aveva portato un vassoio di dolci per la prima colazione e tre menu di ristoranti take-away da chiamare per il pranzo, l’opinione di Lena in merito non era richiesta.

«Ce ne stiamo rintanate qui tutto il giorno come due adolescenti complessate, okay, scema?»

Lei aveva scosso la testa con la rassegnazione di chi riconosce la battaglia persa insieme alla guerra. Betta aveva iniziato a sfarfallare in giro per casa, sistemando cose, portando plaid, scartando pacchetti, blandendo Argo, e mentre lo faceva parlava, parlava non dicendo niente e Lena sapeva che tutto quanto era una rincorsa per sferrarle un attacco quando avesse avuto le difese maggiormente abbassate, stordita dalle chiacchiere.

Non devo dirle del biglietto. Su tutto il resto posso cedere ma non sul biglietto.

E andò esattamente così. Prima domande ovvie

«Su quel telefono? Arrivato più niente?»

poi una richiesta innocente

«Me lo fai rivedere? Così, per capire bene di che anno è»

e infine un diretto, atteso ma lo stesso destabilizzante

«Posso vedere i messaggi? Non lo tocco, scema, te lo giuro, voglio solo vederli».

Il braccio di ferro durò poco, Betta era caricata a plutonio e Lena era stanca, con dentro di sé un desiderio fortissimo di cedere, mollare, confessare tutto

tranne il biglietto

e chiedere aiuto. Betta lesse i messaggi, esaminò le foto, ascoltò la canzone senza fare commenti. La cosa che le rimaneva più indigesta erano i video.

«Questi hanno proprio lo scopo di spaventarti. Non sono niente e quindi potrebbero essere qualunque cosa, non mi piacciono.»

La prese alla lontana, basandosi solo sulla logica.

«Facciamo un’ipotesi per assurdo, questa roba vuole farti credere che dietro ci sia Saverio e diciamo di sì, che non è morto, che è solo scappato. Sta via due anni, non si sa dove, non ci interessa. Poi torna, e non si sa perché, e di nuovo non ci interessa. Si nasconde, e qui già la cosa inizia a stonare, perché cosa torni se poi ti devi nascondere? Stai via, no? Allora immaginiamo che sia tornato perché ha qualcosa di importante da fare ma debba comunque stare nascosto. Ha guai con la legge? Facciamo di sì. Quindi? Quindi ti lascia un telefono che evidentemente non è suo, entra in casa tua senza permesso, ti fa impazzire il cane, fa incastrare dalla polizia un tizio che smercia droga... capisci che sono cose che non stanno insieme? Allora diciamo che non ha guai con la legge, è solo uno che si è finto morto, e questo è comunque un guaio con la legge ma fa lo stesso. Facciamo allora che aveva perso la memoria o cazzate simili, okay? Perché non si fa vedere? Tu dici che secondo te ha ripreso i rapporti con la tizia del rifugio o con quell’altra che sembra un trans, ma perché non con te? Per punirti? Perché sei stata una cattiva padrona per il cane? Cioè, Lena, io non ho mai avuto una buona opinione di Saverio, ma non arriverei a pensare che sia fuori fino a questo punto.»

Lena si osservava le mani e non sapeva cosa rispondere.

È cambiato.

Ma non bastava.

«C’è qualcosa che ti provi, che ti abbia mai provato che sia davvero lui?»

Il biglietto.

«Non mi dire la canzone, capisco che è un ricordo intimo vostro, ma sul serio non puoi essere certa che non lo abbia mai raccontato ad altri. Oppure che nessuno sappia che da ragazzino questa canzone gli piaceva, insomma, non è come raccontare che è stato stuprato dal prete, è una confidenza, un ricordo personale, ma è solo una canzone, scema. Solo una canzone.»

Lena sentiva le palpebre tremare e il pianto arrampicarsi lungo la gola. Non aveva parole per controbattere alla logica di Betta, solo una fede incrollabile in quel biglietto che non le mostrava.

Perché?

Perché era suo. Era la sola cosa davvero sua in quel momento e non se la sarebbe fatta portare via.

«È uno scherzo, Lena. Uno scherzo di merda architettato bene da qualcuno che ti vuole male.» Le sollevò il mento con due dita. «Ma male male davvero, sai? Questa persona ti odia. Ce l’ha con te, vuole che tu soffra, vuole umiliarti. Guarda cosa ti ha fatto fare finora. Vivi da reclusa con la porta aperta. Non hai il coraggio di lasciare il cane da solo o di far stare qualcuno qui con lui quando non ci sei. Racconti balle, Lena, e tu di balle non ne hai raccontate mai, sei sempre stata trasparente come un bicchiere di vetro e sa dio se certe volte non ti capivo, ma questa cosa l’ho sempre ammirata, sempre. Io non sono così, sarò anche più libera, sotto certi aspetti, scopo alla grande, non rendo conto di niente a nessuno, però ne ho, di ombre, e tante. Tu le ombre non le avevi, prima, e adesso ci sono.»

