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Ogni tanto in rete Saverio leggeva notizie di ragazzotti che si divertivano a giocare a palla con animali vivi. Era una cosa che lo ripugnava al punto da farlo chiudere in un assoluto mutismo per le ore seguenti. In quelle occasioni ci volevano manovre delicatissime, da parte di Lena, per riuscire ad avvicinarlo e a farlo aprire.

«Non voglio più appartenere a questa specie» diceva lui. «Meglio i gatti, che giocano con le prede ma dopo almeno se le mangiano.»

Lei gli passava la mano in mezzo ai capelli sottili e soffici e gli diceva

«Per ognuno di loro ce n’è uno come te»

ma il ragazzo scuoteva la testa e diceva

«Non bastiamo. Non basteremo mai».

Oggi Lena si sentiva la palla vivente calciata da una parte all’altra e percepiva tutta la frustrazione che all’epoca colpiva Saverio.

Non basterò, non basterò mai.

Marco Sartori era stato la causa della morte di Betta e poi si era portato via Alex. Che il nome fosse vero o falso non importava, lui esisteva, Alex lo aveva incontrato, si era fidata e affidata, gli aveva chiesto di tenerla d’occhio e lui l’aveva seguita su quel maledetto treno.

Ne valeva la pena?

La vita di Saverio valeva la vita di altre due persone? Valeva la disperazione della famiglia di Betta, valeva quella di Lucio? Valeva la sua?

Castellacci l’aveva convocata nel suo ufficio e le aveva detto chiaro e tondo in faccia che non la licenziava per quella sera che era scappata dal lavoro senza dire una parola a nessuno solo perché non si poteva permettere di perdere un altro addetto alla reception. E perché non aveva bisogno di ulteriore chiasso intorno al suo hotel, di giornalisti e pubblicità negativa. Ma che se sgarrava un’altra volta avrebbe avuto in mano ben tre violazioni al regolamento e a quel punto tanti saluti, laurea o non laurea. Lena aveva promesso che non sarebbe successo più, chiese scusa, imputando tutto allo stress, al trauma della morte di Betta e delle accuse a Gianluca. Il proprietario non aveva fatto una piega e l’aveva tenuta d’occhio da vicino, spuntando più volte durante i suoi turni. Lena non aveva sgarrato, teneva una routine militare, faceva sempre le stesse cose, alla stessa ora, con le stesse persone. Era venuto il suo turno di portare zuppe di farro a Lucio, chiuso in casa dopo aver chiesto un’aspettativa dal lavoro e aver cercato Alex ovunque fosse riuscito a spingersi. Era stato a Bologna, a Modena, nella sede principale della CO.LI.SAN, aveva parlato con i colleghi e i partecipanti al corso di aggiornamento, aveva fatto un lungo pellegrinaggio presso i veterinari, i rifugi, i volontari con cui Alex collaborava, aveva chiamato i pochi parenti lontani e perfino una sua amica che viveva all’estero. Era stato trattato con gentilezza ma anche con una certa sufficienza, perché Lena non aveva mentito, Alex era una donna alle cui spalle si rideva spesso e volentieri, ma che tutti consideravano inattaccabile dal punto di vista morale. Il solo punto debole che tutti le riconoscevano era quel pupattolo bello e scemo che la seguiva come un cane e che come un cane era stato, finalmente, abbandonato. Terminato l’ultimo giro Lucio era tornato a casa, si era seduto e per ventiquattr’ore non era stato in grado di rialzarsi. Poi aveva preso un appuntamento con il direttore del reparto e aveva chiesto l’aspettativa. I colleghi in ospedale gli avevano dato una pacca sulla spalla con un misto di sollievo e intimo godimento, finalmente un argomento da evitare in meno, perché di quella sua donna davvero, secondo loro, non c’era niente di buono da dire. Agli occhi delle infermiere era invece un’occasione ghiotta, Lucio forse non era sposabile, inetto com’era, ma scopabile sì, eccome. Nell’appartamento caotico zeppo di oggetti buffi e stucchevoli Lucio era rimasto solo con il suo dolore e con la certezza che la sua donna, madre, maestra, roccia, fosse stata circuita da qualcuno. Lena andava a trovarlo, e così facevano anche Marta e alcune volontarie, irriducibili ammiratrici di Alex. Davanti a loro lei non poteva dire niente, si scusava solo a ripetizione per non averla ascoltata, per aver dato in escandescenze, e nel frattempo raccoglieva la biancheria del suo uomo da terra, lavava i piatti pieni di resti carbonizzati, gli metteva impacchi di camomilla sugli occhi gonfi.

