Capitolo undicesimo
Mutamento politico
I.
RIFORME E RIVOLUZIONE
Significato e importanza della distinzione.
Da circa un secolo a questa parte i due termini «riforme» e «rivoluzione», spesso uniti nell’enunciato interrogativo «riforme o rivoluzione?», indicano le due strategie alternative che sono state di volta in volta adottate nell’ambito del movimento operaio per la trasformazione della società in senso socialista, o, per usare un’espressione corrente (anche se tutt’altro che chiara), durante lo stato di transizione.
L’importanza di questa alternativa risulta già dal semplice fatto che essa comprende, e quindi serve in qualche modo a riassumere, tutti gli altri contrasti che hanno contrapposto l’uno all’altro i diversi partiti operai e hanno diviso l’una dall’altra le diverse frazioni all’interno dello stesso partito operaio. Per fare l’esempio che primo viene in mente di un’altra ben nota contrapposizione abitualmente adoperata nella polemica politica per distinguere le due ali del movimento operaio, si consideri la contrapposizione fra democrazia e dittatura. Per un verso è vero che una delle caratteristiche dei riformisti è la fedeltà al metodo democratico riguardo tanto alla conquista quanto all’esercizio del potere, per un altro verso è vero che una delle enunciazioni programmatiche piú caratteristiche dell’ala rivoluzionaria è la dittatura del proletariato: si pensi al primo dei «ventun punti» per l’ammissione dei partiti comunisti alla Terza Internazionale, approvati dal II congresso della Terza Internazionale il 6 agosto 1920, in cui si dice che non si può parlare della dittatura del proletariato come di una semplice formula mandata a memoria, ma «deve essere propagandata in modo tale da apparire necessaria ad ogni semplice lavoratore», ecc. Eppure la contrapposizione democrazia-dittatura è assai meno idonea di quella riforme-rivoluzione a cogliere il nucleo essenziale del contrasto fra le due ali opposte del movimento operaio. Per una duplice ragione: da un lato, perché vi sono partiti democratici non socialisti che come tali restano fuori della contrapposizione fra riformismo e rivoluzionarismo che vale oggi soltanto all’interno dei partiti operai; dall’altro, perché vi è un senso di «dittatura del proletariato» che non è incompatibile col significato corrente di «democrazia», quando s’intenda per dittatura non quella specifica forma di governo che è l’antitesi della democrazia, ma il dominio di una classe che si può esplicare attraverso forme di governo diverse, e quindi anche in forma democratica.
Come esempi tipici ed estremi delle due strategie possono essere considerati, rispettivamente, il Partito laburista inglese, di cui una matrice particolarmente importante è stata la Società fabiana, costituitasi nel 1883, che prendendo il nome dal console romano Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore, volle indicare nella gradualità delle riforme la via da seguire per giungere senza scosse violente a una società socialista, e i partiti comunisti, per lo meno alla loro origine e per gran tratto della loro storia, i quali, nati in seguito alla rivoluzione d’ottobre, avendo accolto la dottrina leninistica e la pratica bolscevica della conquista del potere, solidamente avvinti ai principî della Terza Internazionale, ripudiarono apertamente il riformismo, considerarono i partiti riformisti non piú come alleati ma come avversari da combattere, aderirono alla tesi della ineluttabilità della rivoluzione per l’abbattimento del capitalismo.
Per quanto non sia stata esclusa un’influenza anche del marxismo sul laburismo e sui partiti socialisti dell’Europa del Nord, e per quanto i partiti comunisti si siano sempre dichiarati, oltre che marxisti, anche leninisti, la contrapposizione riforme-rivoluzione viene spesso adoperata per distinguere partiti operai marxisti e non marxisti, quasi che alla distinzione fra partiti riformisti e partiti rivoluzionari si potesse sovrapporre la distinzione fra partiti non marxisti, o addirittura antimarxisti, e partiti marxisti. In realtà, pur prescindendo dalla disputa intorno alle diverse possibili interpretazioni del pensiero di Marx e di Engels sulla praticabilità della via delle riforme nei paesi democraticamente ed economicamente piú avanzati, non si può non riconoscere che la contrapposizione fra un’ala riformistica e un’ala rivoluzionaria è sempre stata presente anche all’interno dei partiti che non hanno rinunciato a proclamarsi marxisti, come il Partito socialdemocratico tedesco durante gli anni della Seconda Internazionale, e il Partito socialista italiano, e che alcune fra le dispute storicamente piú significative che li hanno divisi si sono svolte all’interno del marxismo, sono nate cioè da contrastanti interpretazioni e utilizzazioni dell’opera di Marx. Tale è stata la disputa di fine secolo, provocata da Bernstein, che ha dato luogo alla distinzione fra marxisti ortodossi e non ortodossi, a quel vasto fenomeno del revisionismo che appartiene pur sempre, per lo meno nella maggior parte delle sue manifestazioni, alla storia del marxismo. Tale è stata pure la disputa fra menscevichi e bolscevichi, che si ritenevano gli uni e gli altri marxisti, circa le fasi che una società industrialmente arretrata deve percorrere per arrivare al socialismo. Non diversamente, la rottura fra socialisti legati al patto d’unità d’azione coi comunisti e socialdemocratici, quale avvenne in Italia dopo la liberazione, non ha coinciso affatto con la crisi del marxismo, che è sopravvenuta molto piú tardi. Né bisogna dimenticare che si sono considerati filosofi marxisti tanto Antonio Labriola cui si sono richiamati soprattutto i comunisti, quanto Rodolfo Mondolfo che accolse le tesi critiche dei menscevichi sulla rivoluzione d’ottobre e ha sempre ispirato i riformisti.
E suoi limiti.
Se è giusto affermare che l’antitesi riforme-rivoluzione serve meglio di ogni altra a caratterizzare il contrasto antico e sempre rinascente all’interno del movimento operaio fra due modi diversi di concepire il passaggio dalla società capitalistica al socialismo, non sarebbe corretto concluderne che tutte le altre antitesi si risolvano in essa, né che il rapporto tra fautori delle riforme e fautori della rivoluzione si presenti sempre in forma di antitesi.
Quando si tenta di fissare il significato e la portata dell’antitesi, bisogna aver cura di dire, come è stato detto all’inizio, che essa riguarda essenzialmente la strategia che il movimento dovrebbe seguire per raggiungere il proprio fine ma non riguarda propriamente il fine. In altre parole, partendo dal concetto che tanto le riforme quanto la rivoluzione sono da annoverarsi fra le cause del mutamento sociale, bisogna tener sempre presente che la loro antitesi si riferisce al modo di mutamento e non al risultato. Di conseguenza, oltre la differenza rispetto al modo di mutamento, vi possono essere e vi sono state altre differenze fra parte e parte del movimento operaio, riguardanti il fine o il risultato, e non coincidenti con quella.
Rispetto al risultato, occorre peraltro distinguere il fine intermedio, che è a sua volta strumentale rispetto a un fine ulteriore, e il fine ulteriore o addirittura il fine ultimo. Il fine intermedio, e quindi strumentale, di ogni strategia politica è la conquista del potere, il fine ulteriore è il socialismo o per lo meno quella trasformazione della società che consenta il passaggio finale alla società senza classi (il fine ultimo). Questa distinzione è importante perché, mentre riguardo al fine intermedio l’antitesi conserva tutto il suo valore, riguardo al fine ulteriore e al fine ultimo è molto meno netta. Con una notevole approssimazione alla realtà si può affermare che chi è favorevole a un mutamento per gradi è di solito anche fermamente convinto che a conseguire questo obiettivo sia non soltanto necessario ma anche sufficiente il metodo democratico, e che pertanto il problema della conquista del potere si risolva interamente nella lotta per ottenere la maggioranza dei seggi in parlamento e nella formazione di un governo a maggioranza socialista. Allo stesso modo chi propone la strategia contraria sostiene di solito che il metodo democratico può anche essere necessario, specie in tempi di grande sviluppo economico, ma non è mai sufficiente per conseguire l’obiettivo della trasformazione radicale della società, e di conseguenza occorre prevedere il momento in cui si rende indispensabile «il colpo di maglio» dell’azione rivoluzionaria che non rispetta, non può rispettare, le regole del gioco democratico.
Meno netta l’antitesi rispetto al fine, specie rispetto al fine ultimo, perché il fine ultimo viene di solito definito con termini cosí vaghi, come liberazione di tutti gli uomini dai rapporti di sfruttamento, emancipazione umana, riappropriazione da parte dell’uomo delle sue facoltà, società senza classi e senza stato, regno della libertà contrapposto al regno della necessità, da rendere difficile una qualsiasi differenziazione e inconcludente ogni tentativo di determinarla. Se una differenza si può osservare, questa riguarda non tanto il diverso modo di concepire il fine, quanto la rilevanza stessa del fine ultimo nel progetto politico complessivo, rispettivamente dei riformisti e dei rivoluzionari. Per i primi vale sempre la famosa tesi di Bernstein che «il fine è nulla e il movimento è tutto», dove per «movimento» s’intende «tanto il movimento generale della società, vale a dire il progresso sociale, quanto l’agitazione e l’organizzazione politica ed economica per l’attuazione di tale progresso», tesi che non può essere dissociata dall’affermazione che la precede immediatamente e le conferisce il suo significato pregnante: «Io confesso di provare comprensione e interesse straordinariamente scarsi per quanto s’intende comunemente per “meta finale del socialismo”» 1. Per i rivoluzionari, invece, quello che conta è il fine, che pertanto non deve mai essere perduto di vista, e in base al quale soltanto si deve valutare la validità della strategia.
Che i due atteggiamenti designati rispettivamente dai due termini riforme e rivoluzione siano comunemente considerati incompatibili e di conseguenza le due strategie corrispondenti vengano definite come alternative, non deve condurre alla conclusione che nella realtà le cose non siano andate talora altrimenti. Nella polemica politica, caratterizzata, come si sa, da una certa viscidità delle parole, le due posizioni sono state considerate talora come complementari e quindi perfettamente compatibili. Da parte dei riformisti, con l’argomento che la trasformazione rivoluzionaria della società è il prodotto finale di una serie ininterrotta di riforme graduali, e in base al principio che il mutamento quantitativo si risolve alla fine in un salto di qualità, purché si tratti di riforme che incidano sulla modificazione dei rapporti di potere, non solo del potere politico ma anche del potere economico (le cosiddette «riforme di struttura», se si vuol dare a questa espressione del linguaggio politico corrente un significato definito). Da parte dei rivoluzionari, con l’argomento che le riforme sono atti preparatori e come tali necessari alla trasformazione rivoluzionaria della società, anche se alla fine il passaggio da una forma di produzione a un’altra, dal dominio di una classe al dominio della classe che vi si contrappone, non può avvenire se non attraverso misure di carattere eccezionale che non possono essere fatte rientrare nelle procedure invocate e seguite dai riformisti. Sulla base di questi argomenti si è ripetuto spesso da una parte e dall’altra che l’alternativa riforme o rivoluzione è una falsa alternativa.
In realtà la possibilità di porre il problema come una falsa alternativa dipende anche dal fatto che i due concetti di riforma e di rivoluzione non sono omogenei. Una volta posto il problema, come deve essere posto, come problema di mutamento sociale, delle sue cause e dei suoi effetti, per riforma s’intende esclusivamente una delle possibili cause del mutamento, per rivoluzione, invece, s’intende, come è stato altre volte notato, tanto una delle possibili cause, quanto uno dei possibili effetti, vale a dire tanto il movimento che produce il mutamento quanto il risultato che ne è seguito, o piú semplicemente, tanto ciò che produce il mutamento quanto alla fine il mutamento avvenuto. Stando cosí le cose, si spiega senza difficoltà perché si possa coniugare l’idea delle riforme con quella della rivoluzione. Basta che nel contesto in cui i due concetti debbono apparire come compatibili, il primo venga preso nella sua unica accezione di causa di mutamento, una volta come causa esclusiva, un’altra volta come causa concomitante, e il secondo venga preso invece in una delle due possibili accezioni, cioè come effetto. Detto altrimenti, riforme e rivoluzione non sono incompatibili perché quelle cause di mutamento che sono le riforme producono necessariamente, o possono produrre in concomitanza con altre cause, quell’effetto che è la rivoluzione, cioè il mutamento radicale di una società.
Infine occorre ancora ricordare che i due termini possono essere trattati da chi si pone di fronte a entrambe le posizioni in atteggiamento polemico non come alternativi né come complementari ma come dilemmatici, cioè tali che qualunque delle due strategie venga scelta, cioè quale dei due corni del dilemma venga accolto, lo scopo che si voleva raggiungere non viene raggiunto. L’antitesi riforme o rivoluzione viene formulata in forma di dilemma, per esempio, nel modo seguente: o si accetta la via delle riforme e allora non si avrà la rivoluzione, intesa come mutamento radicale della società; oppure si accetta la strategia della rivoluzione e allora si deve rinunciare a tutti i benefici che si accompagnino al metodo democratico che consente solo riforme. Si osservi che anche l’argomento dilemmatico è possibile per lo scambio fra i due significati di rivoluzione come causa e come effetto del mutamento. Infatti nel primo corno il termine è preso nel significato di effetto, nel secondo di causa. Dei due corni il primo rappresenta l’argomento preferito dai rivoluzionari contro i riformisti, il secondo rappresenta l’argomento preferito dai riformisti contro i rivoluzionari. Il dilemma, cioè l’esito negativo dell’alternativa, dipende dalla combinazione dei due argomenti, cioè dall’uso contemporaneo dell’argomento dei rivoluzionari per confutare i riformisti e dell’argomento dei riformisti per confutare i rivoluzionari. In questo senso si può dire che è uno degli argomenti preferiti di chi si pone in atteggiamento polemico tanto verso gli uni quanto verso gli altri, di chi, in altre parole, non è né riformista né rivoluzionario. L’unico modo di sfuggire ai due corni del dilemma è la dissociazione completa fra i due termini, ovvero fra le due strategie, e consiste in definitiva nell’ammettere che la strategia delle riforme non è alternativa rispetto a quella rivoluzionaria perché non ha e non può avere effetti rivoluzionari, e d’altra parte la strategia rivoluzionaria non è alternativa a quella riformistica perché ha effetti dirompenti, sí, ma contrari agli interessi della stessa classe che ha messo in moto il processo rivoluzionario. Una risposta di questo genere è né piú né meno che la rinuncia alla rivoluzione, cioè all’esito che nel primo caso risulta impossibile, nel secondo sarebbe indesiderabile. Quando un’alternativa, cioè un’antitesi in cui i due opposti sono presentati l’uno come positivo e l’altro come negativo a seconda dei diversi punti di vista, si trasforma in un dilemma, cioè in un’antitesi in cui entrambi gli opposti sono considerati a esito negativo, l’unico modo di uscirne è di sciogliere l’alternativa eliminando uno dei due termini.
Al modo di porre il problema in termini dilemmatici proprio degli avversari delle due strategie, il fautore delle riforme o il fautore della rivoluzione può rispondere anche presentando il secondo termine non come alternativo né come complementare al primo, ma come sostitutivo o surrogatorio, attraverso una enunciazione di questo genere: «Se non accettate le riforme che vi proponiamo, la situazione diventerà tanto intollerabile da rendere inevitabile la rivoluzione». In questo caso, la rivoluzione viene presentata come un male, ma come un male necessario in determinate circostanze, la cui minaccia deve servire a rendere praticabile proprio la strategia opposta.
Precedenti storici.
Che il tema riforme-rivoluzione sia diventato un tema dominante nella storia del movimento operaio sin dalle origini, piú precisamente da quando ha cominciato a organizzarsi nei diversi partiti protesi alla conquista del potere politico, non vuol dire che esso sia nato col movimento operaio. Il tema, in tutte le sue articolazioni, è nato con la Rivoluzione francese, cioè col primo grande movimento storico che è stato interpretato consapevolmente e durevolmente come un rovesciamento radicale dell’ordine costituito, appunto come una «rivoluzione» nel senso che questa parola ha assunto soltanto dopo il moto che ha abbattuto l’ancien régime, e ha scosso dalle fondamenta la Francia e l’Europa alla fine del XVIII secolo. Ed è nato con la Rivoluzione francese, la rivoluzione per eccellenza, il modello di tutte le rivoluzioni successive, in quanto è stata contrapposta, positivamente o negativamente secondo i diversi punti di vista, all’età precedente, chiamata, quasi per antonomasia, l’età delle riforme o dei principi riformatori. Tutti i possibili rapporti fra i due concetti sinora considerati, le riforme contrapposte alla rivoluzione, e viceversa, le riforme interpretate come il prodromo della rivoluzione e la rivoluzione come lo sbocco inevitabile del processo riformatore, la rivoluzione giudicata come un male necessario per le mancate riforme, hanno costituito un oggetto costante di dibattito da parte degli storici della grande rivoluzione, come sa chiunque abbia una certa familiarità con la letteratura rivoluzionaria e controrivoluzionaria.
Non già che il termine rivoluzione fosse sconosciuto al linguaggio politico dell’età precedente. Ma secondo l’uso degli antichi, risalente in particolare al libro V della Politica di Aristotele, dedicato all’analisi delle varie forme di trapasso da una costituzione all’altra, il termine rivoluzione era abitualmente adoperato per indicare ogni forma di mutamento, fosse anche soltanto politico e non anche sociale, fosse anche soltanto un cambiamento dei detentori del potere e non pure della forma di governo, e la sua estensione coincideva con quella del termine classicheggiante, proprio degli scrittori del Rinascimento, «mutazione», che traduceva l’aristotelico metabolé. Si considerino celebri opere settecentesche, come la Histoire des Révolutions arrivées dans le gouvernement de la République romaine dell’abate de Vertot (1739), o come la Histoire des Révolutions de l’Empire romain di Linguet, pubblicata alle soglie della rivoluzione (1776), o come Les ruines ou méditation sur les révolutions des empires (1791) di Volney, apparsa quando la rivoluzione era già in corso. Tutte queste opere, e tante altre che si potrebbero citare, usano il termine rivoluzione in un senso molto generico per coprire il vasto campo del mutamento politico in tutte le sue forme, con un significato non diverso da quello del termine «mutazione» che Machiavelli aveva usato quando aveva parlato delle «mutazioni dalla libertà alla servitú e dalla servitú alla libertà» in un capitolo dei Discorsi (il capitolo 7 del libro III) 2. Solo in un discorso di Condorcet del giugno 1793, intitolato Sur le sens du mot révolutionnaire, il termine rivoluzione acquista un significato piú specifico e nello stesso tempo anche eulogico. Scrive Condorcet che «la parola “rivoluzionario” non si applica che alle rivoluzioni che hanno la libertà per oggetto» 3: da una ridefinizione di questo genere derivano due conseguenze, la prima che non ogni mutazione è una rivoluzione, la seconda che la rivoluzione è una mutazione benefica mentre al fenomeno delle mutazioni o delle rivoluzioni in senso generico veniva di solito attribuito un significato assiologicamente negativo.
Prima della rivoluzione per eccellenza il termine che era stato adoperato per designare un mutamento specifico e di portata ben piú ampia non era, come si è detto, rivoluzione, ma, se mai, proprio «riforma» (in tedesco Reformation). Con questo termine infatti si abbracciava in tutta la sua estensione il fenomeno della crisi religiosa che aveva attraversato l’Europa dal Cinquecento in poi, e aveva rappresentato insieme con lo sviluppo della nuova scienza e della tecnica e con la formazione dei grandi stati territoriali la nascita del mondo moderno. Quando filosofi e storici prenderanno coscienza dell’immensa forza d’urto della Rivoluzione francese, uno dei punti di riferimento obbligati sarà la riforma, la grande rottura dell’unità religiosa. Saranno soprattutto gli scrittori della restaurazione, i filosofi della controrivoluzione, a considerare la rivoluzione politica che ha detronizzato i re legittimi come il frutto velenoso della rivoluzione religiosa che aveva sconvolto due secoli prima la società cristiana, e a unirle nella medesima esecrazione. D’altro canto, Hegel, dalla sua cattedra dell’università di Berlino, concludendo le lezioni di filosofia della storia, affermava che i paesi che avevano conosciuto la riforma non avevano avuto bisogno di passare attraverso la rivoluzione, giacché «i protestanti hanno compiuto la loro rivoluzione con la Riforma» 4. Il fenomeno storico comparabile alla rivoluzione era dunque la riforma, e non certo le rivoluzioni nel senso generico di mutamento o di mutazione, di quei passaggi da una forma di governo all’altra, nient’affatto eccezionali, tutt’altro che dirompenti, tanto che ancora nella sua Histoire des révolutions d’Italie, scritta nel 1858, Giuseppe Ferrari ne annoverava nella sola storia italiana circa settemila!