Lena abbassò il mento, era la cosa più vicina a un cenno di assenso che potesse permettersi.

«Saverio è morto. È morto come un cretino in quella notte di due anni fa, e il caso ha voluto che nessuno fosse lì ad assistere. È morto e tu hai tutto il diritto di piangerlo e di non riprenderti, ma questa cosa è diversa. Il telefono, i messaggi, le minacce. È una cosa malata, proprio malata.

Tutti gli amori sono malati.

E tu lo sai cosa devi fare.»

«Non posso.»

«Sì che puoi. Se non vuoi farlo da sola vengo io con te, ma devi denunciare.»

«Mi prenderebbero per pazza. Cosa denuncio? Tre filmati vuoti, una canzone, una foto mia con Argo, una di Argo e sei messaggi?»

«E la gente che ti entra in casa?»

«Entra in casa con un mazzo di chiavi, Betta. Non forzano la porta, e adesso la lascio sempre aperta, mi dici che razza di intrusione è?»

«Quelle chiavi non gliele hai date tu!»

«E chi te lo dice?»

Erano arrivate al punto, alla frattura.

«Saverio è morto.»

«Non lo sai.»

«Allora facciamo che non è morto e che è uno zombie impazzito. A me non frega niente se sia o non sia davvero lui, chiunque abbia messo in piedi questo teatro ti sta torturando. È stalking come minimo, Lena. Non può avere nessun buono scopo, non può finire bene, non c’è modo!»

La grande verità era stata detta. Dopo l’ubriacatura iniziale, dopo l’euforia, si era resa conto lei stessa che non c’era uno sbocco positivo a quella situazione. Cosa voleva Saverio? Non si capiva. Ma il modo in cui cercava di ottenerlo la stava facendo a pezzi.

«Non voglio denunciare niente, Betta. Non adesso, non ancora. E non puoi costringermi, lo sai. Lo so perfino io, quindi...»

Calò un silenzio fermo, Lena si aspettava che Betta esplodesse, l’amica invece la fissava con estrema calma. Aveva dalla sua la forza della ragione. Lena si sentì incrinare in ogni parte, il muro della disperazione che scricchiolava ed era sul punto di cedere. Cercò di passarsi una mano nei capelli e rimase impigliata nei dread. Li odiò. E odiò se stessa. E gli argini si ruppero, e cominciò a piangere, i singhiozzi che diventavano singulti, poi spasmi, Betta che l’accoglieva contro la spalla con un’espressione di vittoria che Lena non poteva vedere mentre annaspava alla ricerca delle parole giuste.

«La sola cosa... la cosa che non sopporto... è questo senso di impotenza... Questo non poter fare niente e dover aspettare... essere in balia degli eventi... Con questo coso che suona quando vuole e riceve soltanto e di cui non posso sapere nulla, da dove viene, nemmeno il numero...»

Betta la allontanò a distanza di braccio.

«Il numero telefonico? Non è sulla scheda?»

«È stato cancellato.»

«Fammi rivedere i messaggi.»

Lena le allungò il telefono e Betta li scorse lentamente.

«Questo cos’è?»

«Niente, un’offerta del gestore.»

Betta la guardò con quello scintillio negli occhi che significava guai.

«Ti fidi di me, scema?»

«Ti prego, Betta...»

«Ti fidi di me?»

Solo venti giorni prima sarebbero scoppiate a ridere e Betta avrebbe attaccato con la musica del Titanic, ma in quel momento nessuna delle due ci pensò. Lena la guardò con gli occhi umidi, Betta, l’unica persona che stesse cercando di difenderla, l’unica di cui si potesse fidare ciecamente. Annuì.

Betta compose un numero di tre cifre e restò in attesa. Partì una musichetta e mise il vivavoce. Poi una voce metallica.

«Ai fini di verificare il servizio fornito questa chiamata potrebbe essere registrata. Risponde l’operatore 073»

e una voce giovane, fresca, da ragazzina, un vago accento del Sud.

«Buongiorno, sono Arianna, come posso esserle utile?»

«Buongiorno Arianna, vorrei sapere se sia possibile risparmiare qualcosa sulla tariffa di questo telefono. Lo usiamo per l’azienda e dovrebbe servirci solo a ricevere, ma mio marito evidentemente lo usa anche per chiamare.»