«Non sono capace. Senza di lei non sono capace» bisbigliava Lucio, e Lena non doveva chiedere per sapere che di fatto non era capace di vivere. Alex le aveva raccontato della fatica enorme per levargli di dosso quella passività, per fargli scordare il padre padrone e farlo rimanere in piedi sulle sue gambe.

«L’ho trovato che era un uccellino rachitico, me lo sono cresciuto, gli ho fatto da padre e da madre e quant’è vero iddio lo farò volare» diceva tutta fiera.

Sarebbe rimasta terribilmente delusa, se lo avesse visto ora.

Aveva riguardato tante volte il filmato, il cappottino rosso troppo corto, i tacchi rumorosi, quei tre gradini del treno. Poi aveva mandato un altro sms dal Samsung al Samsung

COSA LE HAI FATTO?

e non aveva ricevuto risposta.

Non potevo sapere che mi avrebbe seguita da Gianluca, non potevo immaginarlo, era ad Arezzo.

Ma la colpa non si lasciava scalzare dalla logica. Poteva evitare la morte di Alex andando alla polizia. Poteva evitare la morte di Betta andando alla polizia. Poteva scegliere di salvare tutti, compresa se stessa, invece di salvare Saverio, solo andando alla polizia. Ma la piramide non mentiva.

“È una cosa malata” avrebbe detto Betta.

E avrebbe avuto ragione.

Alex non aveva più nessuno, del padre non si sapeva nulla, aveva mollato gli ormeggi quando lei aveva tre anni, la madre se l’era mangiata il cancro. Gli unici parenti prossimi erano degli zii e Lucio era riuscito a convincerli a rivolgersi a una trasmissione tv. Era un caso zoppicante, lo avevano relegato a fine serata e aveva chiamato una sola persona dicendo che forse l’aveva vista alla periferia di Roma, zona di transessuali. Lucio era stato intervistato e si era dimostrato inaspettatamente bravo, lucido, credibile. Poi, dietro le quinte, si era vomitato addosso. Aveva scritto a un paio di giornali locali e messo un appello su Facebook, che però non girava. Tempo un mese nessuno ne avrebbe parlato più e le indagini avrebbero seguito il loro pigro corso. Lui era tornato al lavoro, non poteva permettersi di sopravvivere con quello che aveva in banca, non senza lo stipendio di Alex a puntellarlo, ma dopo qualche giorno gli avevano fatto un richiamo per questioni di igiene personale, che con il lavoro che faceva non erano accettabili. Lena lo aveva accompagnato a una lavanderia automatica, insegnandogli a smistare i capi, suggerendogli di indossare sempre gli stessi a rotazione. Lucio la ascoltava con metà orecchio, gli occhi persi dietro a biancheria non sua che girava dentro agli oblò, smunto, imbruttito, un fiato acre che non gli si poteva stare accanto. Lena se lo imponeva lo stesso, gli sedeva vicino e se ne fregava degli appunti che avrebbero preso i poliziotti che di nuovo la seguivano tutto il santo giorno.

Lo so che mi seguono, anche se non li vedo.

Ora capiva come si era sentita Alex nei suoi confronti quando Saverio era scomparso, l’aveva vista come lei ora vedeva Lucio, una creatura inerme, incapace di badare a se stessa su cui aveva il dovere di vegliare. Oggi quel ruolo era suo. Lucio accettava l’aiuto di tutte quelle donne che gli sfarfallavano intorno, ma niente spegneva il dolore dentro di lui. Dal ragazzino che sembrava fino a qualche settimana prima ora si era trasformato in un vecchio, non faceva che recriminare, lagnarsi, piangersi addosso e Lena non sapeva trovare in sé lo stesso istinto materno di Alex, non ne aveva la vocazione. Il Samsung taceva da giorni, ogni sera lo metteva in carica e rimaneva a fissarlo. Non scriveva niente, aspettava.

Avevo scelta?