Con questo non si vuol dire che prima della Rivoluzione francese fosse estranea al pensiero politico, come pure spesso si sostiene, l’idea della rivoluzione intesa come trasformazione radicale della società, come riforma integrale, come renovatio ab imis fundamentis. L’idea del novus ordo, della caduta e della rinascita, era entrata nella storia dell’Occidente attraverso la concezione profetica della storia propria della tradizione ebraico-cristiana, e alimentò in vari periodi le visioni e i movimenti millenaristici. All’inizio dell’età moderna prese nuova forma nelle opere degli utopisti, da cui nacquero tante descrizioni di città ideali, vere e proprie prefigurazioni sotto molti aspetti, specie sotto l’aspetto dell’egualitarismo ascetico e dell’organizzazione comunitaria della società, delle repubbliche dei rivoluzionari. La continuità fra concezione profetica della storia e utopismo, fra utopismo e pensiero rivoluzionario, è fuori questione. La città ideale di Campanella è la descrizione di uno stato comunista, il cui avvento è preannunciato da eventi straordinari indicanti che i tempi sono maturi per i grandi rivolgimenti, ed è immediatamente seguita dall’insurrezione delle Calabrie che mira alla sua attuazione. Il socialismo cosiddetto scientifico è immediatamente preceduto dal socialismo utopistico, e non riuscirà mai a liberarsi del tutto dal visionarismo profetico di una società finale senza diritto e senza stato, del passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, del salto al di fuori della storia. Peraltro, a differenza delle forme profetiche e utopistiche del pensiero rivoluzionario, che erano rivolte a un passato mitico, e per le quali la rivoluzione era, secondo il senso proprio della parola, un ritorno, la grande rivoluzione, figlia del pensiero illuministico portatore di una concezione progressiva della storia, è ormai protesa verso l’avvenire, verso l’edificazione di una società mai vista prima d’allora.
Nel Settecento, che è passato alla storia col nome di età delle riforme e dei principi riformatori, il termine riforma aveva perduto ormai il suo originario carattere di rinnovamento religioso, e aveva assunto il significato che gli è rimasto di mutamento politico e sociale, e inoltre di mutamento graduale, legale e parziale, che in quanto tale serve a designare un’idea dei compiti del governante, un modo di esercitare il potere e una concezione generale del progresso storico, evolutivo e non catastrofico, antitetici a quelli che saranno attribuiti a torto o a ragione alla grande rivoluzione. È da questa antitesi che nasce l’uso dell’espressione «riforme o rivoluzione» per indicare due strategie alternative del mutamento sociale e molti dei problemi che vi sono connessi.
Chi consideri il problema storico del rapporto fra età delle riforme e Rivoluzione francese non può non essere colpito dal fatto che vi si scontrano due interpretazioni del rapporto fra mutamento mediante riforme e mutamento rivoluzionario che non differiscono dalle interpretazioni dello stesso rapporto che hanno continuato a contendersi il campo fra le opposte parti del movimento operaio. Gli storici d’indirizzo liberale o conservatore furono sin dall’inizio inclini a sostenere che l’esplosione rivoluzionaria avesse interrotto il naturale processo delle riforme che avrebbe prodotto i suoi frutti se avesse avuto la possibilità di proseguire pacificamente. Gli storici democratici e marxisti hanno sempre avuto la tendenza a sostenere, al contrario, che il processo rivoluzionario fosse inevitabile e sia stato in fin dei conti benefico per la impossibilità oggettiva dei governi di trasformare gradualmente la società secondo lo spirito dei tempi e le esigenze della nuova classe in ascesa. Secondo Tocqueville, la rivoluzione nonostante il suo radicalismo innovò assai meno di quanto generalmente avessero creduto i suoi autori, e «se non fosse avvenuta, il vecchio edificio sociale sarebbe crollato egualmente dovunque, qua piú presto, altrove piú tardi; soltanto sarebbe continuato a cadere pezzo per pezzo in luogo d’inabissarsi di colpo» 5. Secondo Quinet, invece, «si giunse a un punto tale che il nodo gordiano divenne alla fine cosí insolubile da non poter che essere troncato dalla spada» 6.
Si tratta, come ognuno può vedere, dei due punti di vista opposti che hanno costituito e hanno continuato a costituire il luogo di scontro tra fautori delle riforme che dovrebbero rendere inutile la rivoluzione e predicatori della rivoluzione che dovrebbe dimostrare l’inutilità delle riforme. Il dibattito, quasi negli stessi termini, è stato rinnovato a proposito della interpretazione della Rivoluzione d’ottobre: da un lato, la tesi menscevica della rivoluzione prematura che, pretendendo di accelerare la trasformazione, in realtà l’arresta e la dirige verso obiettivi che finiscono per diventare oggettivamente controrivoluzionari. Dall’altro, la tesi bolscevica circa la necessità della conquista totale del potere da parte del partito rivoluzionario allo scopo d’impedire il riflusso controrivoluzionario inevitabile là dove la vecchia classe dominante non venga sgominata. In sintesi, si tratta del perenne contrasto fra riformisti e rivoluzionari: la rivoluzione inutile, anzi dannosa, perché bastano le riforme; la rivoluzione necessaria anzi benefica, perché le riforme sono inefficaci.
I termini attuali.
Se è vero che il grande tema del contrasto tra riforme e rivoluzione, nato con la contrapposizione tra età delle riforme e Rivoluzione francese, è stato ripreso nell’ambito del movimento operaio, è anche vero che i termini non sono rimasti gli stessi. Sono stati, si potrebbe dire, radicalizzati.
Le riforme dei princip settecenteschi erano rivolte in modo particolare al miglioramento dell’apparato statale. Erano riforme, come oggi si potrebbe dire, amministrative piú che politiche, o politiche piú che sociali, di politica economica piú che di politica sociale: riforma fiscale, istituzione dei catasti, abolizione dei dazi e delle dogane, regolazione del credito e delle usure, politica annonaria, costruzione di ponti e strade, riforma penale, lotta contro i privilegi del clero, provvedimenti per favorire la circolazione delle merci e lo sviluppo del commercio. Con una formula ricorrente negli scritti dei riformatori, l’obiettivo principale delle riforme era la correzione degli «abusi», era quindi piú negativo che positivo. Questi abusi, fossero derivati da antichi pregiudizi duri a morire oppure da vecchie istituzioni che avevano consolidato privilegi ormai diventati anacronistici, potevano essere eliminati soltanto dallo sviluppo della scienza applicata allo studio delle società umane, dalla diffusione dei lumi, in una parola dal trionfo della ragione. Per promuovere una politica delle riforme concepite in questo modo, non era necessario il concorso dei sudditi, di coloro che di queste riforme avrebbero dovuto essere i beneficiari. Bastavano i principi, purché fossero illuminati dai dotti che andavano scoprendo il segreto della prosperità e della felicità dei popoli. Lo strumento principale per introdurre i miglioramenti proposti dal cosiddetto «partito delle riforme» era la legislazione, di cui il principe coi suoi consiglieri era il solo interprete e creatore. L’età delle riforme è anche l’età del dispotismo illuminato. Lo strumento di controllo e di direzione sociale è per eccellenza la legge, uno strumento che sarà deriso dai riformatori sociali del secolo successivo, da Saint-Simon a Marx, a Engels. I dotti studiavano la storia delle società umane per cogliervi «lo spirito delle leggi», e per trarne le linee di quella scienza sociale sovrana che era la «scienza della legislazione».
Diversamente, il riformismo del movimento operaio mira non tanto a correggere gli abusi di un potere intoccabile nella sua sostanza e irraggiungibile nella sua altezza, quanto a trasformare i rapporti di potere esistenti. Alle riforme dall’alto, concessioni del principe istruito dai philosophes, contrappone le riforme strappate dalla lotta promossa dalle grandi organizzazioni del movimento, i sindacati e i partiti. Almeno in un primo tempo non disdegna lo strumento legislativo, donde nasce la legislazione sociale, ma non lo ritiene di per se stesso sufficiente e vi contrappone e sovrappone la negoziazione che deve svolgersi e continuamente rinnovarsi fra le proprie organizzazioni e i poteri dello stato allo scopo di ottenere direttamente sempre piú ampi miglioramenti economici e sociali. Le richieste di mutamento riguardano non tanto la trasformazione dell’apparato statale che ormai gli stati moderni hanno condotto a compimento quanto la trasformazione dei rapporti fra stato e cittadini, fra il potere statale e la sua base sociale. Si tratta dunque di un riformismo che non agisce all’interno dello stato e dei suoi apparati ma muove dalla società verso lo stato ed esprime richieste che partendo dalla società civile considerano lo stato soltanto come uno strumento della loro soddisfazione.
Anche per quel che riguarda il concetto di rivoluzione il tema si è allargato, approfondito, e, come si è detto, radicalizzato. Che la Rivoluzione francese, considerata come la rivoluzione del terzo stato, sia stata, per lo stesso Marx e per lo stesso Engels, il modello della rivoluzione del quarto stato, è ben noto. Ma già Marx aveva rilevato che la Rivoluzione francese era stata una rivoluzione incompiuta, perché aveva avuto per effetto l’emancipazione politica del cittadino, ma non anche l’emancipazione dell’uomo, onde era rimasta, all’ombra dell’uguaglianza puramente formale dei cittadini in quanto tali, tutta la somma delle disuguaglianze di classe, fra detentori dei mezzi di produzione e possessori della sola forza-lavoro, fra borghesi e proletari, cioè la disuguaglianza sostanziale. Di fronte al grande moto di liberazione partito dalla Francia e diffusosi rapidamente in tutta l’Europa, che era rivoluzione sí ma parziale, la rivoluzione proletaria sarebbe stata la rivoluzione totale e in quanto tale definitiva, liberazione non di una sola classe soltanto ma di tutte le classi esistite ed esistenti dalla società divisa in classi. Mentre la Rivoluzione francese era pur sempre stata un passaggio da una forma di organizzazione politica fondata sul predominio di una classe a una forma di organizzazione politica fondata sul predominio di un’altra classe, la rivoluzione comunista avrebbe avviato l’umanità ad uscire definitivamente dal dominio di classe, e quindi da ogni forma di organizzazione politica. Sarebbe stata l’ultima rivoluzione.
Mutamento e progresso.
Nonostante la loro contrapposizione rispetto al metodo, la strategia delle riforme e quella della rivoluzione sono entrambe figlie di una concezione della storia intesa come mutamento e come progresso. Il che può spiegare perché, pur divise fra loro, abbiano avuto spesso gli stessi avversari. La concezione della storia come mutamento si contrapponeva alla concezione statica che i filosofi europei, sia nel Settecento (Montesquieu) sia nell’Ottocento (Hegel e anche Marx), attribuivano ai popoli dell’Oriente. Il prodotto tipico di una concezione statica della storia era la figura del dispotismo orientale, considerato come il regime politico adatto a una società senza movimento. La concezione della storia come progresso, invece, si contrapponeva alla concezione regressiva della storia, propria degli antichi, per i quali il processo storico era interrotto da continui mutamenti non dal bene in meglio (secondo l’idea ispiratrice della storia come progresso infinito), ma dal male in peggio (Platone), e comunque era non continuo ma ciclico (Polibio). L’origine della concezione progressiva della storia è ebraica e cristiana, ma nell’età moderna era stata rafforzata e quasi esaltata dalla rivoluzione scientifica, dalle invenzioni tecniche che ne erano seguite, dalle scoperte geografiche, che avevano aperto nuove speranze all’affermarsi del regnum hominis. Tanto in una concezione statica quanto in una concezione regressiva della storia il mutamento viene giudicato come un male. Nel primo caso, infatti, il bene è la stabilità, nel secondo, il mutamento, pur fatale e necessario essendo tutte le cose della natura e quindi anche dell’uomo soggette ad alterazione, è pur sempre una corruzione della forma originaria: secondo il mito esiodeo ripreso da Platone, l’umanità era passata successivamente dalla razza d’oro a quella d’argento, poi a quella di bronzo e infine a quella di ferro.
Tanto la strategia delle riforme quanto quella della rivoluzione nascono invece in un contesto storico in cui, se pure in diversa maniera, la concezione della storia è dominata dall’idea della bontà del movimento e della inevitabilità del progresso. Si distinguono peraltro per il diverso modo con cui concepiscono il primo e interpretano il secondo.
Dietro al riformismo sta una concezione evolutiva della storia, l’idea che la storia come la natura non facit saltus, e il progresso è il prodotto cumulativo di piccoli, forse anche impercettibili, mutamenti. Tale concezione fu comune tanto agli illuministi che vedevano diradarsi le ombre del passato via via che il sole della ragione rischiarava spazi sempre piú vasti del cosmo, quanto ai positivisti che vedevano l’umanità, uscita dai due stadi dell’età teologica e dell’età metafisica, avviata fiduciosamente e inarrestabilmente verso l’età della scienza. Dietro ai movimenti rivoluzionari sta una concezione progressiva, sí, della storia, ma insieme dialettica, ove per dialettica s’intenda, in uno dei suoi tanti significati, un procedere, sia della realtà oggettiva sia della nostra conoscenza sulla realtà, per successione di momenti positivi e negativi. I primi rivoluzionari, i giacobini, e sulla loro scia i primi fautori della rivoluzione sociale intesa come opera del dispotismo (anche terroristico) di un pugno di uomini illuminati, erano ancora dei riformatori, se pure piú conseguenti, eredi essi stessi dell’idea illuministica della riforma dall’alto attraverso leggi semplici, rigorose e inesorabili: il loro maestro era Rousseau che aveva visto nel legislatore colui che è chiamato a cambiare attraverso la riforma della società addirittura la natura dell’uomo, e nella volontà generale l’organo della creazione delle leggi che una volta poste diventano, come nello stato piú assoluto, indiscutibili e irresistibili. Solo con Marx viene meno il mito classico del legislatore che, sia esso l’uomo della storia universale, come lo avrebbe chiamato Hegel, o s’identifichi nella volontà generale del popolo costituitosi in repubblica, assoluta, inalienabile e infallibile, è destinato a correggere i costumi corrotti, ad abolire le leggi ingiuste, a mettere sul trono la ragione al posto della tradizione dei padri, il calcolo della giustizia al posto dell’arbitrio del piú forte o del caso. Per Marx, che non ha soltanto «civettato» con la filosofia di Hegel, ma ne è stato profondamente influenzato, il passaggio da una fase all’altra della storia dell’umanità, da una forma di produzione all’altra, non avviene se non attraverso crisi determinate da contraddizioni insanabili fra le forze produttive e i rapporti di produzione, da contraddizioni tali che il loro scioglimento produce un vero e proprio salto qualitativo, e richiede da parte del movimento storico che è protagonista del mutamento un processo rivoluzionario. Secondo questo modo di intendere la storia, il processo storico non avviene per successivi accrescimenti ma per accrescimenti che contengono già in sé i germi della dissoluzione, per affermazioni non graduali e contigue, ma continuamente alternate a negazioni, che rappresentano il passaggio obbligato per le successive affermazioni.
Il problema della legalità.
Rispetto al modo di procedere per ottenere il risultato voluto, strategia delle riforme e strategia rivoluzionaria si distinguono in base al diverso atteggiamento di fronte al principio di legalità. Da questo carattere distintivo ne discendono altri due: la gradualità del cambiamento mediante riforme contrapposta alla simultaneità del cambiamento prodotto da chi prende il potere rivoluzionariamente, e la parzialità dei mutamenti introdotti da riforme che si susseguono contrapposta alla globalità del mutamento rivoluzionario. Questi tratti distintivi si possono riassumere in tre coppie di opposti: legalità-illegalità, gradualità-simultaneità, parzialità-globalità, del mutamento. Ma delle tre la piú importante e decisiva è la prima.
Il riformista è, proprio in quanto riformista, un legalitario, perché ritiene che i mutamenti debbano essere introdotti rispettando le regole del gioco, che sono poi le norme fondamentali o costituzionali, scritte o non scritte, fra le quali non può mancare la cosiddetta «norma di mutamento», ossia la norma che prevede chi, o quale organo, sia autorizzato a modificare le norme dell’ordinamento. Quando il titolare del potere di mutare le norme dell’ordinamento era il principe, era emersa nell’età delle riforme, come si è detto, la figura del principe riformatore. Il riformismo operaio è cresciuto nell’età dei regimi parlamentari, vale a dire di quei regimi in cui il principale titolare del potere di mutare le norme vigenti è il parlamento. Di qua la caratteristica dei partiti riformisti che è stata chiamata «parlamentarismo» e dagli avversari bollata spesso con l’epiteto di «opportunismo»: vale a dire una politica tendente alla conquista della maggioranza in parlamento che permetta di esercitare quel potere che del parlamento è proprio ed esclusivo allo scopo di provocare un processo cumulativo di mutamenti in favore della classe operaia.
La ragione per cui il rivoluzionario non è un legalitario, o per lo meno non lo è mai in ultima istanza, e si contrappone talora anche duramente al legalitarismo riformista, dipende dal fatto che, una volta postosi il fine di mutare non questa o quella norma dell’ordinamento ma tutto intero l’ordinamento (dal punto di vista giuridico, la rivoluzione è l’instaurazione di un nuovo ordinamento), sa benissimo che questo mutamento non può avvenire rispettando le regole del gioco, fra le quali, esplicita o implicita, c’è sempre la regola che proibisce di mutare l’ordinamento nel suo complesso, e in base alla quale l’ordinamento nel suo complesso non può essere mutato se non da chi si pone al di fuori dell’ordinamento. Anche da questo punto di vista è molto istruttiva la questione del «movimento» e del «fine», provocata da Bernstein, cui si è già accennato. Si capisce che il riformista privilegia il movimento sul fine perché, proprio a causa della strategia prescelta, che è la strategia legalitaria, non può offrire alcuna garanzia che il fine ultimo sia raggiunto, giacché il fine ultimo per un socialista dovrebbe essere la società socialista, cioè una società non solo parzialmente ma anche globalmente diversa dalla società capitalistica. Il rivoluzionario, al contrario, non perdendo mai di vista il fine, che è l’uscita dal sistema capitalistico, subordina la scelta del movimento al raggiungimento del fine.
Il rifiuto del riformismo era già stato espresso in modo nettissimo sotto forma di critica al socialismo borghese da Marx nel Manifesto, là dove aveva scritto che questo socialismo «cerca di far passare alla classe operaia la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, argomentando che le potrebbe essere utile non l’uno o l’altro cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali di esistenza», e aveva precisato che «questo socialismo non intende affatto […] l’abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro» 7. Incisivamente, Rosa Luxemburg, nella famosa polemica con Bernstein, aveva scritto che «riforma legale e rivoluzione non sono metodi diversi di progresso storico che si possano scegliere a piacere nel buffet della storia come würtschen caldi o würtschen freddi, ma momenti diversi nell’evoluzione della società di classe, che si condizionano e si completano e nello stesso tempo tuttavia si escludono reciprocamente, come ad esempio polo sud e polo nord, come borghese e proletariato», per concludere che è «fondamentalmente falso e assolutamente antistorico rappresentarsi il lavoro legale di riforma soltanto come una rivoluzione tirata per le lunghe, e la rivoluzione come la riforma concentrata. Sovvertimento sociale e riforma legale sono momenti diversi non di durata ma di essenza» 8. L’antitesi fra l’atteggiamento legalitario e l’atteggiamento contrario è marcata fortemente da Lenin che scrive, una citazione fra tante, in polemica con Kautsky: «La dittatura rivoluzionaria del proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da alcuna legge» 9.