«Controllo subito.»

Lena guardava Betta, Betta guardava Lena.

«Dunque, qui vedo che non ha un contratto business.»

«No, certo che no, è praticamente un muletto, serve quando dobbiamo mandare fuori qualche operaio e abbiamo necessità di contattarlo.»

«Allora, in questo momento avete l’offerta solo chiamate, sms, mms in Italia e all’esterno e internet ricaricabile. Sono 12,70 euro al mese, per lei è troppo?»

«Sì. Vorrei la tariffa più bassa possibile, basta che funzioni, che chiami e che riceva.»

«Allora, signora Sartori...»

Si guardarono.

«...le propongo la tariffa flat, 8 euro mensili, 1000 minuti di chiamate e 100 sms e mms inclusi, 2 giga di navigazione, che sono pochi, ma se non lo usate...»

Betta fece cenno a Lena di darle qualcosa per scrivere.

Sartori.

Un cognome del tutto sconosciuto.

«La tariffa mi va benissimo.» Poi tentò il colpo: «Mio marito di queste cose non capisce niente, mio suocero è anche peggio. Anzi, penso che la scheda sia pure a nome suo. Aldo Sartori?».

Smisero di respirare per un istante.

«No, Marco Sartori.»

«E allora niente, è mio marito, ho sposato un deficiente.»

La ragazza rise, Betta e Lena si guardavano in faccia. Marco Sartori era un nome che non diceva niente a nessuna delle due, ma era un nome. Restava una sola cosa da scoprire, ed era difficile farlo senza che suonasse strano. Ma Betta era brava.

«Mi ripete tutti i dettagli dell’offerta, che mi scrivo ogni cosa, così mio marito non rompe?»

«Certo.»

Seguì la cantilenante lista di chiamate, sms, mms, gigabyte, costo, scadenza e il numero telefonico a cui tutto questo veniva elargito.

«Per l’accettazione dell’offerta però è necessario che mi chiami suo marito.»

«Ah, non posso farlo io? Nemmeno se uso il telefono?»

«Purtroppo no.»

«E allora la farò richiamare, se lo convinco. Grazie, è stata gentilissima.»

Interruppero la chiamata. Ora Lena aveva un nome e un numero.

«E se si accorge che abbiamo contattato il servizio clienti?»

«Chi, Marco Sartori?»

«Chi mi ha mandato il telefono.» Almeno questa concessione gliela doveva. «Forse controlla il traffico su internet.»

«Tu hai visto troppi film, scema.»

Il Samsung trillò. Betta aprì rapida il messaggio, ma era la richiesta di valutazione dell’operato del servizio clienti. Prese il proprio cellulare dalla borsa e compose il numero che Lena aveva trascritto. Il Samsung squillò.

«Ecco, hai il tuo numero e hai anche un nome. Guarda caso non è quello di Saverio.»

«Non è reato usare la scheda di qualcun altro.»

«E se non fosse un altro?»

Lena pensò che non ci aveva guadagnato nulla, sapere il numero di un cellulare che aveva sempre con sé non cambiava le cose. A meno che non fosse affatto fantascienza e che potesse essere controllato a distanza.

Magari è davvero possibile che controlli l’andamento del telefono su internet, magari gli arriverà una notifica via mail per aver chiamato il servizio clienti.

Quale mail?

La famiglia di Saverio aveva chiesto e ottenuto di chiudere l’indirizzo del ragazzo “per evitare episodi spiacevoli”. Se n’era occupato Mattia, che aveva chiesto a un amico di scaricare tutto quello che c’era nella casella, non tanta roba in realtà, ma comunque roba sua. Lena conservava una dozzina di mail inviate a lei, cinque delle quali contenevano richieste di soldi.

Ma è possibile che ne abbia aperta un’altra.

In quel caso avrebbe visto la telefonata.

Se era Saverio si sarebbe arrabbiato.

Se?

Se.

Betta l’aveva lavorata ai fianchi per il resto della giornata, convincendola a chiudere la porta e a lasciare il cane in casa.

«Fidati, non mi ci metterei neppure io contro Argo. E quando sei in casa, se non vuoi far cambiare la serratura, almeno lascia la chiave dentro mezza girata, così non è possibile inserirla dall’esterno.»

Tingle tingle.

Un senso di nausea improvviso, ci era andata vicina a ricordare. Aveva cercato di ricollocare quel suono, Saverio che entra, il tintinnio delle sue chiavi, il rumore che facevano quando le buttava sul tavolo prima di stravaccarsi sul divano, scarpe e tutto?

No, non era quello.