Ripercorreva con la mente tutte le cose che erano successe dal 21 marzo, ogni bivio che si era trovata davanti. Poteva fare tutto diversamente, poteva, certo. Ma aveva scelto, e a mente fredda ogni scelta era sua, fino in fondo.

Anche quelle sbagliate.

Il dolore per la perdita di Alex, dopo Betta, e quello per la colpa che le si era cucita addosso erano andati gradualmente attutendosi, l’ansia per la sorte di Saverio, invece, aveva pascolato ed era cresciuta. Una settimana dopo la visita a casa di Gianluca aveva mandato un altro messaggio.

IO SONO VENUTA, MI HAI VISTA. ANCHE SE ALEX MI HA FERMATA IO SONO VENUTA. HO FATTO LA MIA PARTE, TI PREGO, DAMMI NOTIZIE.

Anche a questo non era seguita risposta. E allora

VOGLIO VEDERLO. VOGLIO LA CERTEZZA CHE È VIVO. VOGLIO VEDERLO SVEGLIARSI E MUOVERSI. VOGLIO VEDERE DOVE LO TIENI. DOPO PUOI CHIEDERMI QUELLO CHE VUOI.

Ma niente, ancora. Le giornate tutte uguali, le notti tutte uguali, il tempo che non passava mai e veniva scandito dalle ricariche alla batteria del Samsung. Dormiva a tratti, un po’ per il caldo di un maggio intenso, un po’ per il senso di solitudine e impotenza e schifo per se stessa. Una notte la vibrazione la fece finalmente sollevare dal cuscino. Una, poi due, poi tre. Poi a raffica tutte le altre. Prese il telefono con la delicatezza con cui avrebbe maneggiato della dinamite e aprì i quattordici messaggi. Dodici foto mandate in serie, una dopo l’altra.

Mattia. Sara. Mometto. Katia. Serena. Lucio. Alessio. Astrid. Sergio. Marta. Suo padre. Sua madre.

Ciascuno di loro era stato fotografato da vicino, in luoghi comuni, il supermercato, il posto di lavoro, il giardino di casa, mentre mangiavano, telefonavano, salivano in macchina. A tre metri di distanza, forse due, forse uno. Il messaggio che seguiva non aveva bisogno di interpretazioni.

TU NON VUOI UN CAZZO.

E poi l’ultima foto. Legno, un drappo a coprirgli le spalle, steso di fianco, il collo all’indietro, la bocca aperta.

Saverio.

Lo spettacolo era finito, tutte le carte buttate sul tavolo.

Lena si premette il cuscino contro la bocca e urlò, urlò, urlò.

Il 15 maggio la questura l’aveva convocata di nuovo, Ridenti, con la sua aria lugubre. Pensava volessero parlarle di Alex, e invece.

«Il nome di Fermo Berselli le dice niente?»

Era rimasta spiazzata, aveva esitato.

Di’ tutta la verità che puoi dire, ricordatelo.

«Gli ho lasciato il cane, una volta. In pensione, per una giornata. Me lo aveva consigliato la mia amica Alessandra Gatteschi, quella che è scomparsa.»

Ridenti consultò una carta.

«Si è presa un permesso dal lavoro, ha prelevato mille euro e ha lasciato il fidanzato con un messaggio, corretto? Due settimane fa?»

«Sì. Ma non si è più fatta viva con nessuno.»

Lui annuì e subito archiviò.

«Berselli lo ha incontrato ancora, dopo quella volta che gli ha lasciato il cane?»

«Sì, qualche giorno dopo sono tornata per informarmi un po’ sulle tariffe, pensavo di lasciargli Argo quando vado in vacanza.»

Prima bugia.

«E poi?»

«Poi niente, ho saputo dai giornali che gli avevano sequestrato il rifugio. E basta.»

Seconda bugia.

Ridenti sembrava distratto come se non l’ascoltasse davvero o avesse cose più importanti a cui pensare.

«E la sua amica Elisabetta? L’avvocato Valacchi? Lo conosceva?»

Per la seconda volta Lena rimase spiazzata.

«Betta? No. No, perché avrebbe dovuto?»

Ridenti si era preso qualche secondo, poi aveva sganciato la bomba.