Che il criterio fondamentale di distinzione fra l’evoluzione mediante le riforme e rottura rivoluzionaria sia da cercare nel rispetto o nella violazione del principio di legalità, può essere confermato dalla discussione svoltasi negli ultimi anni sopra le rivoluzioni scientifiche. L’autore che ha creduto di poter dimostrare che il progresso della scienza avviene non secondo il modello dell’accrescimento cumulativo, che è il modello dei riformatori sociali, ma secondo il modello della rottura del sistema precedente e della sostituzione di un sistema o paradigma a un altro, che è il modello dei rivoluzionari, Thomas S. Kuhn, ha abbozzato un suggestivo confronto fra rivoluzione scientifica e rivoluzione sociale, sostenendo che allo stesso modo che «le rivoluzioni politiche mirano a mutare le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni», cosí le rivoluzioni scientifiche mirano alla sostituzione di un paradigma ad un altro, sostituzione che implicando la scelta di un nuovo sistema incompatibile col precedente «non può essere determinata esclusivamente dai procedimenti di valutazione propri della scienza normale, poiché questi dipendono in parte da un particolare paradigma, e questo è ciò che viene messo in discussione» 10. Ciò significa in altre parole che il passaggio da un sistema all’altro non può avvenire utilizzando le regole proprie del sistema precedente, le quali permettono nella migliore delle ipotesi l’evoluzione del sistema ma non il cambiamento del sistema. Non si tratta naturalmente di giudicare se la tesi che lo sviluppo della scienza avvenga per evoluzione o per rivoluzione sia giusta. Qui importa rilevare che, se una corrispondenza si può stabilire fra sistema sociale e sistema scientifico rispetto ai possibili diversi modi del loro mutamento, questa corrispondenza passa attraverso la differenza tra mutamenti legali e mutamenti extralegali, fra accettazione e rifiuto del principio di legalità.
Il problema della violenza.
Al problema della legalità è strettamente connesso per antitesi quello della violenza. Al legalitarismo riformista, che i suoi fautori identificano con la cosiddetta «via pacifica al socialismo», si suole contrapporre la violenza rivoluzionaria. Anche senza ricorrere alla citazione marxiana d’obbligo, secondo cui la violenza è l’ostetrica della storia, è un dato di fatto incontestabile che tutte le rivoluzioni, o, piú precisamente, tutti i fatti storici che si fanno rientrare nella categoria delle rivoluzioni, sono caratterizzati da periodi piú o meno lunghi di azioni collettive violente. Chiunque intenda studiare il fenomeno della rivoluzione non può non paragonarla alla guerra. Tanto è vero che prima della Rivoluzione francese, cioè prima che si formasse il mito della rivoluzione come violenza non distruttiva ma creatrice, e prima che il mutamento radicale, anche violento, dell’ordine costituito fosse idealizzato come una nuova fase nella storia progressiva dell’umanità, il passaggio da un ordinamento all’altro attraverso un periodo di scontri violenti tra opposte fazioni era considerato come una specie del genere guerra, cioè come guerra civile o interna o intestina, contrapposta alla guerra esterna o internazionale. Ancora la rivoluzione inglese del Seicento, che la storiografia rivoluzionaria ha cominciato a interpretare come una vera e propria rivoluzione, paragonandola alla Rivoluzione francese, anzi come la prima rivoluzione borghese (e certamente fu interpretata in questo senso da Marx e da Engels), fu vissuta e interpretata dai contemporanei come una guerra civile, e addirittura dagli storici conservatori come la «grande ribellione» (great rebellion). L’avvenimento che i contemporanei chiamarono rivoluzione, anzi la «gloriosa» rivoluzione, fu il «mutamento», svoltosi quasi senza violenza, che segnò il passaggio dall’assolutismo degli Stuart alla monarchia costituzionale di Guglielmo d’Orange. Un grande storico inglese, il Trevelyan, ha scritto: «La vera “gloria” della rivoluzione non sta nel fatto che per il suo successo non fu quasi necessaria la violenza, ma nel modo che il “regime rivoluzionario” escogitò per le future generazioni inglesi, di fare a meno della violenza» 11. Ebbene, quando è già scoppiata la rivoluzione cruenta dei sanculotti, Condorcet, che ne sarà una delle tante vittime, esponendo alcune sue Réfléxions sur la révolution de 1688 et sur celle du 10 Août 1792, paragona lo stato presente non con la lunga lotta del parlamento inglese contro la monarchia che culmina nella decapitazione del re, come avrebbero fatto Marx ed Engels, ma con la pacifica presa del potere da parte di un re costituzionale, e riferendosi al torbido passato, spiega che il popolo inglese era ancora malcontento della «guerra civile» 12.
La verità è che di rivoluzioni politiche nel senso che il termine rivoluzione avrà dopo la Rivoluzione francese, nel senso rousseauiano e quindi giacobino di creazione di un ordine nuovo e addirittura dell’uomo nuovo, in altri termini di una rivoluzione che fosse non soltanto religiosa ma anche politica, non vi erano precedenti nella storia. Il cristianesimo, che pur diede esca a movimenti che oggi faremmo rientrare in quella categoria di eventi che uno studioso ha chiamato recentemente «fenomeni rivoluzionari» 13, era stata una rivoluzione, sí, ma religiosa. Per converso, la piú grande trasformazione politica del mondo antico, il passaggio dalla repubblica al principato in Roma, era stata la conseguenza di un lungo, travagliatissimo, e generalmente esecrato, bellum civile.
Del resto il confronto fra la rivoluzione e la guerra è perfettamente legittimo perché la rivoluzione è, come la guerra, l’unico modo di risolvere un conflitto quando non c’è, o se c’è vien meno, il dominio di una legge superiore ad entrambi i contendenti.
Nella guerra propriamente detta, ovvero nella guerra pubblica che i primi interpreti del diritto internazionale considerano come la sola legittima, i gruppi in conflitto sono gli stati sovrani che non riconoscono alcuna legge positiva al di sopra di sé. Nella rivoluzione, interpretabile come una guerra privata, non regolata dal diritto internazionale, i gruppi in conflitto sono opposti partiti che si comportano reciprocamente come stati sovrani in nuce, in quanto tendono a diventare lo stato futuro ad esclusione dell’altro e ripongono nell’esito favorevole della guerra il fondamento della loro legittimità. Lo stato vincitore della guerra esterna avrà il diritto di stabilire il nuovo ordine internazionale; il partito vincitore avrà il diritto di stabilire il nuovo ordinamento interno.
Sebbene tutte le rivoluzioni politiche e sociali sinora avvenute siano state condotte con la violenza, il tema della violenza non è però discriminante, se si considera la rivoluzione come effetto e non soltanto come causa. Non si può negare che la strategia delle riforme non abbia mai sinora prodotto quegli effetti dirompenti, quei mutamenti radicali, che vengono considerati come il fine ultimo del movimento. Ma non si può d’altra parte disconoscere che il mutamento radicale può dipendere sia dallo sviluppo di condizioni oggettive che sinora non si sono verificate e che certamente non si erano verificate in tutti i paesi in cui sono avvenute sinora le rivoluzioni socialiste, sia dal perfezionamento del metodo democratico, che è il metodo proprio dei riformatori, soprattutto nella direzione delle cosiddette tecniche della non violenza, dallo sciopero già ampiamente praticato dal movimento operaio, alla disobbedienza civile, che consentirebbero una maggiore efficacia dell’azione rivendicativa senza fare alcuna concessione alle pratiche tradizionali, e giudicate sino ad oggi inevitabili, della violenza individuale e collettiva, che vanno dall’attentato terroristico all’azione di guerriglia, infine alla organizzazione di un vero e proprio esercito rivoluzionario.
Proprio perché il metodo della violenza non è discriminante, il superamento dell’alternativa riforme o rivoluzione, che ha diviso sinora il movimento operaio potrà avvenire soltanto quando si possa provare nei fatti (condizioni obiettive particolarmente favorevoli) e coi fatti (sviluppo delle tecniche non violente) che la rivoluzione come effetto è possibile senza che sia necessario il ricorso alla rivoluzione come causa, cioè alla rivoluzione intesa come rottura violenta della legalità, e si risolva l’antinomia, sinora storicamente accertata, fra la strategia pacifica ma inefficace dei riformisti e quella efficace ma bellicosa dei rivoluzionari.
Partito e sindacato.
Il contrasto fra riforme e rivoluzione, una volta risolto in contrasto di strategie, non può non ripercuotersi sulla diversa organizzazione che il movimento operaio si è dato secondo la prevalenza dell’una o dell’altra. In una società complessa, articolata, antagonistica, come la società moderna industriale, le due organizzazioni caratteristiche del movimento operaio, come del resto di ogni gruppo che intende difendere i propri interessi nella competizione politica, sono il sindacato e il partito.
Per quanto sia esistito un sindacalismo rivoluzionario, peraltro piú come dottrina e conseguente battaglia di idee che non come prassi risolutiva, si può dire in generale che la strategia del sindacato è prevalentemente di tipo riformistico, mentre, nonostante l’esistenza di partiti operai riformisti, la strategia rivoluzionaria non può essere praticata se non dal partito. Le ragioni di questa differenza dipendono dalla natura e dalla funzione rispettiva dei due organismi, il primo, associazione di persone che appartengono alla stessa categoria di lavoro, l’altro associazione di persone che condividono obiettivi comuni, i cosiddetti interessi collettivi o nazionali, il primo predisposto alla tutela degli interessi prevalentemente economici degli appartenenti alla categoria, l’altro al raggiungimento di fini generali. Cosí distinti, sindacato e partito possono anche sovrapporsi e contrapporsi, ma generalmente agiscono secondo un principio non codificato ma ugualmente operante di divisione del lavoro, se pure piú netto là dove non esiste un partito operaio come negli Stati Uniti, meno netto dove il partito operaio esiste o ne esiste piú d’uno.
Data la tendenza ad agire nell’ambito limitato delle rivendicazioni economiche proprie del sindacato, il rapporto fra sindacato e partito è inverso secondo che il partito operaio dominante sia riformista o rivoluzionario: mentre il partito riformista è subordinato al sindacato, e ne è in qualche modo il portavoce in sede politica, il sindacato è subordinato al partito rivoluzionario sino a scomparire del tutto o per lo meno a perdere una funzione propulsiva nei regimi in cui il partito rivoluzionario ha preso il potere. Anche a questo proposito si possono indicare come due casi estremi il caso del Partito laburista inglese e quello del partito leninista. Il Partito laburista è nato come organizzazione elettorale delle trade unions, cioè dei sindacati, e di altre associazioni che condividevano il fine della riforma della società in senso piú o meno vagamente socialista, e ha sempre mantenuto un rapporto strettissimo con le sue associazioni di base. Il partito leninista, di cui Lenin ha tracciato le linee programmatiche e organizzative nell’opuscolo Che fare?, si è sin dall’inizio contraddistinto come organizzazione distinta da quella del sindacato, e in un certo senso persino antagonistica ad esso, sia per gli scopi (la conquista del potere e la trasformazione della società in senso socialista), sia per la composizione e la struttura (i rivoluzionari di professione, il centralismo democratico, ecc.). Piú complesso, e anche piú difficile da definire questo rapporto nei grandi partiti operai, come il Partito socialdemocratico tedesco durante il periodo della Seconda internazionale, o il Partito socialista italiano sino all’avvento del fascismo, in partiti cioè, nei quali hanno sempre convissuto le cosiddette due «anime» del socialismo, quella rivoluzionaria e quella riformistica, che si sono istituzionalmente rivelate nella continua contrapposizione fra il programma massimo e il programma minimo, il primo piú avanzato rispetto alle rivendicazioni puramente economiche della classe che si organizza in fabbrica, il secondo piú vicino alle richieste di tipo economico-corporativo. La strategia del partito riformista è come quella del sindacato una strategia che conta sulla trattativa e sulla negoziazione; quella del partito rivoluzionario mira invece in ultima istanza allo scontro frontale e alla conquista irreversibile del potere politico da parte del movimento.
Mutamento e stabilità.
Riforme e rivoluzione sono, come si è detto, strategie che si ispirano entrambe all’idea della bontà del mutamento. Vi si contrappongono altrettante strategie che partono dal principio opposto, cioè dalla preferibilità della stabilità sul mutamento, e che si potrebbero chiamare del non mutamento o del contromutamento. Come vi sono due strategie del mutamento, cosí vi sono due strategie corrispondenti della stabilità, che, come le prime, sono in parte alternative, in parte complementari. Alla politica delle riforme corrisponde il conservatorismo, alla politica rivoluzionaria quella controrivoluzionaria. Il conservatore sta al riformista come il controrivoluzionario sta al rivoluzionario. Tra conservazione e controrivoluzione c’è piú o meno lo stesso rapporto che c’è fra riformismo e rivoluzionarismo. Il conservatorismo è una difesa legale degli interessi costituiti contro la loro erosione da parte dei riformatori. La strategia controrivoluzionaria consiste essenzialmente nel ricorso alla rottura preventiva del patto sociale, e quindi in una serie di azioni extralegali per impedire che il processo delle riforme avanzi. Anche rispetto all’uso della violenza corre la stessa differenza: la difesa del conservatore è istituzionale, quella del controrivoluzionario è fondata sull’uso indiscriminato della violenza, è una risposta violenta alla violenza presunta o reale dell’avversario.
Tanto il conservatore quanto il controrivoluzionario difendono interessi costituiti, che sono minacciati dall’avanzata del movimento operaio. In questo senso possono dirsi entrambi fautori della stabilità contro il mutamento. Ma li difendono in modo diverso, che corrisponde del resto al diverso modo con cui riformatori e rivoluzionari predicano e tendono ad attuare il mutamento. Diverso sia rispetto agli argomenti addotti, le «derivazioni» in senso paretiano, per respingere le richieste dell’avversario, sia rispetto alla prassi messa in atto per sconfiggerlo.
Quanto agli argomenti, il conservatore è capzioso, meno drastico, piú comprensivo anche se non meno inflessibile. Non rifiuta per principio le riforme ma sostiene di solito che: a) i tempi non sono ancora maturi, e pertanto le riforme invocate sono da rinviare a tempi piú propizi, quando le masse saranno piú educate, i costumi piú raffinati, ecc.; b) la società è un sistema costituito da diverse forze in equilibrio instabile, che deve essere trattato con grande delicatezza e senso della discrezione, e pertanto meno viene modificato e meglio funziona. Il controrivoluzionario invece è convinto che i tempi della corruzione sono già venuti e che non bisogna aspettare oltre se non si vuole che sia troppo tardi per impedire la disgregazione della società; l’equilibrio è già rotto, tutto in favore dei sovvertitori, ed occorre ristabilire con urgenza e fermezza l’equilibrio precedente.
Quanto alla prassi, il conservatore ricorre ad alcuni espedienti collaudati con cui le classi politiche al potere riescono a mantenere il proprio dominio nonostante la presenza di un movimento riformatore: la tergiversazione col conseguente rinvio dei provvedimenti richiesti a tempi migliori; la discriminazione tra riforme che incidono e riforme che non incidono o incidono pochissimo (e che rappresentano un contentino), e naturalmente la concessione di queste ultime per giustificare il rifiuto delle altre; lo svuotamento graduale delle riforme concesse o strappate mediante l’inesecuzione. La controrivoluzione è la risposta violenta alla violenza anche soltanto minacciata dell’avversario: in quanto risposta violenta anticipata, la controrivoluzione può essere preventiva, ma comunque, preventiva o successiva, si presenta come la sovversione della sovversione e quindi, a differenza della conservazione che arresta il mutamento e cerca di non lasciarlo giungere al punto di rottura, come il ristabilimento di un ordine sconvolto.
Esempi? Non li andrei a cercare molto lontano. La recente storia d’Italia ce li ha messi entrambi sotto gli occhi con una pedanteria quasi da manuale scolastico e senza fantasia. Il regime fascista è stato un tipico regime controrivoluzionario: ha reagito con la violenza delle squadre d’azione protette dallo stato alla rivoluzione piú minacciata che praticata dall’ala sinistra, massimalista, del movimento operaio; e ha imposto con la violenza un regime che ha restaurato i valori dell’ordine contro la libertà, della gerarchia contro l’uguaglianza, della nazione contro l’internazionalismo. Il regime democristiano è stato un tipico esempio di conservazione: rimanendo entro i limiti del patto costituzionale, salvo qualche tentativo rintuzzato di eluderlo, ha opposto alla richiesta di riforme incisive il metodo del rinvio, dello svuotamento, dell’inefficienza amministrativa. Quando il movimento operaio ha imboccato la via della rivoluzione, l’ha trovata sbarrata dalla controrivoluzione; quando ha imboccato quella delle riforme, da una prassi conservatrice.
Con questo non si vuol dimostrare che esista una corrispondenza perfetta fra riforme e conservazione, da un lato, fra rivoluzione e controrivoluzione, dall’altro. Vi sono piú cose nella storia dei rapporti fra gli uomini di quelle che riusciamo a racchiudere nelle nostre categorie e nelle possibili combinazioni di queste categorie. Talora la controrivoluzione preventiva è una risposta a una politica delle riforme giudicata dall’avversario troppo ardita, com’è accaduto in Cile; molto spesso la rivoluzione è stata la risposta a un regime di conservazione sociale, tanto inetto e incapace del minimo moto di sviluppo da rendere vana e inefficace ogni politica di riforme. Le due grandi rivoluzioni del mondo moderno, la francese e la russa, sono un esempio di questa connessione: la rottura rivoluzionaria come conseguenza inevitabile della mancata dialettica tra conservazione e riforme. E, come tutti gli esempi storici, anche, per chi sappia trarne la lezione, un ammonimento.
II.
LA RIVOLUZIONE TRA MOVIMENTO E MUTAMENTO.
1. Tra i vari punti di vista da cui si può considerare il tema della rivoluzione vi è quello semantico, ovvero del significato o dei significati della parola. Su questo aspetto specifico del problema vi è ormai un’ampia letteratura. Anzi, si può dire che non vi è scritto sulla rivoluzione che non incominci con qualche osservazione riguardante la storia e l’uso della parola 14.
Come tutte le parole del linguaggio delle scienze, anche «rivoluzione» ha un significato descrittivo, per cui essa indica uno stato di cose, e uno valutativo, in quanto indica uno stato di cose che può suscitare approvazione o disapprovazione. Nell’uso comune della parola i due significati sono generalmente presenti entrambi. Prendiamo due frasi storiche la cui citazione è di rito in ogni scritto sull’argomento, di cui una apre, l’altra chiude il ciclo della Rivoluzione francese: «No, sire, – dice il duca di Rochefoucault a Luigi XVI – non è una rivolta ma una rivoluzione», e «La rivoluzione è finita», come disse Napoleone dopo il colpo di stato nel discorso del 15 dicembre 1799. In tutte e due le frasi, la parola «rivoluzione» designa un avvenimento storico, un fatto, che ha certe caratteristiche, per cui si distingue da un altro fatto (la «rivolta», ad esempio), ma insieme contiene un giudizio sul fatto, tale da provocare in chi ascolta una reazione emotiva. Ciò non toglie che nel linguaggio scientifico i due significati vengano accuratamente distinti, e le definizioni che si dànno della parola siano, o cerchino di essere, meramente descrittive, o assiologicamente neutrali, non includendo alcun termine che le possa trasformare in definizioni persuasive (o, inversamente, dissuasive), di cui un classico esempio è la frase di Robespierre: «La rivoluzione non è che il passaggio dal regno del delitto al regno della giustizia» (nel discorso del 7 maggio 1794).
Non è certo il caso di avventurarsi nella selva delle definizioni, già del resto ampiamente esplorata. Ma una volta accertato che nel linguaggio politico «rivoluzione» ha un significato diverso da quello originario proprio del linguaggio astronomico, di movimento non ciclico ma progressivo, che evoca l’immagine non di un «ritorno» ma di una «marcia in avanti» 15, non ci si è soffermati abbastanza sul fatto che nel linguaggio politico «rivoluzione» sta a significare, diversamente dal linguaggio scientifico tradizionale, non solo un tipo di movimento, ma anche, e soprattutto, un tipo di mutamento, ovvero due eventi che stanno fra di loro nel rapporto di causa, il movimento, e di effetto, il mutamento (o di mezzo e fine). Che una stessa parola serva a designare la causa e l’effetto, è una proprietà tanto frequente e nota da essere classificata tra le figure retoriche piú note (sineddoche). Che la parola «rivoluzione» sia usata quasi sempre, promiscuamente, indifferentemente e inconsapevolmente, per un certo tipo di causa che provoca un certo tipo di mutamento, e/o per un certo tipo di effetto prodotto da un certo tipo di movimento, non è mai stato, a mia conoscenza, chiaramente rilevato.