Betta se n’era andata lasciando dietro di sé un cimitero di cartoccetti di cucina cinese e Lena aveva sprangato la porta. Era rimasta a lungo nel letto a fissare al buio il punto in cui sapeva trovarsi il Samsung in ricarica, aspettando un trillo da un momento all’altro. Non era successo niente e il mattino dopo si era svegliata sentendosi alleggerita. Aveva faticato di meno a scendere dal letto, prepararsi, forse era l’adrenalina per il mancato affidamento di Argo ad Alex, che aveva chiamato per accertarsi che fosse tutto a posto, o ad Astrid, che si era fatta viva solo per confermare di non fare nessun conto su di lei, che tutti quei cani tenuti malissimo che si era ritrovata sul groppone le stavano prosciugando la vita.

Era sabato, Firenze era bella come sempre, l’Arno quieto, la hall dell’hotel piena di turisti che sarebbero ripartiti l’indomani, coppie che festeggiavano gli anniversari, giapponesi fuori stagione. Lena non aveva bevuto nulla, la ritrovata lucidità era dovuta all’aver parlato con Betta, all’aver disinnescato il loop paranoico dei giorni prima.

Questa sera a casa troverò un disastro.

E in effetti sì, ma non quello che si aspettava. Ritrovandosi rinchiuso Argo aveva pensato di prendersela con lo stuoino della cucina, che fino a quel giorno aveva ignorato. C’erano brandelli ovunque e Lena ci aveva messo mezz’ora buona a sistemare tutto, ma ne era stata quasi contenta. Le persiane sbarrate, la portafinestra e la porta chiuse con tutte le mandate disponibili e le chiavi inserite di traverso, il cane insoddisfatto per la mancata passeggiata che le voltava le spalle, aveva iniziato a sentirsi di nuovo al sicuro.

Non ho paura di lui, è la situazione a essere sbagliata.

Il giorno dopo si sentiva persino meglio, aveva scambiato il turno con Gianluca per andare a pranzo dai suoi con Argo, aveva bevuto il caffè senza protestare e preso due porzioni di orata al forno. Sua madre le era sembrata contenta, suo padre comunque sulle sue ma meno ostile di altre volte. Terminato il turno alla reception, sulla strada di casa, aveva chiamato Betta, che non le aveva risposto. L’aveva richiamata un’ora dopo e l’aveva sentita rispondere un po’ in affanno, una risata trattenuta in fondo alla voce.

«Scema, ti richiamo io, ho qualcosa tra le mani, adesso.»

Lena aveva sorriso.

«Qualcosa di nuovo o di vecchio?»

«Diciamo di interessante. Ci sentiamo quando ho finito.»

«Facciamo domani, ora dormo.»

«Domani ho una riunione a porte chiuse. Spero lo siano anche le tue.»

«Lo saranno.»

Di nuovo leggerezza, la sensazione di aver mollato chissà quale zavorra, e il sonno benevolo che l’aveva presa con sé mentre alle 5.57 il Samsung si illuminava per un attimo e poi si spegneva.

Freddo.

Caldo.

Freddo.

La sensazione di svenire.

Troppo poco ossigeno, doveva aprire la finestra, prima la chiave, poi le persiane, Argo che per dispetto l’aveva fatta dentro, contro lo sportello della lavastoviglie. Lena era impietrita davanti alla fotografia che Saverio le aveva mandato quella notte. Non c’era lei e non c’era nemmeno lui, eppure c’erano entrambi in un modo che le sarebbe stato impossibile quantificare. Era una foto fatta all’interno di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi. Non una foto scaricata da internet, una foto vera fatta alle prime luci dell’alba come aveva sempre sognato di vederla lei. Era lì, piccola e splendida, la cappella dove sognava di sposarsi. Sotto la foto una frase.

CELEBRIAMO, STANOTTE.

Quella notte, alle 2.15, secondo la ricostruzione dei pompieri, ricorreva il secondo anniversario della sua morte. E lui le dava appuntamento nel posto dove avrebbe voluto sposarlo. Una frase ambigua, poteva essere una presa in giro, poteva essere una promessa, neanche da immaginare però che dicesse sul serio, insomma, per sposarsi mancavano i documenti e tutto quanto.

Ma io ho sempre detto che il mio matrimonio sarebbe stato una questione privata da sbrigare tra me, lo sposo e Dio, dentro a quella cappella.

Che sarebbe bastato rimanere lì dentro all’alba, a guardarci.

Era un sogno infantile, in quel momento le sembrava di una puerilità imbarazzante, come aveva potuto coccolarsi per anni in una simile melensaggine?

Oggi potrebbe diventare vera.

Si alzò in piedi, cercando di scacciare l’idea malsana di andare ad Assisi, Assisi in aprile, il giorno dell’anniversario.