«Verrà reso noto a breve, abbiamo trovato le impronte di Berselli sulla maniglia della sua porta.»

Lena rimase senza fiato.

L’impronta che ha scagionato Gianluca.

«Quella principale è un’impronta che si sovrappone a quella della signora Valacchi, quindi è lecito pensare che Berselli abbia toccato la maniglia dopo di lei. Ci sono state altre ricerche e il suo dna è stato isolato in casa. Dunque Berselli era lì, presumibilmente la sera del delitto. La cosa bizzarra è che Berselli era latitante, aveva fatto perdere le proprie tracce dopo il sequestro del suo rifugio. Perché ha corso il rischio di tornare a Firenze e di entrare nell’appartamento della signora Valacchi proprio il 4 aprile?» Abbassò la voce. «Il punto di contatto tra Berselli e la signora Valacchi è lei, signorina Bacarelli. Lei e i suoi amici, certamente, ma in sostanza lei.»

Lena annuì.

Fermo. Gianluca. Betta, Alex, il Samsung. Saverio.

Era tutto di nuovo insieme.

«Io vorrei poterle dire qualcosa, ma non so cosa.»

«Signorina, vorrei essere chiaro, non la sto accusando di nulla, e se lei vorrà rivolgersi a un legale lo capirò, ma sarebbe utile che collaborasse spontaneamente con noi.»

«Io sono qui.»

«Intendo dire che se ci autorizzasse a verificare ulteriormente i suoi dati, i movimenti bancari, il cellulare, il Telepass, qualunque cosa possa aiutarci a capire se, come già avvenuto con il signor Savelli, lei abbia in qualche maniera acceso qualche fantasia anche nel Berselli, ci sarebbe di grande aiuto.» Sembrò avere un qualche scrupolo. «Se anche fosse, sia chiaro, non gliene farei una colpa, esistono da sempre persone che accendono la fantasia di altre, non è una questione di volontà o di responsabilità.»

«Io sono qui» si limitò a rispondere di nuovo Lena.

Convinta che Ridenti avesse torto marcio.

Aveva nascosto il Samsung. Era stata attentissima nel farlo, ormai immaginava ci fossero telecamere ovunque, e la porta aperta e le tende chiuse. Aveva tirato fuori la custodia in legno di un orologio, tolto la spugna con la forma e provato a infilarci dentro il cellulare. Ci stava. La sera prima aveva avvisato spedendosi un nuovo messaggio

HO ADDOSSO LA POLIZIA, NASCONDO IL TELEFONO E LO ACCENDO SOLO LA SERA DALLE 20 ALLE 8 DEL MATTINO.

Nessuna risposta.

Lo aveva lasciato attaccato alla spina per tutta la notte e il mattino dopo lo aveva spento e messo nella custodia. Era andata a ritirare la posta, aveva aperto lo sportello di vetro smerigliato e l’aveva fatta scivolare sul fondo. Legno su legno, un centimetro e mezzo di spessore, da fuori non si notava nulla, la cassetta sembrava vuota. Su quasi tutti i quotidiani presenti in hotel era uscita la notizia del ritrovamento delle impronte di Fermo Berselli a casa di Elisabetta Valacchi e il circo mediatico era subito ricominciato. Non ci sarebbe voluto molto prima che lo riconducessero a lei, erano già arrivati da Astrid, che l’aveva chiamata per dirle in pompa magna che finalmente la verità era emersa, lei lo aveva sempre detto che era un delinquente, vero? Sperava che lo beccassero, quel figlio di puttana! Aveva titubato per tutto il giorno, poi la sera era passata da Lucio per vedere se la notizia gli aveva fatto un qualche effetto e ci aveva trovato Marta, la veterinaria, molto tesa. Lei con Berselli aveva collaborato per anni.

«Aspettiamo a esprimere giudizi» si era limitata a dire, rivolgendosi a Lucio. Lui aveva continuato a guardare fuori dalla finestra un panorama che non c’era. A casa Lena era ripassata davanti alla cassetta delle lettere sperando ci fosse dentro il depliant di pubblicità quotidiano, e venne accontentata. Alle otto di sera portò fuori il cane e rientrò, finse di accorgersi casualmente del pieghevole, aprì la cassetta e ritirò il telefono insieme agli sconti speciali. Rientrò e lo accese, rimettendolo in carica.

