20
Sabato 13 agosto faceva così caldo che Castellacci aveva consentito di indossare le camicie a manica corta senza la giacca. Ilaria si era innervosita all’idea di gestire i nuovi gruppi e si era fatta cambiare orario, prendendo il pomeridiano. Lena aveva sperato che Elvio facesse il turno con lei, ma per il settimo weekend con settantacinque arrivi e partenze in contemporanea erano previsti lei, Katia e Gianluca. Non aveva più avuto il coraggio di parlargli, di cercarlo, avrebbe voluto trovare una maniera per spiegargli tutte le stranezze, i messaggi in codice, la visita a casa sua la notte in cui Alex era sparita, l’incontro per strada per fare il nome di Astrid. Soprattutto avrebbe voluto chiedergli scusa. Non gliene fregava niente delle foto scattate nello stanzino, lui le aveva guardato le tette, lei lo aveva considerato un assassino. Ma non c’era modo, e lei non aveva cuore, fegato, forse nemmeno il cervello. Caparzo non lo aveva più incontrato nella stanza 214, la collega che l’occupava se n’era andata via in un orario in cui lei non era di turno e ora non sapeva se fosse venuto qualcun altro e da che stanza li spiasse. Aveva ricevuto un paio di messaggi laconici in cui il poliziotto le raccomandava di stare calma, che tutto procedeva bene, e lei non sapeva immaginare come, se non per il fatto che dal Samsung non era arrivato nulla e doveva credere nel “niente nuove buone nuove”.
È vivo, deve essere ancora vivo, Caparzo ha ragione, senza di lui non c’è più niente.
Si sentiva i suoi occhi addosso, giorno e notte, cercava di convincersi che andasse bene, era un poliziotto, aveva l’incarico di controllarla, ma la polizia non sapeva nulla dell’altra sorveglianza, quella fuori dagli orari di lavoro, così come non aveva saputo nulla della sua persecuzione e del rapimento di Saverio.
Se avessi parlato subito.
Ma non l’aveva fatto, due persone erano morte, una era in galera e una aveva la reputazione rovinata. Gianluca si era preparato all’arrivo imminente del pullman, Lena gli aveva sorriso ma lui aveva continuato a fissare lo schermo. Era l’ennesima orda male organizzata, questa volta c’erano anche degli stranieri ed era stata fatta molta confusione nelle prenotazioni. I facchini erano ancora troppo pochi, così Lena e Katia iniziarono ad accompagnare anche loro, a turno, gli ospiti nelle stanze, a lei era toccata una coppia relativamente giovane – lei incinta, di un’odiosità rara – che ci aveva tenuto a dirle che loro avevano frequentato ben altri hotel e che se avessero saputo che era così male organizzato non sarebbero venuti mai. Tutte le operazioni erano comunque state terminate entro le quattro, compreso il parcheggio del pullman che non era stato previsto. Lena e Gianluca non si erano più rivolti la parola, travolti dal marasma, e a malapena si fecero un cenno al momento di andarsene. Ci vollero venti metri dall’hotel perché Lena si accorgesse che non serviva frugare, nella borsa il suo cellulare non c’era. Aveva lasciato la sua roba nello stanzino per tutto il giorno, il telefono senza suoneria. In effetti lo stanzino non si trovava in una posizione protetta, alcuni dei clienti si erano avvicinati alla pedana del desk così tanto da metterci un piede dentro, sarebbe bastata una distrazione perché qualcuno lo prendesse. Tornò indietro di corsa a cercarlo, Gianluca era ancora lì, Katia stava parlando con Ilaria, che era arrivata a darle il cambio. Cercarono tutti nello spazio dietro al desk ma non c’era. Provarono a chiamarlo dal telefono dell’hotel e squillava, ma non si sentiva nessun rumore.
«Non hai una app per ritrovarlo?» chiese Gianluca, e Lena fu sul punto di dire che sì, certo, bastava entrare nel profilo, cercarlo da lì, ma poi
poi
pensò che c’era già qualcun altro che entrava in quel profilo o sul suo cloud, qualcuno che si scaricava i contenuti e i movimenti, qualcuno che una piccola app ce l’aveva installata chissà quando, una delle tante volte che era entrato in casa sua, da marzo in poi, o forse prima.
Qualcuno che non sapeva che lei avesse scoperto che era da lì che la controllava.