Non c’è nessun anniversario, perché non è morto nessuno.

Di nuovo le girò la testa e sentì il sangue che defluiva via. Si sedette, ripensando alla faccia di Mattia che il giorno prima era passato al Grand’Arno per sincerarsi che si fosse segnata l’orario.

«All’una chiudo il negozio, all’una e mezzo ci troviamo lì, sul ponte.»

Aveva quell’espressione contrita che tanto detestava, perché la metteva su un giorno solo all’anno, e anche se sapeva che era sincero le dava ugualmente sui nervi. Lui e gli altri ragazzi avevano deciso di far intrecciare a Serena, che era l’artista del gruppo, una ghirlanda di giunchi in cui ciascuno di loro avrebbe infilato qualcosa che gli ricordasse Saverio. Poi Lena e Mattia l’avrebbero buttata nell’Arno, non era una bella idea? Il giorno dopo sul ponte. Undici ore prima ad Assisi. Una follia.

Perché non sono felice? È un appuntamento, perché non sono felice? Non mi sta minacciando, sta facendo il bravo come aveva detto nel biglietto. Anche se Betta ha chiamato il servizio clienti e io chiudo la porta, invece di farmela pagare lui mi chiede di incontrarlo, forse di sposarlo, perché non sono felice?

Pensò di chiamare Betta, ma no, avrebbe fatto qualcosa per impedirle di andare. E non voleva che nessuno prendesse decisioni per lei.

Davvero?

Tornò a mettersi in piedi, spalancò la finestra ed entrò un vento malevolo, che sembrava spingerla dentro, resta a casa, dove vuoi andare, stai al tuo posto, con le porte chiuse e le chiavi inserite. Doveva essere al lavoro entro un’ora, avrebbe staccato alle quattro, era un lunedì, non avrebbe fatto in tempo a farsi sostituire.

E perché? Ha detto “stanotte”, c’è tutto il tempo per andare ad Assisi.

Erano circa due ore di macchina, con il treno sarebbe stato più complicato spostarsi.

Non so nemmeno dove sia la chiesa.

Guardò Argo mentre trotterellava dentro dopo aver depositato quel che doveva.

Argo dove lo metto? Di giorno lo lascio in casa, ma di notte?

Non voleva ammettere che l’idea di andare a quell’appuntamento la terrorizzava.

Non posso non andarci. È Saverio!

Betta dice che è Marco Sartori.

Betta non sa del biglietto.

Ci avrebbe pensato lungo la strada. Chiuse di nuovo tutto, si vestì senza lavarsi, un accenno di trucco, la retina. Per tutta la mattinata aveva ammesso e scartato ipotesi sul cane, tralasciando di ragionare sul fatto che forse si sarebbe davvero messa in macchina per andare ad Assisi. Seguiva comunque il consiglio di Saverio, doveva silenziare una parte del caos che le tuonava nel cervello. Betta no, Alex no, Astrid no, restavano Sergio, Mattia o una pensione. Ma forse Sergio e Saverio. Ma forse Mattia e Saverio. Avrebbe dovuto giustificare comunque, in qualche modo, l’orario bizzarro, inventarsi qualcosa, una storia credibile che non riguardasse sua madre. Chiunque avesse saputo che lasciava Firenze per un’intera notte si sarebbe come minimo insospettito, soprattutto il giorno dell’anniversario, quello per cui si era presa ferie.

Non faccio niente di male.

E allora perché mi sento così?

Alle quattro non aveva ancora risolto niente, aveva risposto al saluto di Gianluca con un cenno del mento e quando lui aveva tentato di avviare una conversazione gli aveva detto

«Adesso devo scappare».

Scappare. Scappare. A poterlo fare.

A metà strada aveva messo la freccia e cambiato direzione, ripercorrendo il giro del giorno precedente, parcheggiando sotto il cancello dei suoi. Non era attesa e aveva visto in sua madre un’ombra di disagio, come quando si presenta a casa un ospite importante e tu non hai messo in ordine.

Sono sua figlia ed è come se fossi un’estranea.

«Devo parlare col babbo»

aveva detto, e suo padre si era palesato dal soggiorno, le pantofole di panno e gli occhiali sul naso, di nuovo l’aria del padrone del podere.

«Babbo, ti devo chiedere un favore.»

Lui la guardò senza accennare nessuna reazione.

«Mi dovete tenere Argo questa notte perché devo andare via da Firenze.»

«E dove vai?» si intromise sua madre.

«A Modena, con un’amica. Torno domani.»

Il corso di Alex era uno spunto solido su cui costruire.