È come un’arma. Ogni volta che lo accendo rischio di fare del male a qualcuno.

Invece quella sera il Samsung le regalò una carezza e poi una fiocina nel cuore. Prima un messaggio

BRAVA, MARIA.

per come aveva gestito l’emergenza della polizia e il nascondiglio del cellulare, e poi un video. Non era stato girato con il telefono, era sgranato, di un bianco e nero che virava al verdastro, sembrava una ripresa notturna, e forse lo era. In essa Saverio, si alzava con indolenza mostrando il fisico prosciugato, quasi scheletrico, mentre tutto nudo andava a fare pipì in un angolo.

Era vivo, sì, stava in piedi, camminava, il rapitore aveva accolto le sue suppliche e le aveva tirato un osso per gratificarla.

Ma non era questo.

Saverio era in una gabbia.

Chiuso in un’enorme gabbia da circo per animali.

“Circo” aveva digitato sul computer dell’hotel. Poi “carrozzoni”. Poi “esposizione di gabbie da circo”, “circhi storici italiani”, “nomadi”, “zoo”. Scaricava e salvava su una chiavetta tutti i risultati, poi riprendeva la ricerca, febbrile. Non faceva altro da giorni, a casa non si fidava a usare il portatile, nel dubbio che lui, una delle mille volte che era entrato, le avesse installato un virus o roba del genere. Sarebbe servito?

No.

Ma era qualcosa su cui fissare la mente, una traccia, una pista da seguire.

E come la seguo, da dove parto? Del carrozzone non si vede niente, non il colore, non le dimensioni complete, le decorazioni, è solo un grumo di macchie scure.

Ma era l’unica alternativa al non fare niente o a fissarsi sul vero punto: Saverio viveva chiuso in un carrozzone da circo su ruote, di quelli itineranti del secolo scorso. In gabbia come un animale, nudo come un animale, magro scheletrico come troppe bestie prigioniere.

Chi fa una cosa del genere? Chi chiude una persona in gabbia?

Le erano passati nella mente i box di Fermo, avrebbe voluto disperatamente andare in quella direzione, ma la realtà era che Saverio era in gabbia perché odiava le gabbie, ne aveva aperte a dozzine, forse a centinaia, insieme ai gruppi animalisti più estremi.

È un contrappasso. L’incarnazione del suo incubo peggiore, lui che era uno spirito libero, sempre in movimento.

Comunque si trattava di una follia.

Dove se l’è procurato, Gianluca, un carrozzone? Lo ha aiutato Fermo?

Secondo Astrid, Berselli importava illegalmente cani dall’Est, e molte delle sue ricerche la portavano proprio nell’Est, in tanti paesi ex qualcosa, ex Jugoslavia, ex Cecoslovacchia, ex URSS. Allora cercava di incrociare le ricerche, contrabbando di animali e gabbie da circo, in italiano, inglese, tedesco, ma i risultati erano deludenti. Dopo il video sul Samsung non era arrivato più nulla, salvo l’ennesima promozione da parte del gestore, che le aveva fatto saltare un battito del cuore.

Sta osservando l’effetto del suo piano. Si compiace.

Del resto non poteva che aspettare, non avrebbe commesso di nuovo l’errore di incalzarlo, procedevano schematicamente, lei aveva formulato una richiesta ed era stata accontentata, di nuovo, ora la palla passava a lui.

Sempre che funzioni così.

La questura l’aveva contattata un’altra volta, aveva parlato di nuovo brevemente con Ridenti che le aveva chiesto altre conferme su Fermo Berselli, argomento ancora gettonatissimo. Sicurissima che Betta non glielo avesse mai nominato, che non avesse accennato a un cliente simile a lui?

Non era un cliente.

Naturalmente aveva risposto che ne era sicura, e Ridenti aveva ribattuto che un testimone invece li aveva visti insieme, in un bar, pochi giorni prima dell’omicidio. Non era strano?

Betta e Fermo?

Si conoscevano?