Se ora entro nella app potrebbe pensare che...
Ma se me l’hanno rubato?
Chi ti dice che te l’abbiano rubato?
Allora declinò, disse che forse l’aveva lasciato in auto, non era sicura di averlo in borsa, ma sì, si era sicuramente confusa, ora andava a cercarlo, ed era scappata fuori.
Non sapeva cosa fare.
Vado a casa e scrivo a Caparzo.
Lui le aveva detto di non farlo, che doveva usare il Nokia solo per rispondergli, ma quella era un’emergenza. Era rientrata, la chiave che girava normalmente, si era chiusa dentro con Argo, irrequieto, che doveva fare la pipì, lo aveva fatto uscire in giardino e si era messa in corridoio a fare cenni a caso alle pareti, ai battiscopa, alla lampada, era andata in camera, aveva scritto su un foglio MI HANNO RUBATO IL CELLULARE ed era girata per casa con il foglio in mano, perché a dirlo ad alta voce le sembrava
pericoloso
strano. Poi era andata a controllare il telefono nel bagno e niente, non c’era nulla, solo la batteria bassa, che attaccò per paura che la chiamasse.
Forse è al commissariato, non può contattarmi dal commissariato.
Perché fosse convinta di una cosa simile non era chiaro, le sembrava logico, stava facendo tutto di nascosto, come avrebbe giustificato le cimici, le telecamere, la sorveglianza, tutto? Ma Caparzo non rispondeva e Lena era sempre più agitata. Si sentiva sguarnita, priva di difese, non vedeva nell’assenza di ogni telefono, il suo, il Samsung, il Nokia, una liberazione, sapeva solo che non potevano contattarla e questo metteva in pericolo
Saverio
lei stessa e coloro che amava.
Devo avvisare mia madre. Se mi cerca e non mi trova si spaventa.
Un’angoscia lugubre, profonda, preludio di paure che sarebbero dovute arrivare molto più in là. Uscì col cane, tornò dentro precipitosamente per controllare il Nokia, come quegli adolescenti ossessivi che se non sono online sentono di non esistere. Meditò di usarlo per chiamare sua madre, ma poi le sarebbe rimasto il numero ed era un guaio. Arrivò perfino a pensare di comprare un telefono nuovo, e poi le salì una vergogna strisciante, perché non era capace di reagire, nemmeno in un frangente così semplice, smarrisci il telefono e denunci il fatto, fine. Ma era ingabbiata dai “se”. “Se” il rapitore di Saverio.
“Se” Caparzo.
“Se” il ladro.
Il campanello la portò via da questa palude. Era Lucio, agitatissimo, non veniva a casa sua da quella volta che Alex aveva preparato il tè per tutti.
«Ma perché non mi rispondi? Ti ho scritto un messaggio, ti ho chiamata.»
Menti, Lena, ti viene così bene.
«Ho lasciato il telefono in hotel, in una delle camere, ero andata a sistemare una cosa, non ha la suoneria, lo recupero domani. Ma perché, cosa è successo?»
«È arrivato un messaggio circolare da Marta, nel gruppo dove ci siamo anche io e Alex. C’è un’emergenza, dobbiamo raggiungerla con tutte le auto adibite al trasporto di cani.»
Lena avrebbe voluto levarsi subito da quell’impiccio, lei non era Alex e nemmeno era Saverio, e sulla Clio ci stava giusto un cane come Argo o due piccoli, non era grande come la Opel Astra. Ma Lucio era davvero sconvolto, non si occupava lui di quelle cose, era sempre Alex a prendere in mano le situazioni, lui era un soldatino, la seguiva, ubbidiva, ma iniziative non ne sapeva prendere. E glielo doveva, a Marta, che ormai gli faceva il bucato tutte le settimane.
«Ti prego, vieni con me, perché io non so che cosa fare.»
«Ascolta, Lucio, non è detto che debba toccare a noi, sai in quanti avranno risposto?»
E lui l’aveva guardata con quegli occhi un po’ severi, da bambino che crede in Babbo Natale e pensa che tu ti stia comportando male.
«Alex non mi perdonerebbe, se non andassi.»
Nemmeno Saverio.