«Ma con cosa andate? Mica in macchina di notte?!»

Lena sentiva le parole di sua madre, ma non poteva distogliere gli occhi da quelli del padre, era una cosa fisica, animale, l’aveva imparata nelle varie lezioni che le avevano propinato sui cani, abbassare lo sguardo e tutto.

«Lo so che lo fai malvolentieri, babbo, e lo so che chiedervelo all’ultimo minuto non è una cosa da fare, ma è capitata così. Io vorrei andare, c’è un corso che mi interessa, potrebbe essere importante per il lavoro, ma se non me lo tenete voi non posso, è troppo tardi per organizzare in un altro modo. Vi porto anche la cuccia.»

Poi raccolse dal fondo della sua esperienza di figlia tutti i frammenti di umiliazione collezionati in trentadue anni di vita, li mise insieme e diede a suo padre quello che voleva.

«Ho bisogno che mi aiuti tu, da sola non son buona.»

Suo padre non disse di sì né di no, si spinse indietro gli occhiali e lanciò un’occhiata alla moglie, che si affrettò a dire

«Guarda che però sta in garage, mica vogliamo problemi con i vicini».

Argo era dai suoi, la casa era vuota. Lena guardava il suo armadio spalancato, cercava un vestito carino ma le sembrava di non possederne più. Prima di Saverio andava spesso per negozi a prendersi delle “robine”, poi lui le aveva detto che la trovava ridicola e così aveva smesso. C’erano delle cose che le aveva fatto prendere lui a un mercatino, una specie di tunica, un maglione che lasciava scoperta una spalla, pantaloni larghi, da operaio, che lui trovava sexy indossati con le bretelle. C’erano anche dei jeans concepiti per lo stile grunge che secondo Saverio facevano Vanilla Ice, ma che indosso a lei le piacevano. Prese quelli e il maglione monospalla. Si fece la doccia tenendo il Samsung sullo sgabello lì davanti, il volume al massimo. Di nuovo percepiva quella pulsazione sottotraccia che non era rabbia, anche se le assomigliava. Alle nove di sera era pronta. Sarebbe stato sensato cercare di dormire qualche ora, fino a mezzanotte almeno, se lui intendeva incontrarla davanti al santuario all’ora precisa della sua scomparsa. Ma se invece si fossero visti alla Porziuncola quella non apriva prima delle 6.15, all’alba, proprio come nel suo piccolo sogno di nozze. Si sdraiò sul letto vestita e guardò il soffitto ininterrottamente fino alle undici. Provava tutto e non provava niente, si sentiva sull’orlo di qualcosa che poteva essere splendido quanto terribile, certa che non sarebbe stato nessuna delle due cose. Uscì senza un filo di trucco, come piaceva a lui.

Assisi era gelida, la chiesa incombente e silenziosa, ovviamente chiusa, ovviamente deserta. Il piazzale antistante era vuoto e Lena aveva parcheggiato l’auto in divieto di sosta, sulla via laterale, così da poter vedere se qualcuno si avvicinava. Era arrivata poco prima delle due, alle due e dieci era uscita a passeggiare davanti ai gradini della basilica. Aveva deciso di rientrare in auto, intirizzita, alle due e quaranta, il Samsung sempre stretto in mano. Lo attaccò a un caricabatteria portatile e rimase immobile a osservare i pochi alberi tra lei e il piazzale. Non sentiva niente, solo una tensione di fondo, un brontolio lontano. Sapeva di essere stanchissima ma non aveva sonno. Venire lì era stata

una resa

una prova di fiducia, la dimostrazione che era ancora disposta a qualsiasi cosa, per lui. Le parole di Betta continuavano a tornare e ritornare nella sua mente, nutrendo i dubbi, rendendo difficile restare aggrappati alla sola certezza: il biglietto.

Quando arriva cosa faccio?

Cercava di provare quel senso di calore allo stomaco così familiare, ma non ci riusciva.

E se non viene?