Forse l’amica era andata più lontano di quanto non avesse creduto. Ma ormai non faceva alcuna differenza. Maggio stava regalando ondate di caldo, a mezzogiorno Ilaria, la ragazza nuova, le aveva chiesto se volesse andare a mangiare per prima al bar, e Lena aveva rinunciato a uscire, chiedendole di portarle una fetta di torta salata. Rimasta sola, quando la hall si era svuotata grazie al sole e all’annuncio che il primo turno al ristorante era iniziato, si era immersa di nuovo in quelle ricerche non autorizzate. Castellacci era stato chiaro, il computer si doveva utilizzare soltanto per uso interno, ma quel giorno era arrivato in hotel con l’aria di chi ha tantissimo da fare e si era chiuso nel suo ufficio dalle nove. Mentre si immergeva nell’ennesima inutile ricerca che portava ai carrozzoni tradizionali della Moldavia decise che quella sera avrebbe tolto il Samsung dall’ostracismo della cassetta delle lettere e lo avrebbe riportato in casa, e mentre questa decisione cercava di farla sentire di nuovo in grado di gestire la situazione le porte a vetri si aprirono e Gianluca entrò. Era uguale all’ultima volta che l’aveva visto, i capelli a caschetto in ordine, dei pantaloni di lino ben stirati, la camicia con il primo bottone aperto e la giacca sul braccio. Un po’ troppo lezioso, Hollywood, Casablanca.

Gianluca che strangolava Betta e veniva avanti, verso di lei, senza che nessun poliziotto

o Alex

lo fermasse.

«Ah, Savelli, buongiorno. Venga, venga.»

La voce di Castellacci arrivò dalla sua destra. Forse era già lì quando era entrato, forse era stato avvisato che stava arrivando. Gianluca le passò accanto senza nemmeno sfiorarla con gli occhi. Lena rimaneva immobile, un meteorite a pochi centimetri dal viso, il fiato di un drago, la scarica di una mitragliatrice.

Così vicino.

Pochi metri. Accanto a sua madre nel supermercato. In fila alle poste dietro a suo padre. Oltre il desk della reception dove un tempo lavoravano insieme. Era un messaggio? Era quello il prossimo passo? Rivedersi all’hotel, su terreno neutro? La ragazza nuova rientrò con la torta salata e un caffè al ginseng, Katia le aveva detto che le piaceva tanto. Ma non aveva preso lo zucchero. Lo voleva, lo zucchero?

Il tremito delle mani le impediva di infilare la chiavetta nella cassetta delle lettere. Gianluca non era mai uscito dall’hotel, non dall’ingresso principale e non durante il suo turno. Qualunque fosse la ragione per cui si incontrava con Castellacci, nessuno doveva aver fatto obiezioni. Niente polizia e neanche una telefonata per avvisarla.

Credono che per me non sia un pericolo.

Ma questo era un dettaglio. A terrorizzarla maggiormente era stata la calma dell’uomo, la sicurezza con cui era entrato nell’hotel da cui era stato licenziato perché accusato di omicidio, il posto dove l’aveva baciata e fotografata mentre dormiva. Le aveva guardato attraverso come un fantasma, nessuna sorpresa o esitazione, nessuna emozione. Perché proprio quel giorno? Era rientrata immediatamente a turno finito, rischiando due incidenti di fila, il bisogno spasmodico di controllare il telefono, pur sapendo che prelevare la custodia di giorno era rischioso. Era entrata in casa e le era preso il panico, aveva guardato da tutte le parti, cercando Argo che non c’era, e l’aveva chiamato

«Argo! ARGO!»

immaginandolo avvelenato in un angolo. Solo dopo si era ricordata di averlo affidato a Mattia, o a Mometto, in quel momento non riusciva a mettere a fuoco, e ora era lì ad armeggiare con la chiavetta che non si infilava, la cassetta delle lettere che minacciava di rimanere chiusa per sempre. Appoggiò la fronte al vetro, respirò, chiuse gli occhi, trovò la serratura con le mani, fece tutto senza guardare e finalmente prese la custodia. Il Samsung si accese e per un minuto buono non successe niente. Poi il primo messaggio:

QUANTA PAURA HAI, MARIA?

E le foto. Due fucili e una doppietta. Proiettili di grosso calibro. Un taser per animali. Una frusta arrotolata. Un cappio da accalappiacani. Lo sfondo era sempre lo stesso, l’interno di una gabbia. Quindi il secondo messaggio.

ADESSO GIOCHIAMO.