L’aveva sorpresa una ventata di epifania, di quei tempi in cui lei mai e poi mai avrebbe fatto qualcosa di contrario alla volontà dell’uomo che amava. Così aveva ceduto, nonostante l’angoscia per il telefono, aveva preso le chiavi, chiuso il cane, lasciato il Nokia a casa e aveva seguito l’Astra rossa, con Lucio che si era attaccato a un navigatore non aggiornato e sbagliava strada, sempre più fuori dalla città, seguendo un percorso che man mano le si faceva più familiare, poi diventava conosciuto, poi era QUEL percorso, verso Vacciano, e allora superava Lucio, e accelerava, e svoltava senza segnalare, infilandosi tra gli alberi, buttando ghiaia in giro, superando l’asta a terra, vedendo le auto davanti al rifugio di Astrid, saltando giù senza nemmeno levare la chiave, correndo intorno perché il suono, quel suono orribile di bestia ferita, arrivava dal retro, là dove aveva tirato le polpette prima di scavalcare la rete, sul cortile posteriore, e lì, gettata a terra, circondata da persone che correvano avanti e indietro, c’era Astrid che urlava vicino ai corpi di tutti i suoi cani.
Ne aveva trasportati tre, Marta li aveva scelti sulla base delle dimensioni della sua auto. Venivano smistati in tutte le cliniche veterinarie della città che avevano dato disponibilità ad accoglierli, con la segreta consapevolezza che il denaro per pagarli c’era. C’era stato un lungo momento in cui non era riuscita a fare niente, sdoppiata, la se stessa immobile a fissare la scena e la sé che lanciava le polpette piangendo, due settimane prima. Immobile, impietrita, l’urlo di Saverio che si ripeteva, assomigliando sempre più a un lamento ossessivo, e poi si era resa conto che quel lamento era il suo, che lei era lì in piedi, dietro la rete, a dondolare tenendosi stretta, gli altri che quasi non la notavano mentre lì a pochi metri da lei Lucio la osservava sconcertato e le chiedeva
«Ma perché sei venuta qui dietro? L’ingresso è dall’altra parte»
e poi cercava goffamente di farla tornare davanti, senza sapere come toccarla, se abbracciarla, impregnato di sudore e senso di inadeguatezza. Dentro nessuno si occupava di Astrid, tutti erano concentrati sui cani. A dirigere le operazioni era Marta, controllata come sempre, focalizzata sul “cosa”, al “chi” si sarebbe pensato dopo. Lena le si era avvicinata aspettandosi il peggio, Marta aveva intuito qualcosa, quando le aveva portato Sparky. Ma la veterinaria non aveva battuto ciglio, quasi non la riconoscesse nemmeno.
«Quanto spazio hai?»
«Quello che occupa Argo, più il bagagliaio.»
«Butta giù i sedili e prendi questi tre.»
Era tornata all’auto correndo per tre volte, un fagotto in braccio a ogni giro, poi era ripartita seguendo le indicazioni per la clinica. Li aveva lasciati ed era tornata indietro, ma non c’era più bisogno di lei, i cani erano tutti andati e Astrid era stata portata via, presumibilmente in ospedale, aveva bisogno di cure per lo shock. Al rifugio rimanevano due volontarie che aveva intravisto negli anni, una era grande amica di Marta e forse anche di Saverio. La salutarono con un cenno indifferente e ascoltò brandelli di discorsi, se lo sarebbe dovuto aspettare, così imparava a fare la stronza, magari era stata lei per riscuotere un’assicurazione, avere un indennizzo, la sindrome di Münchhausen. Lena girava per il rifugio vuoto, passava oltre la barriera per i cani, sfiorava il tavolo dove si era seduta a bere il tè, guardava i punti dove due settimane prima c’era vomito ovunque perché aveva dato ai cani il sale. Cercò istintivamente il barattolo e lo vide, ancora intatto, pensava di averlo gettato a terra, a furia di colpi. Sopra il barattolo, placida e familiare, la Pallattiva di Argo. La sua, non c’era dubbio. Allungò una mano, la prese, la aprì. Dentro c’era il suo cellulare, spento.
Aveva chiamato sua madre, inventando la balla della batteria scarica.
Aveva letto i messaggi di tutti, quello di Lucio, quello di Marta che chiamava a raccolta gli amici e i volontari, quello di Astrid che recitava un VNITE QUI TUTTI1 inviato a ogni numero della sua rubrica. Poi molte chiamate perse, tra cui quelle dell’albergo, sempre Lucio, sua madre, Mometto. Mometto aveva lasciato un messaggio, gli era giunta voce che fosse successo qualcosa ai cani di Astrid e voleva sapere se lei stava bene. Rientrò in casa e la chiave fece una leggera resistenza prima di girare.