Considero due definizioni, una presa da un classico dizionario, l’altra da uno dei piú autorevoli studiosi di politica. Nel Dizionario dei sinonimi di Niccolò Tommaseo, si legge che la rivoluzione è una «manifestazione rumorosa della volontà della nazione intera, o di parte di quella, a fine di mutare in tutto o in parte gli ordinamenti sociali» 16; Carl J. Friedrich definisce la rivoluzione «improvviso e violento rovesciamento di un ordine politico stabilito» 17. In entrambe le definizioni, pur nella loro brevità, la determinazione del significato di rivoluzione avviene attraverso la indicazione prevalente, sia di un movimento («manifestazione rumorosa» e «improvviso e violento rovesciamento»), sia di un mutamento («mutare in tutto o in parte gli ordinamenti sociali» e «rovesciamento di un ordine politico stabilito»). Le due definizioni possono essere interpretate come definizioni nel senso classico della parola, per genus proximum (il movimento) e differentia specifica (il mutamento), ovvero come una specie di movimento («rumoroso», «improvviso», «violento») che si distingue da altri movimenti analoghi, come potrebbe essere una rivolta o un’insurrezione o una ribellione, per il tipo di mutamento che produce (degli «ordinamenti sociali» o «dell’ordine politico stabilito»). Però il rapporto potrebbe essere invertito: la rivoluzione allora sarebbe un grande mutamento, o dell’ordine sociale o dell’ordine politico, che si differenzia da altre specie di grandi mutamenti perché avviene, anziché, poniamo, attraverso un lungo processo storico, violentemente e subitamente. Non diverso risultato si ottiene se si adotta, anziché il modo classico di definire la definizione, quello proprio della logica moderna, attraverso i due elementi della connotazione o intensione e della denotazione o estensione. Secondo il diverso punto di vista da cui ci si mette, il movimento violento e subitaneo può figurare come l’estensione del concetto di cui il mutamento radicale o rovesciamento costituisce l’intensione, oppure, viceversa, il mutamento radicale o rovesciamento può figurare come l’estensione entro cui viene circoscritto il mutamento prodotto da un movimento violento e subitaneo 18.
Mentre per una definizione corretta di «rivoluzione» bisogna tener conto sia del tipo di movimento sia del tipo di mutamento, molto spesso sia le definizioni sia le considerazioni generali sul fenomeno «rivoluzione» prendono in esame solo l’uno o l’altro, soprattutto il secondo trascurando il primo. Cosí Jean Baechler definisce la rivoluzione come ogni forma di «remise en question dell’ordine sociale» 19, dove il fenomeno rivoluzionario è visto come mutamento, cioè come effetto di una causa non precisata. Quando Johann Galtung definisce la rivoluzione come «cambiamento di fondo nella struttura sociale, il quale avviene in un breve periodo di tempo» 20, mette in particolare rilievo l’elemento del mutamento, limitandosi a indicare il movimento come breve, vale a dire con un elemento che, trascurando altre comuni caratteristiche del movimento rivoluzionario come «violento» e «dal basso», mostra la maggiore importanza che l’autore dà alla rivoluzione come mutamento rispetto alla rivoluzione come movimento. Viceversa, una definizione come quella che si legge in A Theory of Revolution di Raymond Tanter e Manus Midlarsky, secondo cui si ha una rivoluzione quando «un gruppo d’insorti sfida illegalmente e/o con l’uso della forza la élite di governo, per occupare i ruoli esistenti nella struttura del potere civile» 21, mette in maggiore evidenza l’aspetto del movimento (di cui indica un soggetto, gli «insorti», e il loro modo di agire, o «illegalmente» o «con l’uso della forza») rispetto all’aspetto del mutamento, indicato restrittivamente come sostituzione della élite al potere – dico restrittivamente, perché la definizione che ne viene fuori sembra piú adatta a designare il colpo di stato.
L’accentuazione, o addirittura, in casi estremi, l’esclusione dell’uno o dell’altro dei due elementi della definizione, sono da mettere in relazione prima di tutto col punto di vista da cui ci si pone per analizzare il fenomeno della rivoluzione. Chi si pone dal punto di vista sociologico tende a mettere l’accento sul movimento, il giurista invece, sul mutamento. Al sociologo la rivoluzione interessa come movimento collettivo, e quindi tenderà ad analizzarla come una delle tante forme di movimenti collettivi, vale a dire come un movimento collettivo caratterizzato dai soggetti che gli dànno vita, dai comportamenti che questi soggetti adottano per ottenere lo scopo, ecc. Non già che l’effetto o lo scopo non vengano presi in considerazione, ma l’attenzione del sociologo è volta prevalentemente all’analisi dell’azione sociale che è causa di quell’effetto o mezzo per quel fine. In From Mobilization to Revolution, Charles Tilly esamina la rivoluzione come caso particolare di azione collettiva, definita come «l’azione comune di individui per interessi comuni», quel particolare caso di azione collettiva nel quale i concorrenti lottano per ottenere il potere politico supremo su una popolazione e alla fine del quale gli sfidanti riescono, almeno entro un certo grado, a sostituire i detentori del potere 22. Anche in questo caso, il rilievo dato al tema del movimento mette in secondo piano il tema del mutamento, di cui si dà una definizione debole, il passaggio da un’élite a un’altra.
Al giurista, al contrario, interessa esclusivamente l’aspetto del mutamento. Per la teoria del diritto la rivoluzione rappresenta il momento della rottura tra un ordinamento e un altro, la fine, che vuol dire giuridicamente invalidità ed inefficacia, del vecchio ordinamento, e il principio del nuovo. In termini kelseniani il cambiamento non di questa o quella norma del sistema, o di un gruppo anche rilevante di norme (ad esempio, la riforma di un intero settore dell’ordinamento, come il diritto di famiglia, o il cambiamento di un codice), ma della norma fondamentale, che è il fondamento di validità del nuovo ordinamento 23. Come sia avvenuto questo mutamento, attraverso quale movimento, è un problema di cui il giurista non si preoccupa. Quanto sia controverso e problematico il rapporto tra il punto di vista del sociologo e quello del giurista nell’analisi del sistema giuridico, è ben noto. Il diverso discorso dell’uno e dell’altro sulla rivoluzione serve bene a segnare nettamente la linea di divisione tra i due punti di vista. Il sociologo s’interroga principalmente sulle ragioni del mutamento; il giurista, sulla natura del mutamento. Quali che siano le ragioni per cui è avvenuto in un determinato momento storico il passaggio da un ordinamento all’altro, per il giurista la rivoluzione è puramente un fatto normativo, vale a dire un fatto che ha la duplice natura di essere insieme estintivo (del vecchio ordinamento) e costitutivo (del nuovo). Di questo fatto il giurista si preoccupa di dare una giustificazione, di trovare il fondamento di legittimità.
2. La chiara consapevolezza che per «rivoluzione» nel significato moderno della parola, almeno dalla Rivoluzione francese in poi, s’intende un determinato tipo di movimento e un determinato tipo di mutamento, è anzitutto il presupposto per dare una buona definizione del termine, che, come si è visto, viene definito ora accentuando il suo carattere di movimento ora il suo carattere di mutamento, in secondo luogo per ordinare la vasta materia del rapporto tra il concetto di rivoluzione e i concetti affini, che comprendono tanto gli eventi che appartengono allo stesso genere dell’evento rivoluzionario rispetto al movimento ma non al mutamento, quanto gli eventi che possono essere assimilati all’evento rivoluzione rispetto al mutamento ma non al movimento.
Rispetto al movimento le definizioni correnti di rivoluzione insistono essenzialmente, come si è visto, sui due caratteri della subitaneità (cui alcuni aggiungono anche la brevità, entrambi caratteri che hanno riguardo alla temporalità dell’evento) e dell’uso della violenza, che ha riguardo alla modalità dell’azione. Si dovrebbe precisare – una precisazione cui sono particolarmente sensibili i giuristi – che la violenza rivoluzionaria è una violenza qualificata entro il sistema politico e giuridico in cui si manifesta come illegittima (non tutte le forme di violenza sono illegittime, per esempio la legittima difesa), ovvero non giustificabile in base alle regole dell’ordinamento. Un carattere essenziale della violenza rivoluzionaria, su cui stranamente la maggior parte delle definizioni sorvolano, è la provenienza dal basso; la violenza rivoluzionaria è una violenza popolare. Questo carattere è essenziale perché una violenza, pur subitanea e illegittima ma proveniente dall’alto, ovvero dalle stesse classi dirigenti, è il carattere proprio del colpo di stato.
Alla distinzione tra rivoluzione e colpo di stato si attaglia bene la contrapposizione, cosí frequente nel linguaggio comune e nello stesso tempo cosí incisiva, tra «piazza» e «palazzo», che permette di aggiungere alla dimensione temporale anche quella spaziale: la rivoluzione si fa in piazza, il colpo di stato dentro al palazzo. Al genere di azione violenta, subitanea, popolare, illegittima, in piazza, appartengono fenomeni come i tumulti, le rivolte, le insurrezioni, le ribellioni – o con quale altro nome si vogliano chiamare e siano chiamati: un nome classico che tradizionalmente tutti li comprende è «sedizioni» –, per distinguere i quali dalla rivoluzione comunemente intesa occorre far capo all’elemento del mutamento. Ciò che distingue la rivoluzione nel senso ora corrente della parola dalla seditio degli antichi e dei moderni è non tanto il tipo di movimento quanto il tipo di mutamento, mentre ciò che distingue la rivoluzione dal colpo di stato è tanto il movimento, violento, sí, ma dal basso, quanto il tipo di mutamento, che è radicale.
Affinché si possa parlare correttamente di rivoluzione, il mutamento deve essere radicale, letteralmente deve essere un mutamento alle radici. Quale mutamento si possa interpretare come radicale è controverso e non è definibile con attributi come quelli con cui si definisce il movimento, sui quali è generale il consenso. Diciamo sin d’ora che la difficoltà di dare un giudizio sulla radicalità del mutamento è ben piú grande della difficoltà di definire l’evento rivoluzionario rispetto alla natura del movimento. Che cosa si debba intendere per mutamento radicale è oggetto di discussione. Non si considera radicale il passaggio da una élite al potere ad un’altra. Se si possa considerare fenomeno rivoluzionario il passaggio da una forma di governo a un’altra, ancorché avvenuto con un movimento di tipo rivoluzionario, è disputabile. Ma siccome nessuno è padrone delle parole, nulla vieta che si distinguano rivoluzioni soltanto politiche da rivoluzioni anche, o soprattutto, sociali. Però tenendo presente il paradigma della Rivoluzione francese – giacché, occorre ripeterlo ancora una volta, il termine «rivoluzione» ha tratto il suo significato attuale nel discorso politico, storico, filosofico, dalla Rivoluzione francese, e questo significato viene generalmente usato per distinguere l’evento rivoluzione da eventi affini –, il significato prevalente di «rivoluzione» è quello di mutamento radicale non solo nel sistema politico ma anche nel sistema globale della società. Autodefinitasi o interpretata la Rivoluzione francese sin dall’inizio come rivoluzione guidata dal Terzo stato, e quindi come passaggio, avvenuto attraverso un moto violento, subitaneo, popolare, illegittimo, dalla società feudale alla società borghese, o come fine dell’ancien régime, dove «régime» indica qualche cosa di piú che una determinata forma di governo, ossia una forma complessiva di assetto sociale, in cui è compreso non soltanto il sistema politico-costituzionale, ma anche il sistema degli ordini prepolitici e le diverse forme dei rapporti economici, ha finito per prevalere nella determinazione del concetto di mutamento radicale il significato di mutamento non soltanto politico ma anche sociale. A rafforzare questa interpretazione ha contribuito la visione marx-engelsiana della storia come storia di lotte di classi, un’idea che ha avuto un’enorme influenza sui movimenti rivoluzionari del secolo scorso, e sull’interpretazione della prima grande rivoluzione che da questi movimenti ha avuto origine.
Intesa la rivoluzione come rottura tra il vecchio e il nuovo, come evento per cui il corso storico dovrà essere interpretato come discontinuo, ossia come segnato da interruzioni che mutano bruscamente uno sviluppo lineare, il mutamento della società nella sua composizione di classe rappresenta una rottura, un’interruzione, ben piú grave che il mutamento del sistema politico o della forma di governo. Se mai non è estranea alla storia delle interpretazioni della rivoluzione come mutamento radicale, una interpretazione ulteriore di questa radicalità o se si vuole un ulteriore approfondimento della novità dell’evento rivoluzionario, che lo distingue definitivamente da ogni altra forma di cambiamento politico e sociale, e lo avvicina e lo assimila ai grandi rivolgimenti religiosi: la trasformazione non solo del sistema politico, non solo del sistema sociale, ma addirittura della natura dell’uomo. Sotto questo aspetto una rivoluzione, nel vero e pieno senso della parola, tende o dovrebbe tendere, alla creazione dell’uomo nuovo. Anzi riesce nel suo intento solo se riesce a trasformare la natura umana, se, oltre a essere un mutamento delle cose, è anche una rigenerazione dell’umanità, una seconda nascita, l’inizio di una nuova fase della Storia, di una nuova età dello Spirito 24.
Anche senza isolare e sopravvalutare quest’ultimo significato di rivoluzione, e accogliendo il significato corrente di mutamento della società nel suo complesso e non soltanto delle istituzioni politiche, di passaggio del dominio non da un’élite al potere ad un’altra, ma da una classe sociale ad un’altra – secondo la sequenza resa popolare dal marxismo: classe feudale, borghesia, proletariato –, è indubitabile che dopo la Rivoluzione francese «rivoluzione» indica un fenomeno diverso dal semplice mutamento della forma di governo, dalla metabolé o mutatio rerum degli antichi, o «mutazione», nel linguaggio dei nostri scrittori politici del Rinascimento, anche se, prima della Rivoluzione francese, e talora anche dopo, l’uso della parola «rivoluzione» per «mutazione» era frequente. Sia detto una volta per sempre che il significato che «rivoluzione» acquista dopo la Rivoluzione francese non deve far dimenticare che la parola veniva usualmente adoperata già nel linguaggio politico (non soltanto in quello delle scienze fisiche) anche prima, se pure nel significato debole, o che dopo il grande evento è apparso debole, di «mutazione» 25.
3. Solo tenendo ben presente il duplice uso di rivoluzione, come movimento (la causa o il mezzo dell’evento) e come mutamento (l’effetto o il fine dell’evento), si può comprendere che si possa parlare senza dare l’impressione di usare un linguaggio scorretto, contraddittorio, di «rivoluzione» con riferimento a un evento che ha le caratteristiche della rivoluzione come movimento senza avere per effetto un mutamento radicale, e anche, per contrasto, di «rivoluzione» con riferimento a un mutamento radicale che è avvenuto senza essere preceduto da un movimento violento, subitaneo, popolare ecc. La celebre interpretazione che Tocqueville dà della Rivoluzione francese è di una rivoluzione come movimento cui non è seguita la rivoluzione come mutamento. Sin dal primo scritto giovanile, sollecitato da John Stuart Mill, sulla Rivoluzione francese, dopo aver detto che «si esagerano» gli effetti prodotti dalla Rivoluzione, sostiene che essa «ha regolato, coordinato e legalizzato gli effetti d’una grande causa, piuttosto che essere essa stessa una causa» e conclude: «Quello che la Rivoluzione ha fatto si sarebbe fatto, io non dubito, senza di essa; essa non è stata che un processo violento e rapido con l’aiuto del quale lo stato politico si è adattato allo stato sociale, i fatti alle idee, le leggi ai costumi» 26.
Al contrario, quando si usa la parola «rivoluzione» in espressioni come «rivoluzione industriale» o «rivoluzione femminile», ci si riferisce a un mutamento radicale (della società civile, nel primo caso, anche del costume, nel secondo), non preceduto da un movimento rivoluzionario. Mentre nell’interpretazione di Tocqueville la Rivoluzione francese è stata un movimento rivoluzionario senza mutamento radicale, giacché l’accentramento amministrativo caratteristico del regime preesisteva alla rivoluzione ed è rimasto dopo, la rivoluzione industriale è stata una grande trasformazione della società senza movimento rivoluzionario.
Non vi è miglior prova di questo senso uno e bino di «rivoluzione», che il titolo dato da Christian Meyer al primo paragrafo del capitolo sulla rivoluzione degli antichi nella voce Revolution, Rebellion, Aufruhr, Bürgerkrieg, nella grande enciclopedia Geschichtliche Grundbegriffe: «Revolutionäre Veränderung ohne Revolution», un titolo in cui sono presenti, senza apparente contraddizione, i due sensi della parola. Dopo aver premesso ragionevolmente che la domanda se gli antichi abbiano conosciuto la rivoluzione pone un problema di definizione, l’autore mette in evidenza, per quel che riguarda i Greci, quanti e di quale natura fossero i mutamenti anche rapidi e frequenti da una forma di governo ad un’altra, ma nello stesso tempo osserva che specie in Atene essi avvenivano «in modo non rivoluzionario», e che «il movimento verso la democrazia per lo meno per lunghi tratti si compí nell’orizzonte di un diritto dato che si andava modificando gradatamente» 27, e comunque mancava loro il senso moderno del movimento guidato dall’idea del progresso e prodotto dalla società considerata come antitesi dello stato. Rispetto ai Romani, osserva che a maggior ragione il grande conflitto tra patrizi e plebei modificò la costituzione non scritta nei secoli, lentamente, attraverso la creazione e il compimento delle istituzioni della plebe, sinché non il dominio del popolo ma le procedure di un’opposizione effettiva furono di fatto istituzionalizzate 28. L’espressione, apparentemente contraddittoria, «mutamento rivoluzionario senza rivoluzione», significa in realtà mutamento anche radicale, come quello che avvenne nella costituzione romana attraverso il lungo conflitto fra patrizi e plebei, senza che sia stato preceduto da quella esplosione di violenza popolare risolutiva e ispirata all’idea della «marcia in avanti» della storia cui si riferisce il significato moderno di «rivoluzione» come movimento. Tra l’altro, uno dei piú celebri movimenti della plebe, la secessione (secessio), è un atto o insieme di atti di resistenza passiva, assimilabile se mai allo sciopero, e quindi rientrante nel tema ben piú vasto del «potere negativo», e come tale completamente diverso dal tipo di movimento cui si riferisce il termine «rivoluzione».
L’apparente equivoco verbale non sarebbe stato possibile nelle due lingue classiche, perché tanto i greci quanto i latini avevano due parole diverse per indicare il movimento che conduce al mutamento, stasis o seditio, e il mutamento derivato da quel movimento, metabolé o mutatio rerum. Non avevano una parola come «rivoluzione» che soltanto dopo i moti di Francia considerati, nel bene e nel male, tanto nell’uso della gente comune quanto in quello dei dotti, un grande mutamento derivato da un moto improvviso, imprevisto e sconvolgente (di cui si indica persino la data e in quella data, 14 luglio, ogni anno viene commemorato) è venuta a designare insieme e un movimento e un mutamento, se pure entrambi in senso piú forte, la «fazione» diventando «partito», il «mutamento» diventando rovesciamento, capovolgimento, sconvolgimento, ordine nuovo, rinnovamento, in un senso anche religioso della parola che agli antichi era assolutamente sconosciuto.
Chi volesse poi un’ulteriore riprova degli equivoci che possono derivare dall’ambiguità insita nella parola «rivoluzione», questa gli potrebbe essere fornita da Moses Finley, che ponendo la domanda Quale rivoluzione nell’antichità? 29 dà una risposta opposta a quella di Meyer, una risposta che potrebbe meritare il titolo, anziché, di «mutamento rivoluzionario senza rivoluzione», inversamente, di «rivoluzione senza mutamento rivoluzionario». La tesi di fondo di Finley è che, se s’intende per «rivoluzione» il passaggio del potere da una classe all’altra, nel senso moderno della parola (piú precisamente, nel senso marxiano della parola), si può con sicurezza affermare che non ci fu nell’antichità una vera e propria rivoluzione, perché il mondo antico fu una società agricola, che si fondava in gran parte sul lavoro degli schiavi e, rimasta una società agricola, non conobbe il passaggio dal dominio di una classe al dominio di un’altra: «In nessun tempo e in nessun luogo durante l’antichità… vi fu un’autentica trasformazione del fondamento di classe dello stato» 30. Su questa base anch’egli critica Mommsen che chiamò «rivoluzione romana», e per la sua autorità ebbe molti seguaci, il periodo che va dai Gracchi a Cesare, e lamenta la scarsa precisione del termine usato, e la scarsa consapevolezza con cui gli storici di Roma antica lo hanno abitualmente usato, non solo perché i Romani non lo avevano ma perché oggi noi l’usiamo in un senso che non ha alcuna corrispondenza con ciò che i Romani chiamavano res novae. Le «mutazioni» degli antichi erano, come spiega Finley, mutamenti all’interno di una società di classe, che riguardavano, oggi diremmo, il sistema politico e non l’assetto sociale, tanto che Aristotele parla delle undici mutazioni di Atene. Inoltre, egli osserva che, non conoscendo gli antichi la rivoluzione come mutamento in grande, un mutamento dal quale non si può piú tornare indietro, avevano una concezione ciclica e non progressiva della storia: le rivoluzioni antiche «non furono… un avventurarsi nel futuro» 31.