“Vai a denunciarlo” suggeriva la voce di Betta e lei chiudeva gli occhi, cercando di scacciarla. Alle cinque e mezzo arrivarono un paio di persone che si misero in attesa sui gradini, pellegrini stranieri a occhio e croce. Dieci minuti dopo ne arrivarono altri e Lena decise che era venuto il momento di mettere la macchina in un parcheggio vero e unirsi a loro. Contò undici persone, di cui quattro orientali, nessun volto familiare. Il cielo si stava rischiarando quando il portone venne aperto e un pullman pieno di devoti si fermava poco distante per farli scendere tutti insieme. Dentro un silenzio irreale, odore d’incenso, il rimbombo di pochi passi coperto da un mormorio rispettoso davanti alla bellezza della cappella. Lena vi entrò per prima, un sogno che si avverava in maniera miserabile. Nemmeno lì dentro riusciva a sentire altro che freddo. Il prete stava preparando l’altare per la messa quando il Samsung trillò. Tutti si voltarono a guardarla malissimo e si affrettò a mettere la suoneria in modalità muta. Poi si mise in disparte e aprì il messaggio. Era un video. C’era una donna nuda a schiena inarcata che alzava e abbassava le natiche al ritmo dei colpi dell’uomo che la riprendeva. I capelli sbattevano avanti e indietro coprendole il viso. Fine. Il cellulare vibrò ancora, ma Lena non ci fece caso. Camminò a ritroso verso l’esterno facendo ripartire il firmato. Colpo, colpo, colpo, capelli che volano. Uscì all’aperto fendendo una piccola folla che entrava segnandosi. Rimise il sonoro, riavviò il messaggio. Sentiva il rumore dei colpi, adesso, le cosce che applaudivano contro le natiche. La donna gemeva piano, quanto bastava. Aveva già riconosciuto la schiena e i capelli senza bisogno di sentirne la voce. Pausa, play. Pausa, play. Ancora. E ancora. Guardò altre cinque volte il filmato di Saverio che si scopava Betta. Poi le venne in mente che era arrivato un nuovo messaggio e lo aprì.

BUON ANNIVERSARIO, SCEMA.

Betta non aveva risposto a nessuna chiamata, il cellulare risultava spento o non raggiungibile. Lena non riusciva più a ricordare che faccia avesse, nella mente Betta era solo una schiena, un culo e dei capelli svolazzanti. Betta e Saverio. Saverio e Betta.

Non posso essere sicura che fosse lui.

Cazzo, smettila!

Si era dovuta fermare due volte, una in autogrill, l’altra nella sosta di emergenza, perché rischiava di schiantarsi, volontariamente e non. Lo scenario cambiava enormemente, nel momento in cui entrava in gioco l’opzione Betta. Betta sapeva sempre ogni cosa, Betta conosceva i suoi spostamenti, gli amici di Saverio, la casa, Argo, Betta viveva da sola e aveva orari flessibili, contatti con la polizia e nessuno scrupolo. Dalla sua parte aveva che lei e Saverio si erano sempre detestati pubblicamente, senza mandarsele a dire.

Chi disprezza compra.

Una cantilena da bambini che in quel momento le sembrava terribilmente vera. Aveva temuto per Betta, quando le aveva raccontato tutto, e invece non c’era niente da raccontare, Betta sapeva.

Perché?

Non più cosa, o chi, o quando, ma perché. Perché inscenare questa cosa con Saverio? Perché farlo sparire, nasconderlo?

“Ha guai con la legge? Facciamo di sì” le aveva detto. Mettiamo di sì. Esistono guai per cui è preferibile fingersi morto? Esistono. Cose che sono così impossibili da aggiustare da spingerti a una scelta radicale, definitiva. Saverio non ci sarebbe arrivato, non aveva una mente così fredda, da solo non avrebbe saputo architettare qualcosa di così inattaccabile. Ma Betta sì, se fosse stata il suo avvocato. Ne aveva fatte, di porcherie, lungo la carriera, per salvare il culo ai suoi clienti, ed era grazie a questo che si era fatta la fama di squalo nell’ambiente. La fama e i soldi.

Saverio di soldi non ne aveva.

Chi disprezza compra.

Era stato mentre loro due stavano insieme, prima del ponte, prima di tutto, per forza. Quando? Evitavano perfino di incontrarsi, se possibile.

Appunto.

E invece. Lena aveva la nausea, guidava piano, i camion le facevano i fari e Firenze non arrivava mai. Faceva più male l’idea del tradimento

mi tradiva anche prima

oppure che a tradirla fosse stata Betta?

“È uno scherzo, Lena. Uno scherzo di merda architettato bene da qualcuno che ti vuole male. Ma male male davvero, sai? Questa persona ti odia. Ce l’ha con te, vuole che tu soffra, vuole umiliarti.”

E ci era riuscita.

Betta, perché? Cazzo, perché, Betta?

“Sei sempre stata trasparente come un bicchiere di vetro e sa dio se certe volte non ti capivo, ma questa cosa l’ho sempre ammirata, sempre. Io non sono così.”

Poteva essere tutto qui? Gelosia? Magari Saverio le aveva detto di volerla ricontattare e Betta era impazzita? Era capace di quel tipo di odio, di livore, era così vendicativa? Il cartello di Firenze la accolse. Girò a vuoto sbagliando un paio di volte la strada. Erano le nove, era il 4 aprile, fra quattro ore sul Ponte alla Carraia si sarebbe raccolto un gruppetto di persone addolorato a ricordare un amico. E lei?