Sono entrati.
Chi dei due?
Fa differenza?
Avrebbe dovuto. Aprì la porta lentamente, già con la consapevolezza che l’avrebbe pagata, avrebbe pagato lei per quello che era successo ai cani di Astrid, solo perché lei aveva accettato per prima di farlo, e d’accordo, ci stava, che la punissero pure.
Poi vide Argo.
E non lo amava come Saverio, non lo conosceva come Saverio ma vide subito che non era normale la sua posizione, che non stava sdraiato così, che era buttato a terra, buttato come se lo avessero scaricato da un camion, una bestia da macello, una carcassa.
Ma non fece in tempo a urlare.
«Il cane sta bene, chiudi la porta.»
La voce veniva da dentro, oltre il corridoio, dal bagno.
Lena non si mosse.
«Dorme, tranquilla. Dormono tutti.»
Lasciò cadere la borsa a terra e si accoccolò accanto al cane. Argo dormiva, sì, gli occhi rovesciati.
«Il guaio del cane tuo è che mangia qualsiasi cosa. Quando noi si addestra i cani la prima cosa che gli facciamo imparare è che solo dalle mani nostre prendono il cibo, e basta. Ma poi fa tanto la razza.»
Lena si rialzò e si mosse verso il bagno come un condannato a morte. Caparzo era seduto sul bordo della vasca, al buio. Visto così era ancora più spaventoso di quanto non lo ricordasse, una montagna d’uomo. Era in borghese, il bordo dei pantaloni ancora con qualche ago di pino attaccato.
«Avevo pensato, per primo, che questo si meritava che li uccidessi tutti, come aveva fatto credere a te. Che poi bicarbonato, non bicarbonato, quella non era la differenza. Lui si meritava di vedere cosa succedeva. Ma poi ho pensato: “A questo non lo vogliamo fare incazzare, lo dobbiamo spaventare, invece”. E allora penso che questa sera si è spaventato.»
«È stato lei ad avvelenare i cani di Astrid?»
«Non è veleno, è tranquillante per cani. Si fanno una dormita e poi tornano come nuovi.»
«Ma Astrid questo non lo sa, Astrid ha pensato che fossero stati avvelenati, che sarebbero morti.»
«E l’ha pensato pure lui.»
Lena iniziò a sentire caldo.
«Lo ha preso lei il mio telefono?»
«L’ho fatto prendere.»
«Da chi?»
Lui non rispose, forse sorrideva, non riusciva a vedere.
«Allora il mio telefono è andato dall’hotel al rifugio di Astrid e poi lo ha spento. Così lui vedrà che sono andata lì e penserà che sono stata io.»
La Bestia mosse appena una mano.
«E cosa crede di ottenere?»
«Ho pensato. Tre cose t’ha chiesto di fare. Rovinare l’amica tua, che ti faceva infame ma lei se l’era cercata, e l’hai fatto. Mandare in galera il compare del tuo uomo, che pure se lo meritava e tu lo sapevi, ma pure quello tradimento era, e lo hai fatto. E poi far finta di avvelenare i cani della ricciolina, e non ti è riuscito.» Scosse la testa. «Non suona.»
Lena non capiva.
«Ha colpito a Sara e a te, lei sputtanata, tu infame. Ha colpito a Mattia e a te, lui dritto al gabbio, tu traditora. Ma non voleva colpire alla ricciolina e ai cani, solo a te, perché era una finta. Se gli tiravi le polpette nessuno si accorgeva di niente e tu ti mangiavi il cuore, perché c’avevi creduto, e questo era il piano. Io dico che a lei non le vede colpa. A te, all’amica tua, al compare, a voi sì, a lei no.»
Lena aggrottò la fronte.
«Quindi era un bluff? Voleva solo vedere se ero disposta a farlo?»
Caparzo annuì.
«E poi sei corsa dalla dottoressa e hai fatto il messaggio che piangevi e sei pure finita fuori strada. Vedi che lo hai soddisfatto? Quello che voleva lo ha avuto.»
Finalmente iniziava a capire.
«Vuole che soffra. Vuole che faccia cose che altrimenti non avrei fatto mai.»