Per completare il pensiero di Finley occorre aggiungere che, dal punto di vista marxista da cui egli si pone, gli antichi non conoscevano neppure la rivoluzione come movimento nel significato attuale della parola, perché dei due soggetti della rivoluzione, i proletari e gli intellettuali, i primi, essendo per la maggior parte schiavi senza coscienza di classe, esprimevano il loro dissenso in rivolte che non si trasformavano mai in movimenti risolutivi rispetto al cambiamento, i secondi o guardavano al passato piú o meno mitico oppure, come i cinici, predicavano il rifiuto di tutte le istituzioni, oppure, come gli utopisti, creavano immagini di società statiche, ascetiche e gerarchiche, incapaci di suscitare l’entusiasmo popolare.
L’idea della rivoluzione come rottura della continuità storica, come evento proteso verso il futuro, come renovatio, è arrivata sino a noi non dalla tradizione classica ma da quella giudaico-cristiana, il che ci induce ad affermare che la parola «rivoluzione» nel significato moderno è nuova, ma la cosa che essa designa è antica, ed è entrata prepotentemente nella storia dell’Occidente con il cristianesimo, e ancora piú indietro attraverso una concezione profetica della storia, propria dell’ebraismo, di una storia non ripiegata dubitativamente su un passato felice, da restaurare, ma rivolta fiduciosamente verso l’avvenire in attesa di un evento decisivo, ultimo, estremo. Tale storia si muove tra due protagonisti, il profeta e il messia, il profeta che anticipa l’evento catastrofico, e il messia che l’adempie 32, due protagonisti completamente diversi dai personaggi esemplari del mondo antico, l’eroe, nel senso hegeliano della parola, cosí bene impersonato da Teseo, che di un popolo disperso aveva fatto una città, o il grande legislatore, come Solone, Licurgo, Minosse, che avevano rinnovato la vita della città dando ad essa una nuova costituzione e nuove leggi. Il messia della tradizione ebraico-cristiana è predestinato a introdurre nel corso storico l’idea della rivoluzione (nel senso forte della parola) come rigenerazione; l’eroe o il legislatore della tradizione greca sono i fondatori e i riformatori della città destinati a guidare e a stabilire una delle tante possibili «mutazioni» (non l’unica e decisiva). Se è vero che la prima rivoluzione moderna, nel senso forte della parola, è la great rebellion inglese, l’idea della rivoluzione come nuovo ordine era stata anticipata dalle descrizioni di città ideali, che, come quella ideata da Tommaso Campanella, non avrebbe potuto avverarsi se non con un moto insurrezionale (che lo stesso Campanella promosse) ed era iscritta in una storia profetica, in cui era contenuto l’annunzio della pienezza dei tempi, di un’età «c’ha piú istoria in questi cento anni che non ebbe il mondo in quattromila; e piú libri si fecero in questi cento anni che in cinquemila; e dell’invenzioni stupende della calamità e stampe e archibugi, gran segni dell’unione del mondo» 33.
Proprio dalla rivoluzione inglese e dalle sue prime interpretazioni prende le mosse Michael Walzer per ritrovare nell’episodio biblico dell’Esodo uno dei possibili paradigmi delle rivoluzioni moderne, in quanto eventi straordinari diversi dalla regolarità e ordinarietà delle mutazioni degli antichi 34. L’Esodo è l’uscita degli Ebrei, il popolo di Dio, ridotto in schiavitú, verso la terra promessa sotto la guida di un capo carismatico, Mosè. Il popolo schiavo, il capo imposto da Dio, il marciare insieme del popolo e del suo capo verso la liberazione, sono tre elementi fondamentali dell’idea moderna di rivoluzione. Fu lo stesso Cromwell, nell’interpretazione di Walzer, a definire l’Esodo «l’unico parallelo dei rapporti di Dio con noi che io conosca al mondo», aggiungendo subito dopo: «Siamo giunti sin qui per misericordia di Dio» e mettendo in guardia i suoi seguaci dal ricadere nella schiavitú sotto il potere del re 35. Né si può paragonare, secondo Walzer, il viaggio verso la terra promessa con la narrazione di altri viaggi raccontati nell’antichità, come quello di Ulisse, un lungo vagabondaggio alla fine del quale l’eroe ritrova la moglie, il figlio, il vecchio servitore e il cane fedele, o quello di Enea, dove la meta Roma non è diversa da Troia, anche se piú potente, «mentre Canaan è l’esatto contrario dell’Egitto» 36. L’Esodo è «l’alternativa a tutte le concezioni mitiche dell’eterno ritorno, e perciò alla concezione ciclica del cambiamento politico, da cui deriva la nostra parola “rivoluzione”» 37; è, in altre parole, la forma originaria della storia progressiva, protesa verso il futuro, dal quale, una volta raggiunta la meta, non si torna piú indietro. Se è vero che la meta dell’Esodo è la fondazione di un regno di sacerdoti e di gente santa, questa è anche, secondo Walzer, la repubblica puritana, la repubblica giacobina della virtú, in un certo senso anche la società comunista di Lenin guidata dal partito di avanguardia della classe rivoluzionaria.
Anche rispetto alla conclusione l’analogia fra l’Esodo e la Rivoluzione è sorprendentemente perfetta: la meta è raggiunta ma la promessa non è mantenuta. Canaan si rivela alla fine un secondo Egitto. Chi sa che l’essenziale non sia la meta ma la via, e che il punto piú alto della storia dell’Esodo come storia esemplare non sia l’arrivo alla terra di Canaan ma la marcia attraverso il deserto? Oppure occorrerà un secondo esodo, ma questo non sarà piú una marcia da compiersi in questo mondo. Non era tutta diversa la meta additata dai profeti, non Canaan ma l’Eden? E se altra era la meta, la via era ancora quella della rivoluzione, che non porta da nessuna parte, o non era in realtà quella della redenzione?
4. Fra i temi centrali di una teoria della rivoluzione vi è quello della distinzione fra rivoluzione e riforme. Anche questo tema può essere affrontato utilmente partendo dal doppio significato di «rivoluzione» come movimento e come mutamento. Si è parlato sinora di eventi che possono essere considerati come rivoluzione dal punto di vista del movimento e non del mutamento, o viceversa. Il miglior modo di distinguere un processo di riforma dal processo rivoluzionario è quello di mostrare che essi non coincidono né rispetto al tipo di movimento né rispetto al tipo di mutamento.
Tuttavia nei riguardi di quello che si è detto sin qui, circa la differenza tra la rivoluzione dei moderni, che presuppone una visione progressiva della storia, e le mutazioni degli antichi che s’iscrivono generalmente in una concezione ciclica, occorre subito dire che tanto la strategia rivoluzionaria quanto quella delle riforme sono figlie dell’idea moderna del progresso. Il che può spiegare fra l’altro perché abbiano avuto spesso gli stessi avversari, i reazionari e i conservatori, entrambi uniti, pur nella loro divisione, nella negazione di quella idea. Il progresso peraltro può essere interpretato in due modi diversi: dietro il riformismo c’è una concezione evolutiva della storia, l’idea che la storia, come la natura, non facit saltus, e il progresso, che sarebbe meglio chiamare «sviluppo», è il prodotto cumulativo di piccoli, forse anche impercettibili, mutamenti; dietro ai movimenti rivoluzionari c’è una concezione altrettanto progressiva della storia, ma su una linea discontinua, cioè attraverso salti qualitativi. Per Marx, il maggiore ispiratore di movimenti per la prima volta nella storia consapevolmente rivoluzionari, per i quali la rivoluzione è un vero e proprio programma d’azione, il passaggio da una fase all’altra della storia dell’umanità, rappresentato dal passaggio da una forma di produzione ad un’altra, non avviene se non attraverso contraddizioni insanabili tra le forze produttive e i rapporti di produzione, tali che il loro scioglimento crea un vero e proprio salto di qualità. La differenza tra evoluzione e rivoluzione riguarda tanto il movimento, graduale o simultaneo, quanto il mutamento, parziale o totale.
Rispetto al movimento, il discrimine tra riformismo e rivoluzione è l’accettazione o il rifiuto del metodo della violenza, intesa come rottura intenzionale della legalità. Per quel che riguarda il mutamento, il discrimine tra riformismo e rivoluzionarismo passa attraverso la differenza tra cambiamento parziale, graduale, a piccoli passi, e cambiamento radicale, come nel corso di queste pagine è stato detto piú volte 38. Schematicamente, con tutte le riserve sulla inevitabile semplificazione che uno schema produce sulla realtà, incrociando il tipo di movimento (pacifico o violento) col tipo di mutamento (parziale o globale), si possono identificare quattro distinti fenomeni storici, la rivoluzione violenta e globale; all’opposto il riformismo non violento e parziale; la rivoluzione, come quella industriale o quella femminile, non violenta e globale; il colpo di stato, violento e parziale.
Tenendo conto invece di ciò che rivoluzione e riforme hanno in comune, l’idea della bontà del mutamento, e del fatto che vi si contrappongono strategie che esaltano la stabilità a scapito del mutamento, alle due strategie favorevoli al mutamento corrispondono due strategie favorevoli alla stabilità che si distinguono fra loro in base agli stessi due criteri del metodo, pacifico o violento, e del risultato, parziale o totale: il conservatorismo, che rifiuta il metodo della violenza per contrastare gli avversari fautori del mutamento, e sostiene la difesa legale degli interessi costituiti contro la loro lenta erosione da parte dei riformatori; la controrivoluzione che per arrestare il processo delle riforme, o per evitare il pericolo del rovesciamento rivoluzionario, non disdegna il ricorso alla violenza e al rovesciamento totale dell’ordine costituito (dittatura contro democrazia). Entrambi, i conservatori e i controrivoluzionari, sono fautori della stabilità contro il mutamento, ma la difendono in modo diverso, specularmente corrispondente al diverso modo con cui riformatori e rivoluzionari predicano e tendono ad attuare il mutamento. Rispetto ai criteri sinora adottati per distinguere riforme da rivoluzione, il tipo di movimento e il tipo di mutamento, il conservatorismo sta al riformismo come la controrivoluzione alla rivoluzione. Anche in questo caso ci troviamo di fronte schematicamente a quattro fenomeni storici, la cui individuazione deriva dalla introduzione di un nuovo criterio di distinzione, la diversa valutazione della stabilità e del mutamento.
5. La differenza sin qui illustrata fra i due significati di rivoluzione si riscontra, senza che di solito venga consapevolmente rilevata, nella infinita varietà dei giudizi positivi o negativi, di assoluzione o di condanna, che sono stati dati in questi due secoli sulla rivoluzione in generale e sulle singole rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese, ecc. Non tutti i giudizi vertono sui due aspetti della, o di una, rivoluzione: alcuni riguardano prevalentemente la natura del movimento, altri la natura del mutamento. Si dà il caso di giudizi positivi rispetto al primo e negativi rispetto al secondo, e viceversa. Generalmente il giudizio complessivo non può essere dato se non stabilendo un nesso tra il movimento e il mutamento, nel senso che il giudizio sul primo influisce sul secondo, e viceversa. Ma si dà anche il caso che il giudizio riguardi unicamente il movimento indipendentemente dal mutamento oppure il mutamento indipendentemente dal movimento. Si tratta ad ogni modo di due giudizi diversi, che possono essere e di diverso segno e indipendenti l’uno dall’altro.
Il giudizio sul movimento ha in genere per oggetto l’atto che ne è la componente essenziale, la violenza, e quindi l’assoluzione o la condanna della, o di una, rivoluzione dipende dalla risposta che si dà al quesito sulla liceità o illiceità della violenza, il quale può avere diverse risposte secondo che si giudichi il fenomeno della violenza in se stesso oppure come causa di un certo effetto, o, che è lo stesso, mezzo per un certo fine. Quando lo storico pone un problema di questo genere si trasforma senza volerlo, e magari senza saperlo, in giudice. Non c’è storico che a un certo momento del suo racconto, quando si trova di fronte a eventi straordinari come una grande rivoluzione, non si ponga gli stessi problemi che si pone un giudice in un tribunale; e non adoperi gli stessi argomenti. Per giustificarla ricorre allo stato di necessità, alla legittima difesa o meglio alla considerazione della violenza rivoluzionaria non come violenza prima ma come violenza seconda, cioè come risposta alla violenza altrui, alla violenza delle classi dominanti da cui la classe oppressa non si può liberare se non opponendo violenza a violenza. Lo stesso storico, quando ritiene di non poter piú giustificare del tutto la violenza rivoluzionaria, ricorre, come il buon giudice, alle circostanze attenuanti, prende cioè in considerazione le circostanze particolari in cui i soggetti da giudicare hanno agito: come si può pretendere che un popolo oppresso, tenuto nell’ignoranza, eccitato dalla propaganda dei demagoghi, si comporti come un individuo libero e razionale? Se invece la vuole condannare, la giudica come violazione delle leggi umane e divine, che considerano l’uccisione dei nostri simili come il piú orrendo dei crimini, e quindi confuta l’argomento dello stato di necessità opponendovi il rimedio delle riforme, quello della legittima difesa attribuendo legittimità solo alla forza dello stato, o persino capovolge le circostanze attenuanti in aggravanti con l’attribuire alla violenza del popolo, della «populace», un particolare carattere di brutalità.
Il giudizio sul mutamento è di tutt’altra natura: e richiede strumenti di valutazione completamente diversi. È anche molto piú difficile, perché mentre la violenza ha un decorso ben delimitato nel tempo, il mutamento ha tempi lunghi e indefiniti, e il giudizio che si può dare di esso dipende dai limiti del tempo entro cui lo si prende in considerazione, limiti che variano da storico a storico. La differenza sta anche in ciò, che, mentre nel giudizio sulla violenza il contrasto fra i diversi interpreti verte non tanto sul fatto quanto sul diritto, cioè sul modo di qualificarlo come lecito o illecito, nel giudizio sul mutamento può essere controverso anche il giudizio sul fatto: quale mutamento? c’è stato o non c’è stato un mutamento? È evidente che non si può porre la quaestio iuris, se un mutamento sia stato benefico o malefico, e quindi da approvare o da disapprovare, se non si è d’accordo sulla quaestio facti, cioè sul fatto o serie di fatti che vengono presi in considerazione come mutamenti.
Che vi sia un nesso tra i due giudizi, è vero. Ma si tratta di un nesso non semplice. Non è detto che la giustificazione della violenza abbia come conseguenza necessaria la valutazione positiva del risultato, come non è detto che la valutazione positiva del risultato conduca alla giustificazione della violenza. Si può sostenere che la violenza era inevitabile e quindi giustificata, ma non ha dato i risultati che si proponeva, e la rivoluzione è fallita: il giudizio di fallimento è un giudizio che si dà non sul movimento ma sul mutamento (cosí come quando si parla di «rivoluzione incompiuta»). Oppure: la violenza non era necessaria, ma il mutamento che probabilmente si sarebbe potuto ottenere senza violenza c’è stato: quando si deprecano gli eccessi della rivoluzione, la condanna riguarda il movimento.
Il rapporto tra il giudizio sul movimento e il giudizio sul mutamento è generalmente non inverso ma diretto: il giudizio negativo sul risultato, nel senso che il risultato ottenuto è considerato perverso oppure non c’è stato alcun risultato (le cose sono rimaste com’erano prima), induce a un giudizio negativo sul movimento, e rende piú difficilmente giustificabile l’uso della violenza. Se è vero che il fine buono può anche giustificare un mezzo cattivo, il fine cattivo o non raggiunto si ripercuote inevitabilmente sul mezzo. Il giudizio positivo sul risultato, nel senso che una trasformazione radicale del corso storico si ritiene ci sia stata, a breve o a lunga scadenza, induce al contrario a un giudizio piú indulgente sul mezzo usato per conseguirlo. Certamente nelle interpretazioni radicali, quelle che glorificano la rivoluzione come evento divino (Michelet) o che la demonizzano come evento diabolico (De Maistre), il giudizio sul movimento e quello sul mutamento sono dello stesso segno: da un lato, il mondo nuovo può essere costruito soltanto da una violenza creatrice e purificatrice; dall’altro lato, la violenza considerata nella sua natura essenzialmente distruttiva non può produrre altro che rovine, imbarbarimento e decadenza. Però anche rispetto a questi giudizi estremi, accade che di volta in volta venga messo in particolare evidenza il movimento – «È la rivoluzione la rivolta della classe universale destinata a liberare l’umanità dalla miseria e dall’oppressione (Marx) oppure la rivolta degli schiavi (Nietzsche)?» – o il mutamento – «È la rivoluzione l’evento destinato a far passare l’umanità dal regno della necessità al regno della libertà, oppure l’inizio dell’età del nichilismo?».
«L’albero della Rivoluzione», per riprendere il titolo di un libro fortunato che raccoglie utilmente un gran numero di interpretazioni della Rivoluzione francese, ha molte radici e molte fronde. Chi ha osservato piú le prime, chi le seconde. Chi tutte e due, mettendo in rapporto le une con le altre, e anche separatamente. A ogni modo, quale ne sia il giudizio, albero del bene o del male, o del bene e del male insieme frammisti, quello della rivoluzione è un albero che non cresce in tutte le stagioni e su qualsiasi terreno. Da alcuni addirittura si sostiene che appartenga a una specie in via di estinzione o già estinta. Ma di fronte a giudizi tanto perentori è prudente sospendere il giudizio: non si sa mai.
III.
CARLO CATTANEO E LE RIFORME.
Ponendosi il problema del riformismo di Cattaneo, Alessandro Levi nella sua nota monografia sostiene che «un positivista coerente, anche quando non sia un conservatore delle tradizioni nazionali […], non è, non può essere un rivoluzionario, nel significato comune che si suol dare a questo termine, cioè un fautore di mutamenti, politici o sociali, improvvisi e violenti», e conclude, giustamente, che «il Cattaneo ebbe un intelletto aperto sagace illuminato di radicale riformatore, ma non fu in economia, come non era in politica, un rivoluzionario. Lo si potrebbe dire piuttosto, con una brutta ma espressiva parola che fu un tempo in voga nel nostro gergo politico, un progressista» 39. Tralasciando di discutere il problema del rapporto tra positivismo e riformismo, che il Levi sembra ritenere piú stretto di quel che sia stato in realtà, perché vi ho richiamato l’attenzione altrove 40, mi limito ad aggiungere qualche nota e qualche commento sul tema, utile, credo, per comprendere, da un lato direttamente il carattere piú specifico dell’opera cattaneana, e dall’altro indirettamente lo spirito in generale o se si vuole la filosofia del riformismo.