Io devo cercare di non impazzire.

Arrivò sotto casa di Betta, un palazzo moderno dai vetri lucidi. Suonò il campanello, provò a richiamare. Forse era a un’altra “riunione a porte chiuse”, come le aveva detto quando l’aveva interrotta chiamandola durante una scopata

“Qualcosa di nuovo o di vecchio?”

“Diciamo di interessante. Ci sentiamo quando ho finito.”

Non si sarebbe fatta trovare. L’avrebbero fatta cuocere nel suo brodo, ridendo di lei da una distanza incolmabile, due anni di bugie. Pianse ancora un po’, voleva esaurire il grosso delle lacrime per poter andare dai suoi a prendere Argo

Il suo cane, il suo cazzo di cane!

e tornare a casa. Poi si sarebbe chiusa dentro. Avrebbe spento il Samsung. Avrebbe

Cosa?

preso una decisione.

Si guardò nel retrovisore, gli occhi erano così gonfi da sembrare tumefatti, gli occhiali da sole non sarebbero bastati. Pazienza. Entrò dal cancelletto e non vide Argo da nessuna parte.

È ancora in garage.

Sua madre uscì dalla porta, in cima alla scaletta in pietra, tesa e a disagio per l’evidente malumore che serpeggiava in casa.

«Pensavamo passassi prima, oggi non vai al lavoro?»

«No, oggi è il 4 aprile.»

Sua madre la guardò senza capire e Lena ci rinunciò. Il cane era sorprendentemente in casa.

«Fuori abbaia come un accidente» brontolò suo padre andando a prendere il guinzaglio. Quel moto di benevolenza nei confronti di Argo le smosse qualcosa, aveva avuto il coraggio di sospettare perfino di suo padre, nei giorni scorsi, invece alla fine vedi? Non erano perfetti ma erano i suoi genitori, di loro si poteva fidare.

«Babbo, ho un altro favore da chiederti» lo vide irrigidirsi subito e fece alla svelta. «Devo cambiare la serratura della porta blindata. Subito, adesso, ora. Non posso farlo io perché devo andare in un posto. Ci pensi tu?»

Gli vide stendere gli angoli della bocca, sembrava indispettito invece che compiaciuto.

«Sono altri quattrocento euro, stavolta ce li metti tu, eh?»

Tingle tingle.

Come una brezza fredda sulla fronte.

«Perché, quando...?»

Odore di vomito. Le gambe che cedono, suo papà che le grida «Che fai?» e il tintinnio.

«L’ho fatta cambiare quella volta che sei stata male e hai piegato la chiave dentro.»

Tingle tingle.

Il ricordo arrivò galoppando. Saverio appena morto, il funerale, i suoi che la portano a casa, fin davanti alla porta, il corpo che crolla, vomita e sviene assieme mentre stava girando la chiave. Era caduta aggrappandosi al mazzo, il moschettone rosa grande con attaccato l’omino di pan di zenzero d’argento si era teso ma non aveva ceduto, la chiave non si era potuta sfilare e si era piegata restando nella serratura.

Tingle tingle.

La mano era rimasta stretta, suo padre gliel’aveva aperta a forza, l’omino di pan di zenzero aveva continuato a oscillare e sbattere sulla serratura, sbattere e oscillare, oscillare e sbattere.

Tingle tingle.

L’avevano portata dentro, messa a letto, sua madre preoccupata per il vomito sul pianerottolo comune e lo zerbino da cambiare, suo padre che bestemmiava dietro alla chiave. Poi aveva chiamato il servizio 24 ore leggendo il numero sull’adesivo incollato lateralmente all’interno della porta, li aveva fatti venire. «Sostituiamo solo il blocchetto» avevano detto, ma poi era stato complicato e la cifra era salita. La chiave nuova uguale alla vecchia, appesa al moschettone con l’omino di pan di zenzero. L’ondata del lutto era passata sopra a questo granellino trascurabile e l’aveva lasciato sepolto per due anni.

«Forse ho ancora il biglietto da visita dell’operaio, di là» le disse suo padre, voltandole le spalle. Lena teneva il guinzaglio di Argo mentre la marea che si era ritirata per mostrare il ricordo della chiave la invadeva di nuovo, il lutto di ritorno.

Se la chiave era stata sostituita il mazzo usato per entrare in casa sua non era di Saverio.

Se il mazzo non era di Saverio allora nemmeno il cellulare lo era.

Perché Saverio era morto.

Era in fondo al fiume.

Non era mai tornato.