«Eccola. Allora mi sono pensato che questo gioco è durato perché lui ha giocato a te. Come una bambola, lui diceva e tu facevi. E così non va. Tu dovevi fare la tua parte nel gioco. Oggi l’hai fatta.»
«Quindi ora penserà che ho trovato il coraggio di avvelenare i cani e che gli ho ubbidito, ma non era davvero quello che voleva.»
«Giusto. E adesso che ti deve fare? Dirti cattiva che hai ubbidito? Dirti brava, che hai fatto quello che non voleva? Oggi lui me l’ho giocato io.»
«Quindi cosa succede adesso?»
«Aspettiamo che fa. Ma senza paura, che a te non ti fa niente.»
«Cosa dice? Ma se mi sta massacrando!»
Caparzo scosse l’indice, lentamente.
«Finora, che ha fatto questo di male? Ventisei messaggi ti ha mandato. Poi venti foto, nove video, un messaggio vocale. Poca roba per quasi cinque mesi. Nient’altro, sciocchezze di stalking.»
«Ha rapito il mio fidanzato. Lo tiene in una gabbia, nudo. Lo tortura!» aveva alzato la voce, con indignazione.
Caparzo aveva arricciato il naso, poi:
«No, co’ tte. Cos’ha fatto di male co’ tte? Ti ha fatto una foto. Ti ha telefonato, quante, cinque volte? Cinque telefonate. E poi? Ti ha rubato una chiave e poi te l’ha ridata. È entrato in casa, ha chiuso fuori il cane, ti ha messo in frigo la carne col bicarbonato.»
Aveva caldissimo, le riusciva difficile respirare.
«Ha ucciso Betta» aveva detto senza alcun tono. «E Alex.»
«Va bene
Va bene?
ma vedi che a te, a te non ti ha fatto niente.» L’aveva osservata come se fosse stata una strana specie di animale. «Tu sei importante. Ti odia e però fa contenta. Gli hai scritto che ti faceva paura, ed ecco, il biglietto. Poi gli hai detto che volevi vedere l’uomo tuo vivo, ed ecco, te lo ha fatto vedere. Pure la palla del cane ti ha ridato, e la chiave era in un pacchetto. Vedi che è pure gentile.»
«Ha minacciato tutti, mia madre, i miei amici...»
«Ma questo è il gioco. È il gioco suo. Pensati a quanto ci ha messo su ’sto gioco. Pensalo dalla parte sua. La vita dietro a te, a vedere cosa fai, dove vai, con chi stai, e poi a seguire pure loro e a imparare le case e i posti, a fare la chiave dell’ingresso di Savelli, e quella me la so’ pigliata io adesso, che in casa non la devi avere, ma dell’ingresso del palazzo, no di casa, alla chiave di casa non ci è arrivato. Pensa a quanto tempo, tutta la sua vita lì. E magari c’ha un lavoro e c’ha una famiglia e poi deve occuparsi del ragazzo tuo, perché se è vivo lo deve dare da mangiare e controllare che non si ammala, è un lavoro grande, è tanta roba.»
Fece una pausa, e quello che disse dopo lo disse solo a sé.
«Magari all’inizio pensava che nemmeno ci cascavi. Magari ti ha messo il cellulare e pensava cinquanta e cinquanta, cinquanta va alla polizia e cinquanta invece le viene curiosità, e gli è andata bene. E dopo un po’ ha improvvisato, un po’ si è inventato, un po’ lo hai aiutato tu.»
Tornò a vederla.
«È stato qui prima del 21 marzo, forse pure tanto prima, ha fatto tutto in quei giorni là. Conosce il cane o sa fare con i cani, diverso da me. Ti ha lavorato il computer e pure il cellulare.» Aveva riflettuto un attimo. «Ti sei mai svegliata con la testa pesante? Che ti sembrava di non avere dormito ma anche di avere dormito troppo?»
Lena fece cenno di sì.
«Sono quei gas dei topi d’appartamenti, li trovi anche abbastanza facile, se hai i contatti buoni. Tu avevi tanta paura di quando entrava che tu non c’eri, e invece non avevi abbastanza paura di quando entrava che c’eri.»
Un silenzio carico di intenzione.
«Potrebbe avere fatto qualunque cosa mentre tu dormivi.» Pausa. «Adesso non succede più.»