Non si può intendere il riformismo o «progressismo» di Cattaneo, se si prescinde dalla sua concezione generale della storia. L’opera dello storico e quella del filosofo si congiungono e si completano in un abbozzo generale di filosofia della storia, che è, a mio parere, la parte piú interessante e piú originale della filosofia cattaneana, anche se nella sua ispirazione iniziale è debitrice dell’opera del Romagnosi 41. Proprio all’inizio del suo primo scritto d’impegno, le Interdizioni israelitiche, enuncia il principio fondamentale di questa filosofia della storia, cui rimarrà sempre fedele: «Il progresso dell’umanità è faticoso, lento e graduale» 42. Ma è nel primo, vero e proprio, saggio filosofico, Su la «Scienza nuova» di Vico (1839), che formula se pur in modo sintetico una teoria dello sviluppo storico, che è insieme una professione di fede e un programma per il lavoro futuro: «In mezzo a queste aberrazioni [vedremo tra poco quali sono], i piú veggenti sanno congiungere la fiducia nel progresso alla paziente accettazione delle lente e graduate sue fasi, e alla critica proporzionale e perseverante, ch’è pur necessaria a promuoverlo. Essi sanno discernere le instituzioni transitorie e caduche da quelle senza cui l’umano consorzio non regge. Essi nutrono la generosa persuasione che l’individuo non è sempre cieco strumento del tempo, ma una forza libera e viva, la quale tratto tratto può far trapombiare la dubia bilancia delle umane cose. Questa scola pratica, che studia il campo della libertà umana nel seno della necessità e del tempo, deve librarsi tra la violenza logica delle dottrine passate, e l’indolente e servile ottimismo delle dottrine che si levarono sulla ruina di quelle» 43. Appare da questo brano in primo luogo che in Cattaneo la fiducia nel progresso immancabile è temperata dalla convinzione che esso non procede necessariamente su una linea retta. Altrove: «Il progresso delle legislazioni [è] tortuoso come il corso dei fiumi, il quale è pure una transazione fra il moto delle acque e l’inerzia delle terre» 44. Appare in secondo luogo che il progresso non è predeterminato e quindi fatale, perché interviene nel determinarne il corso imprevedibilmente l’intelligenza creatrice dell’uomo. Questa concezione può essere illustrata e contrario dalle «aberrazioni», menzionate all’inizio del brano citato, che sono le tre seguenti:
a) la dottrina di coloro che «mettendosi a tutta carriera nella idea delle successive evoluzioni sociali, vollero stringere un corso di secoli in poche giornate, e s’appresero di slancio al sogno d’un incivilimento nuovo e inudito, senza famiglia, senza eredità, senza proprietà»;
b) la dottrina di coloro che «fraintesero la giustificazione istorica del passato; e vi supposero la necessità di ritornare le cose ai loro principi; e vanamente additarono, come meta ad un viaggio retrogrado dell’umanità, ora l’una ora l’altra delle età già consumate»;
c) la dottrina di coloro che «acquietandosi nella generale giustificazione dei fatti, e confidando nel genio naturale delle moltitudini, e nella forza ingenita che spinge le cose al compimento d’un ordine prestabilito, ricadono nel fatalismo dell’Oriente, e maledicendo alla virtú infelice santificano la vittoria e adorano la forza» 45.
Non è difficile identificare nella prima «aberrazione» le dottrine socialistiche e comunistiche, di cui Cattaneo vede poco piú oltre un’espressione nei «deliri» (termine già usato dal suo maestro Romagnosi 46) del saint-simonismo su «l’abolizione della proprietà, dell’eredità, della famiglia» 47, e di cui dice altrove che demolirebbero «la ricchezza senza riparare alla povertà» 48; nella seconda, le dottrine degli scrittori reazionari di cui in altro passo dello stesso saggio, sulle orme di Ferrari, il cui libro, Vico et l’Italie 49, sta commentando, ricorda il De Bonald che si sarebbe rivolto «all’impresa egualmente impossibile di ricondurre l’Europa ai bassi tempi» 50 (ma cita anche De Maistre e Lamennais). Piú difficile interpretare la terza «aberrazione»: ritengo vi si possa vedere un’allusione alla filosofia di Cousin, dell’«eloquente» Cousin, che è uno dei bersagli preferiti dei suoi dardi polemici, e di cui poco piú oltre, lamentando l’eccessivo favore con cui era stata accolta dal Ferrari, dice che «sembra dettata dal primo Ottomano che si accosciò vittorioso sotto le volte di Santa Sofia» 51: col suo giustificazionismo storico per cui tutto ciò che avviene non solo è necessario ma è anche bene che avvenga, Cousin finisce per santificare la vittoria, cioè per esaltare i vincitori e deprimere i vinti, onde, come dice altrove, «la vittoria è sempre utile all’umanità e sempre giusta» 52, e alla fin fine per maledire la virtú infelice. Mi pare abbastanza chiaro che i tre bersagli di Cattaneo sono, con parole d’oggi, il rivoluzionarismo astratto che dimentica troppo spesso che la storia, come la natura, non facit saltus, e cade nell’utopismo, il reazionarismo non meno astratto che crede possibile porre rimedi ai mali presenti facendo un salto all’indietro, e cade nel vagheggiamento del passato (non impropriamente gli scrittori reazionari sono stati chiamati i «profeti del passato»), e il giustificazionismo storico che per volere spiegare troppo la storia già fatta disarma e scoraggia coloro che si pongono il problema della storia da fare. Contro le dottrine dei reazionari Cattaneo difende la dottrina del progresso, e la difende perché vi crede fermamente, ma nello stesso tempo contro le dottrine rivoluzionarie, non crede né ai tempi brevi né ai rivolgimenti totali. Per un verso i progressi reali sono sempre lenti e per un altro verso i rivolgimenti totali sono spesso solo apparentemente progressivi. Infine contro le dottrine progressive ma provvidenzialistiche, e unilineari, come sono quelle di Hegel e di Cousin, e come è ancor piú esemplarmente quella che andava sostenendo in quegli stessi anni Augusto Comte, Cattaneo sostiene una tesi che oggi diremmo anti-necessitaristica o possibilistica, secondo cui il progresso non solo non è necessario, come bene dimostrerebbero i paesi dalle civiltà stazionarie, ma non percorre necessariamente, là dove avviene, la stessa strada. Ritengo sia difficile immaginare atteggiamenti che piú di questi possano essere assunti a presupposti filosofici del riformismo, il quale non solo combatte sempre su due fronti, contro rivoluzione e contro reazione, contro avvenirismo e contro passatismo, ma crede, deve credere, che gli uomini tengano nelle loro mani il loro destino.
Per farsi un’idea della concezione cattaneana della storia nella sua forma piú compiuta nulla val meglio che rileggere il secondo importante saggio filosofico, Considerazioni sul principio della filosofia, pubblicato in uno degli anni mirabili della sua multiforme attività di scrittore (1844), quando ormai la composizione di alcuni fra i piú noti scritti storici e linguistici e letterari gli aveva permesso di raccogliere annotazioni e riflessioni nelle zone piú lontane e piú inesplorate della storia. Anche questo saggio, come il precedente sul Vico, era stato provocato da un libro di Giuseppe Ferrari, l’Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’histoire, uscito a Parigi nel 1843. Nel quale Ferrari aveva sostenuto, peraltro irrigidendola e deformandola, l’idea che la società sia un sistema, che, in quanto sistema, non tolleri nel proprio seno una contraddizione, che là dove la contraddizione si sviluppa il sistema sia destinato a morire, e a essere sostituito da un altro sistema, e che, infine, la storia sia una successione di sistemi, «une série de systèmes qui se juxtaposent dans l’espace et se succèdent dans le temps» 53. Anche Cattaneo svolgerà a piú riprese, specie in uno dei saggi della maturità sulla psicologia delle menti associate, l’idea della società come sistema. Ma intanto nel saggio del ’44, piú fedele allo spirito del comune maestro, il Romagnosi, recalcitra di fronte a due conseguenze che il Ferrari trae da questo concetto: che un sistema non tolleri contraddizioni e che la storia sia una successione di sistemi. Questi due spunti critici sono molto importanti per capire quale sia l’atteggiamento che Cattaneo assume di fronte allo sviluppo storico e quale sia la sua idea di progresso. Anzitutto non è vero che ogni popolo formi sempre un sistema, se per sistema s’intende l’ordinamento delle idee di questo popolo intorno a un principio unico, ma è vero, al contrario, che «quanto piú civile è un popolo, tanto piú numerosi sono i principî che nel suo seno racchiude»; ove per «principî» s’intende, come appare dalla esemplificazione che segue immediatamente, «la milizia e il sacerdozio, la possidenza e il commercio, il privilegio e la plebe» 54, tanto le istituzioni politiche quanto le forme economiche o le diverse classi che compongono il tutto sociale, con la conseguenza che le nazioni «fatte sistema» (e sono quelle fondate sopra un solo principio, come, ad esempio, le nazioni tutte militari o tutte sacerdotali, con un’economia o tutta agricola o tutta commerciale, e senza contrasti di classe) sono quelle che essendo rimaste stazionarie non hanno dato almeno sinora contributi positivi al progresso civile. Dal momento che un popolo può racchiudere nel proprio seno diversi principî cade la tesi che una contraddizione abbia di per se stessa un potere distruttivo e dissolvente. Anzi accade proprio il contrario: il contrasto dei principî per entro una stessa nazione è ciò che impedisce a questa nazione di restare immobile e la stimola a un continuo avanzamento: «L’istoria è l’eterno contrasto fra i diversi principî che tendono ad assorbire e uniformare la nazione» 55. Cade quindi anche la tesi che la storia sia una successione di sistemi e come tale sia uno sviluppo a tappe obbligate. Se cosí fosse, lo sviluppo storico sarebbe prestabilito e predeterminato, sarebbe il monotono succedersi e ripetersi di momenti necessari e fatali, e quel che è piú, il passaggio da una fase all’altra sarebbe sempre un salto di qualità. Al contrario, «i principî civili […] sono come le quantità, le quali per minime aggiunte o minime detrazioni mutano assolutamente il punto d’equilibrio» 56, onde i grandi rivolgimenti storici possono avvenire per mutamenti impercettibili, e comunque non è necessario il mutamento dell’intero sistema ma basta lo spostamento di uno dei principî dominanti all’interno del sistema perché avvenga un mutamento decisivo (decisivo per lo meno al fine del progresso civile). Cattaneo cerca di rafforzare questa concezione della storia, contrapponendo il metodo che deve essere impiegato per intendere la natura a quello che deve essere impiegato per intendere la storia: «Si fa palese – egli osserva – che le leggi organiche non sono quelle dell’immobilità minerale, che la varietà è la vita, e l’impossibile unità è la morte», traendone spunto per una delle solite perorazioni: «E coloro che invocano la pace perpetua e l’universale repubblica di tutti i regni della terra, vogliono dilatare a tutto il globo l’oscura esistenza del Giappone; e non vedono in quale abisso d’inerzia e di viltà piomberebbe tutto il genere umano, petrefatto in sistema, senza emulazioni e senza contrasti, senza timori e senza speranze, senza istoria e senza cosa alcuna che d’istoria fosse degna» 57.
Al concetto di sistema, che in questo saggio viene inteso come «sistema chiuso» (solo piú tardi Cattaneo accetterà l’idea di sistema distinguendovi i sistemi chiusi da quelli aperti), Cattaneo contrappone il concetto romagnosiano di transazione, che «esclude il concetto di sistema; anzi involge conflitto di sistemi, impotenti a distruggersi, costretti a compatirsi» 58. Dove la transazione è possibile vuol dire che vi sono piú principî (e quindi non vi è sistema là dove il sistema sia definito come unità di parti intorno a un solo principio), e che questi principî sono in contrasto conciliabile fra loro (se questo contrasto non fosse conciliabile, o non potrebbe avvenire alcun mutamento oppure non potrebbe avvenire mutamento se non da sistema ad altro sistema). L’importanza di questo concetto di transazione si manifesta nell’uso che Cattaneo ne fa per definire per un verso lo stato e, per un altro verso, e contrario, la rivoluzione. La definizione dello stato come «immensa transazione» mediante la quale i diversi principî agenti in un sistema riescono a trovare un equilibrio senza mai sopraffarsi e distruggersi a vicenda, è troppo nota perché occorra soffermarsi su di essa ancora una volta. Basti dire che si tratta di una definizione utilitaristica dello stato, caratteristica di tutta la tradizione liberale classica che si trova a dover fare continuamente i conti con la concezione organica dello stato etico che per effetto dell’esaltazione dello spirito del popolo e delle conseguenti affermazioni circa le missioni nazionali ha finito per diventare la concezione di gran lunga dominante in Italia nel periodo del Risorgimento e, malauguratamente, anche dopo. Val la pena invece soffermarsi sulla definizione di rivoluzione, non solo perché è stata assai meno commentata, ma anche perché non vi sono, se non m’inganno, altri passi cosí espliciti da cui ci si possa fare un’idea dell’atteggiamento di Cattaneo di fronte al fenomeno rivoluzionario. «Tutti quei mutamenti che noi con ampolloso vocabolo appelliamo rivoluzioni, non sono altro piú che la disputata ammissione d’un ulteriore elemento sociale, alla cui presenza non si può far luogo senza una pressione generale, e una lunga oscillazione di tutti i poteri condividenti, tanto piú che il nuovo elemento si affaccia sempre coll’apparato d’un intero sistema e d’un intero mutamento di scena, e colla minaccia d’una sovversione generale; e solo a poco a poco si va riducendo entro i limiti della sua stabile ed effettiva potenza; poiché indarno conquista chi non ha forza di tenere. Laonde quando l’equilibrio sembra ristabilito, e le parti sono conciliate, e l’acquistante assume il nuovo atteggiamento di possessore, e talora si fa lecito di sdegnare tutti i principî che lo condussero alla vittoria, pare incredibile che, per giungere a cosí parziale innovazione, tutto il consorzio civile debba aver sofferto cosí dolorose angosce» 59. Da questo brano risulta anzitutto chiaro l’intendimento di sminuire l’importanza storica delle rivoluzioni. Si può ricavare una tesi riduttiva del fenomeno rivoluzionario già sin dall’attributo «ampolloso» riferito al termine stesso di «rivoluzione», e poi da tutte le considerazioni che seguono e che si possono riassumere essenzialmente in questa tesi: ciò che caratterizza il fenomeno rivoluzionario è l’emergere di un nuovo «elemento sociale», intendi una nuova classe portatrice di nuove esigenze e di nuovi valori, la quale, pur pretendendo di essere portatrice di un sistema (ovvero di valori, d’interessi, di bisogni che richiedono di essere soddisfatti) completamente nuovo, finisce per inserirsi nel sistema vecchio, e in qualche modo per adattarvisi, e pertanto pur modificandolo non lo muta mai del tutto, tanto che ne risulta alla fine soltanto una «parziale innovazione». Non ho bisogno di sottolineare l’importanza di questa espressione «parziale innovazione»: vi è sintetizzata un’intera filosofia della storia, quella filosofia appunto per cui, come si è visto, il progresso è sempre «faticoso, lento e graduale». Il principio di questa filosofia è abbozzato nel commento che segue al brano citato: una società in movimento non può dirsi un sistema perché in essa coesistono e confliggono tra loro diversi principî, dei quali il nuovo è destinato a sopravanzare il vecchio senza peraltro che il vecchio venga mai del tutto eliminato, onde la conclusione che «una successiva transazione fra sistemi rivali non può mai dirsi distruzione assoluta d’un sistema, né assoluta formazione d’un altro; poiché la rinovazione cade solo su qualche parte [ancora una volta il concetto di “parziale innovazione”]; ciò che Romagnosi esprimeva col dire che il progresso si fa quasi per addentellato» 60. S’intende che questa legge, se possiamo chiamarla cosí, vale per le società che possono dirsi in movimento o dinamiche (quelle che lo stesso Cattaneo chiamerà in scritti posteriori «sistemi aperti»), cioè per quelle società in cui nessun principio è destinato a prevalere tanto da diventare esclusivo: là dove vi è un principio predominante e la società diventa nel senso stretto della parola un «sistema» (cioè, piú propriamente, un sistema chiuso), essa «gravita verso la sua decadenza» 61.
Vi sono dunque due tipi di società, le società stazionarie e quelle progressive: quelle stazionarie, per effetto della prevalenza di un solo principio, sono società che non mutano nel tempo e quindi sono destinate a ripetere uniformemente se stesse; quelle progressive mutano, sí, continuamente nel tempo ma le loro trasformazioni sono correttive, integrative, «parzialmente» innovative, e quindi solo «parzialmente» modificative, non mai sostitutive di un sistema nuovo al sistema vecchio. In una concezione siffatta non vi è posto per il mutamento rivoluzionario, per un mutamento totalmente innovativo, o sostitutivo. Ciò che gli storici chiamano «rivoluzione» non deve essere giudicato dai moti che l’accompagnano, e neppure dai propositi di coloro che di questi moti sono i protagonisti, ma dalle conseguenze reali di quei fatti e di quegli atti: le conseguenze reali delle cosiddette rivoluzioni sono sempre, alla fin fine, quando l’equilibrio rotto viene ristabilito, «innovazioni parziali». Non è che Cattaneo non si ponga il problema del possibile mutamento anche delle società stazionarie, cioè di quelle società la cui trasformazione sembra non possa avvenire che attraverso le vie rivoluzionarie; ma lo risolve, conformemente del resto a una teoria largamente diffusa nel secolo della maggiore espansione coloniale europea e condivisa in gran parte anche da Marx, con l’idea dell’«innesto», cioè con l’idea che una civiltà stazionaria non possa essere destata dal suo sonno millenario, se non attraverso il contatto vivificante, anche se doloroso, con una civiltà piú progredita. I modi con cui può avvenire l’innesto sono soprattutto due: la conquista e il commercio. L’uno è il modo violento, l’altro è il modo pacifico: ma entrambi sono modi esogeni, e in quanto tali escludono il modo endogeno di mutamento radicale che è la rivoluzione. Che poi Cattaneo creda, come credono tutti i maggiori teorici del progresso nel secolo XIX, che l’esprit de conquête abbia fatto il suo tempo e che le magnifiche sorti e progressive dell’umanità siano affidate allo sviluppo sempre piú rapido e sempre piú intenso del commercio e delle comunicazioni tra popolo e popolo (inutile ricordare gli inni di Cattaneo alle ferrovie e al telegrafo), è un aspetto secondario del suo pensiero, almeno per quel che riguarda il mio assunto. Cattaneo non ha mai messo in dubbio la funzione positiva della guerra, anche se condivide l’idea, meglio l’illusione di tutti gli scrittori liberali del tempo, che la guerra diventerà col passar del tempo e con lo sviluppo della società industriale, o è già diventata, sempre meno necessaria. A ogni modo, tra conquista e commercio sembra non esserci posto nella storia cattaneana per il modo violento e interno di mutare radicalmente un sistema retrogrado, che è la rivoluzione.
In realtà l’«ampolloso» termine di rivoluzione non ricorre frequentemente nelle sue opere, mentre ne ridondano sino a traboccarne le opere di Ferrari. Si direbbe che mentre Cattaneo usa il termine con cautela, quasi con pudore, perché ne sente e ne intende (e ne paventa) il significato forte, Ferrari, a furia di usarlo a proposito e a sproposito, finisce per svigorirlo, per farlo apparire, appunto, «ampolloso». Scrive La révolution et les révolutionnaires en Italie (1845); quindi La révolution et les réformes en Italie (1848), dove «riforma» viene usato, in contrapposto a «rivoluzione», in senso spregiativo; quindi ancora un intero libro dedicato alla Filosofia della rivoluzione (1851), che tuttavia Cattaneo recensisce con molti elogi per ben due volte, mettendo per altro in rilievo che la rivoluzione di cui parla l’autore è la rivoluzione della scienza (l’unica rivoluzione in cui Cattaneo crede, o meglio uno dei pochi moti storici che è disposto a chiamare propriamente e non abusivamente «rivoluzione») 62, presentandolo insomma come un manifesto illuministico, mentre l’ambizione del suo autore è anche quella di stabilire i presupposti e di tracciare le linee generali di un programma politico e sociale; per finire con una Histoire des revolutions d’Italie (1858), che racconta la storia delle rivoluzioni (settemila, nientemeno!) di un Paese, in cui Cattaneo, al contrario, in risposta alla interpretazione che crede aberrante dell’amico, scrivendo il saggio su La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), ove non si serve mai della parola «rivoluzione» per designare le stesse vicende, vede il dispiegarsi lento travagliato e continuo di un principio, ora piú latente ora piú manifesto, che avanza, come sempre è accaduto ai principî progressivi, per vie indirette e tortuose, e che è il solo «filo ideale» che permette di trovare una via d’uscita «nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell’assidua composizione e scomposizione degli stati» 63. Alcuni anni piú tardi recensendo il libro, dopo alcuni elogi a denti stretti, pur attraverso un’esposizione che vorrebbe essere un riassunto senza commento, lascia intendere chiaramente il proprio dissenso, là dove afferma che «l’intero lavoro palesa sforzo dialettico e fantastico di scegliere ed ordinare i fatti secondo che meglio rispondono al disegno preconcetto» 64 e rimprovera all’autore di aver preferito «per amore di novità, per compiacenza del paradosso […] edifici socialisti, e fantasmagorie, alle modeste, e sicure, e caute, e sapienti vie delle libertà diffuse equabilmente» 65, cioè alle vie circa le quali la sequenza di quei quattro aggettivi deve dissipare ogni dubbio essere le vie della riforma e non delle rivoluzioni.
Oltre ai grandi mutamenti nello sviluppo del sapere scientifico, Cattaneo riconosce il carattere di rivoluzione ai moti nazionali del proprio tempo che scuotono il vecchio assetto degli stati assoluti, e di conseguenza al moto nazionale italiano: terminando l’Avant propos del libello su L’insurrection de Milan en 1848 scrive che «toute révolution est le développement d’un principe» 66, e nell’Avviso al lettore delle Considerazioni sulle cose d’Italia nel 1848, denuncia «quelle occulte influenze che avvolsero fin dal primo nascere la rivoluzione, e la strinsero in mano ad uomini i quali altro volevano in essa da ciò che le rivoluzioni danno e le rivoluzioni sono» 67, e ciò in conformità della definizione di «rivoluzione» che egli detta per inciso in un saggio Dell’industria moderna (1862), dove si legge: «[…] quando il popolo intimò guerre in nome proprio, quelle guerre che si nomano rivoluzioni» 68. Si può dire senza tema di sbagliare che i luoghi dove ricorre piú frequentemente il termine «rivoluzione» sono quelli in cui si parla del moto nazionale italiano. Il non parlare di una certa cosa è anche un modo di esorcizzarla. Prima dello scoppio dei vari moti del 1848 Cattaneo, com’è noto, non prevede prossimi scuotimenti profondi. Nel 1844, parlando della Francia, scrive: «È ora quello il paese d’Europa ove è men possibile una rivoluzione, se con questo termine intendiamo, non un superficiale mutamento del rituale amministrativo, ma una profonda sovversione e rinnovazione d’interessi» 69. Questo passo è importante anche perché è l’unico forse in cui, se pure per inciso, Cattaneo dà intenzionalmente una definizione di «rivoluzione», e non un’interpretazione come quella che egli ha dato nel passo commentato precedentemente. È una definizione che, pur nella sua brevità, è abbastanza precisa e, quel che è piú, perfettamente corrispondente al sistema cattaneano d’idee: dove il momento determinante del movimento sociale sono gli «interessi». La rivoluzione è appunto per un verso «sovversione» degli interessi precedenti, e per un altro verso «rinnovazione», cioè imposizione di interessi nuovi.
Il tema delle «indirette e tortuose vie» 70 domina la prefazione che Cattaneo scrisse nel 1846 per il secondo volume di Alcuni scritti, dedicato ai Frammenti d’istoria universale, attraverso i quali il suo sguardo di storico aveva spaziato nelle età e nei popoli piú diversi, dall’India all’Inghilterra, dalla Sardegna all’Irlanda. Questa prefazione è forse lo scritto in cui Cattaneo espone con maggior vigore e dovizia di particolari la sua filosofia della storia. Vi discute Vico e Stellini, Hegel, Cousin, Herder e Romagnosi, Guizot e Ferrari. Ciò che Cattaneo contesta a tutti coloro che si sono posti il problema dello sviluppo storico è l’idea dell’unico principio, onde sarebbero usciti tutti i popoli, e quella della uniformità dello sviluppo, onde tutti i popoli sarebbero destinati a seguire lo stesso processo per passare dalla barbarie alla civiltà. Alla prima oppone l’idea della molteplicità dei principî, alla seconda quella della enorme e inafferrabile o per lo meno sinora inafferrata varietà delle combinazioni, dovute appunto alla molteplicità dei principî. Contro la tesi del Vico che le nazioni siano potute sorgere da un loro proprio principio e contro quella di Stellini che «suppone un principio troppo indeterminato e uniforme nel naturale sviluppo delle famiglie selvagge» 71, riprende la confutazione della tesi ferrariana delle società come sistema: «Le nazioni non movono dunque per sistemi interi, dedutti, continui; le loro consuetudini sono frammenti di disperata origine, piuttosto accozzati che ordinati» 72. Ed espone la tesi, su cui ho già richiamato l’attenzione, dell’«innesto»: «Il primo motivo alla trasformazione progressiva d’una società, ossia d’una tradizione, è il fortuito contatto d’un’altra tradizione e d’un’altra società. Messe in commercio per qualsiasi modo le due opinioni tendono a riassumersi in qualche compatibile forma, e perdono entrambe la nativa semplicità del concetto» 73. Se è vera l’ipotesi dell’innesto, non vi possono essere nazioni per principio tagliate fuori dalla storia, come credeva Hegel (e con lui lo storico Heinrich Leo): è probabile che Cattaneo si riferisca alle malfamate pagine delle Lezioni della filosofia della storia, in cui Hegel dice che in gran parte dell’Africa «non può aver luogo storia vera e propria», perché vi accadono «accidentalità, sorprese che si susseguono» e «non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono» 74. All’enunciazione della tesi fa seguire, come sempre, da quello storico di razza che egli è, alcuni splendidi esempi: «Tacito non avrebbe mai previsto una Germania tutta gremita d’officine e di scole; né Cesare avrebbe immaginato nella fangosa marca del Tamigi il ponte subacqueo e le darsene piene di tesori dell’India» 75. Per la stessa ragione non si può accettare la tesi, che egli attribuisce in questo contesto a Herder, che sullo stato morale di una nazione abbia un effetto determinante la natura del paese in cui si stabilisce: «Se fosse vero che la libertà vive al monte e l’obedienza al piano, tutte le alpestri catene che attraversano il globo sarebbero nidi di republiche; e viceversa le pianure dell’antica Inghilterra, e della nuova, sarebbero regni assoluti» 76. Ancora una volta la categoria principale che Cattaneo impiega per darsi ragione del corso storico, piú complicato e accidentato di quel che i filosofi della storia abbiano sinora creduto, è quella della transazione: la storia procede per continue transazioni, e poiché le combinazioni possibili sono pressoché infinite, il corso storico è articolato, movimentato, vario, imprevedibile. Un breve elenco di transazioni possibili, che Cattaneo enumera come esempi, può dar l’idea di quel che avrebbe potuto essere una filosofia della storia tutta compiuta e spiegata, secondo l’ipotesi del progresso nella varietà, se il Cattaneo fosse stato uno scrittore sistematico e non, come fu, un irrequieto e incontentabile agitatore d’idee. Vi furono popoli precoci ma poi caduti nell’immobilità; altri che giunsero tardi all’incivilimento ma vi perdurarono. Vi furono popoli che giunsero da soli sulla strada dell’incivilimento; altri che vi giunsero solo per effetto di principi stranieri con cui vennero in contatto. Alcuni non hanno superato ancora il confine della vita selvaggia; altri l’hanno superata da tempo e propagano altrove la loro scienza e le loro istituzioni. Sinteticamente il pensiero cattaneano è bene formulato in questa sentenza, che si può considerare come la piú rapida e intensa illustrazione del suo modo di concepire la storia: «Le combinazioni istoriche che provengono dall’incontro delle avventizie influenze e delle native tradizioni formano altrettante serie diverse quanti sono i popoli; e devono tutte fornire alla scienza qualche loro special conclusione» 77.
Non si può intendere, dicevo, il riformismo di Cattaneo prescindendo dalla sua concezione generale della storia. Da quel che ho detto sin qui appare infatti che il processo storico è per Cattaneo non predeterminato in modo rigido, non uniforme, graduale, pur essendo alla fine, se pure per vie lunghe e tortuose, progressivo. Il che significa che ha fiducia nel progresso, ma lo vede dipendere dallo sforzo intelligente dell’uomo, nascere dall’incontro e dallo scontro dei diversi principî e mai da un unico principio, svolgersi per gradi successivi, lentamente, se pure inesorabilmente, come la corrente di un fiume. Mentre il provvidenzialismo storico incoraggia l’atteggiamento conservatore, il semplicismo degli uniformisti o degli unilinearisti giustifica l’atteggiamento rivoluzionario: se il riformista è positivamente un gradualista, è negativamente un antiprovvidenzialista (perché non è un conservatore) e un antiuniformista (perché non è un rivoluzionario). Non mi si chieda se Cattaneo era socialmente e politicamente un riformista perché aveva quella determinata concezione della storia o si era fatta quella determinata concezione della storia su misura del suo riformismo sociale e politico. È una questione puerile: l’una e l’altra sono cosí strettamente congiunte e interdipendenti che non si possono separare senza perdere di vista l’insieme, che è il personaggio che c’interessa, con la sua visione generale della storia fatta e della storia da fare, la sua coerenza tra il compito del filosofo, che è pur sempre un compito «civile», e il compito dell’uomo che non può estraniarsi dalle lotte del suo tempo, fra filosofia e «milizia». Il problema interessante è quello di vedere il nesso, se ci sia e quale sia, tra pensiero e azione, o, come si dice oggi, fra teoria e prassi, se ci sia e quale sia una filosofia del riformismo. Io ho sempre pensato che ci sia e ne ho sempre visto in Cattaneo un esempio particolarmente illuminante. Né il riformista né il rivoluzionario sono provvidenzialisti: ma mentre il rivoluzionario crede di piú nella forza della volontà, il riformista crede di piú nella forza creatrice della ragione (le cui vie sono piú lunghe, lente e misteriose, e quel che è piú singolare, spesso nascoste). Tanto il riformista quanto il conservatore non sono, come il rivoluzionario, dei semplificatori: hanno il senso della complessità della storia, e quindi della sproporzione, che è come una perpetua condanna per l’uomo di buona volontà, fra lo sforzo e il risultato. Ma per il conservatore questa complessità è un groviglio inestricabile perché nessuno ne conosce i capi, per il riformista è un groviglio fatto di tanti nodi che possono essere sciolti, purché siano affrontati uno per volta. In quanto gradualista, il riformatore non è il conservatore che è sempre propenso a vedere in un’innovazione anche parziale un salto nel buio, e per cui i tempi non sono mai maturi, ma non è neppure il rivoluzionario che crede nei salti qualitativi e anticipa col proprio desiderio e magari con un’azione intempestiva la maturità dei tempi. Nei riguardi del rispetto della tradizione, che è il carattere saliente dell’atteggiamento conservatore, l’atteggiamento del riformista e quello del rivoluzionario non sono dissimili: entrambi tendono alla sconsacrazione del tramandato che il conservatore accetta e santifica solo perché è tramandato, ma la differenza sta nei limiti e nell’ampiezza di ciò che per l’uno e per l’altro deve considerarsi ormai esaurito. Fortemente dissimile è invece l’atteggiamento del conservatore e del riformista di fronte alla rivoluzione, che il primo rifiuta per principio, il secondo per opportunità, tanto è vero che questi vi si adatta (come pur fece Cattaneo allo scoppio dell’insurrezione milanese) quando appare inevitabile, quando la scelta non è tra mutamento per gradi e mutamento per sussulto ma tra mutamento e immobilità, o addirittura tra avanzamento e arretramento. Non è del tutto esatto il dire che il riformista combatta su due fronti: o per lo meno bisogna aggiungere che la lotta che combatte sui due fronti è totalmente diversa: sul fronte della conservazione il contrasto è di principî o di fini, sul fronte della rivoluzione il contrasto è di metodo, ma i fini sono spesso i medesimi. Al pessimismo storico del conservatore il rivoluzionario oppone il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, il riformista invece il pessimismo della volontà e l’ottimismo dell’intelligenza. Di questo pessimismo della volontà unito a un perseverante ottimismo dell’intelligenza Cattaneo è un esempio che se si fosse dovuto inventare non sarebbe riuscito cosí perfetto. Sempre restio a scendere in campo salvo in circostanze eccezionali, e anche in queste due o tre circostanze entra ed esce dalla scena dopo aver recitato soltanto poche battute, memorabili, persegue tutta la vita, senza interruzione, con rigore, perseveranza, illimitata fiducia, nonostante la sconfitta, l’ideale del progresso mediante avvedute e sensate riforme, la cui attuazione, l’avanzamento del sapere, specie nel campo un tempo inesplorato e precluso della vita morale, ha reso finalmente non solo evidente ma anche possibile. Credo sia difficile imbattersi in un altro protagonista della nostra storia la cui curiosità intellettuale, la cui passione civile siano state attratte con altrettanta forza e continuità e fermezza verso cosí gran numero di cose da cambiare, di istituzioni da correggere o da abolire, di leggi da modificare, di innovazioni ardite da suggerire, di progetti da discutere e da proporre, di tradizioni isterilite da sconvolgere, di vecchie consuetudini da condannare e da sottoporre alla critica sferzante della ragione rischiaratrice: la scuola in tutti i suoi ordini, la milizia e la pubblica amministrazione, le carceri e gli istituti di beneficenza, le leggi riguardanti l’industria e l’agricoltura, il commercio e le comunicazioni. Persino la lingua. Non c’è aspetto della società del suo tempo che egli non prenda in considerazione per sceverarne il vecchio dal nuovo, il morto dal vivo, l’imperfetto dal perfettibile. Quando gliene capita l’occasione non risparmia condanne alle impazienze e alle troppo «ardite speculazioni rivoluzionarie» 78, perché sa che il rischiaramento attraverso la ragione è lento («il conflitto coll’oscurità delle cose, e colla pervicacia e l’inerzia delli uomini sarà lungo» 79). Ma la sua diuturna battaglia è contro l’altra parte, contro i retrogradi, che mantenendo i popoli nell’ignoranza impediscono il perfezionamento morale, intellettuale e sociale dell’umanità. Sempre in aperto dissidio contro le tradizioni dure a morire, non rifiuta invece il moto rivoluzionario, ancorché non concepisca al tempo suo altre rivoluzioni che non siano quelle nazionali, quando esse esplodono e trascinano i popoli a liberarsi da antichi servaggi. Solo non accetta l’idea che le rivoluzioni siano il prodotto di un atto di volontà, se pure di una volontà collettiva: «Una rivoluzione è una febbre – egli dice –, e non viene a tutto un popolo per comando di chicchessia. È mestieri aspettarla. E tornerà» 80. Diversamente, le riforme sono il prodotto cosciente di una mente, anche individuale, che agisce talvolta a distanza di anni sugli eventi per vie sotterranee e imprevedibili, perché la ragione non può alla lunga non avere la meglio sui pregiudizi alimentati dalla superstizione religiosa e dalla incolpevole ignoranza dei piú. A proposito dell’esposizione dei trovatelli «miseria grandissima e tale che comprende l’anima di compassione profonda» prorompe in questo monito: «Meglio delle proteste, in cui svampa lo sdegno, o meglio delle querimonie, in cui si sciupa l’affetto, varranno gli studi diligenti e pazienti» 81.
«Gli studi diligenti e pazienti»: ecco l’arma che Cattaneo impugna per combattere la sua battaglia riformatrice. È impossibile non vedere il rapporto strettissimo fra spirito scientifico e riformismo, tra progresso scientifico e progresso civile. L’anello di congiunzione tra l’uno e l’altro è il progresso tecnico. L’applicazione della scienza all’industria produce sempre piú vaste e sconvolgenti innovazioni tecniche. Le innovazioni tecniche sono il mezzo necessario attraverso cui passa la trasformazione anche sociale dell’umanità. I principî cui Cattaneo s’ispira sono quelli della grande civiltà liberale borghese del secolo XIX: la «prosperità» (oggi diremmo il «benessere»), resa possibile dallo sviluppo tecnico, è condizione necessaria (anche se non sufficiente) dell’emancipazione dell’uomo da tutte le forme di servaggio che l’hanno sinora avvinto a una forma di vivere sociale in cui la miseria dei piú è la condizione piú favorevole per il dominio dei pochi, e l’ignoranza delle menti va di pari passo con la schiavitú delle braccia. E a sua volta la prosperità dipende dall’aumento delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecniche. Per questo, progresso scientifico e progresso civile sono uniti in un nesso indissolubile. Oggi il progresso tecnico sempre piú vertiginoso suscita lo spettro della società tecnocratica, cioè di una società in cui lo sviluppo della tecnica non è predisposto alla liberazione dell’uomo ma anzi conduce o sembra condurre al suo totale asservimento. Ma quel che non aveva previsto Saint-Simon, che può essere considerato il padre, innocente, del mostro tecnocratico, nella misura in cui aveva immaginato e auspicato e predicato l’avvento di una società scientificamente non piú politicamente diretta, era stato, non dico previsto (perché non di previsione si può parlare), ma tenuto ben presente e ben fermo nella mente dei grandi spiriti liberali dell’età post-rivoluzionaria e all’inizio della rivoluzione industriale: non poter lo sviluppo tecnico prescindere dalla trasformazione delle istituzioni, la trasformazione economica, che è in gran parte il prodotto del sapere applicato all’aumento della pubblica e privata prosperità, dalla riforma politica.
Chiunque si sia posto il problema della sopravvivenza della libertà in un universo sempre piú dominato dalle grandi concentrazioni di potere non ha saputo sinora dare altra risposta che quella dell’estensione del controllo dal basso. Cattaneo diceva, riecheggiando Machiavelli, che sulla libertà i popoli debbono tenervi sopra le mani. Dopo piú di un secolo il grande nemico da abbattere è la concentrazione di potere che ha nello stato moderno burocratico la sua piú appariscente manifestazione storica. I due processi che segnano il corso della formazione e dello sviluppo dello stato moderno, il processo di burocratizzazione conseguente all’accentramento del potere statale e all’assunzione di compiti sempre piú estesi da parte dello stato, e il processo di democratizzazione, conseguente al progressivo inserimento di sempre piú vaste masse nella società politica, non hanno proceduto con lo stesso passo; ci accorgiamo ora, e ne abbiamo visibili prove tutti i giorni, che il primo è stato molto piú rapido del secondo. Non possiamo accusare Cattaneo di non essersene accorto e di aver creduto che lo stato burocratico fosse un residuo del passato, e non già un effetto necessario di un processo storico che ai suoi tempi era appena all’inizio, e quindi di aver ritenuto che la soluzione del problema del moderno Leviatano fosse piú semplice di quel che sarebbe apparsa a noi che pur continuando a trovarcelo di fronte continuiamo a credere di poterlo facilmente abbattere con il controllo democratico. Cattaneo condivideva coi pensatori liberali dell’Ottocento l’idea affascinante (idea che affascinò se pur con piú complesse mediazioni anche Marx) della rivincita della società civile sullo stato, del graduale deperimento se non proprio dello stato, dello stato accentrato quale era stato trasmesso al secolo delle rivoluzioni nazionali dalle monarchie assolute, e di cui considerava una sopravvivenza funesta ma non destinata ad altre proliferazioni il napoleonismo (che egli interpreta per un verso come degenerazione del bonapartismo e come il momento negativo del cesarismo 82), e un esempio vivente da non imitare gli stati di Francia e d’Austria. Questa rivincita si sarebbe dovuta attuare con la moltiplicazione degli organi di governo, con lo spezzare l’unità dello stato monocratico in tanti frammenti di potere ricomponibili in una successiva unità piú articolata, con la separazione orizzontale dei poteri, sí che ancora una volta il potere (in questo caso il potere dal basso) controllasse il potere (il potere dall’alto). («Il potere debb’essere limitato; e non può essere limitato se non dal potere» 83). Certamente uno dei momenti piú fervidi del riformismo cattaneano è quello degli scritti sull’ordinamento dello stato amministrativo, militare e scolastico a unificazione avvenuta, quando da astratto e sconfitto federalista diventa regionalista che riflette sui fatti concreti della storia e della geografia italiana sconsigliante una unificazione affrettata, uniforme e indifferenziata della legislazione per tutto il regno, la cosiddetta «piemontesizzazione». Per citare uno dei tanti brani su questo tema: «Alle difficoltà dell’egemonia militare si aggiungono le pretese d’una primogenitura legislativa e amministrativa. Si delira d’infliggere alla nuova Italia leggi e osservanze che non erano nemmeno le migliori nell’Italia vecchia» 84. Sono idee note e ancor di recente, in occasione della istituzione delle regioni, spesso riesumate. Qui interessa ancora una volta, per continuare il discorso iniziato sin dalle prime battute di questo scritto, cogliere il nesso tra queste idee di riforma e la concezione generale della storia, tra il riformatore e il filosofo.