Lena sentì che stava per scivolare a terra accanto alla porta, resisteva solo perché il suo salvatore le faceva paura quasi più del suo persecutore, le evocava orrori da film e sentito dire, articoli sui tg online e denunce su Facebook. Le avrebbe fatto delle cose terribili, non importava che fosse un poliziotto, era un orco con la faccia da orco e gli orchi fanno solo gli orchi.
Lui non ha Saverio.
È come se lo avesse.
«Quindi devo solo aspettare che mi ordini di fare qualcos’altro di orribile?»
Caparzo si strinse nelle spalle.
«Adesso alza il tiro, è così che fanno. Adesso deve chiedere di più e deve offrire di più.»
Lena scosse la testa.
«E Saverio?»
«A lui non gli fa niente, finché vale qualcosa. Perché ti deve dare, se vuole il gioco. E anche tu gli devi dare, però non come chiede, sempre come oggi.»
«No, io non ci riesco, è troppo rischioso» tentò di interromperlo, ma la Bestia alzò la mano.
«Faccio io. Basta che sembra che sei tu. E lui si avvicina, perché deve vedere che fai come dice. E più chiede più si avvicina.» Di colpo gli si accesero gli occhi. «E io lo prendo.»
Devo fare da esca.
Questo mi chiede, per questo vuole che lasci la porta aperta e le tende tirate.
Vuole che lui mi venga il più vicino possibile.
Non importa a che prezzo.
Si lasciò andare e sedette sul pavimento, Caparzo se ne rimaneva lì, sul bordo della vasca, come se tutto andasse benissimo, mentre annuiva alla stanza.
«Hai pensato a quella cosa? A quello che puoi avergli fatto?»
Sì.
«Pensaci ancora. Sta tutto lì.»
Era rimasta con la schiena contro la porta, la vergogna di non trovarsi una colpa che le riempiva la gola. Il poliziotto si era alzato lentamente e lei era arretrata d’istinto.
«Ricorda che ti ho ascoltato, che ero l’unico. Nessun altro ci ha creduto, a te, e nessuno indagherà, per te. Solo io. Sono l’unica cosa che c’hai. O hai me o hai lui.»
Le era passato accanto leggero, senza toccarla, muovendosi verso la porta così lieve che sembrava non sfiorare il terreno.
Aveva aspettato.
A furia di scuoterlo, a mezzanotte Argo aveva aperto un occhio ed era riuscita a metterlo in piedi per farlo uscire almeno nel giardinetto. Lui era così stordito da non essere in grado di alzare la zampa, l’aveva fatta mezzo seduto, come un cucciolo, e appena rientrato era di nuovo crollato a terra.
Aveva aspettato ancora.
Online c’erano poche righe scritte su Facebook da una collega di Astrid, un tasso di empatia abbastanza basso per lei ma urla altissime in difesa dei cani. Si parlava solo di effrazione, di tentato furto, non di avvelenamento.
Si devono essere già ripresi. Avranno pensato che li avessero addormentati per entrare e rubare qualcosa.
Aveva aspettato, perché anche volendo non sarebbe riuscita a dormire, sapeva che la risposta del rapitore sarebbe dovuta arrivare subito, come per Sara o per Mattia. In caso contrario
non ci voglio pensare.
Ma ci era voluto di più, il sole si era quasi guadagnato l’affaccio sul mondo quando il Samsung aveva vibrato. Lena si era seduta sul letto, aveva acceso la luce e l’aveva preso in mano. Poi si era voltata a guardare gli angoli della stanza, le pareti, la luce. Era rimasta lì finché il suono dei grilli l’aveva richiamata dal bagno. La porta aperta, il Nokia recuperato dal rotolo della carta igienica, la porta ancora chiusa perché poteva pioverle addosso qualunque cosa.
Potrebbe aver scoperto tutto.
Potrebbe essere furioso.
Potrebbe essere compiaciuto.
Potrebbe aver ucciso Saverio.
Il messaggio sul Nokia diceva: APRILO. Caparzo la guardava, anche alle cinque del mattino. Premette il pulsante. Cinque parole.
SAPPIAMO COME TRATTARE GLI AMICI.
Non aveva significato, lo trascrisse su un foglio, a caratteri grandi e lo mostrò alla stanza, senza dire una parola. I grilli si fecero sentire di nuovo
AGGANCIATO DORMI
e senza farsi domande ubbidì.