Cattaneo è un filosofo analitico. Attribuisce alla filosofia il precipuo compito di fare «l’analisi della libera analisi», intesa l’analisi come «un atto con cui la mente distingue le parti d’un tutto» 85. Ciò che contraddistingue il filosofo analitico rispetto a quello sintetico è l’attrazione verso la diversità piuttosto che verso l’unità, o per lo meno, nessun filosofo potendo rinunciare a una visione unitaria della realtà, verso il movimento per cui un determinato universo si scinde nelle sue parti piuttosto che verso il movimento contrario. A proposito della riforma universitaria, circa la quale propone che ogni città abbia la sua facoltà specifica adatta alle sue tradizioni storiche e culturali, egli stesso rende visibile il nesso tra analisi come atteggiamento storico e analisi come atteggiamento pratico, scrivendo «Il principio che abbisogna alle facultà italiane, è adunque ciò che in economia si chiama divisione del lavoro; è ciò che in psicologia si chiama analisi. La sintesi sarà l’Italia. La sintesi non è la ripetizione, non è l’uniformità; ma è la piú semplice espressione della massima varietà. Quanto piú fuggirete l’uniformità, tanto piú l’opera vostra sarà compiuta; o dacché in siffatte cose non vi può essere mai compimento né fine, tanto piú sarà grande» 86. Non è chi non veda anche da questo semplice ma limpido esempio che il federalismo o il regionalismo è un atto di analisi, la conseguenza di un atteggiamento mentale che pregia le dissimiglianze piú che non le somiglianze, le disparità piú che non le uniformità, ciò che è peculiare piú di quel che è comune. Il filosofo analitico vede il diverso là dove il sintetico vede l’identico. Fra mille citazioni ne scelgo una che mi pare particolarmente persuasiva. In uno scritto occasionale (ma tutti gli scritti di Cattaneo sono piú o meno occasionali, onde la sua filosofia è fatta di lampi improvvisi che appaiono anche nelle pagine piú oscure) caldeggia la promozione di congressi scientifici nei dipartimenti (francesi) e commenta: «Essa opporrebbe il vero dei fatti locali alle illusioni del concentramento politico, il quale, a guisa di poderosa lente, addensa tutti i raggi in un foco abbagliante, che non corrisponde al temperato vigore della luce diffusa, e non rappresenta con qual grado di forza realmente ella operi sulla vasta superficie d’un regno» 87. Questo brano è del 1840, epoca in cui non si può parlare se non impropriamente di un federalismo cattaneano. Ma è già nato lo storico, il linguista, l’economista che dalle sparse osservazioni sull’agitato sorgere delle nazioni civili e sul rapido e turbinoso mutarsi della società del tempo ha tratto una visione generale della storia che rifiuta l’ipotesi dell’unico principio, ed anzi vede nella varietà l’unico criterio possibile di spiegazione del diverso destino dei popoli e la condizione del progresso. Profondamente convinto che la varietà è naturale e l’uniformità al contrario artificiale, che la libertà nasce dalle differenze e dal contrasto delle idee, il dispotismo invece prospera sul livellamento imposto dall’alto e sull’unificazione forzata, trae dalla continua riflessione sul perenne contrasto fra popoli liberi e progressivi e popoli servi e retrogradi, uno dei motivi piú profondi per sostenere il proprio programma politico federalistico, vale a dire per una società articolata, centrifuga, policentrica in continua polemica contro l’unitarismo astratto, cioè contro l’unità senza distinzioni. Ancora una volta, visione storica e programma politico sono strettamente connessi, e insieme spiegano e illuminano l’assidua passione del riformatore. Per riprendere il problema da cui son partito e che si era posto Alessandro Levi nel brano da cui ho preso le mosse, se di una filosofia del riformismo si può parlare Cattaneo ne ha rappresentato bene le esigenze e i principî, e ce ne ha dato un esempio tanto facile, oggi, da criticare quanto poco, oggi e ieri, imitato.
1 E. BERNSTEIN, Der Kampf der Sozialdemokratie und die Revolution der Gesellschaft. 2: Die Zusammenbruchstheorie und die Kolonialpolitik, in «Die Neue Zeit», XVI, vol. I, 1897-1898, n. 18, p. 556.
2 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, III, 7, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983, p. 403.
3 C. DE CONDORCET, Sur le sens du mot révolutionnaire, in Œuvres, Paris 1847, rist. anastatica Frommann-Holzboog, Stuttgart – Bad Cannstatt 1968, tomo XII, p. 615.
4 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1941-63, vol. IV (1963), p. 203.
5 A. DE TOCQUEVILLE, L’Ancien Régime et la Révolution (1856) (trad. it. in ID., Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 1968-69, vol. I (1969), p. 626).
6 E. QUINET, La Révolution (1865), trad. it. a cura di A. Galante Garrone, Einaudi, Torino 1953, nuova ed. 1974, p. 10.
7 MARX, F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista (1848), trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998, p. 42.
8 R. LUXEMBURG, Sozialreform oder Revolution (1899), trad. it. Riforma sociale o rivoluzione, in ID., Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino 1975, p. 130.
9 V. I. LENIN, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (1918), in ID., Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, vol. XXVIII, p. 241.
10 TH. S. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago Press, Chicago Ill. 1962 (trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969, 3 aed. 1995, pp. 120, 121).
11 G. M. TREVELYAN, The English Revolution, Oxford University Press, Oxford 1938 (trad. it. di C. Pavese, La evoluzione inglese del 1688-89, Einaudi, Torino 1941, reprint 1979, p. 3).
12 Cfr. Œuvres cit., tomo XII, p. 199.
13 Cfr. J. BAECHLER, Les phénomènes révolutionnaires, Puf, Paris 1976 (trad. it. I fenomeni rivoluzionari, Edizioni Il Formichiere, Milano 1976).
14 Cito per tutti K. GRIEWANK, Der neuzeitliche Revolutionsbegriff. Entstehung und Entwicklung, 2 a ediz. Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt a. M. 1969, trad it. Il concetto di rivoluzione nell’età moderna. Origini e sviluppo, La Nuova Italia, Firenze 1979. Piú recente, la voce scritta da vari autori Revolution, Rebellion, Aufruhr, Bürgerkrieg, in Geschichtliche Grundbegriffe, a cura di O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, Klett-Cotta, Stuttgart 1984, vol. V, pp. 653-788.
15 Naturalmente questo non si può piú dire dopoché il termine «rivoluzione» nella nota opera di TH. S. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions cit., è impiegato per designare nella storia della scienza lo stesso tipo di mutamento radicale che si chiama «rivoluzione» nel linguaggio politico.
16 N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, che cito nell’ediz. Vallardi, Milano 1953, p. 735.
17 C. J. FRIEDRICH, An Introductory Note on Revolution, in Revolution, «Nomos VIII», Atherton Press, New York 1967, p. 5.
18 Questa duplicità di significati si rivela anche nei derivati dalla parola «révolution», che nacquero e si diffusero in Francia dopo la Rivoluzione francese: «révolutionnaire», come sostantivo, indica l’agente di un movimento straordinario, mentre «révolutionner» indica un mutamento straordinario. Vedi F. BRUNOT, Histoire de la langue française des origines à nos jours, vol. IX, tomo 2°, Parte seconda, Libro I, cap. 1, Un mot transfiguré: «révolution», Librairie Armand Colin, Paris 1967, pp. 617-22. Questi due significati si ritrovano l’uno accanto all’altro nel Decreto del 10 ottobre 1793, fatto approvare da Saint-Just, dove si legge nell’art. I che il governo provvisorio della Francia è «rivoluzionario fino alla pace» e nell’art. 2 che «le leggi rivoluzionarie devono essere eseguite rapidamente». Nell’espressione «governo rivoluzionario» c’è l’idea della rivoluzione come movimento, mentre una legge rivoluzionaria è una legge che introduce nell’ordine costituito un mutamento radicale. Detto altrimenti: il governo rivoluzionario è la causa, le leggi rivoluzionarie sono l’effetto.
19 J. BAECHLER, Les phénomènes révolutionnaires, trad. it. cit., p. 7.
20 J. GALTUNG, Imperialismo e rivoluzioni. Una teoria strutturale, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, p. 71. Una definizione che mette in particolare rilievo il mutamento è quella data da L. Pellicani: «Un mutamento può essere considerato rivoluzionario, solo se ha un certo grado di profondità e solo se si verifica in un tempo relativamente breve» o, altrimenti, una rivoluzione politica ha luogo «quando si verifica un mutamento rapido della norma fondamentale che regola le relazioni di dominio», dove appare un riferimento anche al genere di movimento, «breve» e «rapido» (Dinamica delle rivoluzioni, Sugarco, Milano 1974, pp. 8 e 9).
21 R. TANTER, M. MIDLARSKY, A Theory of Revolution, in «The Journal of Conflict Resolution», XI, n. 3, 1967, p. 267.
22 CH. TILLY, From Mobilization to Revolution, Addison-Wesley, Reading Mass. 1978, p. 7, che cito da TH. SKOCPOL, States and Social Revolution. A Comparative Analysis of France, Russia and China, Cambridge University Press, Cambridge 1979, trad. it. Stati e rivoluzioni sociali. Un’analisi comparata di Francia, Russia e Cina, il Mulino, Bologna 1981, p. 34.
23 H. KELSEN, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1945 (trad. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas libri, Milano 1994, pp. 225 e 373-74).
24 Il capostipite degli interpreti della Rivoluzione francese come evento religioso è Jules Michelet: «È con il metro del fiat popolare, versione laica del fiat divino, che Michelet valuta l’autorità e la legittimità degli atti rivoluzionari» (cosí P. VIALLANEIX, Jules Michelet, nella raccolta L’albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di B. Bongiovanni e L. Guerci, Einaudi, Torino 1989, p. 483). Nello stesso senso l’interpretazione di Victor Hugo, che definisce la Rivoluzione «opera stellare e profonda, che ha fatto rinascere il mondo, creazione seconda che ancora una volta rifà l’uomo, dopo Cristo, Cecrope, Jafet» (L. SOZZI, Victor Hugo, in L’albero della Rivoluzione cit., p. 291).
25 Rinvio agli esempi da me fatti in Riforme e rivoluzione [v. nel presente capitolo, sez. I].
26 A. DE TOCQUEVILLE, De l’état social et politique de la France avant et depuis 1789 (1836), che cito da ID., Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 1969, rist. 1977, vol. I, pp. 226-27.
27 Cfr. Geschichtliche Grundbegriffe cit., vol. V, p. 658.
28 Osserva che quando Mommsen e altri hanno usato l’espressione «rivoluzione romana» hanno mancato di osservare che in realtà si trattava, al contrario, di un «processo di disintegrazione» (ibid., p. 663).
29 Mi riferisco all’articolo di M. FINLEY, Quale rivoluzione nell’antichità?, in «Prometeo», dic. 1986, pp. 34-43.
30 Ibid, p. 43.
31 Ibid., p. 37.
32 Dalle riflessioni di P. Pasqualucci sul Theologisch-politisches Fragment di Walter Benjamin: La rivoluzione come messia (considerazioni sulla filosofia politica di Benjamin), «Trimestre», 1977, nn. 1-2, pp. 67-112, e Felicità messianica (Interpretazione del frammento teologico-politico di Benjamin), «Rivista internazionale di filosofia del diritto», LV, 1978, pp. 583-629: il messia è il mediatore che con la sua azione individuale, demiurgica, dà il tocco finale alla storia del mondo; in quanto libera, completa, crea, è l’artifex che crea dal nulla nel senso che dà alla realtà un significato che è tale solo se si ha fede nella sua capacità infinita di ricreare il mondo.
33 T. CAMPANELLA, La città del Sole, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1941, p. 109.
34 M. WALZER, Exodus and Revolution, Basic Books, New York 1985 (trad. it. Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986).
35 Citato da Walzer all’inizio del testo, p. 11.
36 Ibid., p. 16.
37 Ibid., p. 17.
38 Per un approfondimento di questi temi rinvio ancora una volta al saggio Riforme e rivoluzione [cfr. nel presente capitolo, sezione 1]. Sul tema del rapporto fra rivoluzione e guerra civile, che meriterebbe un discorso a parte, rinvio alle osservazioni di P. P. Portinaro, nell’ampia introduzione, intitolata Preliminari ad una teoria della guerra civile, a R. SCHNUR, Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè, Milano 1986, pp. 1-49. Lo scambio tra i due concetti di guerra civile e rivoluzione è possibile: vi è una specie di guerra, la guerra come crociata, che può essere assimilata alla rivoluzione e, d’altra parte, la stessa Rivoluzione francese è stata da alcuni storici interpretata come guerra civile tra gli antichi abitanti della Gallia e i Franchi conquistatori, sia da François Guizot sia da Augustin Thierry, come si legge in L’albero della Rivoluzione cit., pp. 256 e 625.
39 A. LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, Laterza, Bari 1928, pp. 63 e 81-82.
40 N. BOBBIO, Il «suo» Cattaneo, nel fascicolo di «Critica sociale», in ricordo di Alessandro Levi, 1974, n. 1, pp. 49-53.
41 Alcune considerazioni sull’idea di progresso nella filosofia di Cattaneo ho già svolte in un capitolo di Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971, pp. 112-24, di cui il presente scritto può essere considerato una continuazione e uno sviluppo.
42 Ricerche economiche sulle Interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, in Scritti economici, a cura di A. Bertolino, Le Monnier, Firenze 1956, vol. I, p. 182.
43 Su la «Scienza nuova» di Vico, in Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Le Monnier, Firenze 1960, vol. I, p. 99.
44 Considerazioni sul principio della filosofia, in Scritti filosofici cit., vol. I, p. 161.
45 Su la «Scienza Nuova» di Vico, in Scritti filosofici cit., vol. I, pp. 98-99.
46 Romagnosi, dopo aver riportato un passo in cui si attribuisce alla setta saint-simoniana l’idea del «sacerdote sociale», commenta: «Riandando questo passo qual è la conseguenza che ne deriva intorno alla creazione del Sansimonismo? Che qui si tratta o di una celia o di un delirio» (G. D. ROMAGNOSI, Del sansimonismo (1832), che cito da Opere di G. D. Romagnosi C. Cattaneo G. Ferrari, a cura di E. Sestan, nella collana La letteratura italiana. Storia e testi, vol. LXVIII, Ricciardi, Milano-Napoli 1957, p. 123). Ho ripreso questo accostamento a Saint-Simon da D. Castelnuovo Frigessi in C. CATTANEO, Opere scelte, 4 voll., Einaudi, Torino 1972, vol. I, Industria e scienza nuova, p. 350, n. 1. Sulla fortuna del sansimonismo in Italia, con citazioni di Romagnosi e Cattaneo, vedi la riedizione di R. TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento, Giappichelli, Torino 1973, p. 36, e in particolare l’appendice di G. MAGGIONI, Il sansimonismo nelle riviste lombarde 1825-1848, pp. 134-37.
47 Su la «Scienza Nuova» di Vico, in Scritti filosofici cit., vol. I, pp. 127-28.
48 Frammenti di sette Prefazioni, in Scritti filosofici cit., vol. I, pp. 260-61.
49 Mi riferisco in particolare al capitolo intitolato La scienze de l’histoire au XIX siècle, dove G. Ferrari parla di De Bonald, Lamennais, Saint-Simon (Vico et l’Italie, Paris 1838, pp. 409 sgg.). Sui rapporti fra Ferrari e Cattaneo rispetto a questo e ad altri scritti vedi S. ROTA GHIBAUDI, Giuseppe Ferrari. L’evoluzione del suo pensiero, Olschki, Firenze 1969, pp. 55-59.
50 Su la «Scienza Nuova» di Vico, in Scritti filosofici cit., vol. I, pp. 128-29.
51 Ibid., p. 130. Su Cousin anche G. FERRARI, Vico et l’Italie cit., pp. 426 sgg.
52 Su la «Scienza Nuova» di Vico, in Scritti filosofici cit., vol. I, p. 129.
53 G. FERRARI, Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’histoire, Joubert, Paris 1943, p. 76.
54 Considerazioni sul principio della filosofia, in Scritti filosofici cit., vol. I, p. 157.
55 Ibid.
56 Ibid., pp. 157-58.
57 Ibid., p. 158.
58 Ibid., p. 160.
59 Ibid., p. 162.
60 Ibid., p. 163.
61 Ibid., p. 164.
62 Ad esempio: «Dal venerando capo di Lavoisier uscí una rivoluzione, neppur oggi compiuta» (Dell’industria moderna, in Scritti politici, a cura di M. Boneschi, 4 voll., Le Monnier, Firenze 1964-65, vol. IV, p. 295).
63 La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini e E. Sestan, Le Monnier, Firenze 1957, vol. II, pp. 383-84. Per un giudizio privato di Cattaneo su quest’opera di Ferrari, si veda la lettera a Carlo Tenca dell’ottobre 1858, in Epistolario di Carlo Cattaneo, 4 voll., G. Barbèra editore, Firenze 1949-56, vol. III, 1954, p. 82, in cui rispondendo al Tenca che lo aveva invitato a scriverne una recensione, dice: «Io non posso mettermi a chiacchierare contro l’amico. Ma però io non posso accettare: Le pape et l’empereur commes principes, voità les chefs», e in nota il commento del curatore, R. Caddeo. Sulla vicenda, vedi S. ROTA GHIBAUDI, Giuseppe Ferrari cit., p. 258.
64 Storia delle rivoluzioni d’Italia, in Scritti storici e geografici cit., vol. III, p. 309.
65 Ibid., p. 311.
66 C. CATTANEO, Tutte le opere, a cura di L. Ambrosoli, Mondadori, Milano 1967, vol. IV, p. 186.
67 Considerazioni sulle cose d’Italia, in Scritti storici e geografici cit., vol. II, p. 125.
68 Dell’industria moderna, in Scritti politici cit., vol. IV, p. 264. Il termine «rivoluzione» si trova ripetuto piú volte nel manifesto Au comité démocratique français, espagnol, italien, nel senso di rivoluzione nazionale (Scritti politici cit., vol. II, pp. 474-75). Nello stesso senso, a proposito dei moti di Vienna del 1848: «La guerra non è piú tra stirpe e stirpe; essa diviene intestina, civile, rivoluzionaria, generale» (La resa di Vienna, in Scritti politici cit., vol. II, p. 450; il corsivo è mio).
69 Di alcuni stati moderni, in Scritti storici e geografici cit., vol. I, p. 295.
70 «[…] le indirette e tortuose vie, per le quali il genere umano s’avviò d’errore in errore e d’eccesso in eccesso verso la meta della scienza e della civiltà» (Su la «Scienza Nuova» di Vico, in Scritti filosofici cit., vol. I, p. 100).
71 C. CATTANEO, Prefazione al volume II di Alcuni scritti del dott. Carlo Cattaneo, 3 voll., Milano 1846-47: cfr. Scritti politici cit., vol. III, p. 335.
72 Ibid., p. 334.
73 Ibid., p. 336.
74 Cito dalla traduzione italiana, a cura di G. Calogero e G. Fatta, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I: La razionalità della Storia, La Nuova Italia, Firenze 1941, pp. 241-42.
75 Prefazione al vol. II di Alcuni scritti cit.: cfr. Scritti politici cit., vol. III, p. 340.
76 Ibid., p. 341.
77 Ibid., pp. 342-43.
78 Allocuzione alla distribuzione dei premi della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, in Scritti politici cit., vol. III, p. 353.
79 Ibid.
80 C. CATTANEO, Tutte le opere cit., p. 700.
81 Esposizione dei trovatelli, in Scritti politici cit., vol. IV, p. 168, corsivo mio.
82 Il militarismo, in Scritti politici cit., vol. IV, p. 215; e À la nation françise, in Scritti politici cit., vol. IV, p. 217.
83 A un amico siciliano, in Scritti politici cit., vol. IV, p. 86.
84 L’Italia armata, in Scritti politici cit., vol. IV, p. 137.
85 Psicologia delle menti associate, in Scritti filosofici cit., vol. I, pp. 454 e 452.
86 Sul riordinamento degli studii scientifici in Italia, in Scritti politici cit., vol. III, p. 114; e anche Psicologia delle menti associate, in Scritti filosofici cit., vol. I, pp. 476-77.
87 Continuazione e fine delle notizie sul Congresso dei dotti francesi a Clermont, in Scritti politici cit., vol. I, p. 158.